foto © Fabrizio Sansoni
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Georg Friedrich Händel, Alcina
Roma, Teatro dell’Opera, 18 Marzo 2025
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La prima volta di Alcina a Roma
Ci sono voluti 290 anni, ma alla fine l’Alcina di Händel è approdata a Roma e – spoiler alert – in una produzione che ha compensato l’attesa.
Nata 25 anni fa sulle tavole del barocco Slottsteater di Drottningholm in Svezia, la messa in scena di Pierre Audi era passata prima ad Amsterdam e poi a Bruxelles. Per portarla a Roma si sono dovuti ricostruire scenografie e costumi che erano stati distrutti, ma con le maestranze e i laboratori dell’Opera di Roma non ci sono stati problemi, anzi, mi ha detto il regista, questi nuovi sono ancora migliori.
E belli lo sono di certo: nel primo atto le quinte dipinte inquadrano con fitte fronde verdi una scena fissa per ricreare il «luogo deserto» e il «picciol antro» sull’isola mentre gli eleganti costumi settecenteschi sono in sete dai sobri colori pastello. Nient’altro in scena: tutto è lasciato alla recitazione degli attori, volevo dire cantanti, ai loro sguardi, ai calcolatissimi movimenti. La dinamica psicologica dei personaggi è chiara fin dal primo momento: l’amore possessivo di Alcina per Ruggiero; la passione di Oronte per Morgana, che invece si è innamorata di Ricciardo, Bradamante en travesti; la devozione di Bradamante per il suo Ruggiero; il sincero affetto di Oberto per il padre scomparso. Gli intrecci personali si specchiano negli spostamenti dei personaggi che si muovono velocemente tra quinte e scena, creando o disfacendo relazioni.
Nel secondo atto c’è lo svelamento dell’inganno. Appena Ruggiero indossa l’anello che gli ha dato Melisso, crolla il castello magico costruito da Alcina con un effetto semplicissimo ma geniale: le quinte dipinte sono sostituite dalle stesse viste da dietro, la falsità teatrale è così messa allo scoperto e ora Ruggiero vede la realtà e riconosce in Ricciardo l’amata Bradamante.
L’operazione di svelamento è completata nel terzo atto. Alcina scopre che i suoi poteri l’hanno abbandonata e la scena si svuota, se possibile, ancora di più: rimangono solo delle casse e la sedia, che costituiva l’unico elemento dell’ambientazione. Il finale di Audi è pieno di tristezza e non è chiaro chi ha vinto e chi ha perso. Ruggiero e Alcina si scambiano ancora un ultimo sguardo: era davvero frutto di un inganno il loro amore?
Con tese pause di silenzio, il flusso drammaturgico si dipana con efficacia, cadenzato dalla musica di una partitura letta da Rinaldo Alessandrini con competenza e sensibilità, tempi perfetti e un equilibrio mirabile tra buca e cantanti in scena. Alessandrini torna al Costanzi dopo il Giulio Cesare in Egitto dell’ottobre 2023 e sotto la sua direzione la preziosa orchestrazione di Händel trova una magistrale realizzazione, con gli strumenti solisti brillare nell’accompagnamento delle voci nelle sublimi arie di cui è costellata quest’opera.
Quello originale fu un cast di eccellenza, ma non inferiori sono gli interpreti di oggi. Mariangela Sicilia, per la prima volta in un lavoro di Händel, è l’Alcina creata per la voce e la personalità della mitica Anna Maria Strada del Po. Si stenta a credere che la Sicilia debutti in questo repertorio, data la sicurezza e la personalità con cui affronta la parte sia nei suoi aspetti più virtuosistici sia nei momenti più drammatici, come la straziante scena formata da recitativo «Ah! Ruggiero crudel, tu non m’amasti!» – dove il libretto è ricco di indicazioni espressive: “concitata… guarda intorno sospesa… sdegnata… infuriata…” – e la successiva aria «Ombre pallide» con cui si conclude il secondo atto. Mancano qui le tre danze (Entrée de songes agréables, Entrée de songes funestes, Entrée de songes agréables effrayés) che assieme a quelle del primo atto costituiscono l’unico taglio a una partitura resa in tutta la sua completezza.
II controtenore Carlo Vistoli ha già frequentato invece la parte di Ruggiero scritta per il castrato Giovanni Carestini da un Händel che gli ha affidato ben sette numeri musicali che spaziano dal lirico «Verdi prati» agli appassionati «La bocca vaga» e «Mio bel tesoro» al pirotecnico «Sta nell’ircana», resi tutti con tecnica magistrale, belle variazioni nei daccapo, fiati interminabili. Ma è sulla emotività del personaggio che scava Vistoli con un sorprendente controllo della voce e della espressività.
Il contralto Maria Caterina Negri creò la parte di Bradamante nel 1735. Qui è Caterina Piva a impersonare con sensibilità ma anche temperamento questo Fidelio ante litteram. Solo tre arie solistiche, una per ogni atto, ma ben interpretate dal mezzosoprano milanese. Curiosamente, come al Covent Garden Händel aveva avuto due cantanti inglesi (Cecilia Young e John Beard), anche qui sono inglesi i due interpreti delle stesse parti: Mary Bevan (Morgana) e Anthony Gregory (Oronte). La prima è stata Cleopatra nel Giulio Cesare di cui s’è detto e nella stessa stagione si era fatta ammirare come Euridice nell’opera di Gluck a Venezia. La sua Morgana all’inizio ha un che di vocalmente stucchevole, poi però migliora nella definizione del personaggio fino al brillante «Tornami a vagheggiar» con cui si conclude l’atto primo. Qualche problema di dizione per il secondo, anche se l’Oronte di Gregory è complessivamente convincente.
Talora nelle produzioni di Alcina viene soppresso il personaggio di Oberto o viene affidato a un ragazzo che non canta: qui invece il figlio in cerca del genitore ha la convincente presenza fisica di Silvia Frigato che ci fa ascoltare le sue pregevoli arie «Chi mi insegna il caro padre», «Tra speme e timore» e «Barbara, io ben lo so», spesso tagliate. Melisso, che con Händel fu Gustavus Waltz – il suo cuoco, dissero – qui ha la voce di Francesco Salvadori, non convincente nei recitativi, ma apprezzabile invece nella sua unica aria del secondo atto «Pensa a chi geme d’amor piagata». Limitato ma preciso l’intervento del coro istruito da Ciro Visco.
Il pubblico romano delle prime, non molto abituato a quattro ore di barocco, ha risposto comunque con calore alla proposta applaudendo insistentemente cantanti, direttore e responsabili della messa in scena: oltre al regista Pierre Audi lo scenografo e costumista Patrick Kinmonth e Matthew Richardson alle luci. Sembra quindi pronto per gli altri 43 capolavori del Caro Sassone…
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