Tirso de Molina

Don Giovanni

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevèchée, 14 luglio 2010

★★★☆☆

(video registrazione)

Ultimo tango a Aix

È Festen, il film del 1998 diretto da Thomas Vintenberg, a ispirare la lettura di Dmitrij Černjakov del Don Giovanni: la vicenda è privata di ogni valenza mitica e ambientata nella contemporaneità di una composita famiglia in cui il personaggio di Don Giovanni è il catalizzatore di forti reazioni tra i vari componenti – com’era in Teorema, il film di Pasolini. All’inizio li vediamo seduti a un tavolo, riuniti per qualche ricorrenza, in un elegante e austero salone biblioteca pieno di fiori.

Abbiamo dunque il capofamiglia, il Commendatore; la figlia Donna Anna; il suo attempato fidanzato Don Ottavio; Zerlina, la figlia di Donna Anna da un precedente matrimonio; lo sposo di Zerlina, Masetto; Donna Elvira, cugina di Donna Anna; Don Giovanni, marito di Donna Elvira; Leporello, il parente nullafacente che vive nella stessa casa. Rivedremo la stessa scena nel finale architettato ai danni di Don Giovanni. Il regista russo piega dunque la vicenda per una sua drammaturgia lontana dalle intenzioni degli autori ma che rivela la sua efficacia tale è l’abilità con cui viene realizzata e ancora una volta ci si stupisce di come il testo di Da Ponte e la musica di Mozart si adattino così bene alla rappresentazione delle problematiche delle relazioni contemporanee.

Nel suo cappottone di cachemire cammello, trasandato – tale e quale al Marlon Brando di Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, un altro riferimento cinematografico – il Don Giovanni di mezza età di Černjakov è un corpo estraneo alla famiglia, ma un modello per il giovane Leporello. Giovanni ha da tempo una relazione con Anna, ma ora è in crisi. La donna però non si arrende e rincorre supplicando l’uomo. L’arrivo del Commendatore complica le cose: nella collutazione muore sbattendo la testa contro un piano della libreria. Un sipario nero cade dall’alto e su questo si proietta la prima di tante didascalie che scandiscono il passare del tempo. Cinque giorni dopo siamo infatti nello stesso ambiente trasformato in camera ardente, con il ritratto del vecchio tra funebri corone di fiori. Anna in lutto si consola con l’alcol, ma è evidente che più che al padre morto pensa all’ex amante, come evidente è la natura del rapporto tra Elvira e Giovanni: una coppia aperta che inscena rituali in cui Elvira fa la parte della moglie che insegue inutilmente il marito con i suoi tradimenti, cinicamente elencati da Leporello, ma già ampiamente conosciuti da Elvira. La festa con cui Zerlina presenta il fidanzato tamarro agli amici è interrotta dall’arrivo di Giovanni e Leporello e qui inizia la farsa della seduzione: Giovanni è infatti il padre di Zerlina ma lei è l’unica a non saperlo ed è lei a provare un’insolita attrazione per lo “zio”. È Elvira che rivela il segreto all’orecchio della ragazza, che da quel momento rimane molto disturbata.

Adulterii, infedeltà, rancori, attrazioni incestuose: il peggio che può dare una famiglia è impietosamente messo in scena con lucida coerenza ed eccezionale abilità drammaturgica. Alla fine tutti si alleano contro Giovanni e inscenano un’ultima finta riunione famigliare utilizzando un attore sosia del Commendatore: Giovanni è ormai al delirio, si attacca alla bottiglia, è in preda di fitte al petto. Non muore, ma viene abbandonato da tutti, Zerlina addirittura gli sputa in faccia.

Così termina il “Don Giovanni di Dmitrij Černjakov con musiche di Mozart”. Un gran pezzo di teatro che dimostra la duttilità della musica e del libretto settecenteschi ad adattarsi alla psicologia di personaggi di oggi. 

Se l’aspetto visivo è l’elemento premiante di questa produzione, anche su quello sonoro si possono spendere parole di lode per la direzione nervosa di Louis Langrée alla testa dei Freiburger Barockorchester con i loro strumenti storicamente informati che si adattano perfettamente all’azione sul palcoscenico, così violenta e chiaroscurata. Bene anche gli interventi corali delle English Voices.

Premessa l’eccellenza attoriale degli interpreti, non tutti brillano per eccellenza vocale. Certo non Bo Skovhus, protagonista poco musicale, dalla linea di canto spezzata e costretto spesso al parlato, ma neanche il Don Ottavio poco consistente di Colin Balzer. Più convincenti il Leporello di Kyle Ketelsen, il Masetto di David Bižić e il Commendatore di Anatoli Kotscherga. Non male il cast femminile con la tesissima Donna Anna di Marlis Petersen, l’intensa Donna Elvira di Kristīne Opolais e la Zerlina di Kerstin Avemo.

Le perplessità del pubblico sono del tutto superate quando lo spettacolo viene ripreso tre anni dopo con la direzione di Mark Minkowski e interpreti nuovi, a parte Leporello e Commendatore. La produzione del 2010 è disponibile in DVD della BelAir.

Don Giovanni

foto © SF/Monika Ritterhaus

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 9 agosto 2024

★★★★☆

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La solitudine del Cavaliere

Il Don Giovanni di CC – non Chanel, ma Currentzis & Castellucci… – tre anni fa era stato lo spettacolo di punta del Festival di Salisburgo che riprendeva dopo la pandemia. Ora viene riproposto con gli stessi artefici, un cast in parte modificato e alcune variazioni nella messa in scena. 

La versione scelta da Teodor Currentzis è quella di Vienna senza il duetto Zerlina-Leporello del secondo atto, ma col finale di Praga. Tra i numeri mozartiani sono inserite altre musiche, particolarmente lunghe quelle che precedono la scena del cimitero. Dopo aver abbassato il diapason a 430 Hz, le scelte dinamiche del direttore greco-russo sono portate all’estremo, con recitativi molto “recitati” e lunghe pause, ma la loro dilatazione ha un corrispettivo con le dilatazioni visuali adottate dal regista. Le arie che seguono i recitativi hanno un attacco repentino e ricche sono le variazioni nelle riprese. Con le improvvisazioni di Maria Shabashova al fortepiano, Currentzis non fa che riattivare una pratica musicale del tempo di Mozart: quella di Currentzis è pura filologia da questo punto di vista – anche se spesso improvvisazioni e variazioni non sono esattamente in stile settecentesco. 

Anche Romeo Castellucci reintroduce nella pratica teatrale di oggi quella del Settecento, ridando senso teatrale a quella che è spesso la pratica museale di molte esecuzioni moderne. Come scrisse a suo tempo Dino Villatico, le sue messe in scena non sono mai un’illustrazione più o meno avvincente del dramma, ma una sorta di discorso parallelo o sotterraneo che commenta il testo rappresentato. Castellucci si prende la libertà di trasportare sulla scena un’interpretazione che riveli lati nascosti o poco indagati del testo. Il regista italiano è a Salisburgo per la seconda volta dopo la sua Salome del 2018 e affronta un lavoro di Mozart per la terza volta dopo Die Zauberflöte (Bruxelles, 2018) e il Requiem (Aix-en-Provence, 2019). Nel Don Giovanni la vicenda è talmente nota che nella sua lettura Castellucci – che cura come sempre tutti gli aspetti della parte visiva: regia, scenografie, costumi e luci – ne rovescia tutti i meccanismi narrativi grazie alla drammaturgia di Piersandra di Matteo. Qui la solitudine del cavaliere è assoluta, la sua serenata è un numero totalmente solipsistico e nel finale completa la sua autodistruzione, disperatamente cercata fino a quel momento, rimanendo solo e nudo, ricoperto di bianco al pari di una statua classica o come i gessi di Pompei in cui si trasformano anche gli altri personaggi. In questa visione del tutto pessimistica del “dramma giocoso” il regista privilegia il primo termine e nel finale «l’antichissima canzon», intonata dal coro in buca invece che dai personaggi in scena, diventa una cantata che conclude con solennità una tragedia. L’aspetto “giocoso” è affidato alle innumerevoli trovate che costellano lo spettacolo: i figli di Donna Elvira che terrorizzano Don Giovanni; la gag comica che segue il «Lasciar le donne» di Leporello; i sempre diversi outfit con cui si presenta Don Ottavio il cui carattere fatuo e svirilizzato viene evidenziato da travestimenti femminilizzanti al limite del ridicolo, ed eccolo quindi ammiraglio, con annesso modellino di nave radiocomandato e ventaglio di piume, Pierrot con barboncino, crociato etc. Nella sua ansia di stupire il regista riesce a stupire il pubblico quando durante “l’aria dello champagne” tutta l’orchestra viene sollevata in alto con effetto entusiasmante.

La scena fissa rappresenta l’interno di una chiesa che all’inizio, nel silenzio, viene completamente spogliata dei suoi arredi: i banchi, le tele, le statue, l’altare. Nel momento in cui il grande crocifisso viene calato dal muro attacca la musica dell’ouverture. Una capra che attraversa il palcoscenico e una donna nuda che si nasconde dietro i pilastri confermano che quello che rimane è uno spazio “sconsacrato”, non c’è dimensione spirituale in questo dramma tutto esistenziale. Nella sua prima apparizione Don Giovanni entra in scena minacciosamente con un martello in mano, ma non per il Commendatore – quello morrà di un attacco cardiaco – , il martello è per sottolineare la figura iconoclasta del Cavaliere. Ben presto scende un velatino e la garza rende le immagini sfocate, oniriche; tutto è in un bianco abbagliante, i particolari sono poco distinguibili, come avvolti in una nebbia. Leporello sarà l’unico a uscire fuori da questo velatino nel finale: libero dal padrone lo può osservare con distacco attraverso questo diaframma. Don Giovanni e Leporello sono uguali nei vestiti e nei movimenti, l’unica differenza essendo la catena che Leporello porta a mo’ di cintura, quella con la quale il padrone tiene “incatenato” il servo. Loro sono in bianco, Donna Elvira osa qualche colore negli abiti, Donna Anna è in nero, una figura tragica che porta con sé la maschera della tragedia, infatti, e incarna una delle furie («Come furia disperata | ti saprò precipitar») che la accompagnano. E sono furie in nero quelle che come le Baccanti fanno a pezzi il corpo del povero Masetto. Il «Vedrai carino» di Zerlina è infatti rivolto ai pezzi di un manichino, non al martoriato corpo dello sposo: la sessualità è deumanizzata e Don Giovanni sogna il «ristoro» che gli può procurare la bella alla finestra accarezzando una scala di alluminio. L’elemento femminile è presente con una folla di 150 cittadine salisburghesi di ogni età, genere e (dis)abilità, che creano una massa intimidatoria, come il coro giudicante della tragedia greca. Sono ancora i loro corpi, coperti di veli neri, a formare il cimitero del secondo atto. 

La messa in scena di Castellucci non è priva di simbolismi e autocitazioni: il pianoforte che cade dall’alto e si sfascia – ma ancora è possibile strimpellarci sopra le note del basso continuo – o la carrozza nera che perde una ruota quando Don Giovanni capisce che il suo gioco di seduzione con Zerlina viene messo in crisi da Donna Elvira, o il catalogo di Leporello che diventa non una ma due fotocopiatrici, la seconda calata dall’alto come il registratore Revox nel suo Moses und Aron. Altre sono più criptiche, come l’immondizia che riempie il palcoscenico nel finale primo con il vecchio barbuto in bikini a fiori.

Nel suo horror vacui per riempire lo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus, Castellucci affastella gag e oggetti in quantità talora eccessiva, ma nel complesso il suo è uno spettacolo altamente intrigante, anche se non col ritmo che ci aspettiamo dalla folle journée di un libertino. La prima parte è decisamente più riuscita della seconda e bellissimo l’ingresso dei giovani sposi Zerlina e Masetto con le infinite mele che rotolano sul palcoscenico e una di queste ritornerà sull’albero della tentazione. 

Currentzis nella sua concertazione si prende le solite libertà, ma mette in luce particolarità della partitura come i suoni quasi materici e sporchi di certi interventi dei fiati, la trasparenza degli archi e dei legni, l’impeto trascinante dei tempi vivaci, il tono sognante di quelli lenti. Il suo Mozart, come aveva dimostrato col Requiem eseguito a marzo a Torino, è sempre sorprendente e spesso illuminante.

Un Don Giovanni seducente ma interiorizzato è quello di Davide Luciano, lo stesso interprete della produzione originale, che dà prova di grande resistenza – è quasi sempre in scena – e sensibilità: il bel timbro caldo si piega a sottigliezze che raramente abbiamo ascoltato e la presenza scenica è sicura ma non strabordante. Tutti nuovi gli altri interpreti maschili, ma se il Commendatore di Dmitrij Ul’ianov è autorevole fisicamente e vocalmente, Kyle Ketelsen, cantante raffinato e intelligente che è stato il Don Giovanni di Barrie Kosky a Vienna nel 2021, qui è un Leporello un po’ sotto tono e vocalmente spesso coperto dall’orchestra. Anche il Masetto di Ruben Drole non brilla per particolari doti vocali col suo timbro spento. Troppo esangue e poco convinto del ruolo assegnatogli dal regista il Don Ottavio di Julian Prégardien, che risolve eccellentemente le difficoltà della sua prima aria, mentre nella seconda è meno convincente. 

Meglio il reparto femminile, dove Nadežda Pavlova, che tre anni fa aveva avuto qualche incertezza di intonazione, qui dimostra invece grande sicurezza nelle agilità vocali e nella impervia tessitura della parte di Donna Anna di cui privilegia comunque l’elemento belcantistico più che quello tragico, ma così trascina il pubblico che la acclama. Ritorna nella parte di Donna Elvira Federica Lombardi e qui sembra un po’ affaticata pur disegnando una Donna Elvira passionale e decisa, pur non sempre vocalmente controllata. Bene la vivace e luminosa Zerlina di Anna el-Khashem.

Alla fine standing ovation del pubblico. Nella città natale di Mozart non si ha il timore di mettere in scena i suoi capolavori interpretandoli e facendoli diventare uno spettacolo di oggi: choccante e da discutere – come sempre dovrebbe essere il teatro. Anche il teatro musicale.

Don Giovanni

foto © Andrea Ranzi

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Bologna, Comunale Nouveau, 26 maggio 2024

★★★★☆

Don Giovanni, burattinaio a spasso nei secoli

Forse è l’opera di Mozart che ha maggiormente stimolato i metteurs en scène più radicali: da quella “destrutturata” di Dmitrij Černjakov a Aix-en-Provence nel 2010 a quella ancora più recente di Romeo Castellucci a Salisburgo nel 2021, zeppa di simboli non sempre agevolmente decifrabili. 

Risulta quasi una sfida controcorrente quindi quella di mettere in scena in costumi settecenteschi il Don Giovanni da parte di Alessandro Talevi, che a Bologna l’anno scorso aveva ambientato Le nozze di Figaro in epoca moderna e che completerà qui la trilogia dapontiana con il Così fan tutte. Ma la sorpresa non è finita lì: quando, dopo le prime scene, entrano altri personaggi i costumi sono ottocenteschi e dopo ancora moderni!

«Se in quel primo capitolo della trilogia ho voluto dun­que svelare l’eternità delle passioni destinate a non tramontare nel tempo, in Don Giovanni ho deciso di sviluppare ancora di più questo concetto», dice il regista, «tenendo sempre presente che Don Giovanni è un archetipo e di conseguenza si può permettere il lusso di sedurre donne in qualsiasi secolo, attraversando il tempo e lo spazio». Ecco allora un portale passando attraverso il quale il seduttore può andare a spasso nel tempo per sedurre le sue belle. Se Donna Anna e Don Ottavio sono in severi abiti XIX secolo, Zerlina e Masetto vestono abiti cafonal contemporanei mentre lui, Don Giovanni, l’abito lo cambia a seconda dell’epoca. Il massimo si ha durante la festa in casa sua dove alla cacofonia delle tre orchestre in scena si aggiunge quella dei costumi (ideati da Stefania Scaraggi) e delle danze (coreografate da Danilo Rubeca): dietro la coppia in primo piano impegnata in un impeccabile minuetto un’altra coppia si muove sui passi di un tango e a destra gli altri invitati si dimenano in movenze rock. Nella cena finale le vittime di Don Giovanni, che abbiamo visto nei video di Marco Grassivaro dominarne la mente, entreranno dalle finestre, ognuna col suo costume, per condurre il dissoluto “non punito” là dove «c’è un mal peggior».

Ma una seconda forte idea domina la lettura di Talevi di questo “dramma giocoso”. Le relazioni personali in questa vicenda passano tutte solo e soltanto attraverso la figura del Cavaliere, è lui il mediatore unico con cui i vari personaggi si relazionano: Don Giovanni e il Commendatore; Don Giovanni e la coppia Donna Anna/Don Ottavio; Don Giovanni e Donna Elvira; Don Giovanni e la coppia Zerlina/Masetto; Don Giovanni e Leporello. Tra gli altri personaggi non ci sono rapporti particolari, certo a causa delle differenze sociali – di qua i nobili, di là i popolani – ma anche tra i nobili: Donna Anna e Don Ottavio vedono Donna Elvira non come una di loro, ma come una un po’ svitata arrivata dalla lontana Burgos. Insomma, Don Giovanni è il motore e la ragione d’essere degli altri personaggi che gravitano attorno a lui, è un burattinaio che muove e determina le azioni degli altri.

Ecco allora che il “portale del tempo” nel secondo atto si rimpicciolisce per diventare un teatro dei burattini in cui si affacciano in dimensioni ridotte gli altri personaggi. Un’idea non inedita – presente ad esempio nelle produzioni di Robert Carsen a Milano e di Chiara Muti a Torino – ma qui intelligentemente riproposta ed efficacemente realizzata, pur nelle limitazioni logistiche della succursale del Teatro Comunale chiuso per restauri e temporaneamente trasferito nella sala Comunale Nouveau della Fiera, una sala onestamente più adatta alle proiezioni cinematografiche. Un palcoscenico ridotto al minimo delle funzioni ha dettato le esigenze scenografiche che unitamente ai limiti di budget hanno costretto a utilizzare l’impianto scenico de Le nozze dello scorso anno, ossia un insieme di facciate montate su carrelli che formano i vari ambienti richiesti dalla vicenda, come l’esterno su cui si volge il duello col Commendatore o il cimitero dove da un loculo appare il viso dello stesso, defunto. Il tutto abilmente illuminato dalle luci di Teresa Nagel. La regia di Talevi è piena di piccoli sapidi particolari e gesti, sempre correlati alla musica però, con un gusto del teatro e una maestria nell’indirizzare verso una felice interpretazione attoriale e vivace presenza scenica i giovani interpreti che formano un cast omogeneo e di ottimo livello. 

Nella parte del protagonista scende in campo il basso argentino Nahuel di Pierro che dopo aver vestito i panni di Leporello ad Aix-en-Provence nel 2017 ora indossa quelli del padrone. Voce di bella proiezione e ricca di armonici, il suo è un Don Giovanni elegante e nobile, dal carattere un po’ cinico ma senza eccessi. Corretto, insomma, ma non memorabile. Timbro molto simile è quello di Davide Giangregorio, il Masetto della produzione di Livermore a Macerata, qui un Leporello di vivace presenza scenica e grande personalità. Per l’indisposizione di Ol’ga Peretjat’ko è subentrata con breve preavviso la Donna Anna del secondo cast, Valentina Varriale, che ha totalmente conquistato il pubblico con la sua sensibile interpretazione in una parte difficile che passa dai toni drammatici della prima scena al racconto ansimante «Era già alquanto | avanzata la notte» alle agilità della sua ultima aria solistica in risposta alle pressanti richieste dell’impaziente fidanzato, qui un René Barbera in stato di grazia che ha portato in scena uno dei migliori Don Ottavio per eleganza di stile e linea vocale. Molto brava anche Karen Gardeazabal, la Donna Anna di Macerata, tecnica impeccabile e bel fraseggio, ma forse un po’ più di temperamento nella sua Donna Elvira non avrebbe guastato. Efficace è la coppia dei giovani sposi, Zerlina una spumeggiante Eleonora Bellocci, Masetto un sanguigno Nicolò Donini. Il possente e autorevole Commendatore di Abramo Rosolen qualche brivido fra gli spettatori l’ha fatto scorrere.

Dalla stessa produzione de Le nozze di Figaro dell’anno scorso arriva Martijn Dendievel, giovane direttore belga che rifugge dai toni estremi e della partitura dà una lettura fedele, precisa e analitica, ma senza grandi trasporti e con tempi talora fin troppo dilatati – all’ultimo Muti, per intendersi – che trasformano l’Allegretto della serenata di Don Giovanni «Deh vieni alla finestra» in un estenuato Adagio. Qualche guizzo e qualche libertà in più, nelle riprese soprattutto, sarebbero stati graditi. 

Successo cordiale per tutti i fautori dello spettacolo con più insistenti applausi per il Don Ottavio di René Barbera e la Donna Anna di Valentina Varriale che nonostante l’avesse già cantata la sera prima non si è tirata indietro e ha generosamente salvato la recita.

Don Giovanni

Foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Torino, Teatro Regio, 24 novembre 2022

Sei marionette in cerca d’autore

Il teatro musicale di Mozart, e il Don Giovanni in particolare, vivono di un intrigante equilibrio tra apollineo e dionisiaco. Secondo la terminologia introdotta da Nietzsche a proposito della tragedia greca, lo spirito apollineo è ordine e armonia delle forme, la componente razionale; quello dionisiaco ebbrezza ed esaltazione, la componente irrazionale. Il personaggio del libertino Don Giovanni è la massima sintesi della forza vitale e dell’istinto al piacere costretti nelle maglie delle convenzioni della società, che così si salva però dall’autodistruzione.

Non c’è nulla di più adatto della musica per esprimere questa dicotomia e la musica del Don Giovanni, pur nella sua veste settecentesca, lascia trapelare momenti di inquietudine e baluginii infernali sotto la spinta di un affanno ritmico incessante e vitalistico. Di questo non c’è molto nella concertazione di Riccardo Muti, che per il secondo anno consecutivo torna al Regio di Torino per il Mozart dapontiano dopo il Così fan tutte del febbraio 2021. L’equilibrio qui pende verso lo spirito apollineo: i tempi sono dilatati, la tensione è attenuata, anche le dissonanze sembrano risolversi. La scelta interpretativa del Maestro è una distaccata contemplazione della vita e della morte e si deve cercare nelle ombre della sua lettura, rifinita come un marmo canoviano, i guizzi dell’iconoclastica figura di Don Giovanni. L’atmosfera non lascia posto alle pulsioni demoniache, il suono è sempre leggero, il lavoro dell’orchestra è perfettamente cesellato, i contrasti sono attenuati, il fraseggio morbido. Il vitalismo del personaggio eponimo si è perso un po’ per strada a favore di una visione meditata e profonda, più filosofica. Per contro i recitativi sono molto espressivi, addirittura fin troppo recitati, come anche l’impianto interpretativo e registico di Chiara Muti, la quale sembra voler ricreare, fuori tempo però, uno spettacolo strehleriano con molte idee, forse troppe anche loro.

Quella di base, non originalissima perché già presente in altre produzioni come ad esempio di Carsen, è l’idea che Don Giovanni sia il motore e la ragione d’essere degli altri personaggi che gravitano attorno a lui come pianeti attorno a una stella e che senza di lui non esistono. Qui l’assunto è ancora più forte: i sei personaggi – tre donne (due nobili e una del popolo: Donna Anna, Donna Elvira, Zerlina) e tre uomini (un nobile e due del popolo: Don Ottavio, Leporello, Masetto) – vivono di esclusivo riflesso del donnaiolo: si presentano con movenze da marionetta e solo dopo aver indossato i costumi che calano dall’alto assumono la loro umanità. Nel finale rimarranno nudi e come automi senza vita. Il cimitero del secondo atto è un deposito di burattini e tra questi c’è anche quello del Commendatore la cui testa si inclina, per rispondere all’invito a cena di Don Giovanni, perché manovrata da un filo.

Figura di empio nel Seicento, libertino settecentesco, inquieto romantico ottocentesco, moderno alfiere della libertà, Don Giovanni è un personaggio buono per tutti i tempi. Così anche i bei costumi di Tommaso Lagattolla: Donna Anna è abbigliata come una dama alla corte di Luigi XIV; Elvira una nobile della Belle Époque; Zerlina una giovane degli anni 1950 e durante l’aria del catalogo di Leporello le donne elencate appaiono in carne e ossa, «ombre del rimorso di Don Giovanni, o meglio quello che vanno cercando invano torturandosi senza pace», scrive nelle sue note di regia la figlia del Maestro, in costumi di tutte le possibili epoche, «a testimonianza della demoniaca longevità del loro carnefice».

Il tono dell’allestimento è tra l’onirico e il funereo e nella scenografia di Alessandro Camera teli dipinti di facciate architettoniche e di quinte teatrali sghembe formano un mondo in bianco e nero in rovina, percorso da crepe e botole che sembrano tombe. Si direbbe che la scena rappresenti sempre un cimitero, eccetto quando lo deve rappresentare davvero e allora, ruotando, il pendio mostra il triste deposito di burattini. I personaggi sono molto connotati individualmente: gelida è Donna Anna, al limite dell’isterico Donna Elvira, vispa e sensuale Zerlina, realistico e terreno Leporello, nobile e tutt’altro che fatuo Don Ottavio, fresco e sanguigno Masetto. Più complesso e sfuggente  il personaggio del Commendatore, quasi alter-ego di Don Giovanni, o meglio la sua parte “buona” che il libertino vuole far tacere. Il padre di Donna Anna è dunque quasi immateriale: non lascia il suo corpo riverso alla fine della scena prima, ma solo il mantello e nel finale è un’ombra, la sua voce arriva fuori scena, con il cantante nella buca dell’orchestra.

La produzione è stata funestata da impreviste indisposizioni degli interpreti e la sera del 24 novembre il Don Giovanni titolare, Luca Micheletti, è stato sostituito all’ultimissimo momento da Vito Priante che, conoscendo la parte, ha potuto venire in aiuto e ha fatto miracoli nell’adattarsi velocemente al non sempre immediato impianto registico. Sulla resa vocale, per quel che è lecito dire in un caso come questo, il baritono partenopeo ha confermato la sua innegabile professionalità. Ma il rischio che lo spettacolo saltasse è stato alto quando anche l’interprete di Don Ottavio si è ammalato, ma dobbiamo ringraziare la generosità di Giovanni Sala nel non essersi tirato indietro e di essere andato in scena in condizioni precarie pur di salvare la serata e gliene siamo molto grati. La sua performance è stata molto comprensibilmente sotto tono ma nel complesso accettabile. Chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo in piena forma ne ha ammirato le qualità vocali e interpretative.

Jacquelyn Wagner ha delineato una nobile e algida Donna Anna dalla pura linea vocale. Non del tutto in parte è sembrata Mariangela Sicilia come Donna Elvira in un registro non del tutto adatto alla sua vocalità. Molto bene il Leporello di Alessandro Luongo e il Masetto di Leon Košavić. La Zerlina di Francesca di Sauro è all’inizio troppo forte, ma si riscatta pienamente nel delizioso «Batti, batti, o bel Masetto» mentre Riccardo Zanellato presta al Commendatore una voce insolitamente chiara nel registro grave. La versione scelta è, come sempre più spesso accade, quella di Praga con l’aggiunta irrinunciabile delle due stupende arie di Don Ottavio «Dalla sua pace» e di Donna Elvira «Mi tradì quell’alma ingrata» di Vienna.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo coerente in tutti i suoi aspetti, insolito in certi elementi, ma di certo non trascinante: l’esecuzione ideale per chi volesse studiare quest’opera senza lasciarsi distrarre da letture più coinvolgenti. Il pubblico, numerosissimo, ha decretato il trionfo di questa produzione ­– tutte le sei recite sono sold out – con applausi calorosi ed ovazioni per il Maestro Muti.

bozzetto della scenografia di Andrea Camera

Don Giovanni

 

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

★★★☆☆

Vienne, Staatsoper, 6 décembre 2021

 Qui la versione italiana

(streaming en directe)

Don Giovanni à l’Opéra de Vienne : Ombres et lumières dans le Mozart de Kosky

La vidéo s’attarde sur les rangées de sièges et les loges désespérément vides de la Staatsoper Vienne où Don Giovanni est joué sans public à la suite d’une épidémie de Covid-19 en Autriche. Pourtant, il y a quelques mois à peine, les salles se remplissaient à nouveau d’un public masqué à l’intérieur, sans masque à l’extérieur…

Autre motif de déception, la scénographie qui nous est présentée au lever du rideau : Katrin Lea Tag a choisi une pente rocheuse de lave noire qui serait parfaitement adaptée à Die Walküre ou En attendant Godot. L’idée que ce décor, qu’il est difficile de qualifier d’ « agréable », sera unique  pendant toute la durée d’une représentation de trois heures a un effet décourageant. Et il sera unique, en effet, avec juste quelques petites variations : il deviendra le pré de Z la Fourmi pour la fête du chevalier…

la suite sur premiereloge-opera.com

Don Giovanni

 

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Vienna, Staatsoper, 6 dicembre 2021

★★★☆☆

bandiera francese.jpg Ici la version française

(diretta streaming)

Luci e ombre nel Mozart di Kosky

La ripresa video indugia sulle file di poltrone e sui palchi desolatamente vuoti della Staatsoper di Vienna: Don Giovanni viene rappresentato senza pubblico in seguito alla recrudescenza di infezioni da Covid-19 in Austria. Eppure solo pochi mesi fa si era ritornati a riempire i teatri con le mascherine al chiuso e senza all’aperto.

Un altro motivo di delusione è la scenografia che ci si presenta ad apertura del sipario: Katrin Lea Tag ha scelto un pendio roccioso di nera lava che non sfigurerebbero in Die Walküre o En attendant Godot. L’idea che questa ambientazione, che è difficile definire piacevole, sarà la scena fissa per tutte le tre ore di spettacolo ha un effetto sconfortante. E fissa sarà, infatti, con piccole varianti: diventerà il prato di Z la formica per la festa del cavaliere; ospiterà una specie di albero/concrezione per la scena di Donna Elvira alla finestra nel secondo atto; avrà una pozza di acqua come tomba del Commendatore. Le pietre sono dominanti: con i sassi viene ucciso il Commendatore e un sasso è la sua effigie tombale; sassi sono le armi di Masetto e ancora sassi le prelibatezze dell’ultima cena di Don Giovanni. Se il colore lavico domina nella scenografia, la stessa Katrin Lea Tag non si risparmia invece sui colori e sulle fantasie floreali degli abiti dei personaggi, tutti neo-hippie tranne Don Ottavio, nel suo completo color sabbia, e Leporello, coatto punk dagli occhi bistrati e con le unghie smaltate, di nero of course.

Si è già capito che l’ambientazione è contemporanea, ma il regista affronta la vicenda in modo nel complesso tradizionale. Dopo una serie praticamente ininterrotta di allestimenti di successo, sempre originali, spesso geniali, questa volta Kosky sembra inciampare in questo Mozart – tra l’altro anche il suo approccio a Die Zauberflöte non era stato pienamente convincente. Chi si aspettava una lettura inedita rimarrà deluso, così come chi pensava alle trovate spassose a cui ci ha abituato il regista australiano. Il senso di freddezza che dà il suo spettacolo non è soltanto dovuto alla mancanza di pubblico.

Del cast vocale si può dire che nel complesso è “interessante”. Il basso-baritono americano Kyle Ketelsen (Leporello a Londra nel 2008)  lo ricordavamo per la grande presenza scenica e la intrigante espressività. Alle prese con la vocalità mozartiana vengono a galla alcune incertezze di intonazione e un registro basso non molto sonoro. È fatta salva comunque la convincente definizione del personaggio, carico di un’energia che solo un attacco di cuore riesce a spegnere – è così infatti che muore il Cavaliere dopo la fatale stretta di mano con il Commendatore e anche lui dopo la morte si alza e lascia il palcoscenico come un fantasma. Sia lui che il Commendatore sono immortali, il primo per punire il peccatore, il secondo per continuare il suo ruolo di figura dionisiaca in equilibrio tra eros e thanatos.

Con Leporello Don Giovanni ha un rapporto da padrone col suo servo/cane, i due si completano a vicenda, si scambiano i costumi, litigano insieme, ridono insieme, imbrogliano insieme, si sballano insieme e il servo ogni tanto riceve uno schiaffo dal padrone. Nell’aria dello champagne Leporello è una marionetta nelle sue mani, ma non di rado si appoggia sul petto paterno del padrone. Alla fine dell’opera Leporello, di nuovo in felpa con cappuccio seduto su una roccia, è in attesa di un nuovo padrone, siamo al punto di partenza. Il “fantasma” del risorto Don Giovanni, mentre si allontana, lancia uno sguardo d’addio ai compagni e posa una mano teneramente sulla testa di Leporello. Con un solo gesto prova quanto fosse forte il loro legame. Ma all’inizio il risentimento del servo in attesa che Don Giovanni se la spassi con le sue donne ha toni insolitamente rabbiosi e realistici, ben caratterizzati da Philippe Sly (Don Giovanni ad Aix-en-Provence nel 2017) che, accanto a sorprendenti doti acrobatiche, dimostra anche nella voce sicurezza e agilità. Elvira qui non è una furia isterica, è una donna irrimediabilmente innamorata che non si arrende mai: «Mi tradì quell’alma ingrata» è cantata la prima volta con incredulità e solo la seconda volta, come dopo aver preso coscienza, Kate Lindsey emette un lamento rabbioso. Interprete che ha spaziato da Monteverdi all’opera contemporanea, il soprano americano affronta il personaggio con grande partecipazione, ma la vocalità non è esattamente belcantistica e se si ammira il temperamento, la linea vocale non risulta delle meglio definite. La Donna Anna di Hanna-Elisabeth Müller ha un che di acido nel timbro e come personaggio proprio non lega con Don Ottavio, qui un Stanislas de Barbeyrac più eroico che lirico e non sempre a suo agio nelle agilità. I loro rapporti sembrano labili, se non tesi, fin dal primo momento e nessuno scommetterebbe sulla loro unione coniugale. Il Commendatore di Ain Anger non manca di autorevolezza malgrado un evidente affaticamento vocale. Molto meglio la Zerlina di Patricia Nolz, bella, seducente e dalla voce incantevole, e il Masetto molto ben caratterizzato di Peter Kellner.

Il direttore musicale del teatro Philippe Jordan inizia bene, con una sinfonia travolgente ma precisamente concertata, poi talora la drammaticità ha il sopravvento su quanto avviene in scena e le voci sono spesso coperte dall’orchestra o messe in difficoltà dai tempi veloci. Molto belli in compenso i recitativi, naturali e con pause significativamente teatrali. La versione scelta è quella di Vienna ma manca il duetto Leporello-Zerlina del secondo atto e c’è il finale di Praga.

Questo è il debutto nel teatro viennese di Barrie Kosky ed è anche il primo approccio alla trilogia dapontiana che completerà con Le nozze di Figaro e Così fan tutte nelle prossime stagioni. Nel frattempo dal 13 dicembre il teatro dovrebbe riaprire col pubblico presente.

Don Giovanni


Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 7 agosto 2021

★★★★★

(video streaming)

«Chi son io tu non saprai»: il Don Giovanni di Currentzis e Castellucci

Il Festival di Salisburgo nel 2020 ha compiuto 100 anni, ma solo quest’anno, per le note ragioni, ha potuto festeggiarli e come spettacolo di punta non ha il timore di presentare questa particolare lettura del Don Giovanni di Mozart da parte di Teodor Currentzis alla testa della sua musicAeterna Orchestra e di Romeo Castellucci che firma regia, scene, luci e costumi. L’interpretazione musicale e drammaturgica qui si sono dimostrate un tutt’uno in uno spettacolo sconvolgente, choccante e discutibile, come sempre dovrebbe essere il teatro.

La versione scelta da Currentzis è quella di Vienna senza il duetto Zerlina-Leporello del secondo atto, «Per queste tue manine», ma col finale di Praga. Tra i numeri mozartiani sono inserite altre musiche, particolarmente lunghe quelle che precedono la scena del cimitero. Dopo aver abbassato il diapason a 430, le scelte dinamiche del direttore greco-russo sono portate all’estremo, con recitativi molto “recitati” e con lunghe pause, ma la loro dilatazione ha un corrispettivo con le dilatazioni visuali adottate dal regista. Le arie che seguono hanno un attacco repentino, molte variazioni nelle riprese e improvvisazioni al pianoforte. In questo Currentzis non fa che riattivare una pratica musicale del tempo di Mozart: altro che provocazione, quella di Currentzis è pura filologia da questo punto di vista, anche se spesso improvvisazioni e variazioni non sono esattamente in stile settecentesco.

Anche Castellucci reintroduce nella pratica teatrale di oggi quella del Settecento, ridando senso teatrale a quella che è spesso la pratica museale di molte esecuzioni moderne. Come scrive Dino Villatico nel suo imprescindibile articolo su “Gli stati generali”: «Le sue messe in scena non sono mai un’illustrazione più o meno avvincente del dramma, ma sono sempre una sorta di discorso parallelo o sotterraneo che commentano il testo rappresentato. Del resto anche il Don Giovanni letto da Kirkegaard non è quello di Mozart, ma quello di Kirkegaard. Castellucci si prende la stessa libertà: ma trasporta sulla scena, invece che sulla pagina, un’interpretazione, che riveli lati nascosti o poco indagati del testo».

Castellucci è a Salisburgo per la seconda volta dopo la sua Salome del 2018 e affronta un lavoro di Mozart per la terza volta dopo Die Zauberflöte (Bruxelles, 2018) e Requiem (Aix-en-Provence, 2019). Nel Don Giovanni la vicenda è talmente nota che nella sua lettura il regista italiano ne rovescia tutti i meccanismi narrativi grazie alla drammaturgia di Piersandra di Matteo. Qui la solitudine del cavaliere è assoluta, la sua serenata è un numero totalmente solipsistico e nel finale completa la sua autodistruzione, disperatamente cercata fino a quel momento, rimanendo solo e nudo, ricoperto di bianco al pari di una statua classica o come i gessi di Pompei in cui si trasformano anche gli altri personaggi. In questa visione del tutto pessimistica del “dramma giocoso” il regista privilegia il primo termine: non c’è nulla di gioioso nella sua lettura e «l’antichissima canzon» intonata dal coro fuori scena alla fine diventa una cantata che conclude con solennità una tragedia.

La scena rappresenta l’interno di una chiesa che viene completamente svuotata e rimane uno spazio “sconsacrato”, non c’è spazio per la dimensione spirituale in questo dramma tutto esistenziale. Una garza rende le immagini sfocate, oniriche. Tutto è in un bianco abbagliante, i particolari sono poco distinguibili, come avvolti in una nebbia. Leporello sarà l’unico a uscire fuori da questo velatino nel finale: libero dal padrone lo può osservare con distacco attraverso un diaframma. Don Giovanni e Leporello sono uguali: l’unica differenza è la catena che Leporello porta a mo’ di cintura, quella con la quale il padrone tiene “incatenato” il servo. Donna Anna è in nero, gli occhi sono senza iride, come nei fantasmi dei film horror e la donna incarna una delle furie («Come furia disperata | ti saprò precipitar») che la accompagnano. Solo Donna Elvira osa qualche colore negli abiti, mentre Don Ottavio evidenzia il suo carattere fatuo e svirilizzato cambiando outfit ogni volta – ammiraglio, esploratore polare norvegese, crociato – in una serie di travestimenti femminilizzanti al limite del ridicolo. Zerlina ha un alter ego nudo per sottolineare la componente erotica del suo personaggio, ma il suo «Vedrai carino» è rivolto ai pezzi di un manichino, non al martoriato corpo dello sposo: la sessualità qui è sempre deumanizzata e Don Giovanni sogna il «ristoro» che gli può procurare la bella alla finestra accarezzando una scala di alluminio. Il «Lasciar le donne» di Don Giovanni è una lunga gag e l’elemento femminile è spesso presente come una folla di donne (150 cittadine salisburghesi) di ogni età, genere e (dis)abilità, fino a creare una massa intimidatoria come il coro giudicante della tragedia greca. Sono ancora i loro corpi, coperti di veli neri, a formare il cimitero del secondo atto.

La messa in scena di Castellucci non è priva di simbolismi e autocitazioni: il pianoforte che cade dall’alto e si sfascia – ma ancora è possibile strimpellarci sopra le note del basso continuo – o l’automobile, o il catalogo di Leporello che ironicamente diventa non una ma due fotocopiatrici, la seconda calata dall’alto come il registratore Revox nel suo Moses und Aron. Altre sono più criptiche, come l’immondizia che riempie il palcoscenico nel finale primo, ma nel complesso il suo è uno spettacolo altamente intrigante, anche se certo non col ritmo che ci aspettiamo dalla folle journée di un libertino.

Altrettanto sorprendente è la performance vocale dei solisti, ognuno a modo suo efficace, soprattutto il terzetto degli interpreti maschili. Un Don Giovanni seducente ma interiorizzato è quello di Davide Luciano che dà prova di grande resistenza – è pressoché sempre in scena – e sensibilità: il bel timbro caldo si piega a sottigliezze che raramente abbiamo ascoltato in altri seduttori canterini. Vito Priante non ha mai esibito una particolare verve scenica, ma tanto qui non è richiesta e può fare quindi a meno dei lazzi di maniera per fornire una prova solida in una parte da lui già proficuamente frequentata. Non solo nell’abito, nel timbro e nel colore della voce, anche le fattezze fisiche del servitore sono molto simili a quelle del padrone. Oltre ogni encomio è il Don Ottavio di Michael Spyres, che infonde nuova bellezza ai suoi due ineffabili interventi tenorili pòrti con uno stile e un’eleganza ineguagliabili. Al Masetto di David Steffens manca solo una dizione più precisa per essere più convincente mentre Mika Kares è al solito autorevole come Commendatore. Molto diverse le due donne: Nadežda Pavlova, nonostante qualche incertezza di intonazione, delinea una Donna Anna di grande intensità drammatica; la Donna Elvira di Federica Lombardi è maggiormente passionale e vocalmente talora meno controllata. Anna Lucia Richter è una credibile ed espressiva Zerlina, ragazza che porta ancora sul volto i lividi della collutazione con l’uomo che ha cercato di farle violenza – immagine di cui siamo purtroppo testimoni ogni giorno.

«Povero Mozart»? Nella sua città natale non si ha il timore di mettere in scena i suoi capolavori interpretandoli e facendoli diventare uno spettacolo di oggi: choccante e da discutere, come sempre dovrebbe essere il teatro contemporaneo – sì anche e soprattutto il teatro musicale: il melodramma è nato come teatro, non dimentichiamolo. Ma è una cosa difficile da far digerire al sud delle Alpi in cui domina il conformismo culturale e tutto ciò che è diverso da quello a cui siamo abituati viene sdegnosamente rifiutato.

La registrazione dello spettacolo è disponibile fino al 5 novembre sul sito di ARTE Concert.

Don Giovanni

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Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

★★★☆☆

Zurigo, Opernhaus, 2001

(registrazione video)

Don Giovanni risorto

Nikolaus Harnoncourt torna per la seconda volta a Zurigo col Don Giovanni – la prima volta era stata nel 1987 con l’allestimento di Ponnelle – e stupisce e divide i giudizi con la sua scelta delle agogiche: «Là ci darem la mano» ha un andamento ipnotico con i suoi tempi dilatatissimi, altrove questi diventano furiosi, come nell'”aria dello champagne”. I dettagli orchestrali e timbrici sono studiatissimi, ma a scapito del disegno d’insieme. Harnoncourt sceglie la versione di Vienna col finalele di Praga e senza l’aria di Leporello «Per queste tue manine» nel secondo atto. Con questo Don Giovanni il Maestro austriaco completa la trilogia dapontiana coJürgen Flimm a Zurigo (Le nozze di Figaro 1996, Così fan tutte 2000).

Il cast è nettamente dominato da Cecilia Bartoli che debutta nella parte di Donna Elvira lasciandosi dietro tutti gli altri per «l’accento che scolpisce ogni parola estraendo nella doppia valenza musicale e teatrale, mentre nella frase varia colore, spessore, dinamiche e intensità con musicalità strepitosa e ancor più strepitosa immediatezza espressiva, a fare il blocco col fenomenale gioco scenico» (Elvio Giudici). Basti l’esempio della scena del catalogo con quel misto di ripugnanza e curiosità con cui Elvira sbircia l’elenco che Leporello le pone crudelmente sotto gli occhi fino a che strappa la pagina con il suo nome. Per una volta le smorfie della cantante sottolineano il carattere temperamentale ed esasperato del personaggio.

Rodney Gilfrey è un Don Giovanni fascinoso, alto, dal portamento nobile, sguardo magnetico, sorriso sornione. Grande attore, come cantante si prende alcune libertà come nelle variazioni della canzonetta-serenata, ma la voce chiara e i colori sempre cangianti che riesce a esprimere ne fanno un personaggio di grande efficacia. László Polgár è un Leporello sanguigno dalla voce cavernosa, ben più scura di quella del suo padrone. Inespressivo come attore e tutto compiaciuto del suo canto fiorito è Roberto Saccà, che delinea un Don Ottavio esangue. Al suo fianco è la donna Anna un po’ lagnosa di Isabel Rey. Deliziosa la Zerlina di Liliana Kitineanu che non si merita quello zotico, in tutti i sensi, Masetto di Oliver Widmer. Matti Salminen è un autorevole Commendatore.

Lo spettacolo di Jürgen Flimm realizza tutte le intenzioni del libretto con una narrazione lineare e un’ambientazione senza tempo anche nei costumi. La scenografia di Erich Wonder utilizza una struttura rotante che comprende anche la scaffalatura per l’erezione del monumento al Commendatore disegnato da Don Ottavio qui nelle vesti di architetto. La regia si perde spesso in controscene inutili come gli incontri di Don Giovanni con fanciulle sul fondo durante la scena del catalogo, o l’andirivieni di tavole e sedie per il matrimonio di Zerlina e Masetto e poi per la festa dal Cavaliere. La cameriera di Donna Elvira, nuovo bersaglio dell’impenitente, si spoglia alla finestra e la vedremo nuovamente alla fine dopo la “morte” del dissoluto: le fiamme infernali sembrano averne avuto la meglio, ma nell’ultima scena i personaggi rimasti si trovano in proscenio seduti e con un libretto rosso in mano a leggere la morale della storia mentre dietro ricompare, più vivo che mai, il Nostro abbracciato alla fanciulla, questa volta in rosso vestita, sul fondo di una fotografia con automobile. Sì Don Giovanni è eterno.

Di questi momenti un po’ didascalici la lettura di Flimm non fa risparmio ed è questo l’elemento meno convincente della produzione.

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L’empio punito

Alessandro Melani, L’empio punito

★★★☆☆

Roma, Teatro di Villa Torlonia, 2 ottobre 2019

(registrazione video)

Il mondo frammentato del primo Don Giovanni in musica

Don Giovanni compie quattrocento anni. Nel 1625 appare sulle scene di Napoli, allora sotto la dominazione spagnola, El burlador de Sevilla y convidado de piedra dramma che Tirso de Molina aveva scritto nel 1619. «Nel Burlador i tratti tipici del teatro spagnolo del tempo (assenza di unità di tempo, luogo e azione, commistione dei generi, carattere romanzesco e fantastico della vicenda) sono rappresentati, per così dire, alla perfezione. Nell’archetipo tirsiano, del resto, sono presenti più o meno tutti gli elementi che ritroveremo un secolo e mezzo dopo nel più celebre libretto di tutti i tempi, quel capolavoro assoluto della letteratura europea che è il Don Giovanni di Lorenzo da Ponte messo in musica da Mozart: Il servo Catalinón, tendenzialmente pavido e sempre affamato, che critica e al tempo stesso ammira la vita del padrone; le dame e le ragazze del popolo (due per ciascuna categoria) sedotte da Don Juan; l’assassinio del padre di una delle due giovani nobili che Don Juan ha posseduto con l’inganno; l’apparizione della sua statua, l’invito a cena, la tragica fine di Don Juan. E naturalmente c’è lui, Don Juan, spinto da una insaziabile sete di possedere donne di qualsiasi condizione, in una sorta di infinita coazione a ripetere nella quale eros e puro e semplice desiderio di sopraffazione sembrano eternamente convivere». (Danilo Prefumo)

Il primo a mettere in musica la vicenda del Burlador è Alessandro Melani e la creazione fu il momento più alto della sua carriera di compositore. Il dramma di Tirso de Molina era stato tradotto in italiano prima da Giacinto Andrea Cicognini, il maggior commediografo del tempo, poi da Filippo Acciaioli, anche lui specialista del teatro spagnolo, e infine versificato da Giovanni Filippo Apolloni. Il libretto originale non ha l’indicazione degli autori, nel frontespizio si legge infatti: “L’empio punito | dramma musicale del signor N.N. | fatta [sic] rappresentare dal medesimo in Roma l’anno 1669” e la vicenda narrata non ha la prevedibile ambientazione – nel dramma di Tirso de Molina passiamo da Napoli alla Spagna della contemporaneità dell’autore – essendo la storia trasportata in una cornice neoclassica alla corte macedone di un re di fantasia, Atrace. Rispetto al testo tirsiano l’Acciaioli si prende molte libertà aggiungendo scene, come la “morte e risurrezione” del protagonista, e personaggi, come la matura Delfa, dai forti appetiti sessuali e impegnata in schermaglie amorose col servo Bibi. Meno libertà si prenderà Da Ponte. (1)

Per 350 anni L’empio punito è rimasto pressoché sconosciuto e mai più rappresentato. Poi a distanza di pochi giorni viene messo in scena in due diverse produzioni, una a Roma e l’altra a Pisa

L’occasione per riproporre il titolo del Melani è del Reate Festival e la sede è l’ottocentesco Teatro di Villa Torlonia il cui palcoscenico ospita le scene di Michele della Cioppa e gli eleganti costumi disegnati da Anna Biagiotti, capo servizio sartoria dell’Opera di Roma. Cesare Scarton si occupa della regia. L’impianto scenografico comprende pedane sbilenche che formano il mondo frammentato di una amoralità che spezza le regole e manda in pezzi «l’immagine che rifletteva un mondo dotato di propria apparente coerenza, logica ed armonia», dice il regista. Nonostante lo scorrere di quinte informi e di alcune pedane semoventi la scena rimane monotona e con un gioco di luci quasi fisse. L’ambiente moderno scelto rende più vivi i personaggi ed ecco quindi Bibi, il servo che anela a copiare il padrone nelle avventure amorose, qui il disinibito Giacomo Nanni che non esita a fare una specie di spogliarello nel finale per conquistare definitivamente la matura Delfa, il tenore en travesti Alessio Tosi dalla simpatica presenza. Il personaggio eponimo qui è affidato a un baritono, il vocalmente autorevole ma forse troppo misurato Mauro Borgioni. Delle sue vittime femminili ricordiamo almeno la bella voce dell’Ipomene di Michela Guarrera. Il cast non si rivela comunque tra i più memorabili.

Alessandro Quarta dà vivacità a una partitura che strumentalmente non sembra avere molto da offrire opera consistenti tagli. Sia sulla scena che nella buca orchestrale non c’è una grande ricerca di colori e sfumature e il livello sonoro rimane costantemente sul forte, o per lo meno così sembra dalla registrazione audio che non corregge la cattiva acustica del teatro.

1) I personaggi principali de L’empio punito (A) hanno le seguenti vaghe corrispondenze con il Burlador di Tirso de Molina (B) e il Don Giovanni di Lorenzo da Ponte (C):
      A                            B                                    C
Acrimante         Don Juan                      DonGiovanni
Bibi                     Catalinón                      Leporello
Atamira             Doña Ana                     Donn’Elvira
Ipomene            Isabela                          Donn’Anna
Cloridoro           Duque Octavio            Don Ottavio
Tidemo              Don Gonzalo                Commendatore
Nell’Empio mancano i personaggi di Masetto e Zerlina, presenti invece nel Burlador come Batricio e Arminta.

Don Giovanni

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Barcelone, Gran Teatre del Liceu, 22 octobre 2020

★★★★☆

(live streaming)

Qui la versione italiana

Don Juan a vieilli !

Un Don Giovanni en costumes d’époque ? Oui, mais avec les implications psychologiques fascinantes auxquelles Christof Loy nous a habitués.  Il s’agit ici d’une production de l’Opéra de Francfort, enregistrée par le Liceu à la fin des représentations, alors que le théâtre devait  fermer en raison de l’urgence sanitaire. C’est la première représentation de la nouvelle saison du Liceu.

La narration de Loy est claire et fidèle au texte, les vêtements sont d’époque, il y a des épées, le catalogue de Leporello, le panache blanc de Don Giovanni…

la suite sur premiereloge-opera.com