Mese: Maggio 2025

Paolo Ventura

Paolo Ventura

Torino, Galleria Marcorossi, 22 maggio 2025

Il teatro della vita

Intrigante la commistione tra pittura e fotografia (in questo caso staged photography) di Paolo Ventura. Il gallerista Marco Rossi gli dedica una mostra triplice che, in contemporanea e fino al 20 luglio in tre delle sue quattro sedi (Milano, Verona e Torino), presenta per la prima volta al pubblico il suo ultimo ciclo di opere.

Il titolo dell’esposizione, Il teatro della vita, evidenzia il tema di fondo del mondo dell’artista milanese che immortala con la sua macchina fotografica dei teatrini che narrano spesso una storia – Winter Stories, L’automa, Civil War, Lo zuavo scomparso, Il suonatore di trombone sono alcuni dei titoli dei suoi cicli. La fascinazione per il circo, i clown, i prestigiatori e il teatro di strada lo ha portato a collaborare nel 2015 con la Lyric opera di Chicago e la Houston Grand Opera per Carousel il musical di Rodgers & Hammerstein e con il Teatro Regio di Torino per Pagliacci (2017) e Cavalleria rusticana (2019).

A un teatro intimo e simbolico è riferito il ciclo Der Sturm, architetture urbane o domestiche popolate da marionette realizzate dall’artista stesso che si organizzano in tableaux vivants densi di riferimenti alla pittura e al cinema del primo Novecento e che fanno riflettere sui temi della maschera e dell’identità.

À bas Guillaume, ispirato al mancato incontro tra Ungaretti e Apollinaire nella Parigi del primo dopo guerra, è occasione per visualizzare atmosfere della capitale francese surreali, enigmatiche e dense di evocazioni storiche e letterarie.

I lavori più recenti di Ventura sono costituiti da collages fotografici di paesaggi urbani svuotati dalla pandemia di Covid e reinventati come scenografie sospese in un sottile equilibrio tra sogno e realtà, memoria e finzione.

Solness

foto © Luigi de Palma

da Henrik Ibsen, Il costruttore Solness

Regia di Kriszta Székely

Torino, Teatro Carignano, 27 maggio 2025

Ascesa e rovina di un costruttore d’anime

Bygmester Solness (Il maestro costruttore Solness, 1892) è uno dei lavori più significativi di Henrik Ibsen, con evidenti elementi autobiografici: la relazione tra il maturo Halvard Solness e la giovane Hilda Wangel riprendeva quella tra il drammaturgo norvegese e la diciottenne Emilie Bardach conosciuta durante una vacanza. Nel personaggio di Solness, poi, Ibsen fa un parallelo con la sua situazione di “maestro drammaturgo” e le conseguenze sulla sua vita. Il finale tragico della vicenda è invece tratto dalla storia dell’architetto della chiesa di San Michele, a Monaco, che si era gettato dalla torre appena terminata. Ibsen prese questa storia come prova che un uomo non possa raggiungere il successo senza pagarne un prezzo.

Halvard Solness, costruttore di mezza età, è diventato un architetto affermato. Ha uno studio dove lavorano l’ex architetto Knut Brovik, suo figlio Ragnar, di cui Solness ostacola le ambizioni, e Kaia, la sua assistente. Solness ha un matrimonio difficile con Aline, segnato dalla perdita dei figli. Un giorno riceve la visita di Hilda Wangel, una giovane che sostiene di averlo conosciuto dieci anni prima, quando lui le fece promesse romantiche. Solness la accoglie in casa. Hilda lo sprona a superare la sua paura delle altezze: durante l’inaugurazione di una torre, Solness cade e muore. Hilda lo acclama come suo “Maestro Costruttore”.

La regista ungherese Kriszta Székely ritorna ancora una volta a Ibsen di cui aveva messo in scena Casa di bambola Hedda Gabler. L’adattamento di Ármin Szabó-Székely fa del Solness una vicenda immersa nella contemporaneità, dove si dibattono temi quali lo scontro generazionale, il maschilismo e la misoginia, la nostalgia per il passato, il venir meno della forza fisica nell’inesorabile scorrere degli anni e il desiderio di una nuova occasione di felicità. Il tutto inserito nella riflessione sul rapporto fra creazione artistica e vita reale.

Con le scene di Botond Devich entriamo in un ambiente minimale: una piattaforma isola gli attori che entrano dai lati dopo aver cambiato costume a vista. Un tavolo con sedie per lo studio dell’archistar a sinistra, un grande modello illuminato di una villa in stile moderno a destra. Le luci di Pasquale Mari e i costumi di Ildi Tihanyi connotano l’essenzialità della ricostruzione contemporanea. Tutto è affidato alla recitazione, strabordante ma efficacissima quella di Valerio Binasco che delinea un arrogante e antipatico Halvard Solness di cui scopriamo poco per volta le debolezze, le paure, i risentimenti; Mariangela Granelli è la dolente moglie torturata dai rimorsi e prigioniera di un passato segnato dal dolore; Alice Fazzi è la giovane Hilde Wange che spunta dal nulla dopo dieci anni a riscuotere quanto promessole quando aveva quattordici anni; Marcello Spinetta è il giovane Ragnar Brovik incapace di emanciparsi cercando una sua strada per affermarsi nella professione; Lisa Lendaro la devota Kaja Fosli innamorata del suo datore di lavoro; Simone Luglio è il dottor Herdal, psicanalista – Sigmund Freud stava sviluppando le sue teorie dell’inconscio ai tempi della scrittura del testo.

Invenzione della regista è l’aver fatto diventare una donna Knut Brovik, il vecchio architetto alla cui ombra si è formato Solness e ora alle sue dipendenze, un’occasione per ammirare l’esperienza recitativa di Laura Curino. In questa rete di relazioni centrate sul protagonista e messe a nudo dalla regista che sottolinea la loro natura irrisolta con un linguaggio teso e intensi silenzi, sono tutti eccellenti, ma è nella relazione tra Solness e Hilda che gli interpreti fanno scintille e bisogna ammettere che la giovane attrice riesce a tenere magnificamente testa alla performance mattatoriale del maturo Binasco.

La restituzione alla nostra contemporaneità del testo di Ibsen ha il risultato di catturare il pubblico che risponde con copiosi applausi. Lo spettacolo, che chiude la stagione del Teatro Stabile di Torino, rimane in scena fino all’8 giugno.

Der junge Lord

foto © Michele Monasta

Hans Werner Henze, Der junge Lord

★★★★☆

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 25 maggio 2025

Feroce satira borghese, Der junge Lord di Henze torna al Maggio Musicale Fiorentino diretto da Markus Stenz che ne esalta l’orchestrazione brillante e l’ironia colta. Regia visionaria di Davide Menghini, debuttante al Maggio, tra echi felliniani e neorealisti. Eccellenti Marily Santoro e Antonio Mandrillo. Grande successo per uno spettacolo intelligente, ironico e visivamente sontuoso.

Goethe, freaks, la bella, la bestia

“Opera comica tedesca”. La librettista Ingeborg Bachmann sottolinea il secondo aggettivo nella sua definizione di Der junge Lord. Comica sì, ma non opera buffa italiana. Un’opera con quel particolare umorismo tedesco, che talora è greve, qui invece è estremamente intellettualizzato, arrivando a utilizzare addirittura in senso comico i versi del Faust di Goethe.

Dopo aver accantonato il progetto di mettere in musica Love’s Labour’s Lost di Shakespeare, Henze aveva seguito il consiglio della fidata Bachmann – che gli aveva già fornito il libretto di Der Prinz von Homburg (1958, da Kleist), di Nachtstücke und Arien per soprano e orchestra (1957), dei Lieder von einer Insel (1964) e del testo per il balletto-pantomima Der Idiot (1952, da Dostoevskij) – di sfruttare un racconto compreso nel ciclo “Der Scheich von Alessandria und seine Sklaven”, Der Affe als Mensch (La scimmia come essere umano), pubblicato nel suo ultimo anno di vita da Wilhelm Hauff, favolista morto nel 1827 a soli venticinque anni. Una vicenda inquietante e grottesca in cui si narra dell’arrivo in una placida cittadina tedesca di provincia dell’eccentrico Sir Edgar. Giunto con un seguito di servi neri e di animali, il nobile inglese rifiuta tutti gli inviti, con gran dispetto dei socialiser locali. Per di più, dalla sua lussuosa magione giungono grida scomposte che seminano il panico, ma si viene a sapere che sono del giovane signore del titolo, Lord Barrat, il nipote del proprietario, che viene educato al tedesco tramite gli immortali versi del Faust di Goethe. A un certo punto il misterioso Lord Barrat dà un ballo dove danza con le più belle signore della città salvo rivelarsi alla fine, tra lo sconcerto generale, una scimmia ammaestrata. Rispetto al soggetto originale, la Bachmann inserisce i nuovi personaggi degli innamorati Luise e Wilhelm e ha l’idea, teatralmente efficacissima, di avvolgere il gentiluomo inglese in un’aura enigmatica rendendolo un personaggio muto che parla solo per bocca del suo segretario.

Atto primo. Scena prima. La cittadina tedesca di Hülsdorf-Gotha nell’anno 1830. Tutta la popolazione è in fermento per l’arrivo di un ricco Milord inglese. Le cerimoniose maniere con le quali i notabili di Hülsdorf-Gotha accolgono lo straniero sono farsesche. Nel succedersi di ‘zoomate’ cinematografiche sui diversi gruppi, Luise e Ida notano un bel giovane, lo studente Wilhelm. Mentre la banda militare suona a tutta forza, Wilhelm dà un biglietto a Luise e lei gli offre un fiore. All’arrivo di Sir Edgar, con il suo strano seguito, tutti restano esterrefatti: dalla carrozza sbucano dapprima una capra, poi altri animali. Da una seconda carrozza escono l’elegantissimo moro Jeremy, due lacché, il vecchio maggiordomo e Begonia, la cuoca nera della Giamaica. Lo stupore della folla è ormai al massimo. Solo dalla terza carrozza scendono finalmente il giovane segretario e il placido sessantenne Sir Edgar. Dopo di che, i due si ritirano, lasciando sconcertati gli astanti e rifiutando anche l’invito al pranzo serale poiché, come dice il segretario, «il signore deve concentrarsi sui suoi studi e non gradisce distrazioni». Scena seconda. Salone della baronessa Grünwiesel che ha raccolto intorno a sé tutte le signore bene della città, speranzose di essere notate da Sir Edgar. Sapendo di non poter contare sul suo fascino, la baronessa dirotta i suoi progetti sulla povera Luise che ne è, naturalmente, disperata. Ma, come prevedibile, giunge il gentile diniego da parte di Sir Edgar che non si presenta alla festa. La baronessa, furiosa, decide di rovinargli la vita. Comincia infatti a spargere notizie e insinuazioni sul suo conto che presto dilagano. Scena terza. Giunge un piccolo circo in città. Sir Edgar, per la prima volta, esce di casa, guarda lo spettacolo e lascia dei soldi ai circensi. Inferociti dal suo inaccettabile comportamento e considerando il suo interesse per il circo uno schiaffo alla loro sollecitudine snobbata. Non potendosela prendere con lui, i cittadini decidono di scacciare il circo per ripicca. Sir Edgard invita allora gli artisti (tra cui il direttore del circo e la scimmia Adamo) a casa sua.
Atto secondo. Scena prima. Una notte invernale di Germania, fuori dalla casa di Sir Edgar. I bambini si prendono gioco di Jeremy. Il lampionaio sente dei lamenti provenire dalla casa di Sir Edgar e accorre per prestare aiuto. Nel frattempo, Luise e Wilhelm, innamorati, si incontrano segretamente. Il borgomastro chiede di poter entrare per scoprire di che natura sia quel lamento. Il segretario esce e dice che il nipote di Sir Edgar, Lord Barrat, giunto dallo zio per affinare la sua educazione e imparare il tedesco, trova le lezioni esasperanti ed è solo per quello che soffre e si dispera. Comunque, tra poco, verrà sicuramente presentato alla cittadinanza. Tutti se ne vanno, un poco rassicurati da questa notizia. Scena seconda. Sir Edgar ha organizzato un incontro a casa sua: la società bene di Hüldsdorf-Gotha è tutta schierata e gongolante, compresa la baronessa. Le donne sono affascinate dal nipote di Sir Edgar, Lord Barrat. La baronessa subito gli fa conoscere Luise, che resta ammaliata, in modo inquietante e inspiegabile, dal giovane. Il povero Wilhelm dapprima si sforza di assumere anche lui atteggiamenti stravaganti, ma in realtà non vede l’ora di ritirarsi a parlare di scienze naturali con Sir Edgar. Lord Barrat perde l’autocontrollo e provoca lo svenimento di Luise. Scena terza. Grande sala da ballo. Luise è sola in attesa di Lord Barrat, verso il quale prova un’incomprensibile attrazione. Il giovane giunge con una rosa che strofina contro la mano della ragazza fino a fargliela sanguinare. La fanciulla non riesce a reagire, come ipnotizzata dalla sua presenza e dai suoi modi. La baronessa è felice poiché il pretendente è «poeta, giovane, ricco e Lord». Tutti seguono con interesse la loro evidente passione e viene dato l’avvio al valzer delle debuttanti, sotto la guida di Monsieur La Truiare. Lord Barrat si scatena in una danza insolita e sempre più audace, finché diventa irrimediabilemente scomposta. I giovani dabbene si lasciano sempre più andare cercando di imitarlo e assumendo anche loro atteggiamenti selvaggi. Lord Barrat si mette a suonare in modo folle e stonato una tromba, poi riprende la danza con Luise che fatica a seguirlo. Giunge Sir Edgar che, preoccupatissimo, osserva la scena. Luise viene scagliata contro una parete e si accascia mentre Lord Barrat continua a ballare, salta sopra i tavoli, si rotola per terra. Tutti sono terrorizzati. Sir Edgar è costretto ad estrarre una frusta per ammansire il giovane, che si strappa i vestiti e si svela per Adamo, la scimmia del circo.

Deluso dalle sperimentazioni della scuola di Darmstadt, ma senza per questo ricorrere a un linguaggio passatista, con la sua musica Henze ha sempre dimostrato interesse per la scena, una vera e propria riconquista del teatro musicale in tempi non proprio felici per lo spettacolo. Lo dicono i numeri – quindici opere, sette musiche per balletto, innumerevoli musiche per film – e lo dice la felicità inventiva della sua musica. Der junge Lord venne presentato a Berlino con grande successo il 7 aprile 1965. Un’opera «fuori dell’avanguardia anche più di tante altre cose di Henze», scriveva Fedele D’Amico all’indomani della prima italiana nel 1966 di cui il musicologo aveva curato la versione ritmica in italiano, una musica che «accoglie strutture, ritmi, procedimenti, che vengono più o meno direttamente […] da Falstaff, Gianni Schicchi, Il Cavaliere della rosa…». Ma anche da Il ratto dal serraglio (la banda militare del primo atto) e da Il barbiere di Siviglia per il travolgente ritmo rossiniano con cui sono trattate le scene di insieme. Per non dire della stravinskiana Carriera di un libertino (la scena dell’asta).

Il direttore Markus Stenz ha già tenuto a battesimo altri titoli di Henze avendo diretto le prime di Das verratene Meer (1990), Venus und Adonis (1997) e L’upupa (2003). Ora, in anticipo di un anno rispetto al 2026, centenario della nascita del compositore tedesco ma italiano di adozione, Stenz porta Der junge Lord al Festival del Maggio Musicale Fiorentino ed è la prima volta in lingua originale nel nostro paese. Il direttore tedesco riesce a mettere pienamente in luce la brillante orchestrazione e il virtuosistico intreccio tra procedimenti tonali, atonali e politonali che formano la teatralità della partitura punteggiata inoltre da bellissimi interludi sinfonici che intensificano il tono sospeso tra serio e sarcastico della vicenda. La sua concertazione risolve egregiamente i complessi ensemble vocali che coinvolgono non solo i cantanti solistici ma anche il quasi onnipresente coro, abilmente condotto da Lorenzo Fratini, affiancato dal vivace coro di voci bianche dell’Accademia del Maggio istruito da Sara Matteucci.

Folto e di eccellente qualità il cast, formato da solidi professionisti e da promettenti talenti dell’Accademia del Maggio, in cui si distinguono Marily Santoro e Antonio Mandrillo nella coppia dei due giovani amanti: la prima dà vita alla Luise morbosamente attratta dalla enigmatica figura del Giovane Lord in un’intensa caratterizzazione che sfocia nella lunga aria «Diese Benommenheit» (Questa vertigine) interpretata con grande gusto musicale; il secondo delinea con generosi mezzi vocali il personaggio di Wilhelm. Più macchiettistici gli altri personaggi: tratteggiata con efficacia da Marina Comparato è la Baronessa Grünwiesel; Levent Bakirci è il particolare Segretario del Lord; Nikoletta Hertsak è la giovane Ida con i suoi virtuosismi vocali efficacemente realizzati. Da menzionare almeno il Lampionaio interpretato con grande disinvoltura scenica e lodevoli qualità vocali da Davide Sodini, ascoltato nella Salome che ha aperto il festival fiorentino. Un nome da ricordare. Nel personaggio muto di Sir Edgar l’attore Giovanni Franzoni si muove con nobile eleganza.

Dopo il diploma alla Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano e una breve carriera d’attore, Davide Menghini nel 2020 vince il concorso di regia dal Macerata Opera Festival su un progetto de Il barbiere di Siviglia. Lo stesso anno lavora come assistente di Graham Vick alla Zaide di Roma e di Jacopo Spirei al Ballo in maschera del Festival Verdi del 2021, la stessa opera che metterà in scena quattro anni dopo nel teatrino di Busseto. Dopo una Carmen a Macerata e un Tristano a Palermo, ha da poco ideato L’elisir d’amore visto a Torino e adesso debutta al Maggio Musicale Fiorentino con quest’opera di Henze connotata fin dalle prime immagini dalla sua personalità. Con la scenografia di Davide Signorini, i costumi ironicamente Biedermeier di Nika Campisi e le luci di Gianni Bertoli, Menghini crea un mondo di grande ricchezza visiva che, come la musica di Henze, ha innumerevoli riferimenti, dal Pinocchio illustrato da Fiorenzo Faorzi (nella scena del circo oltre alla funambola e al saltimbanco non manca il mangiafuoco) ai felliniani mascheroni. Non manca il tenero ma arguto richiamo alla Bohème quando Wilhelm regala a Luise un manicotto per riparare le mani dal freddo di «ein deutscher Winterabend» accompagnando il dono con le parole «Tausend Dinge muß ich dich fragen» (Ho mille cose da chiederti) e non può non venire in mente il verso che Giacosa e Illica mettono in bocca a Mimì: «Ho tante cose che ti voglio dire»!

Ma sono l’ipocrisia e il perbenismo il tema caro al regista in questa lettura in cui il diverso è emarginato con violenza, come il servo di colore Jeremy bullizzato dai bambini, «Hu der böse Mohr, der so schwarz wie Sünde ist» (Dagli a quel moro malvagio, nero come il peccato), ma anche come il bizzarro Lord che sfugge alle convenzioni borghesi. Ecco, magari dalla regia ci saremmo aspettati una maggior cattiveria nei confronti di quella società provinciale chiusa e ristretta che era nelle intenzioni degli autori. Qui prevale la festa  per gli occhi, con i danzatori della compagnia KOMOKO, i circensi, i figuranti e cantanti/attori di eccellenza. Lo spettacolo così suscita l’entusiasmo del pubblico foltissimo che è intervenuto alla prima delle tre recite previste. Poche, visto il successo.

I concerti dell’Unione Musicale

Samuel Barber, Sonata in do minore op. 6
Allegro ma non troppo
Adagio – Presto
Allegro appassionato

Nadia Boulanger, Trois Pièces
Modéré
Sans vitesse et à l’aise
Vite et nerveusement rythmé

Claude Debussy, Sonata n° 1 in re minore per violoncello e pianoforte
Prologue. Lent, sostenuto e molto risoluto
Sérénade. Modérément animé
Finale. Animé, léger et nerveux

Gabriel Fauré, Sonata in sol minore op. 117
Allegro
Andante
Allegro vivo

Benjamin Britten, Sonata in Do maggiore op. 65
Dialogo. Allegro
Pizzicato. Allegretto
Elegia. Lento
Marcia. Energico
Moto perpetuo. Presto

Nicolas Altstaedt violoncello, Alexander Lonquich pianoforte

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi, 21 maggio 2025

Un Novecento cameristico chiude la stagione dell’Unione Musicale

Dopo Lingotto Musica anche l’Unione Musicale termina la sua stagione. In programma cinque compositori nati nella seconda metà del XIX secolo o agli inizi del XX, ma con pezzi composti tutti nel Novecento. Per questo tradizionale ensemble da camera Beethoven e Brahms hanno lasciato esempi mirabili ed è a quest’ultimo infatti che si pensa per l’attacco del primo tempo della Sonata che Barber scrisse nel 1932, con quel tema trascinante esposto dal violoncello. La stessa aria appassionata si respira nell’Allegro finale, mentre l’Adagio dà modo allo strumento ad arco di abbandonarsi a un canto malinconico. Intrisa di un intenso tardoromanticismo, quest’opera giovanile Barber è presto entrata per i suoi meriti nel repertorio violoncellistico ma qui è eseguita per la prima volta per l’Unione Musicale.

Più equilibrato verso il pianoforte è il lavoro di Nadia Boulanger, Trois pièces, del 1913. I primi due brani sono di tono crepuscolare, nel primo il violoncello è sostenuto dal dolce accompagnamento del pianoforte, nel secondo i due strumenti procedono su cammini che si sfiorano senza mai che uno prevalga sull’altro. Tutt’altra atmosfera quella del terzo, vivacissimo nel suo tono spagnoleggiante.

Il Debussy della Sonata del 1915 è quasi irriconoscibile: la Sonata in re minore doveva far parte di un insieme di sei composizioni cameristiche come risulta dalle dediche apposte sulle Sonate effettivamente composte e pubblicate («Les Six Sonates pour divers instruments sont offerts en hommage a Emma-Claude Debussy (p. m.) – Son mari – Claude Debussy»), ma il musicista ne completò solo tre – le altre due sono per flauto, viola e arpa (1915) e violino e pianoforte (1917) – a causa della malattia che lo minava, che lo avrebbe portato alla tomba nel 1918, e all’angoscia per la guerra. Inizialmente Debussy avrebbe voluto sottotitolarla “Pierrot faché avec la Lune” richiamandosi alla pittura di Watteau (Il Pierrot lunaire di Schönberg è comunque di tre anni prima), ma poi ci rinunciò lasciando alla sola musica il potere evocativo. Il Prologo è caratterizzato da brevi frasi melodiche trapassanti dall’uno all’altro registro, l’equivalente sonoro di un narcotico incanto lunare, mentre i pizzicati, che richiamano il timbro di chitarre e mandolini, suggeriscono il tono da Serenata del secondo movimento. Ma è il finale con la gara di velocità tra violoncello e pianoforte a stupire per il suo passo travolgente.

Con la seconda Sonata di Fauré, cinque anni dopo la prima, all’età di 77 anni il compositore francese dà una sorprendente dimostrazione di vitalità dell’idea romantica in musica, ma non come nostalgico rimpianto di una stagione ormai lontana nel tempo: la musica per lui «è una questione di gusto, di sottile equilibrio fra aspettative e sorprese, tale da lasciare all’ascoltatore il piacere dell’abbandono – di un ascolto parzialmente passivo – salvo poi solleticarlo con un tessuto armonico innovativo che attinge alle ricche sorgenti dell’ambiguità tonale e della modalità» (Giulio d’Amore). Nel gennaio 1921 Fauré aveva ricevuto dallo Stato francese l’invito a scrivere un brano per banda militare, destinato alla cerimonia commemorativa dei cento anni dalla morte di Napoleone, che si sarebbe svolta il 5 maggio agli Invalides, un invito insolito per un compositore normalmente incline all’intimismo e alla dimensione cameristica. Fauré in ogni caso accettò e scrisse un Chant funéraire regolarmente eseguito nell’occasione prevista, seppure la musica fosse sin troppo elevata per una cerimonia militare, tanto che il compositore prese la decisione di trascrivere il brano per violoncello e pianoforte facendolo diventare il movimento lento di una sonata. L’Andante mantiene il lento moto processionale del violoncello scandito dagli accordi funebri del pianoforte ed è incorniciato da un primo movimento Allegro di grande slancio con i due strumenti avvinti in un canone a distanza di una battuta e un Allegro vivo finale di grande effervescenza.

Conclude il programma Benjamin Britten con la sua Sonata in Do maggiore dedicata a Mstislav Rostropovič, che il musicista aveva conosciuto nel 1960 a Londra in occasione della prima esecuzione inglese del Concerto per violoncello di Šostakovič. La prima esecuzione ebbe luogo nella Jubilee Hall di Aldeburgh il 7 luglio 1961, ovviamente con il solista al violoncello e il compositore al pianoforte. Si tratta di una composizione in cinque movimenti dai titoli curiosi e lo stesso autore ha fornito una breve traccia per seguirne l’ascolto: «”Dialogo” (Allegro) è costituito da un piccolissimo motivo, un dialogo fra due intervalli di seconda, l’uno ascendente e l’altro discendente. Il motivo viene prolungato per creare un lirico soggetto secondario, che sale fino a una nota sonata in pianissimo, ottenuta con gli armonici, per poi ridiscendere. “Pizzicato” (Allegretto) è uno studio in pizzicato, che a volte ricorda la chitarra per la sua tecnica elaborata della mano destra. “Elegia” (Lento), contro un sottofondo cupo del pianoforte, il violoncello suona una lunga melodia cantabile. Questa viene sviluppata con l’impiego di corde doppie, triple e anche quadruple, giungendo a un grande punto culminante, per poi perdersi con una conclusione dolce e tranquilla; “Marcia” (Energico), il violoncello suona un basso turbolento sotto un motivo sussultante del pianoforte. Nel Trio si odono dei richiami simili a quelli di un corno, suonati al di sopra di un basso ripetuto in terzine. La marcia ritorna molto silenziosa, col basso che, suonando degli armonici, si trova ora nel registro acuto. “Moto perpetuo” (Presto), il tema “saltando” in 6/8 domina l’intero movimento, spesso mutando il suo carattere, a volte alto ed espressivo, a volte basso e brontolante, a volte allegro e spensierato». 

Per questo concerto finale l’Unione Musicale ha invitato per la prima volta il violoncellista Nicolas Alstaedt, che si esibisce a fianco dell’habitué Alexander Lonquich, per la 25esima volta sul palcoscenico del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino. Le loro sono due personalità molto particolari che si compensano perfettamente. Assieme hanno registrato nel 2020 le musiche per violoncello e pianoforte di Beethoven di cui danno un assaggio nel primo bis, il secondo movimento della sua Sonata n°2 in sol minore.

Nicolas Alstaedt è un artista versatile – solista, direttore d’orchestra e direttore artistico – ed eccezionale interprete di musica moderna. Il suo violoncello è un Giulio Cesare Gigli del 1760 dal suono ricco di armonici che sotto le mani formidabili del virtuoso franco-tedesco diventa uno strumento ideale anche per il repertorio contemporaneo. Con la sua eccezionale tecnica e sensibilità Alstaedt riesce a ottenere dal suo violoncello suoni quasi inediti ma sempre nell’ambito di una totale musicalità. Di Alexander Lonquich c’è poco da aggiungere per il pubblico torinese che lo conosce benissimo. Qui c’è solo da notare la sua grandissima intelligenza e disponibilità a colloquiare in termini paritetici con l’altro strumentista pur mantenendo la sua peculiare personalità. Qualità apprezzate dal folto pubblico che con i suoi calorosi applausi ha ottenuto due bis, il brano beethoveniano di cui s’è detto e la ripetizione dell’ultimo movimento della sonata di Britten.

Lingotto Musica

foto © Mattia Gaido

Wolfgang Amadeus Mozart

Sinfonia n° 39 in Mi bemolle maggiore K 543
Adagio – Allegro
Andante con moto
Menuetto. Allegretto – Trio
Finale. Allegro

Sinfonia n° 40 in sol minore K 550
Allegro molto
Andante
Menuetto. Allegro
Menuetto I – Menuetto II

Sinfonia n° 41 in Do maggiore K 551
Allegro vivace
Andante cantabile
Menuetto. Allegretto – Trio
Molto allegro

Les Musiciens du Louvre, Marc Minkowski direttore

Torino, Auditorium Agnelli, 20 maggio 2025

Con Minkowski e le ultime sinfonie di Mozart si conclude gloriosamente la stagione di Lingotto Musica

Acqua, fuoco, terra. Come se fossero prove da superare, le ultime tre sinfonie di Mozart secondo Marc Minkowski riflettono la simbologia massonica che permeerà poi la Zauberflöte. Quella in Mi♭ per il suo limpido fluire, quella in sol per i tempi brucianti del primo movimento, quella in Do per la solare e olimpica tonalità…

(il seguito su Le Salon Musical)

La cerimonia del massaggio

Alan Bennett, La cerimonia del massaggio

regia di Roberto Piana e Angelo Curci

Torino, Teatro Gobetti, 18 maggio 2028

Un allegro funerale

The laying on of Hands è il titolo originale di questo breve romanzo del 2002 di Alan Bennett. Clive, di cui si svolge la cerimonia funebre, ha avuto per le mani, letteralmente, i VIP ambosessi di Londra, che ora si trovano assieme in chiesa per commemorare il caro estinto in una cerimonia tragicomica celebrata da padre Geoffrey Jolliffe.

Il compianto stallone è stato massaggiatore e “consolatore” anche di padre Geoffrey che ora deve gestire i suoi sentimenti davanti agli interventi dei presenti al rito funebre, soprattutto il sospetto che l’uomo sia morto per una malattia che si trasmette sessualmente… Fortunatamente, la testimonianza di un medico presente fuga ogni dubbio: Clive è morto in Sud America in seguito alla puntura di un insidioso insetto tropicale e il trasferimento al cimitero può così procedere più serenamente.

Come Il vizio dell’arte visto al Teatro dell’Elfo Puccini di Milano, La cerimonia del massaggio, che però non nasce per la scena, esalta al massimo l’umorismo tagliente e caustico di questo attore, scrittore, drammaturgo e sceneggiatore nato a Leeds nel ’34 che fin dal suo primo lavoro del ’68, Forty years, ha fustigato senza pietà ma con tono lieve la società inglese con le sue contraddizioni, specie nelle rappresentazioni offerte dall’alta borghesia e dagli emarginati, oggetto abituale di uno sguardo capace di rendere i paradossi dell’esistenza urbana con raffinata e salace ironia, grazie a una scrittura asciutta ma ravvivata da improvvisi sketches o parodie.

Con la morte di Jonathan Miller nel 2019, Bennett, ora 91enne, è l’unico sopravvissuto del quartetto di Beyond the Fringe, una pièce scritta assieme a Peter Cook e Dudley Moore che aveva debuttato al Festival di Edimburgo nel 1960 trasferendosi poi con grande successo nel West End di Londra e a Broadway.

Dopo l’On/Off Theatre di Roma arriva a Torino per la stagione dello Stabile questa produzione di Roberto Piana e Angelo Curci con la semplice ma efficace scenografia di Francesco Fassone, un pulpito rotante che serve anche da guardaroba e confessionale, e poi tante candele attorno al ritratto di “mani d’oro”, il compianto massaggiatore. Gianluca Ferrato gestisce con abilità, grazie anche alla drammaturgia di Tobia Rossi, il mix di sacro e profano, il compromesso tra corpo e spirito del sacerdote che ha avuto anche lui rapporti intimi col fustone. Gli accorti tempi teatrali e la nonchalance della recitazione raggiungono momenti di una irresistibile comicità molto apprezzata dal pubblico che alla fine risponde con copiosi applausi alla intelligente performance dell’attore.

Stabat Mater

foto © GTG / Monika Rittershaus

Giovanni Battista Pergolesi, Stabat Mater

Ginevra, Cathédrale Saint-Pierre, 16 maggio 2025

★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Né opera, né concerto: lo Stabat Mater di Castellucci, tra installazione e rito

Nella cattedrale di Saint-Pierre a Ginevra, Romeo Castellucci trasforma lo Stabat Mater di Pergolesi in un rito visivo e spirituale di rara intensità. Tra i suoni spettrali di Scelsi e le voci di Barbara Hannigan e Jakub Józef Orliński, la scena diventa meditazione collettiva sul dolore e la rinascita. Emozione pura, silenzio finale come unica risposta.

Chi mai pensasse che nello Stabat Mater di Pergolesi ci sia una certa leziosità settecentesca dovrebbe mettersi in coda per entrare nella cattedrale protestante di Saint-Pierre a Ginevra e ricredersi totalmente con il penultimo spettacolo della stagione del Grand Théâtre.

Si tratta di uno spettacolo che si svolge fuori sede, un lavoro che non è stato concepito per la scena, ma Romeo Castellucci riesce nell’impresa di dare vita alle inquietanti immagini evocate dalla sequenza del beato Jacopone da Todi (1230?-1306), il probabile autore delle terzine formate da due ottonari e un settenario in cui la prima parte, «Stabat Mater dolorosa | juxta crucem lacrimosa | dum pendebat filius», è una meditazione sulle sofferenza della madre di Gesù durante la passione e crocefissione del figlio, mentre la seconda, che inizia con «Eia, Mater, fons amoris, | me sentire vim doloris | fac, ut tecum lugeam», è un’invocazione dell’orante a partecipare il dolore della madre di Cristo.

La prima impressione, entrando nel severo tempio della riforma calvinista (1), è spiazzante sia per la prospettiva sia per l’orientazione simbolica di una chiesa: i banchi sono allineati lungo la navata centrale e rivolti verso sud su un lunghissimo palco di legno chiaro su cui si svolge la cerimonia. Di questo infatti si tratta: il teatro rituale di Castellucci trova qui la sua forma più significativa, quella di un rito quasi liturgico che non richiede applausi, ma la partecipazione intensa degli spettatori e dove i segni religiosi e pittorici si intrecciano in uno spazio di grande intensità emotiva. Le poche luci sono puntate su un’inquietante processione di militari in divisa mimetica, casco e occhiali scuri, armati di strumenti musicali anche loro dipinti in grigio-verde, che vanno a sistemarsi nel coro. Sono infatti i musicisti dell’Ensemble Contrechamps – diciotto fiati, tre percussionisti e cinque archi gravi – che intonano, a preludio della musica di Pergolesi, i Quattro pezzi per orchestra di Giacinto Scelsi, compositore ligure (1905-1988) primo seguace in Italia della dodecafonia di Arnold Schönberg. Scelsi anticipò anche correnti della musica contemporanea quali la minimal music e la musica spettrale e con i Quattro pezzi su una nota sola, scritti nel 1959 e originariamente per orchestra da camera, vuole rendere percepibili la vibrazione e la profondità del suono, la sua consistenza piuttosto che l’arte combinatoria delle note, che qui è una sola per ogni pezzo, che vivono delle minime variazioni dinamiche, colore e densità esaltati dalla riverberazione dell’ambiente. È un’apertura dello spazio nel primo brano, un richiamo nel secondo, un’attesa e una ricerca nel terzo, e una visione infernale attraverso un cluster assordante nel quarto. Con la direzione di Barbara Hannigan, anche lei irriconoscibile sotto la divisa mimetica, si crea un impasto materico monocromo e spettrale su cui si muovono in un balletto astratto tre lunghissime pertiche bianche montate su base motorizzate e oscillanti nella navata della cattedrale come fasci di luce laser.

Le luci, scarsissime, esaltano il dramma che sta per compiersi. Arrivano donne e uomini vestiti di grigio e formano gruppi compatti che “partoriscono” prima una bambina, poi la figura maschile di San Giovanni, infine quella femminile di Maria. Durante l’esecuzione gli interpreti e i figuranti si dispongono in tableaux vivants che ricordano le figure dei compianti medievali o barocchi mentre la musica di Pergolesi, eseguita dall’ensemble del Pomo d’Oro, quintetto d’archi e organo nascosti alla vista degli spettatori, si innesta con sorprendente continuità su quella di Scelsi. I tempi sono dilatatissimi, tengono conto del riverbero acustico con le voci di Barbara Hannigan e Jakub Józef Orliński come emergenti dolenti da un lutto collettivo. Drammatica, quasi viscerale e dai contrasti estremi l’interpretazione del soprano, più sobria la linea vocale del contraltista ma caratterizzata da una grande proiezione e da un’intensa presenza scenica. Nel loro diverso approccio interpretativo, i due cantanti raggiungono livelli di grande drammaticità e tensione emotiva. Visivamente lo spettacolo culmina con l’arrivo di una quindicina di bambini – e dopo ieri sera non si può non pensare ai bambini del lager di Terezín nei loro abitini grigi… – che accolgono in grembo raffigurazioni del corpo martoriato del Cristo. Una miscela straziante di innocenza e morte.

Sull’Amen finale si innestano le Tre preghiere latine (1970) di Scelsi per coro a cappella, qui i coristi della Maîtrise du Conservatoire Populaire di Ginevra, nell’Ave Maria e nel Pater Noster, invisibili e con un suono lontano ed etereo. Ultima la voce solista di Barbara Hannigan nel virtuosistico Halleluja, che chiude la serata quando, nel buio, le porte centrali della cattedrale lentamente si aprono e il pubblico esce sulla piazza. Qualcuno non può fare a meno di applaudire, forse per scaricare la tensione accumulata, ma i più rimangono in silenzio, come in raccoglimento.

(1) Nel programma una nota specifica che «la scenografia e le immagini presentate sono di esclusiva responsabilità degli artisti e non coinvolgono in alcun modo la Chiesa protestante di Ginevra». 

Benjamin Appl

Gustav Mahler, “Lieder und Gesänge aus der Jugendzeit”, 1. Frühlingsmorgen; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, I. Loveliest of Trees; Gustav Mahler, “Rückert-Lieder”, II. Ich atmet’ einen Linden Duft; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, II. When I was one-and-twenty; Gustav Mahler; “Rückert-Lieder”; I. Blicke mir nicht in die Lieder!; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, III. Look not in my eyes; Gustav Mahler, “Rückert-Lieder”, V. Liebst du um Schönheit; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, IV. Think no more, Lad; Gustav Mahler, “Rückert-Lieder”, IV. Um Mitternacht; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, V. The Lads in their hundreds; Gustav Mahler, “Rückert-Lieder”, III. Ich bin der Welt abhanden gekommen; George Butterworth, “Six Songs from a Shropshire Lad”, VI. Is my team ploughing?; Gustav Mahler, “Des Knaben Wunderhorn”, Revelge

Gustav Mahler, “Des Knaben Wunderhorn”, Aus! Aus!; Erich Wolfgang Korngold, “Zwölf Lieder ‘So Gott und Papa will'”, VI. Aussicht; Alma Mahler, Fünf Lieder, V. Ich wandle unter Blumen; Erich Wolfgang Korngold, Der Knabe und das Veilchen; Alma Mahler, “Fünf Lieder”, III. Laue Sommernacht; Erich Wolfgang Korngold, “Sechs einfache Lieder”, IV. Liebesbriefchen; Alma Mahler, “Fünf Lieder”, IV. Bei dir ist es traut; Gustav Mahler, “Des Knaben Wunderhorn”, Nicht wiedersehen; Anonimo, Terezin Song; Ilse Weber, Ade Kamerad; Adolf Strauss, Ich weiß bestimmt, ich werd’ dich wiedersehen; Ilse Weber, Ich wandre durch Theresienstadt; Ilse Weber, Wiegala; Gustav Mahler, “Des Knaben Wunderhorn”, Urlicht

Benjamin Appl baritono, James Baillieu pianoforte

Ginevra, Grand Théâtre, 15 maggio 2025

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Gustav Mahler & Co.

La stagione del Grand Théâtre di Ginevra comprende anche quattro recital di celebrati cantanti del momento: i soprani Lisette Oropesa e Aušrinė Stundytė, il controtenore Jakub Józef Orliński e il baritono Benjamin Appl.

Dopo gli esordi come giovane corista tra i Regensburger Domspatzen e specialista della musica di Bach, Appl è apprezzato in un vasto repertorio che spazia da Telemann a Luciano Berio, da Schubert a György Kurtág. Oltre all’attività concertistica, il cantante è frequentemente chiamato a interpretare musica oratoriale – oltre a Bach, Brahms, Haydn, Britten… – e personaggi d’opera, da Papageno nello Zauberflöte ad Arlecchino nella Ariadne auf Naxos. Appl ritorna a Ginevra per la terza volta dopo una Winterreise nel 2019 e una sostituzione improvvisa di Sir Simon Keenlyside nel 2023. Nel concerto odierno a Gustav Mahler affianca altri compositori della sua epoca.

Nella prima parte della serata, infatti, a Lieder tratti da diverse raccolte mahleriane si alternano songs di George Butterworth (1885-1916), compositore londinese collezionista di canti popolari e danzatore folk. Tra il 1911 e il 1912 Butterworth mise in musica undici poesie tratte da A Shropshire Lad di A. E. Housman, così come aveva anche fatto pochi anni prima Ralph Vaughan Williams. Ognuna dei sei songs qui scelti risponde idealmente a un titolo mahleriano: così al Frühlingsmorgen, della raccolta “Lieder und Gesänge aus der Jugendzeit” su testi di Richard Leander, segue Loveliest of Trees nella esaltazione della stagione primaverile e della gioventù. Qui al tiglio i cui rami battono alla finestra in Mahler, risponde il ciliegio fiorito di Butterworth. Lo stesso tiglio lo troviamo in Ich atmet’ einen Linden Duft dei “Rückert-Lieder” che ha la sua controparte in When I Was One-and-Twenty. E così via, con il gioco di sguardi del Blicke mir nicht in die Lieder e Look not in My Eyes, quello amoroso di Liebst du um Schöhnheit e Think no more, Lad. 

Con Um Mitternacht, contrapposto a The Lads in Their Hundreds, si evidenzia però la diversa statura dei due compositori: alle insondabili profondità del notturno canto mahleriano si contrappone la musicalmente semplice ballata di Butterworth dove ragazzi arrivano alla fiera di Ludlow prima di partire per la guerra «dove moriranno nella gloria e non diventeranno mai vecchi». Lo stesso avviene nel successivo Ich bin der Welt abhanden gekommen, sempre di Friedrich Rückert, dove lo straziante addio alla vita, appena consolato dal fatto di sopravvivere nell’amore e nel canto, ha la sua controparte nel più prosaico Is my team ploughing? dove l’amata si consola col migliore amico del fidanzato morto. Conclude la prima parte della serata Revelge, una musica beffarda che avrebbe potuto scrivere Kurt Weill, che però doveva ancora nascere all’epoca della composizione del ciclo de “Il corno magico del fanciullo”… Qui Benjamin Appl dimostra il temperamento che fino a quel momento non era stato così evidente: il baritono tedesco è un grande liederista, ma le sue interpretazioni, perfettamente intonate con fraseggio impeccabile, non commuovono, anche a causa di un timbro chiaro che manca di armonici nel registro basso, armonici di cui era ricca invece la voce di Dietrich Fischer Dieskau di cui Appl è stato allievo e a cui dedicherà il secondo bis, lo schubertiano Du holde Kunst. In Revelge esce finalmente il temperamento del cantante, che qui sfoggia una certa libertà ritmica e un’espressività che prima erano mancate. Anche l’accompagnamento pianistico di James Baillieu, pur correttissimo, è risultato un po’ freddo e ha fatto rimpiangere l’orchestrazione adottata poi da Mahler.

Molto meglio riesce la seconda parte del concerto. Dopo l’intervallo, i pezzi scelti sono di contemporanei di Mahler o di compositori che hanno trovato la morte nei campi di concentramento o sono fuggiti dal Nazismo, come Erich Wolfgang Korngold, di cui si ascoltano tre deliziosi lavori: Aussicht, dal ciclo op.5, un gioioso inno alla bellezza della vita; Der Knabe und das Veilchen, duetto tra un ragazzo e una violetta, pezzo dall’ineffabile tono di operetta, e Liebesbriefschen dall’op.6. Anche Alma Mahler fornisce il suo contributo a questa svagata sequenza di tenere e sognanti miniature introspettive con Ich wandle unter Blumen (su testo di Heinrich Heine), Laue Sommernacht (Gustav Falke), in cui si canta delle notti d’estate, e Bei dir ist es traut (Rainer Maria Rilke). Il tutto è incorniciato da due brani da “Des Knaben Wunderhorn” di Gustav, Aus! Aus! e Nicht wiedersen, che inneggiano all’amore che però finirà: «Im Mai blühn gar viel Blümelein! | Die Lieb ist noch nicht aus! Aus! Aus!» (A maggio i fiori nascono in quantità! L’amore non è ancora finito! Finito! Finito!). Con il suo tono un po’ salottiero in questi pezzi Appl dimostra l’eleganza del suo porgere con delicate sfumature espressive.

Ma è con la terza e ultima parte che si scende nell’oscurità di sentimenti dolorosi. Il cambiamento di tono è quasi inavvertibile, poiché nell’anonimo Terezin Song il ritmo allegro cela la tragedia che si consuma nella città fortezza di Terezín, 60 chilometri a nord di Praga, dove venivano internati i maggiori artisti ebraici. Esibito dalla propaganda nazista come insediamento esemplare, ghetto modello, in realtà era un campo di raccolta di intellettuali, pittori, scrittori, musicisti ebrei – e di tantissimi bambini – in attesa di essere smistati nei campi di sterminio di Treblinka e Auschwitz. Qui si faceva musica, si allestivano spettacoli teatrali e conferenze e di qui passarono anche Adolf Strauss e Ilse Weber. Di quest’ultima, infermiera e poetessa morta ad Auschwitz, si ascoltano tre brani che si distinguono per la loro semplicità e forza. Ade Kamerad è l’addio a un compagno che non vedrà mai più: l’indomani verrò portata via col “trasporto polacco”. In Ich wandre durch Theresienstadt la donna si arresta ai bastioni della fortezza e guarda con sgomento e nostalgia il mondo di fuori. Wiegala è una straziante ninna nanna dalla disarmante tenerezza cantata poco prima della morte: «Es stört kein Laut die süße Ruh, | schlaf, mein Kindchen, schlaf auch du. | Wiegala, wiegala, wille, | wie ist die Welt so Stille!» (Nessun rumore turbi il tuo sonno, dormi mio piccolino, dormi. Ninna nanna, ninna nanna, com’è silenzioso il mondo!).

Musicista attivo nel ghetto di Praga, Adolf Strauss fu deportato a Terezín prima di finire anche lui nelle camere a gas di Auschwitz. Appl presenta un suo lavoro che ha inciso sull’album “Heimat” del 2017 e che anche Anne Sofie von Otter aveva registrato dieci anni prima: Ich weiss bestimmt, ich werd dich wiedersehen (Sono certo che ci rivedremo) riporta un po’ di speranza dopo tanto dolore. Sulla stessa linea è il pezzo finale del recital, Urlicht, ancora dal “Corno magico del fanciullo”, dove un angelo viene a consolare con la sua luce «l’uomo prostrato nella più grande miseria, nel più grande dolore». 

Con compostezza e impeccabili mezzi vocali ed espressivi Benjamin Appl ha traghettato il pubblico attraverso questi abissi dell’anima. Agli insistenti applausi risponde con due bis. Prima della dedica a Fischer Dieskau di cui s’è detto, il baritono tedesco omaggia la sua nuova patria di adozione, la Gran Bretagna, con una canzone del 1936 molto popolare durante la Seconda Guerra Mondiale e che diede anche il titolo a un film del ’43, I’ll walk beside you, interpretata da Appl in modo tale da rivelare il suo amore per questo repertorio.

Hamlet

foto © Daniele Ratti e Mattia Gaido

Ambroise Thomas, Hamlet

Torino, Teatro Regio, 13 maggio 2025

★★★★☆

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Amleto tenore. E che tenore!


Hamlet di Ambroise Thomas torna al Regio nella versione originale per tenore, con John Osborn intenso protagonista. Direzione elegante di Jérémie Rhorer, che valorizza la trasparenza e la ricchezza timbrica dell’orchestrazione. Splendide Clémentine Margaine e Sara Blanch. Regia di Jacopo Spirei, visionaria e coerente. Successo travolgente per uno degli spettacoli migliori della stagione.

Il maggior interesse per questo Hamlet, a parte la rarità di esecuzione, per lo meno qui in Italia, sta nel fatto che il personaggio del titolo non è un baritono, come si è sempre ascoltato, bensì un tenore. 

Infatti, la sera del 9 marzo 1868 all’Opéra Le Peletier, Hamlet fu il baritono Jean-Baptiste Faure, ma il compositore Ambroise Thomas aveva concepito il ruolo del protagonista per tenore, come dimostra la partitura originale scoperta recentemente, ma poi non avendo trovato un tenore che fosse all’altezza di quanto richiedeva, aveva preferito adattare la parte per uno dei più rinomati baritoni dell’epoca e da allora si sono succedute voci gravi per intonare «Être ou non être». Dopo i recenti Sir Simon Keenlyside, Stéphane Degout e Ludovic Tézier, a interpretare il triste principe di Danimarca sulle tavole del Regio sale il tenore americano John Osborn, ammirato dal pubblico torinese ne La fille du régiment esattamente due anni fa. Ma oltre alla curiosità del cambio di registro del protagonista, quello che si rivela è uno spettacolo imperdibile per la direzione orchestrale, l’eccellenza dei cantanti e la travolgente messa in scena, un insieme che fa di questo il migliore spettacolo della stagione fino a oggi.

«Il y a deux espèces de musique: la bonne e la mauvaise. Et puis, il y a la musique d’Ambroise Thomas» (Ci sono due tipi di musiche: la buona e la cattiva. E poi c’è quella di Thomas) è la tagliente battuta di un Emmanuel Chabrier geloso della popolarità presso il pubblico borghese della musica facile e melodiosa del rivale, però ci fu anche la sincera ammirazione di un compositore certo non accomodante come Berlioz. D’altronde Thomas collezionò i maggiori riconoscimenti della sua epoca: Prix de Rome nel 1832, Chevalier de la Légion d’honneur nel 1845, elezione all’Académie des Beaux-Arts nel 1851, professore di composizione al Conservatoire de Musique nel 1856 e poi direttore nel 1871 e infine la Grand-Croix nel 1891, in occasione della millesima rappresentazione della Mignon, l’altra sua opera che ha superato il giudizio del tempo, e anche questa come Hamlet di nobili origini letterarie, il Goethe de Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister.

Dopo la trionfale prima del 1868, l’opéra lyrique di Thomas, naturale evoluzione del genere grand-opéra su temi letterari invece che storici o religiosi, conquistò sempre più i palcoscenici dei teatri mondiali grazie al favore accordatagli da voci mitiche. Un relativo abbandono si ebbe a partire dagli anni ’20, ma dagli anni ’80 del secolo scorso – rimarrà celebre la registrazione con Richard Bonynge, Sherill Milnes e Joan Sutherland del 1984 – ne avviene la riscoperta e da allora innumerevoli sono le riproposte. L’ultima volta di Hamlet a Torino fu nel 2001 con un giovane Tézier nel ruolo eponimo e la Ophélie di Annick Massis, la concertazione e la regia furono dei fratelli Joel, rispettivamente Emmanuel e Nicolas. Per la prima volta l’opera veniva rappresentata in forma scenica in francese nel nostro paese, dove comunemente veniva utilizzata la versione in italiano di Achille de Lauzières.

A parte il suo fascinoso melodizzare – qui il tema del duetto «Doute de la lumière, | doute du soleil e du jour» diventa il rapinoso motivo ricorrente in tutta l’opera – è l’orchestrazione di Hamlet a sorprendere, specialmente nel reparto dei fiati: nel breve preludio che vuole evocare la mente del tormentato principe, bellissimo è l’intervento del corno mentre in quello che precede la scena notturna sugli spalti di Elsinore è il trombone a dipin­gere efficacemente l’atmosfera. Saranno ancora i fiati i protagonisti del­la musica della pantomima, i tromboni al­l’inizio del terz’atto e il clarinetto al quarto. Per non parlare del corno inglese nell’aria di Ofelia o dell’assolo di sassofono che introduce la recita dei guitti, la prima volta che lo strumento, inventato pochi anni prima, è usato in un’opera lirica. Per non parlare dei momenti di gloria delle trombe nelle tante fanfare che introducono le scene di corte.

Grande esperto del repertorio francese sia classico che contemporaneo, Jérémie Rhorer sa mettere in luce le qualità della partitura esaltandone la trasparenza, ma senza rinunciare al taglio drammatico della tragedia scespiriana qui reinterpretata da un francese dell’Ottocento che del Bardo conosceva al più poche opere in traduzioni spesso discutibili. Rhorer ci restituisce il gusto di un’epoca con grande eleganza e una concertazione attenta che evidenzia gli strumentisti del Regio impegnativi in numerosi assoli o in pieni orchestrali dalla sonorità sontuosa e brillante. Alcuni tagli – il coro dei commedianti nel terzo e dei contadini nel quarto – concentra le ragioni del dramma, rende più fruibili le quattro ore di musica e contrastanti i colori dei quadri, ora tragici ora puro divertissement. 

Umbratile, introverso, il carattere di Amleto è stato indissolubilmente legato al timbro di baritono, ma con il registro tenorile il personaggio acquista una maggiore fragilità assieme però a una dimensione di baldanza eroica adatta al brindisi «Ô vin, dissipe la tristesse». Il ruolo non richiede gli acuti spinti in cui eccelle il tenore americano, che qui si può concentrare su un bel suono misto, mezze voci delicate, un fraseggio da manuale e declamati dove ogni parola ha il suo significato espressivo. Specialista del repertorio francese, Osborne sfoggia anche un’ottima dizione. Esaltante è il duetto con la madre, qui Clémentine Margaine, un mezzosoprano di grande temperamento ed eccezionale proiezione vocale con cui delinea il complesso personaggio di Gertrude. Altro pilastro di eccellenza della serata è l’Ophélie di Sara Blanch, che nella attesa e celeberrima scena della pazzia non si trasforma in macchinetta di puri virtuosismi vocali, ma pur eseguendo alla perfezione le agilità richieste mantiene la drammaticità della scena che così non diventa un elemento di discontinuità nel racconto, anche grazie alle scelte registiche di cui parleremo. Riccardo Zanellato è un Claudius corretto ma un po’ incolore, di lusso invece il Laërte di Julien Henric, parte troppo breve per godere del timbro luminoso e della eleganza del tenore lionese. Breve ma decisiva anche quella dello Spettro del re morto, affidata alla voce declinante ma sempre molto personale e qui particolarmente efficace di Alastair Miles. Alexander Marev (Marcellus), Tomislac Lavoie (Horatio), Nicolò Donini (Polonius), Janusz Nosek (Primo becchino) del Regio Ensemble e Maciej Kwasnilowski (secondo becchino) completano il glorioso cast messo insieme per questa produzione. Non ultimo è da segnalare l’esemplare lavoro fatto dal coro, istruito da Ulisse Trabacchin, qui in una delle sue prove migliori.

Il regista Jacopo Spirei legge Hamlet senza cercare di trasformarla nella tragedia di Shakespeare, accettando cioè gli aspetti romantici dati al lavoro dai suoi autori, il che non vuol dire trascurare il carattere tragico della vicenda e gli aspetti psicologici dei suoi personaggi. È un viaggio nella mente del principe danese, quasi sempre in scena, fin dal preludio dove osserva tristemente il cadavere del padre in un obitorio délabré. Subito dopo il sipario si alza sulla sala principale della reggia di Elsinore, elegante ma sontuosa, che lo scenografo Gary McCann adibisce a scena unica grazie a sipari che scendono a definire nuovi spazi. Ma non ci sono gli spalti del castello battuti dal vento: l’apparizione dello spettro avviene con il padre che gioca a palla in un campo di fiori con Hamlet e Ophélie bambini in un tramonto infuocato, questo a sottolineare che quello che vediamo è quanto passa nella mente del giovane principe.

Nella scena della rappresentazione dei guitti, mascheroni da sfilata di carnevale entrano in scena per rappresentare i tre personaggi della pantomima, mentre bianchi veli avviluppano Ophélie nel momento del suicidio. Una schiera di comparse vestite di nero si presentano a sipario aperto con in mano un libro, forse di quella filosofia di Orazio che non vede che «There are more things in heaven and earth», figure che continueranno a frequentare la scena assieme a fanciulle vestite di bianco, quasi a compensare la mancanza del tradizionale balletto. Una sottile vena di humour nero pervade la lettura di Spirei, evidente nella scena del cimitero del quinto atto, qui l’obitorio visto all’inizio, con cinici becchini affacendati attorno a innumerevoli cadaveri, anche quello di Ophélie che ricomparirà nel finale, dove Hamlet trafitto dalla spada si fa guidare dalla mano del padre per uccidere Claudius per poi salire su un cavallo a dondolo, simbolo della sua infanzia in qualche modo negata, per essere incoronato da una corte inorridita. 

Con gli acconci costumi di Giada Masi (dove Ophélie con la gonna di tulle porta anfibi maschili…) e le accorte luci di Fiammetta Baldiserri, Spirei mette in scena uno spettacolo di grande impatto visivo e grandemente apprezzato dal pubblico giovanile della recita a loro dedicata. Un pubblico attentissimo, partecipe, entusiasta e anche competente, che ha coperto di applausi scroscianti gli interpreti di Hamlet, Ophélie e Gertrude e il direttore. Un pubblico a cui manca solo la puntualità per essere perfetto.

 

Il piccolo Marat

Pietro Mascagni, Il piccolo Marat

Livorno, Teatro Goldoni, 12 dicembre 2021

★★★☆☆

(registrazione video)

Cent’anni dopo 

Livorno ricorda il suo più illustre concittadino mettendo in scena a distanza di cento anni Il piccolo Marat di Pietro Mascagni, opera presentata la prima volta al Teatro Costanzi di Roma il 2 maggio 1921.

Dopo il periodo del disimpegno di Lodoletta e dell’operetta , al compositore erano state proposti due soggetti a sfondo politico: da Illica una Maria Antonietta e da Targioni-Tozzetti e Menasci una Carlotta Corday. Pur rifiutando i soggetti – «Come si può mettere in musica l’acquisto dei voti dei deputati della Convenzione? […]. E poi, Forzano, si può far cantare Robespierre? Lei lo vede Robespierre tenore, o anche baritono, o basso profondo. Io non me la sento», come aveva scritto al librettista – il compositore aveva però continuato a pensare a un’opera ambientata nel clima della Rivoluzione Francese, ma senza personaggi storici.

Nacque dunque Il piccolo Marat, ispirato da Les noyades de Nantes (Gli annegamenti di Nantes) di Georges Lenôtre, un episodio del Terrore che ebbe luogo tra il novembre 1793 e il febbraio 1794 a Nantes quando migliaia di persone sospettate dalla Repubblica (prigionieri politici, prigionieri di guerra, criminali comuni, ecclesiastici e loro familiari) furono annegate nella Loira su ordine di Jean-Baptiste Carrier. Queste vittime morirono in quello che Carrier chiamò il “torrente rivoluzionario” o la “vasca nazionale”. Forzano scrisse alcuni versi, che vennero poi virgolettati per distinguerli dagli altri, del libretto e per il resto fu Targioni-Tozzetti, non senza forti polemiche con Forzano. L’opera al debutto ebbe un enorme successo, replicato subito dopo al Teatro dal Verme di Milano

Atto primo. Il principe di Fleury, sotto mentite spoglie, salva Mariella, nipote dell’Orco, il presidente del Comitato rivoluzionario: la folla affamata l’aveva assalita perché portava un paniere pieno di vivande. Il giovane chiede poi di essere arruolato nei Marats, le guardie rivoluzionarie, e viene quindi soprannominato il Piccolo Marat. Il carpentiere mostra all’Orco il modello dell’imbarcazione sulla quale saliranno i prigionieri: il perverso progetto dell’Orco per liberare le carceri è infatti quello di imbarcare i prigionieri, e poi far esplodere la barca. Ma il carpentiere chiarisce all’Orco che lui è un artigiano, non un boia; e l’Orco, per punirlo, lo condanna ad assistere a tutte le esecuzioni. Il Piccolo Marat riesce a parlare attraverso una grata con la madre, la principessa di Fleury, rinchiusa in prigione, e le promette che la salverà.
Atto secondo. La casa dell’Orco. Mariella canta tra sé e sé. Il Falegname viene a trovarla. È molto cambiato, “emaciato, cenerino, disfatto”. È venuto a chiedere a Mariella di intercedere per lui presso lo zio. I due ricordano com’era un tempo la loro città. Il Falegname confessa di essere una spia del Soldato. Mariella rivela una Madonna in un presepe nascosto dietro il ritratto di Marat, sul quale giura di non tradire il Falegname. Entra il Piccolo Marat. Con le sue azioni dimostra il suo affetto per Mariella. Chiede se il Falegname ha “una barca che va in mare”. Il Falegname ammette di averla. Il Piccolo Marat si accorda con il Falegname per incontrarlo più tardi per l’uso della barca. Entra il “Portatore di ordini” con dei documenti per l’Orco. Il Piccolo Marat li sfoglia, ne estrae alcuni e li mette in tasca. Entrano l’Orco e i suoi uomini. Estorcono oggetti di valore a una serie di prigionieri che vengono portati davanti a loro. L’Orco nota l’assenza di documenti per la Principessa Fleury, cosa che lo fa arrabbiare. L’Orco fa per colpirla e al suo grido entra il Soldato. L’Orco rivela che governa secondo le istruzioni di Robespierre. A questo punto il Soldato commette un errore fatale chiamando Robespierre tiranno. L’Orco batte il Soldato vantandosi con la folla che è entrata nel Palazzo del Comitato e che si avventa sul Soldato, lo lega e lo porta al fiume per gettarlo. Tutti escono, tranne Mariella e il Piccolo Marat che dichiara il suo amore per Mariella e cerca di conquistarla, rivelandole di essere il Principe Jean-Charles di Fleury. La arruola nel suo piano per salvare la madre e Mariella acconsente. I due si nascondono nell’ombra mentre l’Orco, ubriaco, torna e sale le scale verso la sua camera da letto.
Atto terzo. L’Orco si è addormentato: il Piccolo Marat lo lega e lo costringe a firmare un salvacondotto per lui, la madre, Mariella e il carpentiere. L’Orco firma, ma con il braccio rimasto libero riesce a impossessarsi di una pistola e ferisce il principe di Fleury. L’uomo supplica Mariella di fuggire e di salvarsi insieme alla madre. Arriva il carpentiere e con un candelabro uccide l’Orco; quindi si carica sulle spalle il Piccolo Marat ferito e fugge con lui verso la libertà .

«Da una parte i buoni (Mariella, Il piccolo Marat, il carpentiere), dall’altra i cattivi (l’Orco): proprio come nelle fiabe, tanto che nel libretto si citano pure l’orco vero e proprio e Cappuccetto Rosso. Ma Mascagni riesce innanzitutto a descrivere musicalmente il clima del Terrore: i cori degli affamati di pane e di sangue (di bell’effetto è, nel terzo atto, il Coro dei diavoli neri); le pagine orchestrali delineano un’atmosfera tutt’altro che di fiaba, cupa, colma di una paura e di un’oppressione che solo il luminoso finale, con l’apparizione della vela bianca della libertà, riuscirà a fugare. In un affresco storico nel quale l’attenzione si appunta sulla vita di una collettività, spiccano l’Orco, un cattivo tout court che si esprime anche con un modernissimo declamato, e il Piccolo Marat: l’eroe buono e dalla vocalità spinta, che sembra ritornare alle origini del verismo. L’opera non è peraltro immune da una certa dose di retorica, ad esempio nelle ripetute invocazioni di Fleury nei confronti della madre. Così, in un’intervista, Mascagni aveva spiegato le novità del suo lavoro: “Il piccolo Marat è forte, ha muscoli d’acciaio. La sua forza è nella sua voce: non parla, non canta; urla! urla! urla! Ho scritto l’opera coi pugni tesi, come l’anima mia! Non si cerchi melodia, non si cerchi cultura: nel Marat non c’è che sangue! è l’inno della mia coscienza”. In una Roma dove le tensioni del dopoguerra stavano per sfociare nelle elezioni, l’opera venne accolta con un successo trionfale al grido di Viva Mascagni! Viva l’Italia!». (Susanna Franchi)

Se, giustamente, la parola “morte” ricorre 34 volte nel libretto di Forzano, “mamma” è ripetuto ben 44 volte, talora accompagnata dagli attributi «buona, soave, amorosa», ed è anche l’ultima battuta del protagonista principale nel finale di questo drammone a forti tinte che nell’Italia della crisi del dopoguerra e sull’orlo di una rivoluzione comunista, ma che avrebbe visto un anno dopo la Marcia su Roma, ottenne un enorme successo di pubblico per poi finire nel dimenticatoio. Non a Livorno però, dove si contano ben undici produzioni da llora, l’ultima nel 1989. Non tanto la musica, che qui mescola allegramente i linguaggi di compositori coevi ma che, per lo meno nel secondo atto, ha una certa efficacia teatrale, quanto l’orrendo libretto ha tenuto lontano dalle scene non livornesi questo terz’ultimo lavoro di Mascagni che concluderà la sua carriera operistica con Pinotta (1932) e Nerone (1935), questo però scritto recuperando musica composta precedentemente, prima di un decennio improduttivo.

Mentre all’estero le opere della Giovane Scuola vengono riproposte in interessanti produzioni che esaltano il loro taglio cinematografico – Holland Park, Wexford, An der Wien, Francoforte – il ripescaggio di un teatro di provincia come quello di Livorno viene affidato a un direttore di buon mestiere, Mario Menicagli alla guida dell’Orchestra della Toscana, che non sa però trarre il meglio che può offrire questa partitura e a una regista, Sarah Schinasi, che non sfrutta le potenzialità della vicenda, manca in pieno il lavoro attoriale sui cantanti e scade in particolari o ingenui o imbarazzanti, come quella che sembra una fellatio sull’Orco ubriaco. La realistica e semplice scenografia di William Orlandi rende la pesante e cupa claustrofobia della storia ma rinuncia a distinguere i vari ambienti in cui è vissuta. Lo stesso Orlandi disegna i costumi che mescolano inopinatamente epoche diverse.

Meglio va con l’insieme degli interpreti. Sono una dozzina i personaggi, ma tre quelli più importanti. Il ruolo tenorile del titolo è estremamente impervio con un declamato importante e un registro acuto esigente che Samuele Simoncini risolve con sicurezza e timbro squillante. Per l’Orco Andrea Silvestrelli dispone del volume adeguato e dei suoni gravi necessari per delineare la parte di uno dei vilain peggiori della storia dell’opera. Valentina Boi è una Mariella remissiva che trova nel primo amore la forza per vivere. La cantante, se non per la presenza scenica, rende convincente il personaggio con una efficace performance vocale fatta di tanti recitativi e repentini salti all’acuto di impronta pucciniana. È anche grazie a lei che viene bissato a richiesta del pubblico il duetto del terzo atto dove l’«Insieme nell’amore! Insieme nella morte!» inneggiato dai due non può non richiamare l’analogo momento dell’Andrea Chénier. Alberto Mastromarino è un dolente Carpentiere mentre Stefano Marchisio si ritaglia un suo successo personale per la spavalda presenza vocale nel personaggio del soldato. Coro non sempre preciso e attento quello del Teatro Goldoni.