Eugène Scribe

Adriana Lecouvreur

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★★★★☆

Due star del momento nell’opera di Cilea

Di umili origini, Adrienne Couvreur debuttò ne Le Cid di Corneille con tale successo da farla poi entrare alla Comédie-Française. Nel frattempo al cognome era stata aggiunta la particella Le per dare il tono di nobiltà che mancava. Amante di Maurizio di Sassonia e rivale in scena della Duclos, la sua morte prematura nel 1730 fece correre in giro la voce che fosse stata avvelenata da una sua antagonista in amore, la duchessa di Bouillon.

Atto primo. Parigi, 1730. Nel foyer della Comédie Française gli attori si preparano ad andare in scena. La Jouvenot, in vesti orientali, dà gli ultimi tocchi all’acconciatura mentre la Dangeville, adagiata su un canapé, è già diventata la civettuola Lisetta diFollie d’amore. Vicino a un caminetto, sormontato dal busto di Molière, Quinault sta indossando un sontuoso turbante; a un tavolo da gioco, in costume da Crispino, Poisson controlla il trucco in uno specchio. Confuso tra comparse, macchinisti e servi di scena, Michonnet si sposta trafelato dall’uno all’altro attore, esaudendo ogni capriccio. Nel trambusto non passa però inosservato l’ingresso del principe di Bouillon, «il mecenate della Duclos», accompagnato dall’abate Chazeuil, «il ninnolo della moglie», generosi di galanterie. Intanto, da una porta laterale, con il copione tra le mani, appare la Lecouvreur negli abiti orientali della Rossana delBajazet: «splendida, portentosa, musa, diva, sirena» esclamano gli uomini. Le donne voltano dispettosamente le spalle. Lei, con sprezzatura da primadonna, si schermisce (“Io son l’umile ancella”) e si apparta con Michonnet, che tenta invano di rivelarle il suo amore. Adriana è distratta da ben altri pensieri: la recita che l’aspetta e un «semplice alfiere», appena ritornato dalla guerra, sotto cui si cela il conte Maurizio di Sassonia. Inaspettatamente il giovane raggiunge Adriana nel foyer e con una dichiarazione appassionata (“La dolcissima effigie”) ottiene un appuntamento al termine della rappresentazione. In pegno l’attrice gli dona le violette che ha appuntato sul seno. Ma dietro le quinte si tessono trame diverse. Intercettato un biglietto della Duclos con un invito a Maurizio per la serata, il principe decide di smascherare l’amante organizzando una festa nel villino di sua proprietà scelto per il convegno. Ignora che non la sua protetta ma sua moglie ha scritto al conte di Sassonia, sempre pronto a rispondere ai richiami della principessa per nobili ragioni di Stato. Così dopo lo spettacolo, dove Adriana trionfa nonostante il dolore per l’improvviso diniego di Maurizio, tutti si dirigono al ricevimento, ciascuno seguendo i propri percorsi.
Atto secondo. Il ‘nido’ della Duclos alla Grange Batelière. Seduta a un tavolino, nel chiarore lunare che dalla Senna attraversa il giardino e si diffonde nel salotto, la principessa di Bouillon aspetta trepidante il conte Maurizio (“Acerba voluttà”), che si presenta in ritardo e con violette profumate tra i bottoni. Soltanto l’offerta del mazzetto convince la scomoda amante a mettere da parte i sospetti per concentrarsi sulle questioni importanti. Le notizie sono negative: nemici potenti contrastano l’ascesa del conte al trono di Polonia e vogliono l’arresto del pretendente. Maurizio progetta di fuggire, la donna, gelosa, lo trattiene. Il giovane implora comprensione (“L’anima ho stanca”) ma, a rendere più difficile il distacco, arriva inaspettato il principe, convinto di avere colto in flagrante la Duclos. Fortunatamente la principessa riesce a nascondersi e l’imbarazzo si spegne in una complice stretta di mano tra i due uomini. Intanto, mentre Chazeuil dispone per la cena, Adriana incontra, felicemente sorpresa, il suo alfiere, che le si mostra nella vera identità. I due si scambiano nuove promesse d’amore, di brevissima durata. Il maligno abate rivela alla Lecouvreur l’esistenza di un’altra donna, lasciandole intendere che si tratta della rivale Duclos. Maurizio non ha bisogno di fare appello ad arti seduttorie per convincere Adriana della propria buonafede: la donna desidera a tal punto credergli che si offre di aiutarlo. E sarà lei, in incognito, a liberare dal nascondiglio l’«amante per politico disegno», favorendone la fuga attraverso il giardino. L’incauta principessa perde però un braccialetto, che finisce fatalmente nelle mani di Adriana.
Atto terzo. La galleria dei ricevimenti al palazzo di Bouillon. Alle pareti specchiere e grandi ritratti, nel centro un palcoscenico con il sipario abbassato. Mentre i valletti completano i preparativi per una nuova festa, la principessa di Bouillon, in abito da gran gala, si aggira per la sala inquieta. La sua ignota salvatrice si è trasformata nel suo tormento: chi sarà? Maurizio l’amerà come lei dice? Nemmeno le facezie dell’abate riescono a placare la sua ansia e quando la Lecouvreur, ospite d’onore della serata, fa il suo ingresso in sala, la principessa ha un cattivo presentimento. Senza esitare, gli occhi fissi su Adriana, racconta di un duello in cui Maurizio sarebbe stato ferito e le sue illazioni trovano conferma. L’attrice scolora, perde le forze, ma poco dopo, vedendo l’ignaro e sorridente Maurizio, è a sua volta assalita dai dubbi: la principessa è forse la fuggitiva? Su richiesta dei presenti, il conte è costretto a esibire le sue prodezze militari (“Il russo Mencikoff”) prima che il principe annunci il balletto: un ‘Giudizio di Paride’ corredato di dee e di amorini, di ninfe e di pastori frigi con consegna rituale della mela alla padrona di casa. Alle squisitezze mitologiche gli invitati sembrano però preferire i segreti dell’alcova: a chi erano destinate le violette? Di chi è il bracciale trovato in giardino? Ingenuamente, Adriana e la principessa alimentano i pettegolezzi, la prima declamando un monologo di Fedra in cui si accusano «le audacissime impure, cui gioia è tradir», la seconda raccogliendo la provocazione e giurando, in cuor suo, vendetta.
Atto quarto. Un salottino di casa Lecouvreur al tramonto di un giorno di marzo. Michonnet, amico fedele, è venuto a trovare Adriana. Incapace di reggere agli intrighi e ai tradimenti, delusa e sfiduciata, l’attrice ha deciso di abbandonare le scene e passa il tempo a letto, avvolta da una cupezza che nessuno riesce a rischiarare. Una sola medicina potrebbe guarirla: Maurizio. Per questo Michonnet, vincendo le proprie resistenze, lo manda a chiamare. Anche i soci della Comédie non si rassegnano a perdere la loro primadonna e irrompono in casa sua festosi e carichi di doni. A poco a poco Adriana si lascia contagiare dall’allegria dei colleghi e promette che tornerà a recitare. All’esultanza degli amici si unisce anche la cameriera, che porta alla Lecouvreur un cofanetto di velluto cremisi appena recapitato. Il biglietto che lo accompagna è del conte di Sassonia. Nascondendo l’emozione, l’attrice distrae gli amici e si precipita verso il regalo: lo scruta, lo apre e d’improvviso, colta da malore, vacilla. Michonnet, che le è rimasto vicino, la soccorre e crede di capire: nella scatola, restituite al mittente, ci sono le violette. Adriana si dispera (“Poveri fiori”), ne annusa a lungo il profumo, poi le getta con rabbia nel caminetto. Intanto Maurizio, che non ha inviato alcun cofanetto ma ha subito risposto all’appello di Michonnet, entra nella stanza. È evidente che Adriana soffre. Lui le chiede perdono, la prega di sposarlo, si abbracciano. Ma la fine che li aspetta è diversa da quella che per un attimo hanno sognato. Il volto terreo, le pupille sbarrate, il corpo percorso da tremori, Adriana comincia a vaneggiare e poco dopo muore tra le braccia di Maurizio, vinta da quelle violette che qualcuno, forse la principessa di Bouillon, aveva avvelenato.

Queste stesse vicende costituiscono la trama dell’opera, su libretto di Arturo Colautti e tratto dall’omonimo dramma di Scribe e Legouvée, che Francesco Cilea presentò con enorme successo nel 1902 a Milano con interpreti quali Angelica Pandolfini ed Enrico Caruso. Da allora la fortuna dell’opera non è mai scemata grazie soprattutto alla parte della protagonista cui hanno dato voce le più grandi dive del canto del secolo scorso, pri­ma fra tutte la preferita da Cilea stesso, Magda Olivero che ne fece il suo rôle fétiche.

Ultima nel tempo è l’Angela Gheorghiu che troviamo in questa edizione del 2010 della Royal Opera House, teatro in cui il soprano romeno è di casa. Non tanto nella prima celeberrima aria – sono troppi i confronti – quanto nel prosieguo dell’opera la cantante dà corpo al suo personaggio e ne rende con grande talento la verità. La voce sontuosa si piega a esprime­re le sfaccettature della parte mentre la recitazione è giustamente manie­rata, da autentica tragédienne. Se la produzione ruota attorno alla presenza della star femminile, non è da meno la scelta del ruolo maschile. Fin dal primo istante in cui letteralmente balza in scena, Jonas Kaufmann suscita, meritatamente, l’entusiasmo del pubblico londinese con la sua baldanza, la sua eccezionale presenza scenica, lo smalto e lo squillo della voce. Di ottimo livello gli altri interpreti, soprattutto Alessandro Corbelli come Michonnet. Sul podio Mark Elder non lesina sugli effetti richiesti da una partitura che ricorda Wagner e Puccini.

Forse intimorito da un’opera che non conosceva e che ritornava per la prima volta nel teatro londinese dopo un secolo di assenza, McVicar non propone audaci attualizzazioni e si comporta come forse uno Zeffirelli si sarebbe comportato in questo caso: scenografie barocche, teatro nel teatro, sfarzosi costumi d’epoca, dettagli preziosi e definizione psicologica, per quanto si può fare in un’opera come questa, dei personaggi. La sua è una regia che anche il melomane più conservatore apprezzerebbe senza riserve. Ma non mancano sottigliezze nella sua messa in scena, quali ad esempio l’ultimo omaggio all’attrice morta da parte degli attori della compagnia

Durante gli applausi finali invece di fiori vengono lanciati dei peluche che i due protagonisti divertiti sembrano apprezzare molto. Come extra un “All about Adriana” con interessanti interventi degli artisti coinvolti. Mancano i sottotitoli in italiano.

I vespri siciliani

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★★★★★

Titolo emblematico della storia recente del Regio di Torino

I vespri siciliani avevano infatti inaugurato nel 1973 il ricostruito Nuovo Teatro Regio di Torino con la regia di Giuseppe Di Stefano affiancato per l’occasione da una mitica Elena, Maria Callas.

Questa nuova produzione è nata invece nel clima delle celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia ed è stata affidata al regista Davide Livermore per farne uno spettacolo-simbolo: «Nei Vespri Verdi racconta la Sicilia del Duecento (1), ma pensa all’Italia dell’Ottocento, anzi di più. Pensa all’Italia tout court: di ieri, di oggi e forse anche di domani. Lo spettacolo – difficile da cogliere subito in tutte le stratificazioni interpretative e i riferimenti d’attualità – è coetaneo al pubblico e rende plausibile e rivelatrice la trasposizione ambientale in una contemporaneità realistica e spettacolare, ma anche critica e allarmante. All’inizio vedremo rappresentato l’antefatto, cioè il funerale di Federico d’Austria, giustiziato da Monforte, come fosse in diretta televisiva […], così la cavatina di Elena, sua sorella, risulterà come una specie di commento a quella diretta e quando lei inciterà i siciliani alla rivolta la trasmissione sarà interrotta. Allo spettatore apparirà subito chiaro come viene gestito quel potere. L’apertura del secondo atto è un grande effetto scenografico e allo stesso tempo un colpo al cuore e alle più tragiche memorie recenti. Quando Procida rientrato a Palermo si commuove al ricordo degli eroi della sua terra, il palcoscenico si trasforma nel fotogramma visto mille volte del chilometro insanguinato di Capaci: voragine, auto sventrate e quasi ingoiate dal deserto scavato dalla dinamite. Sanguinosi ricordi».

E, di coerenza in coerenza, gli interni richiameranno lo squallore del Palazzo di giustizia di Palermo e di altre situazioni emblematicamente contemporanee.
 Il Vespro è in uno studio televisivo, pieno di gente col volto nascosto da maschere di gomma: se le toglieranno quando il palcoscenico sarà occupato da un piccolo Parlamento. Nel teatro politico di Verdi il pubblico e il privato s’intrecciano. Una prospettiva non pessimistica sull’uomo che fa il paio con la toccante conclusione visiva: la ricostruzione di una seduta nella sala di Montecitorio che prima di essere sommersa di tricolori ripassa collettivamente il primo articolo della Costituzione Italiana, certezza e speranza di autentica democrazia unitaria.

Les vêpres siciliennes, su libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier, aveva debuttato a Parigi nel 1855, ma già lo stesso anno ne era stata fatta una versione in italiano per il Regio di Parma con il titolo mutato per motivi di censura in Giovanna di Guzman e la vicenda trasportata in Portogallo (!) mentre al San Carlo di Napoli l’opera veniva rappresentata con il titolo Batilde di Turenna. In Italia è la versione nella nostra lingua quella che prevale e così è per questa edizione diretta dal direttore musicale del Teatro Regio Gianandrea Noseda con grande partecipazione e interpretata da un cast ragguardevole, dall’eccellente Giovanni da Procida di Il’dar Adrazakov allo strepitoso Arrigo di Gregory Kunde, dal Monforte di Franco Vassallo alla Elena di Maria Agresta.

Il DVD appartiene alla collana “Viva Verdi” della RAI distribuita in edicola.

(1) Atto I. L’azione si svolge nel 1282. Mentre i soldati francesi invasori festeggiano in una piazza di Palermo, Elena, duchessa e sorella del duca Federigo d’Austria, dichiara espressamente il desiderio di voler vendicare il fratello. I soldati francesi la invitano a cantare. Elena canta un’aria che incita alla rivolta i siciliani. Scoppia una sommossa, ma l’arrivo del governatore Monforte atterrisce i siciliani. Subito dopo arriva Arrigo, che, non riconoscendo Monforte, esprime il suo odio per il governatore nonostante questo abbia dato ordine di liberarlo. Monforte si svela, e offre ad Arrigo di diventare ufficiale dell’esercito francese. Arrigo rifiuta inorridito, e sprezza il consiglio del governatore di star lontano da Elena.
Atto II. Giovanni da Procida, patriota siciliano, è appena sbarcato. Viene raggiunto dai suoi fedeli soci, tra i quali Elena ed Arrigo, che discutono con Procida sul modo con cui indurre i Siciliani alla rivolta. Arrigo rivela il proprio amore ad Elena, che dice di ricambiarlo, ma deve pensare prima a vendicare il fratello. Appaiono i soldati di Monforte che prelevano Arrigo e lo portano dal governatore. Intanto, i soldati francesi hanno rapito le dodici future spose di alcuni palermitani durante le nozze. Istigati da Elena e Procida, i siciliani giurano vendetta mentre da lontano echeggiano le risa dei nobili francesi che s’avviano alla festa a casa di Monforte per la sera.
Atto III. Nel palazzo, Monforte rilegge una lettera inviatagli da una donna siciliana, che, costretta a diventare sua amante, lo informa di essere il padre di Arrigo. Convocatolo, il governatore dice al giovane di essere suo padre. Durante la festa, viene fatto un ballo. Arrigo si imbatte in Elena e Procida che gli confidano che Monforte verrà ucciso seduta stante. Arrigo, mentre Elena si avventa sul governatore, gli fa scudo col proprio corpo. I cospiratori rimangono attoniti per il tradimento di Arrigo. Elena e Procida vengono rinchiusi in prigione.
Atto IV. Arrigo, vicino alle prigioni, convocata Elena, le rivela il motivo del suo gesto. La donna cambia atteggiamento e lo perdona, confessandogli il suo amore. Anche Procida, comprende e lo perdona. Subito entra Monforte, che ordina l’esecuzione dei cospiratori. Elena e Procida danno l’addio alla patria. Un coro di monaci intona il De profundis. Arrigo supplica Monforte di non ucciderli. Monforte lo farà solo se lo chiamerà padre. Alla fine, proprio prima che il boia uccida i cospiratori, Arrigo si arrende e lo chiama col fatidico nome. Monforte grazia tutti e ordina il matrimonio tra Elena e il figlio, i vespri dello stesso giorno.
Atto V. Elena riceve le amiche nel giardino, felice del futuro matrimonio e si incontra con l’amato Arrigo. Procida gli si fa vicino e le dice che ci sarà una sommossa al suon delle campane. Elena si ribella, ma Procida l’accusa di star dalla parte del governatore. Arrigo, confuso, tenta di convincere Elena a sposarlo, ma lei è dubbiosa. Entra Monforte, e unisce i due giovani nel sacro vincolo del matrimonio. Risuonano le campane dei vespri ed Elena, inorridita, tenta di avvertire Monforte, ma i siciliani, guidati da Procida, irrompono nel giardino e lo uccidono.

La sonnambula

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Vincenzo Bellini, La sonnambula

New York, Metropolitan Opera House, 3 aprile 2009

★★★★★

Dessay e Flórez, una Sonnambula che sfiora la perfezione al MET

Ci sono spettacoli che, pur nati per essere effimeri, conservano la capacità di fissare nel tempo un istante di perfezione teatrale. Questa produzione de La sonnambula appartiene a quella ristretta categoria. A immortalarla sono soprattutto due interpreti in stato di grazia: una Natalie Dessay ancora all’apice assoluto delle sue possibilità artistiche e un Juan Diego Flórez che più smagliante di così è difficile anche solo immaginarlo. La loro presenza in scena basta da sola a illuminare l’intera esecuzione, ma ciò che colpisce, oltre al virtuosismo, è la naturalezza con cui entrambi incarnano la scrittura belliniana, restituendone la purezza vocale, la dolce malinconia, le filigrane melodiche e quel misto di grazia e tenerezza che è l’essenza stessa dell’opera.

Si tratta, del resto, di un lavoro straordinario scritto da Vincenzo Bellini nel 1830-31, quando il compositore non aveva ancora compiuto trent’anni. Lo compose con sorprendente rapidità – l’opera fu completata in poche settimane, con l’uso anche di alcune auto-citazioni rielaborate, come era normale per i tempi –  quasi d’istinto, come se quella storia sospesa fra ingenuità pastorale e turbamento emotivo gli scorresse già nelle vene. Due anni dopo avrebbe lasciato l’Italia per Parigi, dove incontrò, tra gli altri, Chopin e dove avrebbe scritto la sua ultima opera, I puritani, prima che la morte prematura lo cogliesse nel 1835. In La sonnambula, però, c’è tutta la freschezza della giovinezza: la voce umana trattata come uno strumento di cristallo, le melodie che sembrano affiorare naturalmente dal silenzio, la capacità di raccontare un dramma minimo con una delicatezza assoluta.

Il libretto, firmato da Felice Romani, si ispira al vaudeville di Eugène Scribe La somnambule ou L’arrivée d’un nouveau seigneur del 1819. La vicenda, di per sé elementare, racconta di Amina, fanciulla promessa sposa che, a causa del suo sonnambulismo, viene sorpresa nella stanza del conte Rodolfo la notte prima delle nozze. Un malinteso che rischia di rovinarle la reputazione e il matrimonio, salvo poi sciogliersi nel più rassicurante dei lieti fini. È una storia tipicamente ottocentesca, fondata su equivoci, pudori e fragilità morali, ma Bellini e Romani la trattano come un piccolo gioiello sospeso nel tempo.

Atto I. Quadro primo: Villaggio. In fondo al teatro si scorge il mulino di Teresa: un torrente ne fa girare la ruota. Si festeggiano le nozze fra Elvino ed Amina, un’orfana allevata dalla mugnaia Teresa. L’unica ad essere scontenta è l’ostessa Lisa, anch’essa innamorata del giovane possidente, che rifiuta le profferte amorose di Alessio, un altro giovane del villaggio. Al villaggio giunge un nobiluomo, che mostra di conoscere assai bene quei luoghi, ma che nessuno dei villici riconosce. Si tratta del conte Rodolfo, figlio del defunto signore del castello. Il gentiluomo, che si stabilisce nella locanda di Lisa, rivolge alcuni complimenti ad Amina, dicendole che il suo viso le ricorda quello di una donna che egli aveva conosciuto molti anni prima. Prima di salutarlo, i villici lo avvertono che il paese è popolato dalla sinistra presenza di un fantasma, ma il colto signore giudica le loro parole frutto di pura superstizione. Le lusinghe del Conte hanno frattanto destato la gelosia di Elvino che, rimasto solo con lei, rimprovera la futura sposa. Quadro secondo: Stanza nell’osteria. Di fronte una finestra: da un lato porta d’ingresso: dall’altro un gabinetto. Avvi un sofà e un tavolino. Nelle sue stanze, il conte Rodolfo è intento a corteggiare Lisa. Quando s’odono dei passi, l’ostessa fugge precipitosamente, ma prima riconosce Amina, che in stato di sonnambulismo sta recandosi nella stanza del Conte. La sonnambula si rivolge affettuosamente al nobiluomo, invocando il nome del futuro sposo, descrivendo rapita la prossima cerimonia delle sue nozze e infine chiedendogli di abbracciarla. Rodolfo dapprima non sa che fare. Il gentiluomo decide quindi di non approfittare della situazione e abbandona la stanza senza svegliare la sonnambula. Nel frattempo un gruppo di villici sopraggiunge alla locanda per salutare il conte (di cui ha finalmente scoperto l’identità); Lisa, maliziosamente, conduce tutti alla stanza di Rodolfo, dove sorprendono la giovane Amina adagiata sul divano. Lo sconcerto è generale. Elvino, sconvolto, rompe il fidanzamento, mentre la ragazza, destatasi, inconsapevole di quanto è accaduto, non può trovare parole per giustificarsi.
Atto II. Quadro primo: Ombrosa Valletta fra il Villaggio e il Castello. Mentre un gruppo di villici si reca dal Conte per convincerlo a prendere le sue difese, Amina cerca consolazione nell’affetto della madre. Amina si imbatte in Elvino che, straziato per gli avvenimenti, le ricorda come lo abbia reso il più infelice tra gli uomini e le strappa l’anello di fidanzamento. Quadro secondo: Villaggio come nell’atto I. In fondo al teatro si scorge il mulino di Teresa: un torrente ne fa girare la ruota. Invano il conte Rodolfo tenta di spiegare ai villici cosa sia il sonnambulismo e di far recedere Elvino dalle sue posizioni. Il giovane, per ripicca, ha ormai deciso di andare a nozze con l’ostessa Lisa. Il paese è quindi nuovamente in festa in vista di una nuova possibile cerimonia nuziale, ma quando Lisa ed Elvino passano davanti al mulino di Teresa, la donna accusa Lisa di essere incorsa nella stessa colpa attribuita ad Amina, portando come prova un fazzoletto appartenuto all’ostessa e trovato nella stanza del conte Rodolfo. Elvino si sente nuovamente tradito, quando fra la meraviglia generale, si vede Amina camminare in stato di sonnambulismo sul cornicione del tetto di casa. È la prova che il conte Rodolfo aveva ragione. Contemplando il fiore appassito che Elvino le aveva donato il giorno prima, la sonnambula canta il suo amore infelice (“Ah! non credea mirarti”), ascoltata da tutti, e quando si desta può finalmente riabbracciare l’amato Elvino. Il villaggio, nuovamente in festa, si prepara per le tante sospirate nozze.

Mary Zimmerman, regista acuta e spesso anticonvenzionale, sceglie di prendere le distanze dalla Svizzera da cartolina in cui la maggior parte delle produzioni colloca la vicenda. Al posto degli chalet di legno e dei costumi tirolesi propone la sala prove di un teatro contemporaneo, dove una compagnia sta lavorando – ironia della sorte – proprio a una Sonnambulatradizionale. I confini tra vita e teatro si sovrappongono: l’amore dei due giovani protagonisti contemporanei ricalca quello di Amina ed Elvino; i membri della compagnia fungono da coro del villaggio, evitando allo spettatore l’ennesima sfilata oleografica. Solo nel finale i cantanti indossano i consueti costumi storici, creando un momento di sorpresa teatrale che diverte e, insieme, esalta il gioco metateatrale su cui si fonda l’intera regia.

Sul versante musicale la trasparente, preziosa orchestra belliniana trova in Evelino Pidò un interprete partecipe, attentissimo ai respiri dei cantanti e alle finezze della partitura. L’effetto magico dell’assolo di corno che introduce «Tutto è sciolto» – attacco che Flórez intona con un pianissimo legato da togliere il fiato – è uno dei momenti che rimangono impressi come pura perfezione sonora. Flórez domina la parte con una facilità disarmante: la precisione dell’emissione, la luminosità del timbro, la musicalità innata costruiscono un Elvino nervoso, tenero, impetuoso senza mai perdere il controllo stilistico.

Ma è nella scena di Amina, quando Natalie Dessay avanza verso l’orchestra sulla piattaforma, che lo spettacolo raggiunge un vertice emotivo. «Ah! non credea mirarti» diventa, nelle sue mani, un lamento fragile, quasi sospeso, un misto di malinconia e stupore che incanta per sincerità. Non fa dimenticare mostri sacri come Callas o Sutherland, né lo pretende: la sua interpretazione si affianca alle loro con una lettura più intima, moderna, toccante, tutta giocata sulla parola cantata e su una sensibilità scenica rarissima.

Accanto ai due protagonisti, merita citazione l’elegante e ironico conte Rodolfo di Michele Pertusi, che dà alla figura una morbida autorevolezza, mai ingessata, e contribuisce all’equilibrio dello spettacolo. Le ovazioni finali che investono tutti gli interpreti, ma soprattutto Dessay e Flórez, non sono soltanto il riconoscimento di una serata ben riuscita: sono il segno di un incontro felice fra talento, intelligenza teatrale e fedeltà a un capolavoro che, quando è servito così, sembra davvero rinascere a nuova vita.

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La Juive

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★★☆☆☆

Paradigma del grand opéra

Unica ancora in repertorio delle quasi quaranta opere scritte da Halévy, La Juive (L’ebrea) è il paradigma del grand opéra francese: cinque atti, un balletto, cori, azioni spettacolari, un libretto (di Eugène Scribe) che tratta di grandi passioni ed eventi storici – qui quel Concilio di Costanza del 1414 che mise fine al grande scisma d’occidente quando a capo della chiesa cattolica si trovavano contemporaneamente ben tre papi.

Antefatto. Éléazar, quando era giovane, aveva vissuto in Italia nei pressi di Roma e vi aveva cresciuto i suoi figli condannati assieme al conte Brogni come eretici. Éléazar stesso è stato bandito da Roma e costretto a partire per la Svizzera. Cammina cammina, Éléazar trova un bambino sul punto di morire, abbandonato, fuori da una casa in fiamme. La casa risulta essere quella del conte. Alcuni briganti vi hanno appiccato il fuoco credendo di uccidere tutta la famiglia del conte, ignorando che Brogni stesso era a Roma. Éléazar prende il bambino, una femminuccia, e la adotta come sua e chiamandola Rachel. Brogni, nel frattempo, per rimediare ai suoi dispiaceri (crede, infatti che la sua famiglia sia stata sterminata), prende gli ordini e diventa, in ultimo, Cardinale.
Atto I. Quando l’opera comincia, Rachel, che è ormai una giovane donna, vive con colui che crede essere suo padre nella città di Costanza. Éléazar è gioielliere. I contrasti tra ebrei e cristiani sono evidenti, come la stessa legislatura del posto indica. Se un ebreo e un cristiano, ad esempio, hanno una relazione sentimentale, il cristiano viene scomunicato e l’ebreo è ucciso.
Atto II. Rachel è innamorata di un giovane uomo che crede essere uno studente ebreo. In realtà, si tratta di Léopold, principe della regione, non soltanto cristiano, ma anche promesso sposo alla principessa Eudoxie. Rachel ha invitato Léopold a celebrare la Pasqua ebrea nella Comunità, assistendo al momento in cui Éléazar e gli altri ebrei cantano la loro preghiera di Pasqua. Rachel diventa sospettosa che l’amato non sia quello che sembra, quando osserva che Léopold rifiuta il pezzo di pane senza lievito che la donna gli offre. A quel punto l’eroina riconosce che Léopold è un cristiano. Rachel è sconvolta, gli rimprovera che celando la sua vera identità, Léopold ha offeso non soltanto suo padre, ma il suo onore e il suo dio e gli ricorda le conseguenze terribili che li attendono tutti e due. Egli promette che rispetterà il loro amore e la difenderà. Rachel gli crede e decide di abbandonare suo padre. Ma sono presto scoperti da Éléazar che maledice Léopold che scappa.
Atto III. Rachel lo segue al palazzo dove si svela l’amore del principe per l’ebrea, un’azione che condurrà alla morte per lei e alla scomunica per lui. Éléazar li ha seguiti e tutti e tre sono condotti in prigione.
Atto IV. Eudoxie chiede e ottiene il permesso di parlare a Rachel nella prigione. Prega Rachel di salvare Léopold dichiarando la sua innocenza. Eudoxie supplica Rachel di confessare che l’amore per il principe non era ricambiato e dopo una straordinaria aria, Rachel confessa per salvare l’innamorato. Eudoxie prende congedo. Il cardinale di Brogni appare e dice a Rachel che ha la possibilità di salvare tutti. Chiede a Éléazar di convertirsi al cristianesimo, ma Éléazar risponde inizialmente che preferirebbe morire, quindi decide di vendicarsi del cardinale. Gli ricorda l’incendio nella sua casa a Roma di tanti anni fa e che la sua piccola figlia non è morta. Gli dice che è stata salvata da un ebreo e che soltanto lui, Éléazar, lo conosce. Éléazar lo minaccia: il segreto morirà con lui, se verrà ucciso. Brogni lo supplica, ma invano. Si deplora e soffre cantando che solo lui in persona, che l’ha cresciuta e accudita come una figlia può salvarla, se ammette che non è suo padre e se dice al mondo che non è ebrea, ma cristiana e figlia del cardinale. Tuttavia, alla fine decide improvvisamente di non rendere mai Rachel ai cristiani.
Atto V. Éléazar e Rachel sono condotti verso l’impalcatura dove periranno nelle fiamme. Rachel è terrorizzata. Éléazar non rivela chi ella è in realtà è, ma le dice che può vivere se decide di convertirsi al cristianesimo. La ragazza, fieramente rifiuta e monta all’impalcatura prima di lui. Poiché il popolo richiede la loro morte, Brogni chiede a Éléazar: «Dimmi, la mia figlia è sempre viva? Dov’è?» Éléazar mostra il ceppo mentre Rachel è gettata dentro e grida: «È la vostra figlia che perisce in queste fiamme».

La Parigi del 1835 apprezza molto la novità teatrale di Scribe e Halévy, ma indulge poco alla discussione dei conflitti interreligiosi su cui si basa l’opera. Lo stato liberale di allora era divenuto spazio pubblico tollerante e pluralista perché assumeva la relatività delle diverse fedi religiose e ne aborriva i fanatismi. La Juive da par suo ribadiva l’assurdità di quel sanguinoso passato di odî e persecuzioni (massacri, roghi e supplizi ritualizzati in pubblici auto da fé) inflitti e subiti nel nome di un dio. Sull’aspetto musicale del dramma abbiamo un critico di eccezione, Richard Wagner: «Se si cerca di contraddistinguere la sua musica, occorre rimarcarne subito la profondità. […] Parlo di quella capacità di emozionarsi, potente, intima e profonda, che vivifica e travolge il mondo morale d’ogni epoca. […] La fecondità del suo talento trapela dalla grande varietà di ritmi drammatici, riscontrabile soprattutto nel ricco accompagnamento orchestrale.»

L’opera ha conosciuto una posterità letteraria allorché Marcel Proust in “À l’ombre des jeunes filles en fleurs”, secondo capitolo di À la recherche du temps perdu, soprannomina una prostituta, che la tenutaria di un bordello gli presenta come ebrea, Rachel-quand-du-seigneur, proprio come l’aria con cui il tenore Nourrit aveva debuttato nell’opera di Halévy nel 1835 e che Caruso canterà come addio alle scene nel 1920. (Il narratore di Proust riconoscerà in seguito la ragazza nella mantenuta di Robert de Saint Loup.)

Nonostante il titolo, il personaggio principale è Eléazar, orafo ebreo, padre amorevole e infine martire, ma vendicativo. In questa produzione della Opera di Stato viennese registrata nel 2002 il ruolo è affidato al tenore americano Neil Shicoff, nato da una famiglia ebrea di Brooklyn e da giovane cantore nella sinagoga. L’affinità per la parte è palpabile nella sua appassionata dedizione, nell’intensità dell’interpretazione vocale e drammatica e nella fatica che gli costa, ma la sua voce è sforzata, quasi assenti le mezze tinte, gli acuti gridati e il suo francese quanto mai approssimativo. Krassimira Stoyanova è una Rachel corretta ma ben poco credibile nella parte della figlia. Vocalmente modesto e scenicamente risibile è il Léopold di Janyi Zhang. Assieme formano la più improbabile coppia di amanti che si sia vista a teatro.

La brutta regia di Günter Krämer (ah, quelle trasandate masse corali!) attualizza la vicenda senza nessuna convinzione. Estremamente modeste, quando non assurde, le scene di Gottfried Pilz. Adeguata la lettura di Vjekoslav Šutej di una partitura opportunamente sforbiciata.

Due tracce audio, sottotitoli anche in cinese (ma non in italiano), immagine in 4:3 adattata al formato 16:9 e come bonus extra un documentario di oltre un’ora tutto incentrato su Shicoff.

  • La Juive, Fogliani/Konwitschny, Anversa, 21 marzo 2019
  • La Juive, Minkowski/Alden, Ginevra, 17 settembre 2022
  • La Juive, Oren/Poda, Torino, 21 settembre 2023

L’elisir d’amore

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★★★★★

La folle journée di Nemorino

Il 2005 è l’anno del sodalizio artistico (ma anche passionale) di Rolando Villazón con Anna Netrebko (in parallelo alla coppia Alagna-Gheorghiu). Messico e Russia si alleano per portare sulle scene e dar loro un soffio di nuova vita capolavori come La traviata (Salisburgo), Manon (Berlino), Roméo et Juliette (Los Angeles), Rigoletto (New York), Bohème (San Pietroburgo), oltre a numerosi concerti e dischi.

Questo Elisir d’amore viennese è dello stesso anno e oltre all’affiatatissima coppia presenta un Belcore stagionato come quello di Leo Nucci e l’aitante Dulcamara di Ildebrando d’Arcangelo – detto così ci si chiede se non era meglio scambiare i ruoli, poi però nel corso della recita gli interpreti si dimostrano convincenti nelle loro rispettive parti.

Atto I. L’azione ha luogo in un villaggio dei paesi baschi alla fine del XVIII secolo. La giovane Adina se ne sta in disparte, leggendo delle vicende di Tristano e Isotta, mentre i mietitori riposano all’ombra. Intanto, l’umile contadino Nemorino la osserva da lontano, esprimendo per lei tutto il suo amore e la sua ammirazione, dolendosi della propria incapacità di conquistarla. I contadini chieno ad Adina di renderli partecipi delle sue letture; lei comincia a leggere delle peripezie di Tristano e del filtro magico che lo ha aiutato a far innamorare di sè la regina Isotta. Mentre Nemorino sogna di trovare questo magico elisir, arriva in paese il sergente Belcore, con lo scopo di arruolare nuove leve. Belcore – anch’egli innamorato di Adina – le chiede di sposarlo; lei evita una risposta e dice di volerci pensare un po’ su. Adina espone a Nemorino la sua teoria circa l’amore: l’amore fedele e costante proprio non fa per lei… in quel mentre arriva in paese il dottor Dulcamara; egli in realtà è un truffatore che, girando di paese in paese, vende i propri miracolosi preparati medicinali. Nemorino coglie la palla al balzo e gli chiede se abbia un elisir che faccia innamorare le persone. Il ciarlatano pesca dal mucchio una bottiglia di vino bordò e gliela vende, fornendo precise istruzioni: la pozione avrà effetto dopo ventiquattro ore (il tempo utile per permettergli di fuggire indisturbato dal paese…). Nemorino beve tutta l’ “elisir” e si ubriaca. Ciò lo fa diventare disinvolto, quel tanto che basta per mostrarsi indifferente nei confronti di Adina. La giovane contadina, abituata com’è a sentirsi desiderata, prova fastidio verso Nemorino. Per ripicca decide dunque di accettare la proposta di Belcore e sposarlo quel giorno stesso, prima che lui riparta. Nemorino crede fermamente nell’elisir da lui bevuto, cerca per questo di convincere Adina a spostare la data delle nozze per permettere all’elisir di fare effetto. Adina non lo ascolta e se ne va con il sergente Belcore.
Atto II. Fervono i preparativi per le nozze. Adina vuole aspettare che venga sera per celebrare le nozze, perche vuole che assista anche Nemorino, per punirlo della sua indifferenza. Intanto Nemorino vorrebbe comprare un’altra bottiglia di elisir da Dulcamara, ma non ha i soldi. Decide quindi di arruolarsi per avere la paga. Il sergente Belcore riesce così ad allontanare lo scomodo rivale. Giannetta sparge in paese la notizia che Nemorino ha ottenuto una grande eredità da un parente recentemente deceduto. Questo non lo sanno né l’interessato, né Adina, né Dulcamara: la novità fa sì che le ragazze del paese corteggino Nemorino e questi pensi sia l’effetto dell’elisir. Dulcamara resta perplesso, Adina si ingelosisce. Quando Dulcamara racconta ad Adina di aver venduto l’elisir d’amore a Nemorino, lei capisce che di essere la sua amata. Una lacrima negli occhi di Adina tradisce i suoi sentimenti; Nemorino, vedendola, capisce di essere ricambiato. Adina entra in possesso del contratto di arruolamento di nemorino e glielo rende, consigliandogli di rimanere in paese. Nemorino, dopo aver tanto penato, vorrebbe una dichiarazione d’amore da lei. Quando infine dichiara di volersene andare, Adina cede e dichiara il suo amore. La scena si conclude con Belcore che se ne va, convinto di trovare altre ragazze da corteggiare, e Dulcamara trionfante e incredulo per il successo ottenuto dal suo improbabile elisir.

Scene e costumi della messa in scena di Otto Schenk risalgono al 1980, ma un classico di tradizione non dimostra la sua età se si avvale della presenza di grandi interpreti che infondono vivacità e verità scenica a questo assoluto capolavoro andato in scena nel 1832 su libretto del Romani tratto da quel Le philtre che Scribe aveva scritto l’anno prima per Auber.

L’originale mestiere di Schenk, quello di attore, si evince dalla sua regia: i duetti Nemorino-Dulcamara sono da consumati mattatori che fanno ricorso a tutte le capacità attoriali senza però mai scadere nella volgarità. Ma altrettanta vivacità si trova anche negli altri cantanti. Una Netrebko spigliatissima e simpaticissima (quanto distante da certe insopportabili acide Adine del passato e del prresente), dimostra sincera affezione per Nemorino e fra i due c’è un rapporto di empatia innegabile. Vocalmente il soprano russo è eccellente nelle agilità e perfetta nei momenti più pateticamente lirici.

Villazón è un attore comico perfetto: metà Harpo Marx e metà Mr Bean, utilizza ogni possibilità espressiva (la mimica facciale, gli occhi sgranati, quelle folte sopracciglia sempre mobili), ogni muscolo del corpo, ogni gesto per la definizione del personaggio. Il confronto con uno dei memorabili Nemorini di ieri, Luciano Pavarotti, mette in luce questo fatto: ai tempi di Lucianone il 90% delle opere era fruito tramite radio e vinili, ora la stessa percentuale è data da DVD, streaming e live televisivi. Se allora quello che contava era praticamente solo la prestanza vocale, per il pubblico di oggi la presenza scenica non è più un optional e lo dimostrano i moderni interpreti, tutti, chi più chi meno anche grande attori. Con questo però, nel tenore messicano non viene mai meno la compostezza vocale di uno strumento felice che ricorda molto da vicino la scuola dominghiana – del Domingo giovane. La sua «Furtiva lagrima» è un esempio di fraseggio, fiati e legati perfetti, e la chiusa in piano suggella una versione da manuale, tant’è che il pubblico richiede a gran voce, e ottiene, il bis in cui il cantante esegue una cadenza variata.

Non è da meno Nucci, che disegna una macchietta irresistibile ma non grottesca del suo Belcore, ma è D’Arcangelo che dimostra una verve comica insospettata e che fa del personaggio di Dulcamara, pur con una sua eleganza, un carattere altamente spassoso. Non c’è differenza nella qualità della dizione tra i due cantanti stranieri e i due italiani: è semplicemente perfetta.

La direzione è di Alfred Eschwé, un direttore poco conosciuto fuori dall’Austria, che si dimostra un concertatore di buon gusto anche se cede alla tentazione dei tagli di (cattiva) tradizione.

La serata si conclude con il compassato pubblico dello Staatsoper tutto in piedi che non si stanca di acclamare gli artisti. Una serata memorabile anche per una città come Vienna avvezza a spettacoli di grande successo.

Le Comte Ory

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★★★★★

Farsa boccaccesca, ma con esprit francese

Figlio di Luigi XV e fratello di Luigi XVI, Carlo X (chiamato una volta Carlo Ics da uno sconsiderato studente, ma ora temo che verrebbe citato come Carlo Per…) incarnò la restaurazione definitiva della monarchia francese e il ritorno all’ancien régime allorché venne incoronato re nel 1824. Per l’occa­sione a Gioachino Rossini venne richiesto un lavoro celebrativo che egli puntualmente fornì e che debuttò nel giugno del 1825 con il titolo Il viag­gio a Reims. La fine delle celebrazioni avrebbe segnato anche la fine delle rappresentazioni dell’opera se l’autore, con una prassi di auto-im­prestito co­mune all’epoca, non ne avesse utilizzato alcuni numeri per una vicenda boc­caccesca tratta da un vaudeville di Scribe e Delestre-Poirson ambientato ai tempi delle crociate e in cui venivano raccontate le avventure di un libertino entrato nel convento di Formoutiers con un gruppo di cavalieri mascherati da suore.

Atto I. L’azione si svolge nel XIII secolo ed è ambientata all’esterno del castello dei conti di Formoutiers. Dopo la partenza degli uomini del paese per la Terrasanta, il giovane conte Ory, travestito da eremita, coglie l’occasione per corteggiare la bella e onesta sorella del conte di Formoutiers; il suo fedele compagno Raimbaud invita tutti a consultare il sant’uomo, magnificandone le doti. Ragonde, la custode del castello, fissa un appuntamento per Adèle. Giungono al castello il paggio Isolier, innamorato della contessa, e il precettore di Ory, che ha subito qualche sentore della sua presenza; Isolier invece, non riconoscendo il padrone, gli rivela il proprio stratagemma: entrare nel castello travestito da pellegrina. Naturalmente il conte decide di sfruttare il piano a proprio vantaggio: quando la contessa si presenta al falso eremita viene immediatamente invitata a diffidare del paggio, da cui è in realtà attratta. Nella scena finale il conte viene smascherato davanti a tutti dal precettore; si annuncia il ritorno dei crociati: Adèle e Ragonde si beffano di Ory, che non pensa però di desistere dai suoi scopi.
Atto II. Mentre all’interno del castello le dame commentano l’arditezza del conte, alcune povere pellegrine, sorprese da un furioso temporale, chiedono rifugio, denunciando di essere state insidiate proprio dal conte; quando vengono fatte entrare, si scopre che altri non sono che Ory e i suoi compagni, che cantano ubriachi. A questo punto Isolier decide di beffare il conte: questi infatti, ingannato dalla voce dell’avvenente contessa e dalla penombra, corteggia Adèle, alla quale però si è sostituito il giovane paggio. Al culmine del corteggiamento irrompono i crociati, fra cui il padre di Ory e il fratello di Adèle; il conte viene messo in fuga, mentre Adèle sposerà l’amato paggio.

Con il titolo di Le Comte Ory andò in scena nel 1828 ed è la penulti­ma opera del pesarese, la cui carriera teatrale terminò l’anno seguente con il Guillaume Tell.

La prima ebbe un esito trionfale e venne soprattutto elogiato dalla cri­tica e da Berlioz il meraviglioso terzetto del secondo atto con quell’am­biguità del ménage à trois tra un tenore che si finge donna, un soprano donna vera e un mezzosoprano en travesti, molto ben realizzato in questa produzione dal­la regia di Bartlett Sher che non risparmia nel resto dell’o­pera gag e divertenti trovate nel suo teatrino ricostruito sul palcoscenico del Metro­politan Opera House di New York. Siamo nel 2011.

Superfluo tessere le lodi del terzetto di interpreti principali: del conte di Juan Diego Flórez, donnaiolo ostinato quanto perdente, c’è poco da aggiungere, se non che il giorno stesso della rappresentazione il cantante è diventa­to padre e la contagiosa esultanza che trasfonde nella sua parte forse è an­che dovuta al felice accadimento. La contessa di Diana Damrau è perfetta così come l’Isolier di Joyce DiDonato. Di lusso il Raimbaud di Stéphane De­gout, mentre un po’ spento vocalmente Pertusi, non a suo agio nella lingua francese. Efficace la direzione di Maurizio Benini, ma niente di memorabile.

Come extra le solite interviste di Renée Fleming ai tre interpreti e ai costumisti negli intervalli della trasmissione live.

Robert le Diable

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★★★☆☆

L’inferno può attendere

Con La muette de Portici (Auber, 1828), Guillaume Tell (Rossini, 1829) e Robert le Diable (Meyerbeer, 1831) nasce in Francia un nuovo ge­nere che soppianta la tragédie lyrique, in voga da due secoli. Si instaura il grand opéra i cui libretti, incentrati su soggetti storici, prevedono forti contrasti passionali, colpi di scena, innumerevoli comparse, cortei, balletti, cori e un’orchestra fortemente ampliata per accentuare la spettacolarità della vicenda. Scribe è uno degli autori prediletti per i libretti di questo nuovo genere e qui è affiancato da Germain Delavigne. Essi traggono spunto dall’omonima leggenda medioevale basata su Roberto I duca di Normandia (1000-1035) e padre di Guglielmo il Conquistatore.

Atto primo. Nei pressi del porto di Palermo. Robert attende di partecipare a un torneo, la cui vittoria dovrebbe guadagnargli la mano dell’amata Isabelle, principessa normanna, dalla quale infauste circostanze lo hanno separato. Con lui sono numerosi cavalieri: tra loro il sinistro Bertram, suo intimo amico, e il contadino Raimbaut, lì convenuto con la sua fidanzata. Durante il banchetto Raimbaut rievoca in una ballata la leggenda di Roberto il diavolo, figlio di un demonio e di una principessa normanna. La sua canzone scatena l’ira di Robert, che vorrebbe ucciderlo, ma lo grazia quando scopre che la sua fidanzata è Alice, sua sorella di latte. Ella gli reca le ultime parole della madre morta e lo mette in guardia da un pericolo incombente. Ma Robert non le presta ascolto; anzi, su consiglio di Bertram perde al gioco tutti i suoi averi compresa l’armatura che gli avrebbe permesso di partecipare al torneo.
Atto secondo. Robert e Isabelle si riconciliano in un duetto durante il quale alcuni paggi portano al cavaliere nuove armi per partecipare al combattimento. Ma ancora una volta Robert si fa fuorviare da Bertram, che lo conduce in una foresta vicina, con la scusa che il suo rivale, il principe di Granada, lo attende lì per un duello. Intanto la corte al completo si prepara ad assistere alla gara, cui Isabelle dà il segnale d’inizio, dopo aver atteso inutilmente l’arrivo dell’amato.
Atto terzo. Su una tetra montagna. Bertram si libera facilmente di Raimbaut regalandogli dell’oro, poi invoca i demoni per conoscere la loro volontà. Il verdetto è terribile: se a mezzanotte Robert non si sarà schierato con le forze del male, egli lo perderà per sempre. A tale scena assiste per caso Alice, che sperava di incontrare Raimbaut, verso il quale esprime tutto il suo amore in una romanza. Bertram la minaccia di morte, ed ella non trova il coraggio di raccontare a Robert la verità. Il cavaliere, disperato, si lascia convincere dal demonio a compiere un sacrilegio, ossia a penetrare in un chiostro abbandonato per rubare un ramo dai magici poteri. Le monache si levano dalle tombe circondando il giovane e la più bella tra tutte lo convince a strappare il ramo; quando il misfatto è compiuto esse ripiombano nel loro sonno eterno.
Atto quarto. Preso il ramo, che ha il potere di addormentare, Robert si reca nel palazzo di Isabelle per rapirla. Ma ella lo convince a ritornare sulla sua decisione; il giovane, spezzato il ramo, sfugge a stento all’ira dei cortigiani ridestatisi.
Atto quinto. Il conflitto tra il bene e il male giunge a conclusione: Bertram tenta di convincere Robert a utilizzare i poteri infernali e gli rivela, in un supremo sforzo di legarlo a sé, di essere suo padre. Robert si ritrova a dover scegliere tra l’amore filiale e la ricerca del bene. L’arrivo di Alice, che gli reca il testamento della madre, è decisivo; ella prega per lui fino a che, ai rintocchi della mezzanotte, Bertram svanisce nelle viscere della terra. Appare improvvisamente la cattedrale di Palermo addobbata a festa: presso l’altare Isabelle attende Robert.

Destino ingrato di quest’opera quello di aver fortemente influenzato tutta la musica di teatro dell’800, francese (Berlioz, Offenbach, Gounod…) e no (Wagner, Verdi, Boito…), ma dopo il successo della prima (in platea c’era anche un entusiasta Chopin: «Meyerbeer con quest’opera si è guada­gnato l’immortalità») (1) e delle innumerevoli rappresentazioni in tutto il mondo che ne fecero un fenomeno sociale e uno dei più grandi successi del teatro in musica, finì per essere poi rinnegata e dimenticata.

A riscattarla in parte da quest’oblio viene ora questa discussa produ­zione della Royal Opera House del 2012 coprodotta con il Grand Théâtre di Ginevra.

Laurent Pelly alla regia e ai costumi e Chantal Thomas alla scenogra­fia creano un medioevo naïf da illustrazione di carte da gioco con praticabili su rotelle dipinti come nel Rake’s Progress disegnato da David Hockney, ma qui colorato. Anche troppo. Il torneo di cavalieri sembra una giostra da luna park e le dame del corteo hanno il viso dipinto dello stesso colore dell’abito. Più riuscita l’ambientazione per il paesaggio mon­tano del terz’atto che si rifà all’immaginario medievale e con un efficace gioco di luci per ricreare i ba­gliori infernali. Da morality play il quadro fi­nale che vede contrapposti un’A­lice tra le nuvole di cartone e un Bertram che finirà inghiottito dalle fauci diaboliche del mascherone che vediamo ritagliato sulla sovracoperta del di­sco.

Manca completamente il bersaglio il coreografo Lionel Hoche. Al ter­z’atto, come sarà di prammatica negli spettacoli parigini, c’è un balletto. Qui è un po’ particolare: le monache defunte del chiostro ove è sepolta la santa Rosalia escono dai loro sacelli per irretire Robert e fargli compiere l’azione sacrilega per cui era stato istigato da Bertram. In una produzione di un’opera così desueta, ma nello stile del suo met­teur en scène, ci saremmo aspettati un’ironica rivisitazione dei classici passi di danza – perfetti sarebbero stati qui i ballerini del Trockadero. In scena invece vediamo i contorcimenti scomposti di suore zombie infoiate con la lingua di fuori e si fa fatica a riconoscere in questo quadro il primo ballet blanc, quello cioè in cui le ballerine vestono di tulle svolazzante che le fa sembrare creature spettrali (succederà con Giselle, Les Sylphides e molti altri balletti romantici). Edgar Degas aveva addirittura dipinto la scena in due tele ora visi­bili ai musei Metropolitan di New York e Victorian & Albert di Londra (2). Alla prima il ruolo della badessa era stato affidato all’étoile indi­scussa dell’epoca, Maria Taglioni. Una curiosità: questa scena viene richiamata nell’opera di Korngold Die tote Stadt.

Sul podio Daniel Oren naviga con maestria tra le acque turbolente di un’orchestra che fonde il contrappunto tedesco con il lirismo italiano e la pompa di uno Spontini.

Alla prima il ruolo del titolo era stato sostenuto da Adolphe Nourrit, idolo del momento. Qui abbiamo il giovane ma già ampiamente affermato Bryan Hymel che affronta la parte con coraggio e ottimi risultati, sparando sicuri acuti. Bertram ha la figura autorevo­le, il carattere e la voce possente di John Relyea. Meno convin­cente la prova dei personaggi femminili, Marina Poplavskaya e soprattutto Patrizia Ciofi, che non sempre hanno la forza di sovrastare le note dell’or­chestra. Qui occorre­vano dei soprani di peso ben maggiore.

Qualità video e audio che ci si aspetta da un disco blu-ray e un breve documentario sull’eredità dell’opera.

(1) Non è l’unico: Heinrich Heine, Alexandre Dumas fils, George Sand, Ho­noré de Balzac, Herbert Spencer sono solo alcuni di quelli che si sper­ticarono in lodi per questo primo esempio di Gesamtkunstwerk romanti­co. E che dire delle infinite trascrizioni e parafrasi dei temi tratti dall’ope­ra da parte di Adam, Chopin, Czerny, Diabelli, Liszt, Strauss padre e figlio, Thalberg…

(2)

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Edgar Degas, La scena del balletto da “Robert le diable” di Meyerbeer, 1876
© Victoria & Albert Museum