Mese: novembre 2025

L’uomo, la bestia e la virtù

foto © Pino le Pera

Luigi Pirandello, L’uomo, la bestia e la virtù

regia di Roberto Valerio

Torino, Teatro Gobetti, 27 novembre 2025

Pirandello tra farsa, incubo e verità

Prodotto da Teatri di Pistoia–Centro di Produzione Teatrale in collaborazione con il Teatro Nuovo Giovanni da Udine, L’uomo, la bestia e la virtù approda al Teatro Gobetti, dove resterà in scena fino a domenica 7 dicembre 2025, portando con sé tutta la sua miscela di ironia corrosiva e inquietudine pirandelliana. L’allestimento di Roberto Valerio ne esalta il lato grottesco e onirico, trasformando la farsa pirandelliana in un incubo brillante tra maschere, istinti e apparenze che crollano restituendo tutta l’ambiguità e la complessità del testo, sospeso tra comicità e turbamento.

Quando debuttò nel 1919, il pubblico rimase spiazzato: cos’era, esattamente, quel testo? Una farsa? Un incubo? Un esperimento grottesco? Forse tutto insieme. Pirandello si diverte – e ci sorprende ancora – con uno dei suoi lavori più anomali, un’opera che mescola comicità e perturbazione, leggerezza e crudeltà, lasciandoci sospesi tra sogno e realtà. Al centro, un triangolo amoroso che più spinoso non si può: un marito assente e brutale, una moglie virtuosa ma abbandonata, e l’amante di lei, un professore di reputazione immacolata. Da questo intreccio scaturisce un gioco di specchi che mette a nudo desideri, convenzioni soffocanti e quell’irriducibile ambiguità che anima – e tormenta – l’essere umano.

La storia è nota, ma sempre sorprendente. Il capitano Perella – la Bestia, almeno in apparenza – naviga più tra città e amanti che tra doveri domestici. Sua moglie, la Virtù incarnata, resta a casa a rimuginare solitudine e decoro. Accanto a lei, l’Uomo: Paolino, professore irreprensibile e precettore del figlio dei Perella, che però con la signora intreccia una relazione clandestina. A complicare tutto, una gravidanza che rischia di far saltare il castello delle apparenze.

La soluzione escogitata da Paolino è una delle invenzioni più improbabili – e irresistibilmente comiche – del teatro pirandelliano: somministrare al capitano un afrodisiaco micidiale con l’aiuto del medico e del farmacista, così da indurlo, nell’unica notte che trascorre a casa, a “consumare” il matrimonio e salvare così l’onore di tutti. Da questo espediente nasce una spirale tragicomica che finisce per rimettere in discussione ogni etichetta: Paolino è davvero l’Uomo? Perella davvero la Bestia? E la signora Perella così ineccepibilmente Virtuosa? Pirandello costruisce tutto sul paradosso: i personaggi indossano maschere così rigide da soffocare passioni e volontà; il perbenismo diventa una corazza che si crepa al primo urto; la “bestialità” non è dove ci si aspetterebbe.

L’allestimento di Roberto Valerio amplifica questa tensione, spingendo il testo verso un ritmo scattante, un registro farsesco e un’atmosfera costantemente ambigua. I personaggi si muovono come creature in bilico tra umano e animale, secondo un’indicazione che affonda le radici nella poetica pirandelliana: il comportamento civile si sgretola, l’istinto guadagna terreno e il pudore svanisce come un ricordo lontano.

L’impianto scenico ha una venatura sinistra, quasi allucinata. L’ingresso dei personaggi è accompagnato da un tappeto sonoro inquietante firmato da Anselmo Luisi, in equilibrio tra thriller e surreale; le luci fredde e stranianti di Emiliano Pona accentuano il disagio; i cambi scena, frenetici e affidati agli stessi interpreti con maschere anonime e perturbanti, si svolgono su una musica stridente che taglia lo spazio.

Tra gli elementi più affascinanti emergono le scene oniriche: vere pause visive in cui affiorano le maschere pirandelliane, simboli viventi delle verità sommerse dei personaggi. Queste apparizioni trasformano il palcoscenico in uno spazio mentale, una sorta di camera della coscienza dove prendono corpo pensieri, paure e sensi di colpa. Una soluzione scenica raffinata e profondamente teatrale, che dona allo spettacolo un’aura quasi metafisica.

In questo contesto si muovono gli interpreti: Max Malatesta accompagna Paolino in un crescendo di goffaggine animalesca; Vanessa Gravina scolpisce pose plastiche che rendono la signora Perella fragile e combattiva; Nicola Rignanese, nei panni del capitano, dosa grugniti, furie e inaspettata lucidità finale, costruendo una Bestia insieme grottesca e autentica. Accanto a loro, Beatrice Fedi, Massimo Grigò, Franca Penone, Lorenzo Prestipino e Mario Valiani compongono un coro scenico solido e partecipe, fondamentale nel disegnare un mondo che oscilla tra farsa, sogno e ferinità.

Quello di Valerio è un allestimento che abbraccia l’ambiguità pirandelliana, la amplifica e la rilancia attraverso un’estetica visionaria e cinematografica, fissando il dramma in un presente assoluto, teso e incombente. Una lettura che illumina, con ironia e inquietudine, la vertigine eterna tra apparenza e verità.

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Jeff Wall: Photographs

Invisible Man (2001)

Jeff Wall, Photographs

Torino, Gallerie d’Italia, 26 novembre 2025

Il brivido del dettaglio: dentro le “poesie in prosa” di Jeff Wall

La fotografia di Jeff Wall è stata definita in molti modi – “letteraria”, “pittorica”, “cinematografica” – e non a torto. L’ampia esposizione alle Gallerie d’Italia di Torino, dedicata all’artista canadese nato nel 1946, mostra con chiarezza le molte anime del suo lavoro attraverso ventisette opere, alcune in formato così vasto da diventare quasi ambienti. La figura umana, spesso a grandezza naturale, è la protagonista incontestata del suo universo visivo, il centro fisso attorno a cui ruotano costruzioni narrative, osservazioni sociologiche e riflessioni sulla rappresentazione.

Informant (2023)

La componente letteraria, in particolare, si rivela nel carattere descrittivo della fotografia: un medium che, come la scrittura, racconta. Lo si avverte in Informant (2023), dove una giovane in camice bianco chiama la polizia. Il titolo, quasi una didascalia espansa, chiarisce che la scena cita il «sesto capitolo, parte terza» di Últimas tardes con Teresa di Juan Marsé, momento in cui la farmacista Hortensia denuncia un furto. Wall inserisce anche una piccola immagine del poliziotto all’altro capo del telefono: un espediente inusuale nella fotografia ma familiare al cinema o al fumetto per rappresentare luoghi e tempi differenti in parallelo. Questo piccolo scarto formale introduce nell’immagine una tensione appena percettibile, la sensazione di un racconto che potrebbe dilatarsi oltre i margini della cornice.

Altri “incidenti di lettura”, come li definisce David Campany nel saggio in catalogo, animano opere quali After Spring Snow (2005), derivata da Yukio Mishima, Invisible Man (2001) da Ralph Ellison, o Odradek (1994) da Kafka. In particolare Invisible Man mette in risalto ciò che distingue letteratura e fotografia: la quantità di dettagli, quasi un eccesso di realtà, che nessuna descrizione, per quanto meticolosa, riuscirebbe a pareggiare. È l’“effetto realtà” della fotografia, la sua inclinazione a far sembrare un resoconto oggettivo spesso più ricco del necessario. Non sorprende che la mostra accompagni le opere monumentali – Invisible Man misura 174 × 250 cm – con ingrandimenti di dettagli altrettanto eloquenti, a sottolineare la natura costruita e stratificata della sua staged photography.

The Thinker (1986)

Sul fronte pittorico, Wall dialoga con una tradizione antica quanto la fotografia stessa, nata anche come rivale della pittura nei ritratti e nei paesaggi. Ma il suo approccio è personale, ironico, talvolta sovversivo. Emblematico Picture for Women (1979), ispirato a Manet, o The Thinker (1986), presente in mostra: una messa in scena ai limiti della caricatura in cui un uomo dagli abiti consunti, seduto su un tronco poggiato su blocchi di cemento in una landa industriale, imita la posa del Pensatore di Rodin. Osservando meglio, si scopre una spada conficcata nella sua schiena: un riferimento diretto, e sarcastico, al Monumento in commemorazione della vittoria dei contadini di Dürer (1525). L’eco pittorica diventa così un dispositivo di interrogazione critica, un modo per rinegoziare gli stilemi della storia dell’arte.

The Listener (2015)

Non meno importante è la dimensione cinematografica del lavoro di Wall, evidente in molte immagini singole o multiple. Qui gli scatti sembrano frammenti di film di cui ignoriamo la trama: proprio l’incertezza narrativa crea una risonanza più profonda. In The Listener (2015), un uomo pallido e biondo, a torso nudo, è inginocchiato a terra, circondato da alcuni uomini non apertamente minacciosi. La scena non mostra violenza, ma la tensione è palpabile, quasi più feroce di un gesto esplicito. Wall costruisce situazioni che “stanno per accadere”: l’energia sospesa è la vera protagonista.

Tra le opere più sorprendenti in mostra vi è The Gardens (2017), ambientata sulla collina torinese, a Villa Silvio Pellico. Tre pannelli giganteschi – ciascuno misura 250 × 380 cm – compongono il lavoro più monumentale di Wall. In questo trittico si dispiega una disputa silenziosa e tesa fra padroni e servitori, interpretati dagli stessi attori. L’apparente quiete del parco cela dinamiche sociali intrise di risentimento, sfiducia, coscienza di classe e privilegi: un conflitto che non trova soluzione, sospeso in un equilibrio fragile. L’opera si legge come un tableau vivant contemporaneo, dilatato e inquieto.

The Gardens : Denial (2017)

Tutte queste componenti convergono in Event (2021), l’immagine conclusiva di questa ideale selezione: una scena semplice, quasi anodina, ma densa di allusioni. Due giovani in smoking si affrontano in un ambiente lussuoso, forse un hotel pronto per una convention o una festa di matrimonio. Uno punta il dito contro l’altro: potrebbe essere il preludio a uno scontro fisico, o almeno verbale. I due uomini si somigliano – età, tratti, postura – come se la scena rappresentasse un conflitto speculare, un duello tra doppi. Il corridoio in prospettiva, i colori vivaci del tappeto contro la boiserie dai toni smorzati, il nero degli abiti: tutto è concreto, reale, eppure avvolto da un’aura di mistero e sospensione.

Jeff Wall definisce le sue immagini “poesie in prosa” e sostiene che «in questo stato di sospensione, lo spettatore provi piacere». Un piacere sottile, lontano dall’angoscia generata dall’attuale proliferazione di manipolazioni digitali e deep fake: un ritorno alla complessità della visione, alla capacità della fotografia – costruita, meditata, precisa – di far interrogare senza ingannare.

Event (2021)

Dracula

foto © Andrea Macchia

Dracula

testo di Fabrizio Sinisi dal romanzo di Bram Stoker

regia di Andrea de Rosa

Torino, Teatro Astra, 18 novembre 2025

Dracula: l’eternità che fa male

Dopo “Buchi neri”, “Cecità”, “Fantasmi”, il nuovo triennio del TPE, ancora con la direzione di Andrea de Rosa, si intitola “Persone” e nei prossimi tre anni verrà declinato come “Mostri”, “Guerra”, “Amore”. Quest’anno inizia appunto con “Mostri” e lo spettacolo di Andrea De Rosa trasforma il Teatro Astra in una cattedrale gotica immersiva. Federica Rosellini offre un vampiro simbolico e dolente, intrappolato in un’immortalità senza pace. La drammaturgia di Fabrizio Sinisi unisce lirismo e orrore in un’esperienza sensoriale totale, tra luci, suoni e visioni che riflettono le nostre paure più profonde.

Il TPE inaugura la stagione 2025/26 con un colpo di teatro che è anche un colpo al cuore: Dracula, una nuova produzione firmata dal regista Andrea De Rosa e dal drammaturgo Fabrizio Sinisi, liberamente ispirata al romanzo di Bram Stoker. Ma “liberamente” è dir poco: qui il mito del vampiro si scolla dalle sue tradizioni gotiche più consumate per trasformarsi in un’indagine lancinante sul desiderio d’immortalità, sulla carne che non muore e, proprio per questo, condanna chi la abita a un’esistenza interminabile e insopportabile. Dracula non è più solo il conte maledetto: è una forma di dolore che insiste, che torna, che non si estingue.

Entrare nel Teatro Astra equivale a oltrepassare la soglia del castello del Conte. De Rosa ha infatti trasformato lo spazio scenico – anzi, l’intero edificio – in una sorta di cattedrale spettrale. Il pubblico affronta un corridoio stretto, quasi un tunnel iniziatico, prima di spalancare una porta ed essere inghiottito da una sala alta, scura, vertiginosa. Le luci rasentano il nulla, i suoni – ferrigni, taglienti – arrivano da ogni lato come un assedio acustico: sopra, sotto, dietro, da punti impossibili da localizzare. È esattamente da questa perdita di orientamento che nasce il primo, potente effetto dello spettacolo: lo spaesamento. Un turbamento che non viene smorzato ma, al contrario, intensificato per tutto il corso della messinscena.

L’ombra di Nosferatu si allunga sulle finestre altissime; rumori sinistri scendono dal graticcio; parole disincarnate affiorano nel buio prima di aderire come ectoplasmi ai corpi in scena. Al centro dello spazio, tre tavoli autoptici, come in un obitorio fuori dal tempo. Su quello centrale, il corpo lattiginoso di una giovane donna; sopra di lei, sospeso a tubi traslucidi che somigliano a vene giganti, pulsa un enorme cuore. È in questo ambiente viscerale e rituale che fa la sua comparsa il Dracula di Federica Rosellini, interpretazione magnetica che tiene insieme ferocia e struggimento, inquietudine e pietà. Il suo vampiro non è un mostro che terrorizza, ma un essere che, non potendo morire, è condannato alla più radicale delle solitudini: quella di chi ama troppo per poter semplicemente svanire.

Sinisi, nella sua drammaturgia, abbraccia un ritmo quasi poetico: meno dialoghi, più monologhi che sanno di canto e di meditazione, flussi verbali che trascinano lo spettatore dal lirismo all’orrore fino a una sorta di vertiginosa lucidità finale. Dracula diventa una lunga lettera interiore, un ragionamento per immagini e sangue, un tentativo disperato di decifrare cosa significhi esistere ai margini della morte senza potervi precipitare del tutto.

Federica Rosellini compie un gesto quasi sacrale: restituisce il personaggio alla sua dimensione simbolica, trascendendo ogni riferimento di genere. Il suo Dracula è un’entità ferita che ha disimparato l’umanità, che non riconosce più i confini morali, affettivi, persino temporali dell’essere umano. Vive in una “luccicanza dannata”, sempre troppo tardi per amare, troppo tardi per redimersi, troppo tardi per rinunciare al desiderio che lo distrugge. In questo senso, il tema dell’immortalità si allarga a una riflessione universale: quante volte, anche noi, capiamo il senso di un amore, di un rapporto, di un gesto, quando l’orchestra ha già smesso di suonare? Dracula diventa un ammonimento: l’eternità è una condanna quando si ama fuori tempo massimo.

Nello spettacolo affiora anche un’altra chiave interpretativa: l’immortalità come risposta violenta alla paura di morire. E il Male – quello umano, quello storico, quello che attraversa guerre, massacri, violenze – emerge come figlio diretto di questa fame di permanenza, come se per sopravvivere fosse necessario sacrificare qualcun altro. Il mostro è dunque specchio dell’uomo: non fa male perché brutto, ma perché terribile. La bruttezza è innocua; la terribilità è devastazione pura.

Dracula, d’altronde, resta una figura unica nella letteratura mondiale: un personaggio che cerca la grazia attraverso la propria dannazione, che tenta – paradossalmente – una sorta di salvezza tramite il crimine commesso in nome dell’amore. La scelta di affidare il ruolo a un’interprete femminile non è un vezzo ma un’intuizione che restituisce al mito una universalità più ampia: il Male e il Mostro abitano chiunque, non hanno sesso, non hanno volto stabile.

Nella parte finale, lo spettacolo cambia tono: l’incontro tra Dracula e Mina, che lui crede la reincarnazione della moglie uccisa secoli prima, porta la regia verso un registro più diretto, quasi cinematografico. Le luci si aprono, il ritmo accelera, il sangue – fino a quel momento solo evocato – ora scorre esplicitamente, tingendo la scena. È un cambiamento spiazzante ma coerente: dopo l’incantamento iniziale, ecco il risveglio brutale della realtà.

Anche il Teatro Astra, spogliato delle sue sedute e riconfigurato in altezza e ampiezza, diventa una creatura viva: lo spazio si dilata per contenere un’esperienza totale, un viaggio nel cuore del gotico e della sua eredità più inquietante. Il tema della stagione è “Mostri” e questo Dracula non solo rispetta il titolo, ma lo incarna in ogni fibra.

Sinisi e De Rosa lavorano con determinazione sulla materia narrativa originaria, riaccendendo il fascino esotico e oscuro del romanzo di Stoker: leggende antiche, guerre sanguinarie, epidemie medievali, atrocità sospese nel tempo, tutto filtrato attraverso una scrittura che alterna lirismo e crudeltà, visioni e anatomie. Dracula non è mai semplice da affrontare: ogni epoca rilegge il vampiro secondo la propria ossessione, e questa produzione lo trasforma nell’archetipo di un’umanità che ha perso l’orientamento, che ha paura di finire e allo stesso tempo teme di restare troppo a lungo.

Accanto alla Rosellini e alla intensa Chiara Ferrara, meritano una menzione anche Michelangelo Dalisi, Marco Divsic e Michele Eburnea, che contribuiscono a creare un microcosmo emotivo disturbante e perfettamente calibrato. Di altissimo livello il lavoro sonoro di G.U.P. Alcaro, un paesaggio acustico che pare respirare, ringhiare, quasi vivere; e straordinaria la cura luministica di Pasquale Mari, che scolpisce le ombre come materiali fisici.

Nelle sue note di regia, De Rosa sintetizza la filosofia del progetto: Dracula è la storia di un uomo che non riesce a morire. Ed è anche la storia di un pubblico che accetta di guardare dentro questo desiderio impossibile. Il castello del vampiro diventa teatro d’apparizioni, spazio dove tempo e sogno si deformano, un altare spettrale in cui si celebra un rito antico e modernissimo. Tutto lo spettacolo, soprattutto nella sua prima parte, evoca con eleganza il cinema espressionista tedesco, il Nosferatu di Murnau, e il barocco visionario del film di Coppola del 1992. Poi, quando il mito si avvicina ai nostri nervi scoperti, la scena si fa più realistica: il sangue invade, la metafora si scioglie, resta la carne.

Ne esce un Dracula che non rassicura, non chiude, non consola. È uno spettacolo che inquieta, seduce, fa pensare, lascia dentro una vibrazione che continua a pulsare ben oltre la fine.

Da vedere assolutamente: al Teatro Astra fino al 30 novembre. Un viaggio dentro il buio che non si dimentica facilmente.

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Il furioso nell’isola di San Domingo

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Il furioso nell’isola di San Domingo

Bergamo, Teatro Donizetti, 16 novembre 2025

★★★

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Un Donizetti semiserio che però fa sul serio tra temi coloniali, adulterio e follia amorosa

Il Furioso nell’isola di San Domingo torna a Bergamo in una nuova edizione critica. Alessandro Palumbo dirige con eleganza e passione una partitura di grande raffinatezza; eccellenti Paolo Bordogna, Nino Machaidze e Santiago Ballerini. La regia visionaria di Renga, tra memorie e scenografie esotiche, mette in luce un’opera che ai suoi tempi  fu tra le più popolari per poi essere negligentemente trascurata. 

Dopo il tragico di Caterina Cornaro e il comico di Il campanello e Deux hommes et une femme, il Donizetti Opera Festival propone il semiserio Il furioso nell’isola di San Domingo, chiudendo così il trittico operistico. A Bergamo il titolo era già apparso nel 1987 e nel 2013, ma qui viene presentato nella nuova edizione critica curata da Eleonora di Cintio, che ripristina alcuni numeri dell’originale andato in scena il 2 gennaio 1833 al Teatro Valle di Roma.


A seguito del trionfo milanese de L’elisir d’amore, l’attesa per la nuova opera del compositore bergamasco — allora all’apice della carriera — era grande. Il soggetto deriva da un episodio del Don Chisciotte in cui il Cavaliere Errante, sulla Sierra Morena, incontra un uomo sconvolto dalla follia e rifugiatosi tra le gole montane per una delusione amorosa. Il libretto è affidato a Jacopo Ferretti, già autore per Donizetti di Zoraida di Granata, L’ajo nell’imbarazzo e Olivo e Pasquale, oltre che della Cenerentola rossiniana; più tardi scriverà anche il suo Torquato Tasso.

Atto I. Sulla riva di un’isola battuta dalla tempesta. Marcella esce dalla sua capanna per lasciare del cibo al “furioso”, Cardenio, naufrago impazzito che vaga tra le rocce. Suo padre Bartolomeo sospetta subito le sue reali intenzioni e, trovando il cibo nascosto, lamenta la compassione femminile verso i folli, pur riconoscendo la sofferenza dell’uomo. Giunge Kaidamà, il servo indigeno della fattoria, terrorizzato dalla violenza disordinata di Cardenio, che lo ha colpito ripetutamente. In una lunga aria comica esprime il timore che, se il folle non verrà fermato, sarà lui la prossima vittima. Bartolomeo lo costringe a tornare al lavoro, ma Kaidamà, impaurito, si nasconde. Cardenio entra in scena cantando un’aria disperata sul ricordo della donna amata e perduta. I presenti osservano con angoscia il suo oscillare tra desiderio di morte e nostalgia d’amore. Quando intravede Marcella, si ritrae e fugge fra le rocce. La tempesta cresce e gli isolani assistono al naufragio di una nave. Una donna, Eleonora, viene trascinata a riva; sconvolta e spaventata da Kaidamà, implora di essere lasciata morire. Confessa di aver tradito il marito, pur amandolo ancora, e si sente punita dalla sorte. Marcella la consola e la copre, mentre Bartolomeo vuole conoscerne l’identità. Intanto Cardenio riappare, delirante, ossessionato dal tradimento della moglie. Incontra Kaidamà, gli offre cibo, poi lo aggredisce chiedendo dove si trovi Eleonora. I due cantano un duetto che intreccia paura e furore; alla fine si separano con la fuga di Kaidamà. Una nuova nave approda: Fernando, fratello di Cardenio, sbarca deciso a ritrovarlo e convince Kaidamà ad aiutarlo. Nella capanna, Marcella porta Eleonora al riparo. Cardenio racconta la sua storia: un amore felice, un matrimonio ostacolato dalla rovina economica, un inganno che ha distrutto la giovane sposa e lo ha precipitato nella follia. Eleonora tenta di rivelarsi, ma è trattenuta. Quando Fernando si fa riconoscere, i fratelli si riabbracciano. Eleonora infine si getta ai piedi del marito, ma Cardenio la respinge, incapace di perdonarla. Nel finale d’atto, tutti esprimono il proprio dolore mentre Cardenio fugge ancora ed Eleonora cade svenuta.
Atto II. Sulla spiaggia. Kaidamà e i contadini cercano Cardenio senza successo. L’uomo, ancora in preda alla follia, ricompare invocando solitudine. Eleonora lo ode dalla capanna e desidera rivederlo. Appena lui riconosce la sua voce tenta di fuggire ma cade a terra, stremato e quasi cieco. Eleonora lo raggiunge e, vedendolo in quello stato, si accusa di averlo ridotto così. Cardenio, non vedendo nulla, chiede disperatamente aiuto: la donna gli offre il proprio sostegno, giurando che solo la morte potrà separarli. Lentamente l’uomo recupera la vista e le rivolge parole tenere, ma quando la riconosce come la moglie traditrice scoppia di nuovo il furore: afferra un bastone e sta per ucciderla. Fernando, accorso, lo ferma. Sconvolto, Cardenio corre verso il mare e si getta per annegare; Fernando si lancia dietro di lui e lo salva. Bartolomeo e gli isolani arrivano sulla riva, ansiosi. Kaidamà racconta quanto accaduto. Poco dopo, un gruppo riferisce che Cardenio sembra rinsavito. Fernando conferma: il fratello è profondamente cambiato, desidera tornare in patria e la pietà sembra riaprire in lui uno spiraglio all’amore. Al tramonto, Cardenio appare trasformato esteriormente, ma interiormente ancora tormentato. Ricorda il momento in cui aveva rivisto Eleonora, colpito dal suo dolore. Kaidamà arriva con due pistole: Cardenio lo sorprende e le reclama, dichiarando che solo una morte condivisa con Eleonora potrà chiudere la tragedia della loro storia. Fernando conduce Eleonora al cospetto del marito. Lei confessa di nuovo la sua colpa; Cardenio le consegna una pistola e la invita a ucciderlo, mentre lui farà lo stesso con lei. Ma l’arrivo degli isolani con torce rivela la verità: Eleonora non punta l’arma su di lui, bensì su se stessa. Colpito dalla sincerità del suo gesto estremo, Cardenio comprende finalmente la profondità del suo pentimento. L’equivoco svanisce, il dramma si scioglie, e i due si riconciliano nella gioia, accolti dagli abitanti dell’isola.

La vicenda viene trasportata dalla Spagna ai Caraibi, sullo sfondo di un ambiente coloniale che rifletteva l’allora scottante problema della schiavitù dei neri deportati dalle coste africane. Di questo tema resta traccia nel personaggio di Kaidamà, il servitore moro che, pur nel registro comico/grottesco, restituisce con crudezza la dinamica violenta del rapporto schiavo-padrone. L’elemento comico del personaggio, diviso tra il timore del frustino del padrone e le minacce del “matto furioso”,  non cancella la brutalità della condizione servile né la carica razzista ben presente nelle parole di Bartolomeo, guardiano degli schiavi. Il libretto affronta anche un’altra questione delicata: l’adulterio femminile: Eleonora, moglie di Cardenio — il “furioso” del titolo — si era lasciata sedurre da un impostore, poi condannato a morte. Solo nel finale, con il suo pentimento, ottiene il perdono e il ricongiungimento con il marito. Nonostante la materia spinosa, l’opera conobbe un successo enorme e rimase a lungo tra le più rappresentate, grazie soprattutto alla forza della musica.

L’opera si apre con una sinfonia bipartita — Larghetto in re minore e Allegretto in Re maggiore — che ne marca il carattere semiserio: drammatico e teso il primo tempo, brillante e spensierato il secondo. Che si ascolterà qualcosa di speciale è subito evidente nella direzione di Alessandro Palumbo, alla guida dell’Orchestra Donizetti Opera, con Hana Lee al fortepiano. Il giovane direttore mette in luce con raffinatezza la tersa eleganza della partitura, svelandone i diversi piani sonori e i colori di una scrittura quasi cameristica, dove le sezioni orchestrali sono trattate con equilibrio esemplare. Le dinamiche, generalmente contenute, sanno farsi trascinanti nei momenti cruciali, come nel magnifico sestetto del finale primo, pagina che nulla ha da invidiare ai migliori finali rossiniani. La lettura precisa e affettuosa di Palumbo trova risposta nel fraseggio dell’orchestra, lucido e prezioso nei timbri. Attento ed efficace il coro maschile dell’Accademia Teatro alla Scala, preparato da Salvo Sgrò.

Perfetto l’equilibrio tra buca e palcoscenico, dove si alternano voci di grande valore. Paolo Bordogna affronta un Cardenio che lo costringe ad abbandonare i suoi consueti toni umoristici: qui la scrittura è pienamente seria, con momenti di forte drammaticità. Il primo interprete fu Giorgio Ronconi — l’Enrico de Il campanello e il primo Nabucco — e la parte, complessa e impegnativa, richiede un baritono di vasta estensione, capace di spaziare dal registro grave del basso a quello acuto del tenore. Bordogna supera la sfida con tecnica solida e sicura sensibilità teatrale, senza mai cadere nella caricatura e risolvendo con misura gli sbalzi emotivi del personaggio.

Per la prima volta al festival, Nino Machaidze è un’Eleonora di grande nobiltà, con acuti luminosi, agilità precise e un bel fraseggio. La vena comica di Kaidamà trova in Bruno Taddia un interprete ideale: con il suo istinto scenico trasforma la maschera dello schiavo in una figura degna di Beckett o Ionesco, farsesca ma insieme amara e rassegnata. Valerio Morelli e Giulia Mazzola danno vita ai ritratti musicali di Bartolomeo e Marcella: misurato ed efficace il primo, sensibile e affettuosa la seconda.

Prima del vorticoso concertato del finale primo, colpisce l’ingresso di Fernando, interpretato dal tenore Santiago Ballerini, cui Donizetti affida una scena di grande spettacolarità. Secondo le didascalie «A vele spiegate si avanza un vascello da cui sbarcano molti marinai spagnoli, e quindi Fernando, che si pone subito a percorrere la scena esaminando al rupe». Al coro che canta «Ecco alfin l’onde tranquille», Fernando risponde con un recitativo («Sì, questo è il lido. O mio Cardenio»), aria («Dalle piume in cui giacea») e cabaletta («Ah! Dammi o ciel pietoso») con stretta e pertichini del coro («A quel suo cuore eguale | di figlio un cor non v’è»), ripresa con variazioni e acuto di tradizione. Una struttura di grande efficacia in cui il tenore argentino – già ammirato nella Zarzuela come nel Puccini de La rondine – dispiega un timbro glorioso, bel fraseggio, acuti luminosi e spavalda presenza scenica, dando così nobile spessore al suo personaggio.

Nella regia di Manuel Renga, Fernando non scende da un vascello ma esce da un armadio: l’effetto è comunque teatralmente efficace. Il regista bresciano evoca i Caraibi sulle pareti della scena unica — variata però con grande inventiva — ispirandosi alle decorazioni esotiche delle dimore settecentesche di Bergamo Alta. Palme, banani, felci, cactus, uccelli, tutti nei toni rosa, cilestrino e smeraldo, si rincorrono nella scenografia di Aurelio Colombo, che firma anche i costumi, divertenti e coloratissimi. La chiave di lettura è la memoria: il vecchio Cardenio rievoca il proprio passato, e passato e presente si intrecciano con fluidità, sospesi tra realtà e ricordo. Il suggestivo lighting design di Emanuele Agliati accompagna i mutamenti della scena con tocchi poetici e ironici. Indimenticabile il finale primo, dove nel bailamme “rossiniano” del concertato anche i mobili danzano sospesi: un momento di grande teatro che ha entusiasmato il pubblico, pronto a tributare calorose ovazioni a cantanti, direttore, regista e collaboratori. Uno spettacolo che meriterebbe di essere ripreso altrove.

Nel 1825 Donizetti non presentò alcuna opera nuova; per questo motivo quest’anno manca il titolo del bicentenario. L’anno prossimo, per la dodicesima edizione del festival, sarà la volta di Alahor in Granata (1826). Nel 2026 torneranno anche L’esule di Roma e Le convenienze ed inconvenienze teatrali.

Il campanello / Deux hommes et une femme

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti

Il campanello / Deux hommes et une femme

Bergamo, Teatro Sociale, 15 novembre 2025

★★★★☆

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Scene da due matrimoni

Il Donizetti Opera Festival accosta Il campanello e Deux hommes et une femme, due farse speculari per spirito comico e gioco teatrale. La regia di Stefania Bonfadelli unisce i due mondi con intelligenza, sostenuta da un cast giovane e vivace e dalla direzione brillante di Enrico Pagano. Spiccano ritmo, invenzione e una comicità ora napoletana, ora francese.

Il genio teatrale di Donizetti si è sviluppato sia sul fronte tragico che su quello umoristico con risultati eccelsi in entrambi. Nelle farse la comicità ha libero corso, come nei due atti unici che vengono presentati quali secondo appuntamento dell’Opera Donizetti Festival nella sede del Teatro Sociale nella parte alta della bellissima Bergamo: Il campanello e Deux hommes et une femme (Due mariti e una moglie).

Il campanello di notte o Il campanello dello speziale o semplicemente Il campanello, sono i titoli alternativi di questa sua farsa in un atto del 1 giugno 1836, tratta da La sonnette de nuit, “comédie-vaudeville” di Léon Lévy Brunswick, Mathieu-Barthélémy Troin e Victor Lhérie che era andata in scena a Parigi al Théâtre de la Gaité appena sei mesi prima. Sempre aggiornato, il nostro Donizetti su quanto succedeva nei teatri, e sempre fulmineo nella composizione: per non perdere tempo Donizetti aveva scritto lui stesso il libretto. Polycarpe Coffignon qui diventa Don Annibale Pistacchio, Cabassol Spiridione, il cugino David Enrico, M.me Coquard Madama Rosa. Solo Serafina (Séraphine) mantiene il suo nome, anche se qui è orfana poiché il compositore elimina il personaggio di M. Coquard, il marito inetto di M.me Coquard. 

La giovane e bella Serafina viene data in sposa allo speziale Don Annibale Pistacchio, con gran dispetto dell’ex innamorato di Serafina (ricambiato), il giovane Enrico. Nonostante i tentativi di impedire il matrimonio, la cerimonia viene fissata per il giorno precedente la partenza di Don Annibale per Roma, ove lo speziale deve assolutamente recarsi per presenziare all’apertura del testamento di una sua zia defunta e dove si fermerà per più di un mese. Appreso questo fatto Enrico, con la complicità di Serafina, cerca in tutti i modi di impedire che il matrimonio venga consumato quella notte, così da guadagnar tempo per un successivo tentativo di farlo annullare. Lo speziale è obbligato in forza di legge a fornire i suoi prodotti medicinali a chi ne faccia richiesta anche di notte e quindi il campanello esterno alla bottega, sita sotto l’abitazione dello speziale, sarà lo strumento di Enrico per disturbare la prima notte di nozze di Don Annibale. Presentandosi via via sotto spoglie diverse (un francese ammalato, un cantante rauco e un vecchio), Enrico continuerà a farsi ricevere da Don Annibale, suonando appunto il campanello, con i pretesti più strampalati finché, giunta l’alba, lo speziale dovrà partire in diligenza per Roma lasciando Serafina illibata a casa.

I travestimenti femminili della pochade diventano maschili nella farsa di Donizetti che trasferisce poi la scena da Batignolles a Napoli. Ed è qui che avviene la prima rappresentazione al Teatro Nuovo. Per salvare una compagnia dal fallimento il compositore molto generosamente aveva rinunciato al suo compenso e il gesto venne apertamente lodato dalla stampa dell’epoca. Alcuni dialoghi parlati erano in dialetto napoletano, ma l’anno successivo il compositore li trasformerà in recitativi in italiano con l’aiuto di Salvadore Cammarano. In quell’occasione Donizetti aggiungerà anche il duetto tra Don Annibale ed Enrico, assente nell’originale francese. La nuova versione andrà in scena al Teatro Reale di Fondo il 23 maggio 1837.

Le sedici scene dell’originale sono abbastanza fedelmente conservate nel libretto, ma Donizetti dimostra una verve umoristica di prim’ordine nel trasformare David camuffato da vecchia popolana logorroica nell’Enrico travestito da marito della povera Anastasia che «è tisica e diabetica, | è cieca e paralitica, | patisce d’emicrania, | ha l’asma e sette fistole, | spine ventose e sciatica, | tumore nell’occipite; | ha il mal della podagra, | che unito alla chiragra | penare assai la fa». (1)

Si tratta di un umorismo amaro, quasi da commedia nera, con cui Donizetti reagisce alle disgrazie della sua vita privata (in quel periodo gli erano morti entrambi i genitori e la moglie aveva dato alla luce una bimba morta) e alla chiusura dei teatri in segno di lutto per la morte della regina Maria Cristina di Savoia. In questa operina manca il tocco patetico che troviamo nell’Elisir o nel Don Pasquale e la musica è precisa, tagliente, dominata dall’ossessivo tintinnare metallico del campanello presente già nel breve preludio, dagli stringati pezzi d’assieme, dai commenti del coro, dai brindisi in forma di valzer, dai duetti spiritosi. Frequenti buffe parodie si prendono gioco sia di Rossini («Assisa al piè di un gelso») sia dello stesso Donizetti (il brindisi della Lucrezia Borgia, la canzone del gondoliero dal Marino Faliero).

Nel 1838 Donizetti si trasferirà a Parigi: all’Opéra-Comique debutta La fille du régiment e all’Opéra La favorite, entrambe del 1840. Nel 1841 in soli otto giorni, il compositore completa le 95 pagine della partitura di Rita ou Le mari battu, farsa in un atto su libretto di Gustave Vaëz, che però verrà rappresentata solo postuma nel 1860 e che in Italia venne allestita per la prima volta a Napoli nel 1876 con testo in italiano adattato da Enrico Colosimo. 

L’altro titolo con cui è conosciuta l’opera, Deux hommes et une femme, rivela l’essenziale della storia e il suo smilzo cast: soprano, tenore e baritono. Rita è vedova di un primo marito che la picchiava. Dopo aver perso tutti suoi beni in un incendio – e anche il marito in mare, crede – si è risposata con il timido Pepé ed è lui ora vittima dei modi maneschi della consorte. La loro vita è scompigliata dall’arrivo di Gasparo, il primo marito di Rita, che si riteneva trapassato a miglior vita e che invece è tornato per chiedere il certificato di morte della moglie, anche lei ritenuta defunta, per risposarsi. Pepé è ben contento di liberarsi della moglie, ma Gasparo propone di affidare al gioco della morra la sorte della donna. Entrambi imbrogliano cercando di perdere, ma alla fine è a Gasparo che tocca Rita, la quale però non vuole sapere di tornare a essere sua moglie. Nel frattempo, Pepé scopre di amare la donna e Gasparo può prendere congedo dalla coppia riconciliata.

Gli otto numeri musicali (tre arie, tre duetti e due terzetti) sono collegati da dialoghi parlati nella tradizione dell’opéra-comique. Del tutto diverso dalla comicità da tradizione buffa napoletana de Il campanello, questo è un divertissement di gusto francese, scoppiettante e un po’ cinico, dove l’istituzione del matrimonio è messa in burla ancor più che nell’altra farsa.

La messa in scena di Stefania Bonfadelli unisce, non solo scenograficamente, i due atti unici: le situazioni sono in qualche modo speculari, i personaggi dell’una li ritroviamo nell’altra. La comicità non è ottenuta con la facile caricatura dei personaggi, ma con il preciso incastro delle situazioni nel parallelismo dei due matrimoni. La funzionale e visivamente pregevole scenografia di Serena Rocco affianca la farmacia di Annibale Pistacchio (Il campanello) alla locanda a tre stelle di Séraphine (Deux hommes et une femme). I coloratissimi costumi anni ’60 di Valeria Donata Bettella e le luci di Fiammetta Baldiserri ricreano un mondo gustosamente caratterizzato da pellicola del boom italiano in cui si calano con divertita partecipazione i personaggi e i coristi. Tutti sfoggiano una recitazione spontanea e fluida con divertenti gag e controscene.

Gli allievi della Bottega Donizetti superano pienamente la prova, caratterizzando con sapidità e verve vocale i vari personaggi. Ne Il campanello Letizia Tacchi è una Serafina dalla fresca vocalità e buona proiezione e Rosa Eleonora de Prez una spassosa Madama Rosa. Pierpaolo Martella è un po’ troppo giovane come Don Annibale Pistacchio, ma si dimostra vocalmente ineccepibile con grande attenzione alla parola e ai tempi comici. Enrico, originariamente a Napoli affidato alle doti brillanti del baritono Giorgio Ronconi, trova nella versatilità e agilità vocale di Francesco Bossi un valido interprete: è presente su quattro numeri su cinque e deve variare in continuazione registro e colore ma riesce nell’impresa dimostrando una notevole abilità. Molto divertente anche lo Spiridione di Giovanni Dragano.

In Deux hommes et une femme anche Cristina De Carolis (Rita) e Cristóbal Campos Marín (Pepé) appartengono alla Bottega Donizetti: la prima dimostra sicura linea vocale e gran temperamento nel costruire il personaggio della moglie che dopo la prima esperienza matrimoniale è passata alle maniere forti col consorte; il secondo sfoggia un timbro luminoso e acuti ben proiettati con cui delinea con ironia, e un tocco di malinconia, il suo personaggio di maltrattato “secondo” marito.

La presenza di un artista come Alessandro Corbelli si inserisce con naturalezza in questo cast giovanile con la sua impeccabile linea vocale, la magistrale attenzione alla parola e il sornione umorismo con cui costruisce il personaggio del primo marito, ora in tenuta da Davy Crockett e in attesa di convolare a seconde nozze con una canadese, ironicamente presente in scena in questo allestimento. Preciso e vivace il coro dell’Accademia del Teatro alla Scala istruito da Salvo Sgrò.

Alla guida dell’orchestra Gli Originali su strumenti storici, molto migliorata rispetto all’ultima volta, e con l’apporto prezioso del fortepiano di Ugo Mathieux, Enrico Pagano riesce a dare toni distinti ai due lavori: la trasparenza e le cangianti dinamiche del Campanello, la ricchezza timbrica e i colori dei Deux hommes. In entrambi si ammirano il lavoro preciso e la leggerezza con cui il giovane direttore ha affrontato le due partiture restituendone con sapienza la bellezza. Un lavoro di cesello che ha entusiasmato il pubblico che l’ha caldamente festeggiato assieme agli interpreti vocali e ai creatori dell’allestimento.

(1) A questo surreale elenco di accidenti segue una ricetta interminabile, con termini autentici e documentati della farmacopea dell’epoca, dall’effetto così esilarante che merita citare nella sua interezza: «Si prenda l’acqua celebre | del gran monsù Maurizio, | con l’altra capo-cefalo; | e poi la fagiadenica. | Con questa poi mischiateci | l’aceto con l’aregheto; | sia questa rinforzata | con l’acqua canforata, | col balsamo copaibe, | col dolce elettuario, | di cedro imperiale, | che giova e non fa male. | Vi unite a queste cose | benigne e portentose, | per fare il tutto eccelso, | con l’elisir d’Elmozio, | pur quel di Paracelso. | Mischiate e rimischiate, poi pillole formate». «Ma questi sono liquidi!» obietta Don Annibale, ma l’altro implacabile: «Recipe, | l’ombélico di Venere, | butirro d’antimonio, | il zolfo col diascorio | del dotto Fracastorio, | l’arsella e l’assafetida; | il thè che sia d’America, | rob antisifilitico, | l’estratto di cicuta; | papaveri, la ruta; | l’etiope minerale, | sciroppo cordiale. | Aggiungi poi la polvere | di Marco Cornacchione, | e di Giovanni Procida | l’empiastro in fusione, | la cassia fistulata, | la pomice pestata… | bollite et fiat bibita». «Che bibita!» protesta lo speziale, ma l’altro inesorabile cambiando la ritmica dei versi: «Semifreddi, ente di Marte, | del Cadet l’emulsione, | cascarilla, simarubba, | del tabacco di Macubba, | dulcamara, talamacca, | legno quassio, cera lacca; | aggiungete ottanta rane, | venti fave americane, | ruta secca, dragonaria, | terebinto, serpentaria, | manna emetica, castoro, | raschiatura di fior d’oro; | eppoi l’erbe tritolate | che qui appresso son notate. | Erba spugna, polmonaria, | il ceraunio, il capripodio, | il vitucchio ed il poligalo, | blasia, quassia e polipodio, | il rastio d’unto al vitrice | con la carice, lo sparago, | il briol… la calega, | la veronica, la statice, | l’anserina, la piombaggine | con un mazzo di lattuga, | che mollifica, che asciuga. | Malva d’Ischia, malva rosa, | vera polvere di corno».

Caterina Cornaro

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Caterina Cornaro

Bergamo, Teatro Donizetti, 14 novembre 2025

★★★

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Dal trono alla sala operatoria: Caterina Cornaro secondo Francesco Micheli

La nuova edizione critica di Caterina Cornaro inaugura il Donizetti Opera restituendo l’opera nella sua forma originale. Riccardo Frizza ne valorizza la scrittura orchestrale, sostenuto da un cast maschile eccellente e da una Carmela Remigio autorevole. La regia di Micheli introduce una Caterina contemporanea, soluzione visivamente efficace ma accolta con opinioni contrastanti.

Per una strana convergenza di interessi culturali e storici, nei primi anni ’40 dell’Ottocento tornò d’attualità la figura di Caterina Corner (1454-1510) costretta dal Consiglio dei Dieci di Venezia prima a sposare il re di Cipro e poi, alla morte del consorte, ad abdicare, sempre per ragioni politiche, ossia per lasciare il governo dell’isola direttamente alla Serenissima.

Dopo il ritratto coevo di Bellini e quelli postumi di Tiziano e Dürer, nel 1842 fu Francesco Hayez a restituirne un’immagine nell’allora dominante gusto romantico e orientalista. La regina, in un abito damascato dai ricchi panneggi, siede su un trono coperto di cuscini e di una pelle di leopardo; intorno a lei le ancelle, mentre di fronte le sta il fratello, inviato del Consiglio dei Dieci, che le indica oltre la finestra già aperta la bandiera di San Marco. Hayez toccava così un tema assai sentito nel clima pre-risorgimentale, quello dell’imperialismo veneziano e dell’oppressione del popolo cipriota.

Ma furono soprattutto le scene teatrali a popolarsi delle vicende drammatiche della sventurata Corner. Nel 1841 c’era stata la Reine de Chypre di Halévy e l’anno successivo Donizetti aveva iniziato la composizione della sua Caterina Cornaro su libretto di Giacomo Sacchero. Il lavoro fu interrotto dal Don Pasquale, ma l’opera risultò comunque pronta per il debutto a Vienna, dove però ne era andata in scena da poco un’altra, la Catharina Cornaro di Franz Lachner, compositore tedesco quasi dimenticato oggi ma assai reputato ai suoi tempi. La Caterina di Donizetti fu dirottata allora sul San Carlo di Napoli dove debuttò il 14 gennaio 1844 con scarso successo per la debole performance della cantante protagonista, il mezzosoprano Fanny Goldberg, ma non solo. Un fiasco previsto dallo stesso Donizetti: «Scrissi per un soprano, mi danno un mezzo! e Dio sa la censura qual macello ha fatto», si lamentava in una lettera pochi giorni prima del debutto. Per motivi di salute, il compositore non aveva infatti potuto presiedere personalmente alle prove e all’esecuzione: circostanza rischiosa, allora più che mai.

Dei due momenti nodali della vita della nobile veneziana, Donizetti e il librettista scelsero il primo, quello del matrimonio con Giacomo II di Lusignano, che costituisce il prologo dell’opera.

Prologo. Venezia. Il matrimonio fra Caterina e Gerardo viene interrotto inaspettatamente dall’ambasciatore Mocenigo, che comunica al padre della sposa che il Consiglio dei Dieci ha stabilito che Caterina dovrà sposare il re di Cipro Lusignano. Gerardo medita allora di rapire l’amata, ma Mocenigo terrorizza Caterina con la notizia che un’azione simile avrebbe avuto come conseguenza la condanna a morte di Gerardo: la donna non può far altro che mentire all’amato e dirgli che non lo ama più. Gerardo parte sconvolto.
Atto I. Nicosia. Il piano di Mocenigo prevede una rivolta per far sì che Venezia assuma il controllo dell’isola, e l’uccisione di Gerardo. Lusignano si è intanto reso conto che il suo matrimonio con Caterina non è altro che una mossa politica del Consiglio dei Dieci. Una banda di sgherri si prepara a tendere un’imboscata a Gerardo, che viene però salvato dall’intervento del re. Il giovane non riconosce subito il sovrano, e gli rivela i suoi sentimenti per Caterina e il suo dolore per il suo “tradimento”; poi però, quando viene a sapere che sta parlando col re in persona, si vergogna delle sue parole e chiede perdono. Lusignano e Gerardo si giurano amicizia, e Gerardo promette di proteggerlo contro la congiura. Lusignano, debole e ammalato, rivela a Caterina che ha saputo da Gerardo del suo passato; arriva proprio Gerardo, e i due innamorati possono chiarirsi. Caterina spiega al giovane perché, per ragioni politiche, ha dovuto rifiutarlo. Gerardo a sua volta informa Caterina della congiura per eliminare Lusignano, ma in quel momento arriva Mocenigo. L’ambasciatore vorrebbe che la stessa Caterina entri a far parte della congiura, ma interviene lo stesso Lusignano, che dichiara guerra a Venezia.
Atto II. Gerardo, fedele alla promessa data al re, ha scelto di schierarsi contro i Veneziani; le dame di corte, terrorizzate, assistono alla battaglia. Caterina è raccolta in preghiera, e riceve la lieta notizia della vittoria di Cipro; la sua gioia però dura poco: entra Lusignano, morente, sorretto da Gerardo. Il re muore, non prima però di aver affidato le sorti del popolo alla sposa. L’opera si conclude con un vibrante discorso patriottico di Caterina. In un finale alternativo Lusignano torna solo e morente e annuncia la morte di Gerardo che fino all’ultimo ha cercato di difendere il re.

La presenza di due finali alternativi indica il travaglio dell’opera massacrata dalla censura napoletana e dai cambiamenti all’ultimo minuto per adattarsi alla mediocrità degli interpreti. Quello che ora viene presentato ad apertura del Donizetti Opera di Bergamo, il festival della città che ha dato i natali al compositore, è frutto dell’elaborazione critica di Eleonora di Cintio che ha ripristinato il testo e la musica originali per restituire l’opera come l’aveva immaginata il suo autore.

La maggior differenza è nel finale, che abbandona il tono patriottico dell’ultima aria di Caterina rivolto ai compatrioti ciprioti – «voi sorgeste dai vostri dolori; | fur protette le giuste bandiere, | furon vinti i codardi oppressori» – per una conclusione più stringata e tragica dove la regina, alla notizia della morte di Lusignano, risponde: «Spirò! Ah, l’amaro calice | vuotato ancor non ho!». Così si conclude l’ultima opera scritta da Donizetti, prima della sua reclusione nel manicomio vicino a Parigi.

La struttura dell’opera è stranamente squilibrata, con un prologo particolarmente esteso formato da un’introduzione, un coro di gondolieri, una scena e aria di Caterina e successiva scena e duetto di Caterina e Gerardo. Il primo atto prevede un preludio, scena e cavatina di Mocenico, scena e romanza di Lusignano, coro di sgherri, scena e duetto Gerardo/Lusignano e finale primo. Brevissimo il secondo atto, con soli due “numeri”: scena e aria di Gerardo e finale.

Le intenzioni originali di Donizetti vengono per la prima volta realizzate dal direttore artistico del festival Riccardo Frizza che, alla guida dell’Orchestra Donizetti Opera, illumina la ricca scrittura orchestrale che evidenzia i contrasti su cui si regge la musica. I tempi sono precisissimi, forse fin troppo controllati – qualche “fiamma” in più avrebbe reso più coinvolgente l’ultimo lavoro del Bergamasco – e sempre ben calibrato l’equilibrio tra la buca e i cantanti. 

Il versante maschile del cast è di altissimo livello. Enea Scala offre un Gerardo impetuoso, cui Donizetti regala una cabaletta del secondo atto che potrebbe quasi sembrare del giovane Verdi e che il tenore affronta con il suo squillo luminoso e potentemente proiettato. Le oscillazioni romantiche del personaggio sono rese con grande abilità e con gli ampi mezzi vocali che gli si riconoscono. Vito Priante è un Lusignano ideale che nella pagina dell’arioso reintegrato, presente solo ora, dispiega i suoi accenti più nobili. Il perfido Mocenigo trova nella presenza elegante e tagliente di Riccardo Fassi un interprete difficilmente superabile.. Buoni anche lo Strozzi di Francesco Lucii e la Matilde di Vittoria Vimercati. 

Quanto alla protagonista, Carmela Remigio conferma la dedizione con cui affronta ogni figura femminile. Qui deve incarnare una donna che rinuncia all’amato sull’orlo dell’altare, mente per salvarlo, accetta il marito impostole, ne è fedele, lo accompagna la malattia e ne piange la morte portandone in grembo il figlio. Grazie alle sue capacità attoriali, la Remigio rende credibile la doppia Caterina voluta dalla regia, con tormenti e rassegnazione. Meno persuasiva la prova vocale: timbro un po’ appannato e qualche eccesso espressivo, sebbene meno vistoso del solito. Il pubblico l’ha comunque accolta calorosamente, come pure gli altri interpreti e il coro dell’Accademia del Teatro alla Scala.

Agli applausi scroscianti si sono affiancati però sonori dissensi all’ingresso del regista Francesco Micheli, l’ex direttore artistico del Festival, la cui messa in scena – destinata anche a Madrid – non ha convinto tutti.

Non imbarazzato dalla rarità del titolo – l’ultima produzione degna di nota rimane quella bergamasca del 1995 diretta da Gavazzeni, con le scene ispirate ai disegni ottocenteschi di Alessandro Sanquirico – Micheli affianca alla debole drammaturgia dell’opera una narrazione parallela ambientata nella contemporaneità. Accanto alla Caterina storica e a quella dell’opera, introduce una “Caterina di oggi”: una giovane in viaggio di nozze a Venezia, incinta di un marito malato, affascinata dalla figura della regina. Nei suoi “sogni”, il medico che tenta di salvare il marito assume le fattezze dell’amato Gerardo, dettaglio che rende ancora più sfaccettata la lettura registica. Con abilità consumata Micheli passa da un piano all’altro, aiutato dalla scenografia di Matteo Paoletti Franzato, che sulla piattaforma girevole alterna ambienti ospedalieri a un frontone rinascimentale; dalle luci di Alessandro Andreoli; dai sontuosi costumi di Alessio Rosati; e dal visual design di Matteo Castiglioni. Con la consulenza drammaturgica di Alberto Mattioli, le due storie scorrono con fluidità e qualche tocco ironico – i gesti stilizzati del coro, il pugnale (chiamato “stile” nel discutibile libretto di Sacchero) trasformato in bisturi… – che però non ha convinto una parte del pubblico.

Forse esisteva una via più semplice o più tradizionale per mettere in scena un lavoro così problematico e non del tutto compiuto come quest’ultimo Donizetti. Ma la lettura proposta, visualmente pregevole, si è rivelata intrigante e assolutamente non in contrasto con la musica. Il che non è poco.

Die Entführung aus dem Serail

foto © Mattia Gaido

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio)

Torino, Teatro Regio, 8 novembre 2025

★★★☆☆

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Un harem senza scintille, salvo in buca

Mozart’s Die Entführung aus dem Serail reveals his “elusive” nature, mixing wit, drama, virtuosity, and psychological nuance within dazzling orchestration and exotic “Turkish” color. Blonde’s proto-feminist rebellion contrasts with the comic cruelty of Osmin. The work’s history, past Turin productions, and Versailles staging frame a mixed revival: uneven singing and staging, redeemed by Gianluca Capuano’s exceptional, vibrant conducting.

La produzione del Ratto dal serraglio al Regio risulta esteticamente curata ma teatral­mente debole: lo spettacolo di Michel Fau, nato per Versailles, appare estraneo alla sala torinese e la regia manca di un’idea forte. Cast diseguale, con Leonor Bonilla e Manuel Günther eccellenti ma protagonisti deludenti. Trionfa invece la direzione luminosa, teatrale e magistrale di Gianluca Capuano.

“Inafferrabile” è definito Mozart da Alberto Bosco nel suo intervento sul programma di sala, soprattutto il Mozart de Il ratto dal serraglio, secondo titolo della stagione del Regio di Torino. La sua inafferrabilità sta nell’ambiguità e nella natura sfuggente della musica in questo Singspiel, che è allo stesso tempo leggero e profondo, comico e drammatico, unisce virtuosismo canoro e caratterizzazione psicologica, orchestrazione brillante e raffinatezza.

Femminista ante litteram, Blonde minaccia la rivoluzione delle donne dell’harem come risposta alle avances del pascià che l’ha rapita assieme alla padrona. È su questo argomento di Gottlieb Stephanie il Giovane che nel 1782 Mozart compone Il ratto dal serraglio, appena arrivato a Vienna dopo aver lasciato Salisburgo per essere più libero, finalmente emancipato dal giogo dell’arcivescovo Colloredo. Libero anche dall’opera seria italiana, scrive con questa commedia musicale il suo primo Singspiel in lingua tedesca. La moda del tempo è quella delle turcherie, e Wolfgang se la gode appieno: fanfare di giannizzeri, strumenti esotici e percussioni a profusione. Lo stesso imperatore si lascerà convincere, ma a modo suo: «Troppo bello per le nostre orecchie e troppe note». «Giusto quanto basta!», la risposta del compositore.

Il libretto è divertentissimo: esilaranti le rime con cui Osmin risponde a Belmonte nel primo duetto, per poi minacciare Pedrillo di venire «prima decapitato, poi impiccato, quindi impalato su picche roventi, quindi abbruciato e poi legato e fatto affogare, e finalmente scuoiato». Esattamente in quest’ordine. Chissà le risate che si sarà fatto il ventiseienne Mozart!

Negli anni successivi l’opera venne rappresentata spesso in Italia – a una rappresentazione del 1807 assistette anche Stendhal, che ne riferisce nella sua Vie de Rossini – per poi quasi sparire: la mentalità romantica poco apprezzava questo gioco disinvolto di sentimenti e, come per il Così fan tutte, bisognerà aspettare tempi più moderni. In Italia Il ratto dal serraglio verrà eseguito in forma di concerto, e in lingua italiana, all’EIAR solo nel 1934, mentre l’anno successivo si avrà un allestimento scenico alla Pergola di Firenze, questa volta in lingua originale. A Torino si ricorda la produzione del 1970 al Teatro Nuovo con il Belmonte di Luigi Alva e, al nuovo Regio, quella del 1983 con il Pedrillo di lusso di William Matteuzzi. L’ultima apparizione torinese fu nel 2006, con la regia di Davide Livermore.

Questo nuovo Ratto dal serraglio arriva dall’Opéra Royal di Versailles: uno spettacolo, in lingua francese e con il regista che interpretava anche la parte di Selim, registrato sia su CD sia su DVD e visibile anche su YouTube. L’autore della messa in scena è Michel Fau, popolare attore comico francese che nei suoi spettacoli combina recitazione, maschere, travestimenti e invenzioni visive, unendo teatro classico e contemporaneo. Nel campo della regia lirica, come aveva già fatto con il Dardanus di Rameau a Bordeaux dieci anni fa, Fau mette in scena una rappresentazione che riprende i cliché dell’opera barocca, reinventando lo spettacolo come si sarebbe potuto realizzarlo nel XVIII secolo: ecco quindi l’impianto scenografico di Antoine Fontaine ricreare l’architettura moresca con colori sgargianti e utilizzando la falsa prospettiva del teatro barocco, mentre il sofisticato gioco luci di Joël Fabing ricrea l’atmosfera dei teatri settecenteschi grazie ai fari bassi – così che il quartetto del secondo atto diventa una sorta di teatro delle ombre, con le sagome dei personaggi proiettate sullo sfondo della scenografia. I costumi sgargianti di David Belugou completano il look di questo spettacolo originariamente destinato a una sala di 750 posti costruita nell’ala nord del castello di Versailles, una sala per la cui costruzione Luigi XV aveva affidato l’incarico all’architetto Jacques Ange Gabriel, che utilizzò il legno per imitare il marmo e contenere in tal modo i costi dell’impresa.

Tutt’altro ambiente ora quello del Regio: diverse le dimensioni, diversi i materiali, diverso lo stile architettonico. Quello che a Versailles era un progetto perfettamente coerente col contenitore, nella sala molliniana denuncia una certa estraneità e sa di ricostruzione museale, piacevole ma poco più. La scena è praticamente unica: un praticabile mobile, delle quinte e un soffitto che si abbassa definiscono i diversi ambienti. Non c’è traccia delle prodigiose macchine sceniche barocche ancora in funzione nella sala di Versailles. A questo si aggiunge una regia – ripresa da Tristan Gouaillier – che è eufemistico definire sobria, e senza un’idea forte. Anche un’opera apparentemente semplice come questa poteva suggerirla – per lo meno l’aveva suggerito a Christof Loy nella sua rivelatrice lettura al Liceu di Barcellona nel 2010 o a McVicar a Glyndebourne cinque anni dopo. Dopo una prima parte piuttosto piatta dal punto di vista registico – i tre atti qui sono divisi un po’ incongruamente in due – la seconda offre qualche elemento in più, fino al finale con la “beatificazione” del magnanimo Selim, che s’invola su un tappeto volante. Per il resto la recitazione risente del problema del Singspiel: lunghe parti recitate in tedesco (a Versailles erano in francese) da interpreti che non sembrano dimostrare grandi capacità attoriali e dove neanche l’unico attore, Sebastian Wendelin, riesce a delineare un Selim memorabile.

Parzialmente deludenti i cantanti. Alasdair Kent era stato molto ammirato nel suo registro di haute-contre come Achille nell’Iphigénie en Aulide di Gluck ad Aix-en-Provence e come Toante nell’Ifigenia in Tauride di Traetta a Innsbruck. Anche a Torino, nel Matrimonio segreto, era stato un Paolino di grande stile, ma qui il ruolo di Belmonte si è rivelato impegnativo per i suoi mezzi: l’aria di ingresso «Hier soll ich dich denn sehen» è stata affrontata con troppe incertezze e le successive, nonostante un delicato uso di piani e pianissimi, sono risultate poco convincenti, con una voce poco proiettata e agilità non fluide. Olga Pudova è stata Regina della Notte in più occasioni, una scoppiettante Zerbinetta, ma anche un’Olympia un po’ troppo meccanica. La sua Konstanze ha limiti di volume, ma soprattutto di espressività: le pagine più elegiache, come «Traurigkeit ward mir zum Lose» e «Ach, ich liebte», non lasciano il segno, e quelle più pirotecniche, come «Martern aller Arten», sembrano eseguite con una prudente perizia. La tessitura di Osmin comprende note estremamente basse che Wilhelm Schwinghammer riesce a realizzare a scapito della sonorità e la caratterizzazione buffa del personaggio non è tra le più riuscite. I migliori cantanti in campo si rivelano gli interpreti dei servitori: la Blonde di Leonor Bonilla è un miracolo di freschezza, allegria e tecnica vocale; lo stesso si può dire per il Pedrillo di Manuel Günther.

La componente migliore della serata si è dimostrata la direzione di Gianluca Capuano, massimo interprete di questo repertorio e debuttante in questo teatro. Fin dalle prime note dell’ouverture nel solare do maggiore – con i colpi dei Deutsche Trommel (tamburo a due pelli con corde di risonanza), dei Türkische Trommel (una specie di grancassa) e dei campanelli su un bastone sormontato da una mezza luna (il çevgen turco o Schellenbaum in tedesco), strumenti “speciali” inseriti nell’organico usuale dell’orchestra del teatro – il particolare colore orchestrale è immediatamente stabilito. Nella sua forma di sonata abbreviata, senza un vero e proprio sviluppo centrale, il pezzo afferma la straordinaria teatralità della musica: il carattere marziale del primo tema, in fortissimo, con le “chiamate militari” di corni e oboi, dipinge lo scenario orientale; il secondo tema, più lirico e galante e affidato agli archi, ha una dolcezza “occidentale” che prefigura gli affetti dei personaggi di Belmonte e Konstanze. Le percussioni “turche” ritorneranno a più riprese nel corso dell’opera non come riempitivo coloristico, ma quale motore ritmico propulsivo, elemento perfettamente individuabile nella direzione di Capuano, estremamente varia nelle dinamiche, illuminante ed espressiva. Una delizia di concertazione con un Mozart ricreato nella bellezza del suono, teatrale e fluido.

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Tosca

Giacomo Puccini, Tosca

Roma, Teatro dell’Opera, 1 novembre 2025

(diretta video)

Le impressioni di Orlando Perera che ha seguito la diretta televisiva

Tosca su Rai Tre: diretta alla romana

La Tosca di Puccini, opera tra le più rappresentate al mondo, ti cattura sempre, anche quando non è al meglio. Infatti sono arrivato alla fine, senza cambiare canale, del non memorabile allestimento proposto in diretta l’altra sera su RAI Tre, dal Teatro dell’Opera di Roma, dove il magnifico lavoro pucciniano esordì il 14 gennaio 1900. Mi sono intruppato così, mio malgrado, nell’oltre mezzo milione di spettatori che secondo Auditel, hanno mediamente seguito la diretta RAI dalle 21,10 alle 23,30: grande successo di ascolti, non c’è dubbio. Ma vorrei lo stesso proporre qualche umile riflessione.

Tosca è l’opera “romana” per eccellenza, per i tre luoghi storici dove è ambientata, la chiesa di Sant’Andrea della Valle su corso Vittorio, Palazzo Farnese dietro Campo de’ Fiori, Castel Sant’Angelo vicino San Pietro. Questo però, più che romano, è parso, con tutto il rispetto, un allestimento “romanesco” nel senso deteriore del termine, pensando a certa filmografia di Alberto Sordi. Una sgradevole sensazione complessiva d’impreparazione e sciatteria, di superficialità, che ha coinvolto ahimè i cantanti e direttore d’orchestra, invano impacchettati con furbizie registiche TV da épater le bourgeois. Intendiamoci, chi scrive ha lavorato per quattro decenni in RAI, e sa bene quanto possa essere spietata la diretta.

Ma proprio qui sta il punto: conoscendo bene, immagino, i responsabili RAI questi pericoli, perché non si sono parati le terga esigendo impegno massimo, prove severe, attenzione ai cantanti? Perché un bravo giovane regista come Alessandro Talevi, della cui amicizia mi onoro, è stato trascinato in questo pantano, in cui evidentemente non ha potuto imporsi più di tanto? Di opere in diretta sulla RAI ne abbiamo viste tante, a partire dalle tradizionali e impeccabili prime alla Scala (tanto per fare un esempio la Tosca di Livermore del 2019 che fece un record di ascolti), per non parlare del format di Andrea Andermann delle opere-film in diretta, “nei luoghi e nelle ore” del libretto, prodotte per la RAI: sempre Tosca da Roma nel 1992, Traviata da Parigi nel 2000, Rigoletto da Mantova nel 2010 e Cenerentola dalle dimore sabaude di Torino nel 2012. Tutte andate benissimo.

Dunque l’esperienza c’era. Il problema è che qui si è fatta un po’ di confusione tra teatro, dove si svolgeva tutta la rappresentazione, ed esterni di alleggerimento. Il regista televisivo Fabrizio Guttuso Alaimo ha alternato immagini dal vivo con quelle di scena e se, pensando alla Mondovisione, ci poteva stare mostrare Roma e i monumenti del libretto in diretta, non si è proprio capito quel finale ibrido a Castel Sant’Angelo, con immagini di Cavaradossi sugli spalti all’alba, ma con tante auto che si vedevano passare, ripreso da un drone, alternate (e sfalsate) a quelle della scena. Non so cosa abbiano visto in teatro, e come abbiano preso l’evidente ritardo di sincrono: se Alaimo voleva un effetto di straniamento c’è riuscito, purtroppo. Andiamo con ordine: scene e costumi erano quelli della prima assoluta, disegnati dall’illustratore liberty Adolf Hohenstein: i bozzetti forniti direttamente dall’archivio storico Ricordi sono stati ripresi da Carlo Savi e Anna Biagiotti, con le luci firmate da Vinicio Cheli.

Analoga operazione venne compiuta nel 2021 con Bohème al Regio di Torino. Riesumazione interessante, ma la nostra percezione visiva è radicalmente mutata, poco da fare. Forse è stata utile soprattutto per rivalutare, al netto di taluni eccessi, i vituperati scenografi e light-designers contemporanei. Francamente i colori opachi, gli ambienti canonici, i costumi da museo hanno certo il profumo del passato, ma non ci ispirano molti rimpianti e comunque non hanno potuto risolvere un allestimento all’insegna dell’improvvisazione. Le scene storiche avrebbero semmai richiesto un’altrettanto accurata filologia registica.

Invece i personaggi davano una sensazione di sperdimento, di aggirarsi tra quelle quinte d’antan, come capitati lì per caso. Il perché l’ha spiegato la stessa protagonista Eleonora Buratto, intervistata nel primo intervallo: incredibile ma vero, non hanno fatto una sola prova con le scene montate, e lei aveva fretta di andare a vedere com’erano gli spazi di Palazzo Farnese nel secondo atto, per sapere come e dove muoversi. Nel finale poi, prima di buttarsi da Castel Sant’Angelo, è andata visibilmente a controllare che sotto ci fossero i materassi! Un disagio ai limiti del grottesco, che non poteva non riflettersi sulla tenuta drammatica dello spettacolo, e anche sulle voci.

La brava Buratto, oggi tra le Tosca più gettonate a livello mondiale, ha confermato una linea di canto ampia e luminosa, e una sicura capacità di espansione drammatica nel registro acuto: il canonico «Vissi d’arte» è stato risolto dignitosamente. Ma è parso curioso il suo atteggiamento durante l’applauso di prammatica: di solito le grandi interpreti, dopo tanta espansione emotiva, rimangono raccolte, tornano lentamente alla realtà, anche se il pubblico si sbraccia. Qui invece la simpatica cantante mantovana si è profusa in larghi sorrisi a destra e a manca, continuando a fare di sì con la testa, sembrava quasi concordare un bis con il direttore, che poi non c’è stato. Insomma, scena abbastanza imbarazzante. Del resto, forse in teatro non se ne sono accorti, ma i primi piani della ripresa televisiva, spietata appunto, l’hanno spesso mostrata molto tesa, con gli occhi sbarrati come chi non sappia cosa succederà nei prossimi minuti. Inevitabile una caduta di tensione. Anche per questo forse non è riuscita a conferire il necessario carisma a quel mistero di carnalità e tragedia di cui Floria Tosca è intessuta, tanto nel libretto di Illica e Giacosa, quanto e soprattutto nella musica di Puccini. Tosca è un personaggio tutto sopra le righe, non si può cantare con voce “per bene”, non bastano la musicalità, il controllo accurato dell’emissione. Ci vuole un tocco di eccesso isterico che Buratto in questo caso non sembra aver trovato: forse appunto le mancava la giusta concentrazione? Diamole questo credito.

Più sicuro di sé il prestante tenore cileno, ma cresciuto in New Jersey, Jonathan Tetelman, appena 34enne e già affermato a livello internazionale, un Cavaradossi dal colore radioso e dallo squillo possente, con un gran mantice di fiato. Voce splendente, bel ganzo, non c’è dubbio, ma anche qui c’è un ma. Secondo noi Tetelman deve guardarsi da quello che potremmo chiamare l’“effetto Ken”, inteso come fidanzato di Barbie. Ottima presenza scenica, ma facciotta po’ inespressiva a dirla tutta, patinato ma di spessore attoriale non sempre adeguato. Il personaggio del pittore Mario Cavaradossi, idealista e libertario, presenta anch’esso i suoi problemi, in qualche modo opposti a quelli dell’amante inquieta: tanto quella è in preda alle passioni, tanto lui è a rischio di un buonismo inconcludente, può ricordare alla lontana il Don Ottavio dapontiano. Ci vuole dunque un interprete capace di sfumature sofferte, che gli diano spessore: Tetelman sembra invece più vicino a quello che una volta si chiamava tenore di forza e il suo «E lucevan le stelle» alla fine è più gladiatorio, strappa-applauso, che commovente.

Ma quello che ci ha deluso più di tutti è lo Scarpia del collaudatissimo Luca Salsi, che ha debuttato nel ruolo proprio all’opera di Roma nove anni fa, ottobre 2017 e che ricordiamo, tra le tante volte, in forma smagliante all’Arena di Verona nel 2023, nella Tosca della centesima stagione arenile, con la regia di Hugo de Ana. Qui purtroppo è parso anche lui poco concentrato, un po’ buttato via, come se questo Scarpia fosse per lui una pratica di routine. Figuriamoci. Il terzo protagonista di Tosca, al contrario degli altri due, è tutto d’un pezzo, il barone Vitellio Scarpia, crudele, libertino e corrotto capo della polizia borbonica, che deve soffocare la Repubblica Romana. Uno dei peggiori soggetti della storia del melodramma, persino a rischio caricatura, cui infatti Puccini dedica nel «Tre sbirri, una carrozza» del primo atto una delle pagine più complesse e musicalmente ardite di tutta la partitura, dove non è difficile cogliere dissonanze ed echi stravinskiani di folgorante modernità. Salsi lo canta senza esitazioni, ci mancherebbe, ma anche qui dando la sensazione della prassi, un lavoro da sbrigare, più che un impegno vocale e drammatico di prim’ordine. «Io sono un buono nella vita – spiega in un’intervista – ma poi mi calo nei personaggi da interpretare». Mah, gentile Salsi, dobbiamo dirle noi che non basta fare le facce da mangiafuoco per costruire un personaggio tanto scolpito? Diciamo che l’abitudine, e forse ancora una volta l’atmosfera raffazzonata dell’allestimento, non l’hanno aiutato.

A chiudere, purtroppo senza alleviare le perplessità, e non aggiungiamo altro per umana solidarietà, la direzione del povero Antonino Fogliani chiamato all’ultimo momento a sostituire Daniel Oren, “toscologo” di fama pluri-decennale, improvvisamente indisposto. Nulla ci leva dalla testa che questa indisposizione dell’ultima ora sia stato un diplomatico tirarsi fuori da un pastrocchio in cui non voleva – giustamente – mettere a repentaglio il proprio prestigio.

Che altro dire? Non vogliamo infierire anche sulla conduzione della diretta affidata a Cristiana Capotondi e Alessandro Preziosi. Della prima si è capito che non conosce assolutamente nulla di Tosca: intervistando Salsi nel primo intervallo gli ha fatto gli auguri per il secondo e terzo atto. Peccato che Scarpia venga notoriamente ucciso da Tosca alla fine del secondo atto e che quindi nel terzo non ci sia proprio. Più preparato Preziosi, un po’ a disagio anche lui nelle riprese esterne, ma tutto sommato ne è uscito bene. Non hanno aggiunto molto – e come potevano? – i cosiddetti vip intervistati dalla impacciata Capotondi: Federica Sciarelli, Noemi, Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, Luca Barbarossa, e via cinguettando. Ma alla fine perché accanirsi tanto? Sui social prevale l’entusiasmo, oh che bello, oh che bravi! Quei 549mila dell’Auditel, quello share al 3,3 per cento non troncano ogni discussione? Per quanto mi riguarda, no.

Così fan tutte

foto © Vito Lorusso

Wolfgang Amadeus Mozart, Così fan tutte

Milano, Teatro alla Scala, 6 novembre 2025

★★★★☆

(diretta televisiva)

Mozart ai tempi di Temptation Island

Alla Scala Robert Carsen trasforma Così fan tutte in un reality show contemporaneo, dove le coppie di amanti mettono alla prova la fedeltà sotto l’occhio delle telecamere. Tra scenografie pop, ironia e malinconia, l’allestimento riflette sull’amore come spettacolo mediatico. La direzione limpida di Soddy e un cast diseguale completano una lettura lucida e provocatoria, in cui la commedia settecentesca rivela tutta la sua modernissima verità.

Come ultimo titolo della stagione, e in attesa dello Šostakovič di Sant’Ambroeus, la Scala propone una novità di peso: per la prima volta Robert Carsen si confronta con Così fan tutte. Il regista canadese catapulta l’opera nel nostro tempo, quello ossessivo delle relazioni “sotto schermo”. Il palcoscenico diventa uno studio televisivo, con telecamere in vista, divani fucsia e posti per il pubblico: un microcosmo mediatico dove l’amore si misura in like e inquadrature.

Il titolo alternativo dell’opera, La scuola degli amanti, diventa il nome del format televisivo in cui due coppie — Ferrando e Dorabella, Guglielmo e Fiordiligi— si sottopongono alla prova della fedeltà orchestrata da Don Alfonso e Despina, non più filosofo e cameriera, ma conduttori di un reality crudele e scintillante. «Nel Così fan tutte abbiamo due coppie che accettano, consapevolmente o meno, di mettere alla prova il loro amore. Tutti partecipano a un esperimento in cui scoprono aspetti di sé e del proprio partner che ignoravano. E, come nei reality, non sanno né cosa accadrà né come reagiranno», spiega Carsen.

L’idea, di per sé, non è la scoperta dell’anno, ma il suo pregio sta nell’intelligenza con cui la visione contemporanea illumina il senso profondo dell’opera: il gioco delle apparenze, la fragilità dei sentimenti, la finzione della fedeltà. Eppure Carsen non rinuncia al divertimento. Il suo allestimento prende di mira il mondo dei format televisivi, fra confessionali che ricordano il Grande Fratello e ironie graffianti: come quando, sotto l’effetto del “tossico”, le immagini video di Renaud Rubiano diventano psichedeliche, o quando i giovani amanti si sfidano in guerre d’acqua a colpi di pistole giocattolo.

Un gigantesco ledwall domina la scena rotante disegnata da Carsen e Luis F. Carvalho (anche autore dei costumi), illuminata con cura maniacale da Peter van Praet e dallo stesso regista. Con le coreografie di Rebecca Howell per i marinaretti in partenza sulla portaerei, il tutto si veste di una lucida patina pop-glamour di grande eleganza. La lettura visiva è potente, provocatoria, ma talvolta rischia di soffocare la grazia musicale e la perfetta simmetria che Mozart e Da Ponte avevano intessuto con mano attenta.

Sotto la superficie luccicante, però, pulsa una malinconia sottile. Lo si avverte nei momenti in cui la musica prende il sopravvento: nel celebre terzetto «Soave sia il vento», ad esempio, il reality si spegne, le luci calano, la scena si svuota, e resta solo la purezza del canto. In quel silenzio sospeso, il “gioco” si capovolge in consapevolezza, la commedia si tinge di verità, e l’amore mostra il suo lato fragile. È forse questa l’intuizione più riuscita: un’opera buffa del Settecento che oggi suona come un esperimento sociologico, una riflessione sull’amore trasformato in spettacolo. Il messaggio è chiaro: la relazione e la fedeltà, oggi, sono performance sotto gli occhi di tutti. Così fan tutti, davvero.

Sul podio, Soddy dirige con gesto limpido e attenzione cameristica: trasparenza, leggerezza, e un senso costante di equilibrio tra la civetteria giocosa e la malinconia più tenera. Anche al fortepiano, il maestro cesella i recitativi con eleganza. Corretti come sempre gli interventi del coro diretto da Giorgio Martano.

Sulla carta il cast sembrava ideale, ma il risultato è diseguale. Elsa Dreisig è una Fiordiligi un po’ rigida nelle agilità di Come scoglio, ma convincente nelle arie più liriche. Più omogenea la Dorabella di Nina van Essen, mentre Sandrine Piau appare una Despina vocalmente troppo leggera per sostenere il gioco teatrale. Gerald Finley, interprete di classe, manca però di mordente come Don Alfonso; Luca Micheletti è un Guglielmo forse troppo baldanzoso, e Giovanni Sala (Ferrando) non sempre trova la fluidità necessaria in «Un’aura amorosa».

Nel Così messo in scena da Claus Guth e visto alla Scala nel 2014, al libretto di Da Ponte vennero tagliate molte parti. Lo stesso avviene anche questa volta, ma non infastidisce tanto la mancanza del duettino Ferrando e Guglielmo «Al fato dan legge» (n. 7) o dell’aria di Ferrando «Ah, lo veggio, quell’anima bella» (n. 24) — tagli tradizionali —, quanto l’eliminazione o il ridimensionamento di interi recitativi, come le battute tra Despina e Don Alfonso, con la celebre frase «A una fanciulla | un vecchio come lei non può far nulla», che chiariva il loro rapporto. Molti altri interventi di Despina vengono soppressi, forse per la scarsa caratterizzazione del personaggio.

Le trouvère

Giuseppe Verdi, Le trouvère

Wexford, National Opera House, 17 ottobre 2025

(video streaming)

Verdi in francese a Wexford: un’occasione mancata

Scopo dei festival è soprattutto quello di presentare opere poco conosciute o versioni alternative di quelle presenti nei cartelloni dei grandi teatri. Lo aveva fatto il Festival Verdi di Parma nel 2018; ora è quello di Wexford a riproporre la versione francese de Il trovatore.

Le trouvère non è una semplice traduzione, ma una vera e propria rielaborazione che Verdi realizzò nel 1857, quattro anni dopo la prima romana, per adattare l’opera ai gusti e alle convenzioni dell’Opéra di Parigi. Il libretto fu tradotto da Émilien Pacini, ma la lingua francese comportò modifiche metriche e ritmiche per adattare le frasi al canto, con frequenti riscritture melodiche. L’opera resta divisa in quattro atti, ma Verdi ne riorganizzò parzialmente il contenuto. Alcuni recitativi sostituiscono i dialoghi secchi tipici dell’opera italiana, e diversi pezzi vennero tagliati o riscritti per rendere il dramma più “classico” e meno concitato rispetto all’originale italiano.

Verdi aggiunse ballabili, obbligatori secondo la tradizione del grand opéra francese: una suite di danze gitane, chiamata Ballet des Bohémiens, che occupa una parte consistente del terzo atto. Sono circa 250 battute in Fa maggiore, con episodi in 3/4 e 6/8, dove si alternano danze spagnole, bolero e una marcia gitana. L’orchestrazione è brillante, con tamburini, castagnette e flauti piccoli: un episodio puramente spettacolare ma di notevole fattura orchestrale, che anticipa il gusto “spagnolista” del Don Carlos e della Forza del destino.

Alcuni numeri vocali furono rielaborati in funzione dell’impostazione più lirica e meno virtuosistica del canto francese. Ad esempio, nel secondo atto, nell’aria di Azucena «Vois dans la flamme» («Stride la vampa»), la tonalità di Do maggiore resta la stessa, ma il cantabile è più elaborato, privo di vera cabaletta, e l’aggiunta di arpa e tromboni gravi rende le armonie più cupe e sfumate. Verdi rallenta i tempi e introduce pause più ampie fra le frasi per far risaltare il testo francese, ottenendo una visione più mistica e simbolica, invece di quella allucinata e popolare della versione originale.

Nel terzo atto, l’aria di Manrique «Puisqu’enfin me voilà» («Ah! sì, ben mio»), originariamente in Mi maggiore, viene alzata di un semitono a Fa maggiore per renderla più brillante. L’Andante è più lirico e meno ornato, con fraseggi distesi, mentre l’aggiunta di arpa e clarinetti addolcisce il colore. La linea melodica è quasi identica, ma con pause diverse per adattarsi alla nuova prosodia e con alcune variazioni di ritmo e un maggior numero di sillabe per battuta. Il tono intimo, italiano e affettuoso, diventa qui più solenne, da “romanza cavalleresca” alla francese.

Nel quarto atto, il Miserere conserva la stessa tonalità, ma con armonie più variate, tempi più lenti e finali prolungati. La riscrittura delle linee corali le rende più equilibrate nel fraseggio francese. La religiosità teatrale della versione italiana si trasforma in un misticismo più raccolto e atmosferico: Verdi ammorbidisce il contrasto fra scena sacra e dramma amoroso, seguendo la prassi francese del mélange dei registri.

Leggermente diverso musicalmente è il finale dell’atto quarto, «Plutôt mourir que vivre» («Prima che d’altri vivere»): la chiusa rapida e concentrata dell’originale diventa un finale esteso, più lento e patetico, con riprese orchestrali. Ma subisce anche una modifica drammatica importante: qui Léonore muore davanti a Manrique, e l’ultima battuta sottolinea più esplicitamente il riconoscimento del fratello da parte del carnefice.

Modificate o addirittura soppresse sono numerose cabalette. In «Tranquille est la nuit … D’un si doux feu que dire» («Tacea la notte placida … Di tale amor che dirsi») del primo atto, Verdi smussa il ritmo, sostituisce alcune figurazioni di semicrome con crome legate, riduce le ripetizioni e varia l’orchestrazione (più legni, meno ottoni). Il risultato è meno brillante e virtuosistico, più lirico e continuo, in linea con la declamazione francese. L’aria di Azucena del secondo atto «Dans la flamme» («Stride la vampa») perde la cabaletta «Condotta ell’era in ceppi»; così pure nel Miserere del quarto atto è eliminata la cabaletta sulle parole «Mira, di acerbe lagrime». Anche l’aria di Léonore nel finale «Sur l’aile enchanteresse» («D’amor sull’ali rosee») perde la cabaletta «Tu vedrai che amore in terra».

«Di quella pira» («Supplice infâme») di Manrique passa dal Do maggiore al Si♭ maggiore, e le due strofe simmetriche, ripetute con stretta, diventano una sola, con una transizione orchestrale più lunga. I timbri sono più amalgamati, con rinforzo dei legni e degli ottoni scuri, e manca il do acuto finale (non previsto da Verdi), per un esito più nobile che eroico. Qui la differenza è radicale: Le trouvère rinuncia all’effetto “patriottico” dirompente, concentrando la tensione sull’angoscia di un padre, non sul grido guerriero.

Verdi affrontò la revisione del Trovatore per Parigi non come un rifacimento, ma come un esercizio di lucidatura, un’operazione di cesello su un diamante già tagliato. «Rifinito, non rifatto», avrebbe detto lui stesso: e la formula coglie perfettamente lo spirito di Le trouvère. L’opera del 1857 non cancella quella del 1853, ma ne smussa le spigolosità, sostituendo all’istinto la logica, al furore la nobiltà del disegno. Le transizioni diventano più fluide, la coerenza tonale più rigorosa, i numeri chiusi si incastrano con un senso drammaturgico che guarda già al futuro. In breve: meno sangue, più cervello.

Il risultato è un Trovatore con la patina della cultura francese – elegante, orchestrato con una finezza quasi sinfonica – ma forse meno immediato, meno febbrile. Il fuoco verdiano non si spegne, ma si controlla, come un’incandescenza che il cristallo trattiene.

Proporre oggi la versione francese significa dunque accettare la sfida di misurarsi con un Verdi che si fa architetto del proprio impeto, un Verdi “classico” in senso quasi paradossale. È un’occasione preziosa per restituire pagine rare, scoprire sfumature nuove, riscoprire la teatralità attraverso un diverso equilibrio di passioni e misura. Peccato che la produzione vista al Festival di Wexford sembri non aver voluto davvero giocare questa partita.

Il problema non è tanto nei ballabili – inevitabili nel gusto dell’Opéra e spesso una trappola per registi contemporanei: Robert Wilson, a Parma, ne aveva fatto un pugilato metafisico, tanto assurdo quanto memorabile. Ben Barnes, al Wexford, opta per un approccio più narrativo: il Comte de Lune si addormenta nella sua tenda e sogna la Guerra Civile spagnola del 1936, periodo in cui l’azione è trasposta. Sul fondo scorrono filmati d’epoca in bianco e nero, mentre tre danzatrici eseguono passi più allusivi che simbolici. L’idea non è priva di fascino, ma si esaurisce presto, come un flash di memoria più che una vera chiave interpretativa.

È però sul piano musicale che le scelte lasciano perplessi. Se si decide di eseguire Le trouvère, che senso ha eseguire «Di quella pira» esattamente come nella versione italiana compresa la puntatura di tradizione? E non è l’unico caso: altre cabalette sono bellamente ripristinate. Il ritorno di queste consuetudini tradisce il senso stesso dell’operazione: Verdi aveva lavorato proprio per abbandonare quel linguaggio e adattarsi alla misura francese. La direzione di Marcus Bosch poi non aiuta: corretta ma poco ispirata, incapace di restituire la nuova tavolozza timbrica. L’orchestra, di per sé onesta, mostra limiti di precisione e colore.

Il cast si colloca nel solco della tradizione wexfordiana: voci giovani, entusiasmo più che blasone. Lydia Grindatto è una Léonore di bel timbro, intensa ma non sempre a fuoco; Eduardo Niave dà al suo Manrique una verve da spadaccino, più che da trovatore; Kseniia Nikolaieva disegna un’Azucena di linea irregolare; Giorgi Lomiseli offre un Comte de Lune vocalmente non memorabile. La dizione francese resta un campo minato per tutti.

Nell’ambientazione, il duca diventa un ufficiale fascista e Manrique un partigiano idealista. La scenografia di Liam Doona, costruita su uno spazio grigio, modulabile con luci e pochi elementi, riesce però a evocare efficacemente il senso di un mondo distrutto e desolato.