Felice Romani

Un giorno di regno

foto © Giulian Guidera

Giuseppe Verdi, Un giorno di regno

Wormlesy, Garsington Opera Pavilion, 5 luglio 2025

★★★

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Il finto Stanislao convince tutti

La seconda opera di Giuseppe Verdi Un giorno di regno fu accolta così male alla Scala nel 1840 che fu ritirata la sera stessa del debutto e le repliche cancellate. Il compositore si prodigò per giustificare l’opera come il prodotto malriuscito di un periodo di tragedia personale (morte della prima moglie Margherita Barezzi e dei due figli) e di un libretto, scritto da Felice Romani nel 1818, di un gusto teatrale del tutto superato. Ripresentata al Teatro San Benedetto di Venezia l’11 ottobre 1845, col titolo Il finto Stanislao, riuscì ad ottenere finalmente successo ma sarebbero passati più di 50 anni prima che scrivesse Falstaff, la sua unica altra commedia.

Alla Garsington Opera il regista americano Christopher Alden non ambienta la vicenda nel 1730 della concezione originale, ma in un mondo moderno di social media e telegiornali presenti 24 ore su 24. Tutto per distogliere l’attenzione da una delle trame più insensate. Alden accompagna il pubblico in un’altalena comica dove il Barone di Kelbar è un trafficante d’armi e i suoi servitori guardie del corpo in abito nero e occhiali da sole alla Men in Black mentre Belfiore, convinto dal Re di Polonia a impersonarlo per un giorno, è vestito con una corona, un mantello e uno scettro che avrebbero fatto la gioia di Freddie Mercury. I costumi splendidamente pacchiani di Sue Willmington catturano alla perfezione questo ambiente volgare e le scenografie di Charles Edwards delineano perfettamente l’ambientazione da nuovi ricchi mentre il coreografo Tim Claydon affida ai personaggi passi di danza esilaranti e ben congegnati.

Subentrato all’ultimo minuto per sostituire l’indisposto Tobias Ringborg, Chris Hopkins alla guida della Philharmonia Orchestra dirige con gusto e senso di continuità musicale una partitura che sprizza energia e personalità. Molto valido il cast. Nel ruolo del falso re Joshua Hopkins conferisce ironia e stile a un personaggio che potrebbe facilmente risultare insipido. Svelando la codardia che si cela dietro la sua prepotenza, Henry Waddington è perfetto nel ruolo di Kelbar e Grant Doyle non è da meno come l’intrigante La Rocca, suo partner durante il loro tumultuoso scontro a colazione. Oliver Sewell interpreta un Edoardo risoluto ed eloquente mentre Robert Murray è un sapido Ivrea. Eccellenti i ruoli femminili: Madison Leonard è una efficace Giulietta e Christine Rice ruba la scena nei panni della Marchesa i cui assoli sono i momenti salienti dell’opera.

A parte la curiosità per un lavoro poco conosciuto, al perché riproporlo risponde Christopher Alden con la sua geniale messa in scena che si rivela così divertente che quasi quasi convince sulla possibilità di quest’opera buffa di entrare in repertorio.

Norma

foto © Brescia e Amisano

Vincenzo Bellini, Norma

Milano, Teatro alla Scala, 4 luglio 2025

★★★

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Il tabù infranto

Presentata alla Scala il 26 dicembre 1831 con Giuditta Pasta protagonista, Giulia Grisi Adalgisa e Domenico Donzelli Pollione, Norma ora torna alla Scala 48 anni dopo l’ultima volta, quasi mezzo secolo in cui non si è osato riprendere il titolo. 

Certi “fantasmi” (leggi Maria Callas…) hanno tenuto lontano quest’opera per così tanto tempo dal teatro milanese e che ci si aspettasse una reazione non inerte da parte del pubblico era previsto, così come non hanno troppo sorpreso i fischi verso il regista e il suo team (cosa non rara, d’accordo, alle prime milanesi, ma questa volta unanimi e senza appello). Di Olivier Py ricordiamo molte messe in scena interessanti, qui alla Scala la sua Thaïs, ad esempio. È un regista dalla cifra molto evidente: ambientazioni moderne, eleganti e stilizzate, spesso al limite del Kitsch, molto nero e oro, controscene di figuranti e danzatori in una drammaturgia mai banale, ma in questo caso poco convincente.

Norma è una diva (attrice, cantante? non si sa) non più giovanissima, che se la deve vedere con una rivale più giovane. La vicenda è ambientata dal regista francese «in un Ottocento che è quello risorgimentale nel quale la partitura è stata scritta, quando in Italia ci si interrogava se agire o non agire, fare o interrompere la rivoluzione, prendere le armi o fare la pace. Se si toglie Norma dal contesto storico della sua scrittura, si perde moltissimo. Perché Norma è un’opera profondamente risorgimentale, persino più di Nabucco» dice Py. Norma si confronta con la figura di Medea, « due miti che la Callas, il fantasma che aleggia qui, ha portato sul palcoscenico. Norma è una Medea che non riesce a uccidere i suoi figli, perché è una donna dell’Ottocento, una donna italiana e l’Italia non uccide i suoi figli, dicono Bellini e il librettista Felice Romani».

Fin dalla sinfonia scopriamo l’ambientazione pre-risorgimentale con un rivoluzionario in camicia rossa che entra correndo con una bandiera italiana, piuttosto anacronistica nel 1831, ma viene arrestato e fucilato da figuranti in divisa austriaca. Il suo cadavere è poi adagiato sulla suddetta bandiera da Pollione/Mazzini tra il pianto di donne in gramaglia. Come nella scenografia del Nabucco di Arnaud Bernard all’Arena di Verona, in quella di Pierre-André Weitz la facciata del Piermarini campeggia in mezzo alla scena, ma quando ruota sull’immancabile piattaforma girevole non svela l’interno del teatro, bensì una scalinata da tempio classico ma dorata e un intreccio di altre scale su cui si muovono uomini in redingote e alto cappello a cilindro e gli onnipresenti danzatori a torso nudo e maschera, d’oro quando non sono impegnati nelle inutili coreografie di Ivo Bauchiero. Capelli fulvi ed elegante abito da sera, anche i costumi sono firmati da Pierre-André Weitz, Norma entra con un ramo di vischio e una sfera nera da veggente mentre dall’alto scende la sagoma di una grande luna. La struttura non smetterà mai di roteare e i danzatori di affacendarsi con teschi, maschere d’oro e finti fucili con cui uccidere nel finale la coppia invece del rogo. Le fiamme erano comparse in cartonato in una delle tante pantomime.

Contrariamente a quanto si potesse prevedere, trionfano le voci femminili. Nella parte del titolo è la volta del soprano lettone Marina Rebeka affiancata dalla Adalgisa di Vasilisa Beržanskaja, mezzosoprano russo, ed è un trionfo, soprattutto per la seconda. Molto meno entusiasmante il Pollione di Freddie de Tomaso e come sempre esemplare l’Oroveso si Michele Pertusi nonostante l’usura della voce.

All’indomani della prima si sono letti giudizi diametralmente opposti da parte di due importanti firme del giornalismo: «Bontà dell’esecuzione musicale, tenore a parte, con due prime donne splendide e la direzione di Luisi che valorizza con rara sensibilità quegli accompagnamenti al canto dove solitamente i direttori rimestano la zuppa nel paiolo» scrive Francesco Maria Colombo. «La direzione: l’orchestra di Luisi è una morta gora limacciosa nelle sue rarissime pulsioni dinamiche, opaca sempre, chiassosa spesso, colori mai, elasticità ai minimi termini, logica narrativa yo-yo tra quello che Cimarosa chiamava «oh che armonico fracasso» nei momenti concitati e catatonia plumbea in quelli elegiaci», afferma Elvio Giudici.

In realtà la direzione di Fabio Luisi è generalmente apprezzabile. Rispetto alla prima nel corso delle recite, questa è la terza, certi squilibri sonori si sono probabilmente limati. Luisi è a suo agio in questo repertorio e ha diretto solo la scorsa estate Norma a Martina Franca. Non viene quindi messa in discussione la padronanza tecnica e la capacità a sostenere i cantanti. È stata poi scelta l’edizione critica di Roger Parker che reintegra, tra l’altro, il finale del coro di guerra e il da capo del primo duetto Norma-Adalgisa.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo con luci e ombre con il quale perlomeno si è rotto il tabù che aveva impedito al teatro milanese di mettere in scena questo ineludibile titolo del Belcanto italiano.

Norma


foto © Monika Rittershaus

Vincenzo Bellini, Norma

★★★★☆

Vienna, Theater an der Wien, 23 febbraio 2025

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Una Norma diversa

Due produzioni di Norma quasi in contemporanea a Vienna: alla Staatsoper il 22 febbraio Mariotti dirige la produzione di Von Cyril Testes con Federica Lombardi, Juan Diego Flórez e Vasilisa Beržanskaia; all’An der Wien una settimana prima Francesco Lanzillotta ha diretto Asmik Grigorian, Freddie de Tommaso e Aigul Akhmetshina. Una produzione concepita da Vasilij Barkhatov nel 2020 posticipata a causa della pandemia, ma che già prevedeva la presenza della moglie Asmik Grigorian.

Con la scenografia di Zinovij Margolin e i costumi di Olga Shaishmelashvili la Norma del regista russo non è ambientata nelle Gallie del I secolo a.C., bensì in un imprecisato paese negli anni ‘40 del secolo passato. Il sipario già alzato mostra una fabbrica di ceramica dove vengono realizzate immagini di dee greche (cast a diva…). Operai ed operaie rientrano al lavoro, tra di loro ci sono Adalgisa e Norma. Si sentono voci provenire da fuori e nell’istante in cui attacca la sinfonia un’esplosione provoca la caduta di una statua che va a pezzi. Fanno irruzione dei soldati che si danno a d atti di devastazione e qualcuno tenta di violentare Norma, che però viene salvata da un ufficiale, che si rivelerà essere Pollione. Cala il sipario mentre continuano le note della sinfonia. Alla fine appare la scritta “10 anni dopo”: vediamo infatti la stessa fabbrica, ma ora produce i busti in ceramica di un dittatore militare il cui ritratto è appeso di fianco al quadro di comando del forno per cuocere i busti prodotti dagli operai. Soldati sorvegliano i lavoratori e reprimono atteggiamenti di ribellione, come si vede con Oroveso, il capo della resistenza. Il ruolo privilegiato di Norma, una specie di Kapò in questo sistema militarizzato, rivela che tra Norma e il militare c’è stato qualcosa – due figli, scopriremo assieme ad Adalgisa. Quando tutti i soldati di occupazione sono usciti, gli operai recuperano i frammenti della statua che hanno conservato e che ora in processione adorano mentre Norma eleva la sua preghiera alla «Casta Diva». 

Nel finale primo si cambia ambientazione: appare una parete con porte da cui si accede a una semplice stanza in cui vivono i due figli di Norma accuditi da Clotilde. Davanti a una tazza di tè Adalgisa confessa la sua relazione con l’inetto Pollione e a quel punto si scatena l’ira di Norma: dopo aver pensato di uccidere i figli quale novella Medea, incita gli operai alla distruzione delle immagini del dittatore. Pollione è portato in scena dagli operai legato per essere impiccato ma è salvato dalla donna che gli chiede per l’ultima volta ragione delle sue azioni, inutilmente. Norma decide di immolarsi entrando nel forno, ma Pollione si lancia e la salva, per la seconda volta.

Barkhatov si sbarazza dunque di druidi, Romani con la corazza e foreste sacre, ma mantiene il nucleo essenziale della vicenda con il suo scontro tra popoli e religioni. Le are e gli altari ampiamente citati nel libretto di Felice Romani, qui sono i simboli religiosi e di propaganda di due concezioni opposte. E c’è la storia di amore e tradimento, con una capacità del regista di esprimere efficacemente la psicologia dei personaggi in scene e controscene molto veriste.

Asmik Grigorian affronta la parte della sacerdotessa druidica in ricordo della madre Irena Milkevičiūtė, rinomata cantante che portò Norma per la prima volta in Lituania cantando la parte della protagonista mentre era incinta di Asmik – che in seguito sarà uno dei figli in scena. Quella di Norma è una parte completamente diversa da quelle che ha cantato finora, ma come succede sempre, la Grigorian con il suo timbro particolare e una recitazione superlativa riesce a ricreare in maniera personalissima il personaggio. Non propriamente belcantista, le agilità non sono del tutte fluide e un acuto non è bello, ma che importa quando in scena c’è un’artista di questo livello che ti inchioda alla poltrona. I fiati lunghissimi, i legati, l’omogeneità dell’estensione, l’intensità espressiva bastano e avanzano per scoprire una Norma diversa dal solito, ma quanto vera!

La parte di Adalgisa era stata scritta per Giulia Grisi, un soprano, ma il mezzo Aigul Akhmetshina, anche lei debuttante nella parte, ha tutte le carte per convincere: un bellissimo timbro, tecnica e sensibilità, da migliorare però la dizione e il fraseggio talora impacciato. Freddie de Tommaso affronta la parte di Pollione con generosi mezzi vocali e soprattutto all’inizio sfoggia qualche decibel di troppo. Poi il canto diventa un po’ più raffinato e l’antipatia del personaggio diventa un efficace elemento di caratterizzazione. Oroveso ha la voce potente e la presenza scenica di Tareq Nazmi e nei personaggi di Clotilde e Flavio si dimostrano convincenti Victoria Leshkevich e Gustavo Quaresma.

Sul podio dei bravi Wiener Symphoniker, Francesco Lanzillotta riesce a bilanciare dramma e sottigliezze strumentali con tempi, e tagli…, che mettono i cantanti a proprio agio. Profondo conoscitore della partitura, il direttore marchigiano ne fornisce una lettura lucida e partecipe. Come sempre ammirevoli i coristi dell’Arnold Schoenberg che pur nella precisione e nel perfetto amalgama di voci riescono a creare ciascuno un personaggio distintivo.

Lucrezia Borgia

foto © Fabrizio Sansoni

Gaetano Donizetti, Lucrezia Borgia

Roma, Teatro dell’Opera, 16 febbraio 2025

★★★

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La principessa Negroni e il suo cocktail fatale

Solo una regista come Valentina Carrasco poteva far diventare Lucrezia Borgia quasi una proto-femminista! Nella sua lettura dell’opera di Donizetti, infatti, la figlia illegittima di Rodrigo Borgia, futuro papa Alessandro VI, e sorella di Cesare Borgia, è vista come un’eroina noir, non una donna vittima, ma una donna carnefice. «Una donna sola al potere in un mondo di uomini, una donna artefice del proprio destino» e che per una volta non muore per amore, cosa rara nel mondo dell’opera.

Tratta dalla pièce di Victor Hugo Lucrèce Borgia presentata a Parigi il 2 febbraio 1833, il 26 dicembre di quello stesso anno Felice Romani e Donizetti con Lucrezia Borgia introducono in Italia un nuovo genere: il dramma romantico, dove dramma e commedia si mescolano, si ha un «frammischiamento», come scrive Donizetti, di buffo e serio. Lo stesso ibrido di grottesco e tragico che prelude al Verdi di Rigoletto, anch’esso di Hugo (Le Roi s’amuse) e con un altro mostro, qui nella paternità, là nella maternità: «Vittor [sic] Hugo, dal quale è imitato questo melodramma, in una tragedia assai nota aveva rappresentato la difformità fisica santificata dalla paternità: nella Lucrezia Borgia volle significare la difformità morale purificata dalla maternità: il quale scopo, se ben si rifletta, rattempera la nerezza del soggetto, e non fa ributtante il [sic] protagonista», scrive il Romani.

L’elemento della maschera, fugacemente presente nel testo di Hugo, diventa predominante nella messa in scena dello spettacolo ora al Costanzi. Qui le maschere bifronti fanno riferimento a un mondo doppio, dove tutti hanno qualcosa da nascondere. Un enorme viso mascherato incombe poi per buona parte dello spettacolo. Un altro tema sviluppato nella lettura della regista argentina è la maternità: durante la sinfonia vediamo proiettato sullo sfondo l’ecografia di un feto nel ventre materno mentre Lucrezia si agita nel sonno e le viene rapito il figlioletto che ritorna – ahimè non era necessario – nel finale, quando una radiografia mostra il bacino della donna vuoto. O forse è semplicemente uno scheletro che annuncia la morte di Gennaro, il figlio da lei stessa avvelenato una seconda volta?

Come si vede, non mancano i temi forti in questa vicenda altamente romanzata del Rinascimento italiano che la Carrasco immerge in un ambiente quasi onirico, delimitato solo da tendaggi (le scenografie sono di Carles Berga) e dove la luce naturale è bandita (il gioco luci è di Marco Filibeck): è sempre notte sia nel prologo veneziano che nei due atti a Ferrara. I costumi moderni di Silvia Aymonino non distinguono i diversi personaggi e impongono gorgiere e gonne di tulle per gli uomini nel prologo. Né gli ambienti né la conduzione registica offrono una particolare tensione narrativa verso il tragico finale, tensione che manca anche nella direzione di Roberto Abbado, la quale risulta certamente corretta ma non esaltante. Eppure Donizetti la sua parte la fa: all’atmosfera notturna annunciata nelle prime note della sinfonia, con quel minaccioso rullo di timpani, il compositore alterna episodi falsamente festosi come il brindisi di Orsini «Il segreto per esser felici», cui risponde il lugubre coro fuori scena «La gioia de’ profani è un fumo passegger». Tutto è ben eseguito, ma senza quel guizzo che ci si aspetterebbe da questo peculiare prodotto del bergamasco dal tono cupo e sulfureo.

Abbado ritorna per la seconda volta alla Lucrezia Borgia: la prima volta fu al Festival di Bergamo del 1988 e ora utilizza la versione critica eseguita senza tagli, anzi propone insieme tutte le diverse versioni che Donizetti ha approntato in un lungo arco di tempo. Ecco quindi i due distinti finali qui uniti: quello con l’aria di Gennaro morente «Madre se ognor lontano» e l’altro con la cabaletta piena di agilità di Lucrezia «Era desso il figlio mio». Forse è proprio questo scrupolo di utilizzare tutto il possibile a togliere mordente e forza drammatica alla esecuzione.

45 anni dopo Joan Sutherland, Lucrezia Borgia ritorna a Roma con la voce e la figura di Lidia Fridman, che si alterna con Angela Meade. Cosa che accade anche per gli altri interpreti principali: Enea Scala si alterna con Michele Angelini nella parte di Gennaro; come Maffio Orsini abbiamo Daniela Mack e Teresa Jervolino e Alfonso d’Este è interpretato da Alex Esposito e da Carlo Lepore.

Ancora una volta è Alex Esposito a catturare l’attenzione degli spettatori con una performance come sempre maiuscola, dove il suo Alfonso d’Este vive di una foga attoriale e vocale tali da rendergli impreciso un attacco, presto aggiustato. Di Lidia Fridman si sono sempre apprezzati il temperamento e la figura scenica, un po’ meno i salti di registro e un timbro non felicissimo, che qui magari sono di aiuto alla personalità contorta di Lucrezia Borgia, ma che non sempre esprimono l’essenza del belcanto donizettiano. Nel complesso comunque la sua performance è stata apprezzata dal pubblico che dopo l’aria di bravura finale, ricca di agilità e variazioni, è esploso in grandi applausi.

I generosi mezzi vocali di Enea Scala hanno fatto di Gennaro un personaggio sofferto e genuinamente drammatico, soprattutto in questa versione completa in cui rispetto a quella originale del 1833 ci sono le due arie aggiunte per la ripresa di Londra del ’38 e di quella di Parigi del ’40. Come L’Oscar di Un ballo in maschera, anche il Maffio Orsini di Lucrezia Borgia è affidato a una voce femminile, quella di Daniela Mack, efficace e scenicamente spigliata anche se non sempre a suo agio nel registro contraltile della parte. Adeguatamente realizzati sono i personaggi minori di Jeppo Liverotto (Raffaele Feo); Don Apostolo Gazella (Arturo Espinosa); Ascanio Petrucci (Alessio Verna); Oloferno Vitellozzo (Eduardo Niave, diplomato “Fabbrica”, Young Artist Program del Teatro dell’Opera); il perfido Gubetta (Roberto Accurso); Rustighello (Enrico Casari), Astolfo (Rocco Cavalluzzi) e l’usciere (Giuseppe Ruggiero). Non meno importanti sono gli interventi del coro istruito da Ciro Visco.

Il turco in Italia

Gioachino Rossini, Il turco in Italia

Rimini, Teatro Amintore Galli, 15 novembre 2024

★★★★☆

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Giallo gelosia

Prima di Amazon c’era Postal Market che esaudiva i bisogni consumistici dell’Italia del boom: bastava scegliere da un poderoso catalogo e per posta arrivavano a casa i prodotti tanto ambiti.

È appunto nell’epoca del Carosello che il regista Roberto Catalano ambienta la vicenda di Fiorilla e Geronio, coppia in crisi per la routine del rapporto matrimoniale. Routine interrotta solo dall’arrivo di caffettiere ed elettrodomestici, per riempire il vuoto esistenziale della moglie, e dei dolci che soddisfano invece il marito, qui più goloso che geloso. Uno scossone a questa relazione coniugale è dato dall’arrivo di Selim, fascinoso turco sfuggito dal suo harem per trovare un frisson erotico qui in Italia, dove «l’aria, il suolo, i fiori e l’onde, | tutto ride e parla al cor».

Nella coproduzione de Il turco in Italia dei teatri di Rovigo, Ravenna, Jesi, Pisa, Rimini e Novara, ora all’Amintore Galli, le scene di Guido Buganza e i costumi, azzeccatissimi, di Ilaria Ariemme hanno come nota cromatica predominante il giallo acido negli abiti dei coniugi, negli arredi e nelle suppellettili immersi in un involucro blu che, come nel blue screen cinematografico dell’effetto chroma-key, quasi sparisce evidenziando solo gli oggetti gialli. In blu sono Zaida e gli zingari, fattorini in tuta da metalmeccanico. In nero sono invece Prosdocimo, il trascrittore degli avvenimenti, e il Turco. Quattro gemelle Kessler in piume e lustrini danno al tutto il tono da varietà televisivo di prima serata dell’epoca.

I sentimenti sono inconsistenti, vuole dirci Catalano: anche l’“amore vero” ha la volatilità di un profumo e lo scambio di merci del frenetico via vai di fattorini è ispirato dallo scambio di mogli suggerito dal libretto. La chiave di lettura del regista, col suo tocco vivace e leggero, si adatta bene alla vicenda che sembra voler ribaltare quella dell’opera precedente di Rossini, L’italiana in Algeri.

Nelle due recite riminesi si alternano due Fiorille: Giuliana Gianfaldoni ed Elena Galitskaya. Il 15 novembre è la volta del soprano russo, che ora vive tra Francia e Italia, di dar prova di vivacità ben centrando la fatuità del personaggio. Qualche acuto è un po’ stridulo, ma il fraseggio è variegato, perfetta la dizione ed efficace la presenza scenica. Il marito Geronio trova in Fabio Capitanucci un interprete di solida vocalità esibita anche nell’aria spesso sacrificata del secondo atto «Se ho da dirla, avrei molto piacere» in cui il baritono mostra l’aspetto meno remissivo del personaggio. Elegante, senza alcuna punta di caricatura, il Selim di Nahuel Di Pierro, forse fin troppo trattenuto ma di gran bella voce. Non convince vocalmente invece Bruno Taddia che punta principalmente sulle sue doti attoriali, trasformando il poeta Prosdocimo in una figura espressionista, quasi il Pegleg di The Black Rider. Efficace il Don Narciso di Francesco Brito, ma certo non per le doti vocali, mentre apprezzabili sono la Zaida di Francesca Cucuzza e l’Albazar di Antonio Garés, privato comunque dell’aria di sorbetto apocrifa del secondo atto. Non sempre preciso il Coro Lirico Veneto istruito da Alberto Pelosin mentre Hossein Pishkar a capo di un’orchestra, la Luigi Cherubini, volenterosa più che virtuosa, riesce comunque a tenere saldamente le redini e a rendere felicemente la partitura.

L’elisir d’amore

foto © Mattia Gaido

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

Torino, Teatro Regio, 5 febbraio 2025

(cast alternativo)

Sul palcoscenico del Teatro Regio un cast diverso si alterna nell’Elisir d’amore, ma all’ultima recita due ulteriori sostituzioni salvano lo spettacolo per le indisposizioni delle interpreti femminili.

Daniela Cappiello veste i panni di Adina e convince nella trasformazione del personaggio sia di Felice Romani, che da giovinetta superficiale diventa tenera amante, sia del regista Daniele Menghini, che da marionetta di legno la fa diventare persona umana. Il momento clou della trasformazione è l’aria del secondo atto quando Adina restituisce a Nemorino il contratto con cui si è arruolato soldato e che lei ha riscattato: «Prendi; per me sei libero» canta su una melodia non distante dalla belliniana «Prendi: l’anel ti dono» de La sonnambula. Puro bel canto nella nitidissima linea musicale che la cantante esegue con legati e pianissimi di grande bellezza. Prima però nei duetti aveva sfoggiato precise agilità già sperimentate nelle sue passate Gilde, Amine, Regine della notte e Susanne. L’altra sostituzione è quella di Yuliya Tkachenko che delinea una Giannetta vivace sia vocalmente che scenicamente nei suoi pochi ma ben calibrati interventi.

Confermati invece i ruoli maschili con Valerio Borgioni che incarna un Nemorino di bella presenza, timbro gradevole e generosi mezzi vocali non sempre però controllati e sfogati in acuti che sporcano la linea di canto. I suoni sono generalmente troppo aperti e il fraseggio un po’ disordinato, ma il momento migliore della sua performance è comunque quello della «Furtiva lagrima» in cui, accompagnato dai tempi comodissimi del Maestro Carminati, riesce a sfoggiare pianissimi e indugi che scatenano l’entusiasmo del pubblico. Simone Alberghini è un Dulcamara tutt’altro che caricaturale, quasi composto nel bailamme in scena. La voce mantiene una proiezione e un giusto colore per affrontare un carattere esuberante e con doti sicure dote attoriali. Con Lodovico Filippo Ravizza il personaggio di Belcore si conferma il più riuscito della serata, come era successo alla prima. La grande musicalità e la bellezza del timbro caratterizzano il giovane baritono ascoltato come Renato nel Ballo in maschera dello stesso Menghini a Busseto. L’atteggiamento guascone del personaggio non eccede mai una linea di eleganza che comunque non rende mai meno sapido il personaggio.

L’occasione di ascoltare il cast alternativo di questa produzione ha permesso di ammirare ancora una volta l’attenta concertazione di Fabrizio Maria Carminati in una partitura che oltre alla sublime vena melodica cela tesori nascosti di strumentazione. Un esempio per tutti la scena del coro delle Paesane del secondo atto «Sarà possibile?», punteggiata in orchestra dagli ineffabili interventi di flauto e clarinetto, poi fagotto e corno, e poi, inattesi e misteriosi, i timpani, il tutto reso con grande sensibilità dalla bacchetta del Maestro, come gustose sono le improvvisazioni al fortepiano di Paolo Grosa quando accenna all’accordo del Tristano se Dulcamara cita Isotta…

Questa seconda visione permette di scoprire qualche altro dettaglio nella regia di Daniele Menghini, una messa in scena zeppa di idee efficacemente realizzate,  ma con gag spesso estemporanee per compiacere il pubblico – il chiodo, il fallo, l’estintore… – , pubblico numeroso e giovanile che infatti risponde con applausi travolgenti alla fine della recita.

Questa di Donizetti è opera spesso presente nei cartelloni del Regio di Torino, molto meno le sue opere serie. Sarà bene rimediare: il bergamasco è compositore quantitativamente più fecondo nel dramma che nel genere buffo, come sanno bene all’estero dove grande successo hanno ad esempio le sue regine…

L’elisir d’amore

foto © Mattia Gaido

Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★★★☆

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Torino, Teatro Regio, 28 gennaio 2025

Il mondo di legno di Nemorino

Arriva dalla platea Nemorino: parka, borsa di plastica con bottiglie che finiranno nel frigorifero del suo laboratorio di burattinaio sporco di segatura e ingombro di ciocchi di legno. Sul fondo le marionette pronte per la consegna, sul tavolo di lavoro una marionetta femminile a cui mancano ancora pochi tocchi. Ma Nemorino ne è già innamorato: un po’ Geppetto, un po’ Pigmalione, il creatore si è invaghito della sua creatura. Ma non sarà inghiottito dalla balena, bensì dal suo onirico subconscio.

Burattinaio improvvisato, «non avendo trovato un suo posto nel mondo, [Nemorino] crea un suo mondo di legno», dice il regista Daniele Menghini, e tutta la vicenda del libretto di Felice Romani diventa così una soggettiva del giovane che si trova a fare i conti con l’amore per la prima volta. Da una parte c’è un uomo fragile, genuino e semplice, dall’altra personaggi caricaturali, farseschi, delle maschere, appunto. Nemorino quindi è l’unico essere umano, tutti gli altri sono burattini. Ma mentre la sua creatura di legno acquista sempre più le qualità umane della ragazza Adina, il giovane si trasforma invece in burattino, in Pinocchio. Ed ecco allora Dulcamara diventare Mangiafuoco, mentre una inquietante figura mezzo Grillo Parlante mezzo Fata Turchina passeggia sgranocchiando gli arti di legno del burattino che era stato portato in scena in una bara trasportata dai lugubri conigli della fiaba di Collodi. Però nel gioioso lieto fine Nemorino riacquista la sua totale umanità e scappa con l’amata passando nuovamente per la platea.

Spettacolo ricco – forse troppo – e carico di simboli quello del giovane e talentuoso Daniele Menghini di cui era stato molto apprezzato Un ballo in maschera al recente Festival Verdi. Arriva da un altro Teatro Regio, quello di Parma, questo Elisir d’amore e piace al pubblico, anche perché il regista riesce a conquistarselo con la sua sicura tecnica teatrale, talora anche troppo esibita, e immagini di grande suggestione. Niente villaggio campestre, covoni di fieno e mietitori: i costumi settecenteschi di Nika Campisi richiamano quelli delle marionette della Fondazione Grilli (a Parma erano quelli del Museo Giordano Ferrari) mentre le scenografie di Davide Signorini ricreano un mondo cupamente onirico che ricorda Freaks, il film di Browning, con una incombente gigantesca mano da cui pendono i fili delle marionette mentre le luci di Gianni Bertoli sottolineano l’artificialità dell’ambiente. 

Se la complessa drammaturgia messa in atto dal regista per una vicenda così semplice e immediata può non aver convinto tutti, non sembrano invece esserci state riserve sulla qualità dell’esecuzione musicale affidata a un sicuro concertatore quale Fabrizio Maria Carminati che della partitura ha dato una lettura corretta e precisa, esaltandone il tono patetico quando necessario con tempi comodi e con una bella ricerca di colore strumentale. A suo onore anche l’aver eseguito l’opera nella sua interezza aprendo i tagli di tradizione e ripristinando i da capo. Apprezzatissimi sono stati gli arguti interventi al fortepiano di Paolo Grosa con i suoi accenni al Don Pasquale o alle musiche del Pinocchio televisivo di Comencini.

Del quartetto di cantanti principali il migliore è il Belcore di Davide Luciano, grande proiezione ottenuta senza ispessire o strangolare la voce, eleganza di fraseggio e convincente presenza scenica. Non è da meno il simpaticissimo Nemorino di René Barbera, parte da lui spesso frequentata, dal bellissimo colore timbrico messo in luce, assieme alla grande tecnica, nelle due arie solistiche nel finale del primo atto e poi nella celeberrima «Una furtiva lagrima», che non è stata bissata solo perché, da grande artista qual è, non ha voluto eccedere nei facili effetti mantenendo una linea vocale di grande purezza. Paolo Bordogna si dimostra come sempre uno straordinario attore, ma il suo Dulcamara è inferiore alle aspettative per comicità, colore della voce e potenza. E spesso con ricorso al parlato.

Infine Federica Guida. A me non piacciono le Adine soubrette, ma qui il soprano palermitano sfoggia un temperamento eccessivo per il personaggio, con un timbro non molto piacevole, un’emissione sempre troppo forte e qualche grido di troppo. Convincente è la Giannetta di Albina Tonkikh del Regio Ensemble e ottimo il coro che non solo si dimostra eccellente musicalmente sotto la guida di Ulisse Trabacchin, ma sta migliorando sempre più la sua presenza scenica, qualità non sempre evidente nei cori italiani. Si era già notata nella Manon Lescaut di Auber – di cui si vorrebbe vedere Le Philtre, tratto dalla stessa pièce di Scribe, e un tempo molto popolare in Francia – e anche qui i movimenti e la gestualità, con il concorso dei bravi mimi-ballerini, sono risultati estremamente efficaci.

Accoglienza molto calorosa del pubblico con applausi particolarmente intensi per gli interpreti maschili. Nelle successive repliche si alterna un cast altrettanto prestigioso.

Roberto Devereux

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Roberto Devereux

Bergamo, Teatro Donizetti, 15 novembre 2024

★★★

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Tra letto e trono

Che si consideri una trilogia oppure no – ci sarebbe anche l’Elisabetta al castello di Kenilworth ma è un melodramma a lieto fine – quello dedicato alle regine Tudor costituisce un unicum nel corpus della settantina di melodrammi scritti dal compositore bergamasco. Roberto Devereux (1837) è comunque l’ultimo della serie iniziata con Anna Bolena nel 1830 e proseguita con Maria Stuarda nel 1835.

Come succederà nel Don Pasquale, anche Roberto Devereux è un’opera sulla l’inesorabilità del tempo: a dispetto del titolo, protagonista principale qui è Elisabetta, la regina che nel 1601, anno della morte del conte di Essex, aveva 67 anni. Sopravviverà ancora due anni prima di lasciare il trono a Giacomo I, come recitano gli ultimi due versi del libretto del Cammarano: «Non regno… non vivo… Escite… Lo voglio… | Dell’anglica terra sia Giacomo il re». Il senso della caducità degli uomini e delle cose è evidente nella storia della regina che ci viene mostrata vecchia e stanca nell’ultimo suo ciclo di vita a combattere inutilmente contro una rivale bella e giovane – quasi come la Marschallin del Rosenkavalier, che però non fa tagliare la testa al suo Octavian… 

Con la tradizionale ripartizione tra le quattro voci di soprano, mezzosoprano, tenore e baritono, la vicenda si avviluppa sulla passione senile della monarca per un 34enne innamorato invece della moglie del suo miglior amico. Il potere di sovrana e la vulnerabilità come donna formano un conflitto fonte di continui contrasti emotivi che fanno del personaggio della regina un banco di prova e di esibizione per le grandi personalità della lirica. Leila Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballé, Edita Gruberová, Mariella Devia: ognuna di loro ha fatto di Elisabetta il proprio rôle fétiche. 

Jessica Pratt ritorna al Donizetti Opera, arrivato alla decima edizione, dopo aver lasciato la sua personale impronta nella Rosmonda d’Inghilterra e ne Il castello di Kenilworth, rispettivamente nel 2016 e nel 2018. Definita da qualcuno l’Elektra del belcanto, Roberto Devereux dà agio alla prima donna di mostrare un temperamento scenico – l’analogo operistico della Bette Davis cinematografica! – e una tecnica vocale piegata a tutte le esigenze virtuosistiche del belcanto italiano. Il soprano australiano, al debutto nella parte, si dimostra sicuramente all’altezza esibendo una linea di canto dispiegata su un’ampia gamma. La Pratt in questa fase della sua carriera ha sviluppato una sfumatura di colore che ben si adatta a un ruolo scritto per un soprano d’agilità ma anche drammatico: il registro mediano è di grande proiezione e solidità, i legati e i filati sono sostenuti da fiati controllatissimi, i pianissimi eterei. Agli estremi della gamma non tutto funziona alla perfezione: le note gravi non sono il forte della cantante, qualche acuto non è di purezza cristallina e le variazioni sono caute, ma convincente è la definizione del personaggio nella sua tormentata umanità.

Nel Devereux Roberto, il conte di Essex, si dimostra estremamente improvvido, gestendo al peggio la relazione con le due donne – ma come si fa a regalare alla seconda l’anello avuto dalla prima o farsi scoprire con la sciarpa avuta dall’altra? – e ricambiando l’amicizia dell’unico che crede alla sua innocenza insidiandogli la moglie. Eppure, il tenore John Osborn riesce nel miracolo di renderci simpatico il personaggio non tanto per il suo particolare timbro, ma vestendo la sua presenza di note rese con sensibilità ed eleganza che raggiungono il culmine dell’empatia emotiva al terzo atto nella scena IV del carcere, «Io ti dirò, fra gli ultimi | singhiozzi, in braccio a morte», e in quella seguente «Bagnato il sen di lagrime, | tinto del sangue mio», qui però guastata da una pessima trovata registica di cui parleremo.

Il personaggio di Sara trova una validissima interprete nel mezzosoprano Raffaella Lupinacci impegnata in una tessitura molto alta che dopo la “belliniana” aria di sortita «All’afflitto è dolce il pianto…» affronta con sicurezza pagine via via più drammatiche, fino al violento duetto col marito, il duca di Nottingham, ruolo nobile in tutti i sensi a cui Simone Piazzola presta la sua bella voce e l’elegante espressività.

C’è un quinto personaggio nel Devereux: è lo Stato, rappresentato da Lord Cecil, da Sir Gualtiero Raleigh e dal coro, i quali fanno di tutto per sbarazzarsi dell’ambizioso Conte che minaccia il loro status quo. Il timbro luminoso di David Astorga dà insolito rilievo alla parte di Cecil, mentre per Raleigh è stato scelto un allievo della Bottega Donizetti, il giovane basso-baritono Ignas Melnikas. Ancora un basso, Fulvio Valenti, dà voce a Un famigliare di Nottingham e a Un cavaliere. Intonato e preciso si dimostra il coro dell’Accademia del Teatro alla Scala istruito da Salvo Sgrò.

Il bresciano Riccardo Frizza è figura di riferimento per il Donizetti Opera, è il suo Direttore Musicale e qui ha diretto innumerevoli titoli. La sua scelta è per l’edizione originale del Devereux, quella napoletana del 20 ottobre 1837, senza la sinfonia che cita l’inno inglese God Save the Queen – da pochi mesi sul trono d’Inghilterra era salita Victoria – aggiunta per la presentazione a Parigi del 27 dicembre 1838. Qualche differenza è anche nel duetto tra Elisabetta e Roberto, in questa prima versione più breve. La partitura del Devereux ha la raffinatezza dei lavori francesi che seguiranno, con una più attenta scelta degli strumenti per cui ne viene fuori un colore scuro che è proprio di quest’opera e che Frizza sottolinea fin dalle prime note che introducono il dramma in media res. Senza mai eccedere negli effetti, l’orchestra riesce a comunicare quel senso di dramma che rende questo un lavoro particolare, più moderno e a suo modo lontano dal modello di melodramma tradizionale del suo tempo.

La regia di Stephen Langridge è ricca di buone intenzioni quanto di cadute di gusto che rendono lo spettacolo complessivamente poco convincente. L’ambientazione utilizza una scenografia minimalista e costumi, entrambi disegnati da Katie Davenport, che suggeriscono l’epoca storica. Due praticabili semoventi formano le tribune dei Lordi (così nel libretto) o le pareti del castello dei duchi di Nottingham. Unici due pezzi d’arredamento sono un letto e un trono, entrambi rossi, rappresentanti simbolicamente l’intreccio di conflitti personali e di potere. Il tutto è incorniciato in un rettangolo luminoso la cui luce diventa abbagliante nei momenti clou dell’opera, praticamente tutte le arie. Un effetto gratuito e fastidioso, mentre puramente decorativo è l’espediente di proiettare i testi delle poesie di Essex, nella loro grafia originale, sulle pareti. Nella sua lettura il regista inglese introduce alcuni elementi disturbanti quali un burattino in scala reale di una Elisabetta scheletro, che a un certo punto si unisce sessualmente con un giovane alter-ego di Essex, e l’infantile “gioco dell’impiccato” mentre Roberto affronta l’aria più bella dell’opera, una caduta di gusto del tutto incomprensibile. Come poco comprensibile sia far apparire incinta Sara. Di chi poi? Boh.

Questi particolari non hanno impedito comunque allo spettacolo di suscitare gli entusiastici applausi del pubblico convinto dalle interpretazione dei cantanti e dalla direzione orchestrale.

La sonnambula

Vincenzo Bellini, La sonnambula

Roma, Teatro dell’Opera, 11 aprile 2024

★★★

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Il sonno agitato di Amina

La Svizzera, che era totalmente assente nel Guillaume Tell scaligero, la ritroviamo ne La sonnambula ora in scena al Costanzi, ma solo nel nome della galleria d’arte “Elvezia”, la location che Elvino ha noleggiato per le sue nozze con Amina, perché la vicenda è ambientata a Roma dove la fanciulla, dopo aver visitato il Palazzo Barberini si addormenta in una camera dell’hotel Quirinale. Quello collegato al Teatro dell’Opera da una porta nel suo giardino che dà direttamente sul corridoio dei palchi di prim’ordine sinistro: Domenico Costanzi nel 1874 fece costruire lungo la nuova via Nazionale prima l’Hotel Quirinale e nel 1880, sul terreno confinante, il teatro d’opera che nella nuova capitale ancora mancava. L’architetto di entrambi gli edifici aveva ideato quel passaggio che veniva regolarmente utilizzato dagli artisti che soggiornavano nell’albergo, da Verdi alla Callas e della Divina nello spettacolo viene mostrato il ritratto, uno fra i tanti appesi sulle pareti della galleria. In realtà si tratta di video in cui si possono vedere capolavori del passato come la Maddalena penitente del Vouet rivisitata in stile contemporaneo, o la Velata del Corradini che diventa il «marmo dell’estinta madre» di Elvino su cui si rotolano molto irriverentemente in uno scomodo amplesso i due giovani.

Sul programma di sala ben tredici pagine sono dedicate alle note di regia dello spettacolo affidato a Jean-Philippe Clarac e Olivier Deloeuil > Le lab, un collettivo artistico di Bordeaux che ha tra i collaboratori Christof Pitoiset per le scene e le luci, Pascal Boudet e Timothée Buisson per gli interventi video e Julien Roques graphic design. Con la drammaturgia di Luc Bourrousse la semplice vicenda diventa la visualizzazione di diversi livelli di esplorazione dell’inconscio in cui «il sonno diventa riserva di metafore visive: della vita erotica, della vita spirituale, della malattia e della morte. L’allestimento crea un dialogo costante tra i video e l’azione teatrale sul palco. Un dialogo tra sogni, incubi, allucinazioni, ossessioni e immagini mentali».

Prima che inizi la musica vediamo dunque una ragazza alter ego di Amina che dopo aver vagato di notte per Roma entra nella stanza dove soggiornava la Divina, stanza trasformata in un piccolo museo con foto e manifesti dei suoi spettacoli romani, manda giù qualche pasticca con del liquore e cade in un sonno profondo. Non è dunque sonnambula e la vicenda di Scribe trasformata in libretto da Felice Romani non è che un incubo indotto dal mix di psicofarmaci e superalcolici. Non un’idea originalissima, ma accettabile se la realizzazione fosse convincente. Cosa che non avviene in questo caso in cui la discrepanza tra quanto teorizzato e quanto rappresentato è massima, cozza con la musica, si fa beffe dell’opera stessa e introduce trovate di dubbio gusto o del tutto ridicole, come l’apparizione di Amina con due cuscini legati dietro la testa o i numeri musicali annunciati come “performance”.

Alla seconda recita i registi non si presentano per i saluti finali e quindi si sono risparmiati i probabili bu che hanno caratterizzato il loro ingresso alla prima e il pubblico ha concentrato il suo favore sui fautori della parte musicale, primo fra tutti Francesco Lanzillotta che della difficile partitura di questo “semplice” lavoro, il settimo titolo del catalogo di Bellini, ha dato una lettura difficilmente superabile per qualità. «La semplicità dell’orchestra belliniana è un complesso lavoro compositivo che porta alla sublimazione dell’elemento melodico. “Ah! Non credea mirarti” è depurata persino di ipotetici raddoppi degli strumentini. Scrivere musica con pochi elementi, raggiungendo vette artistiche così alte, è più complesso che farlo con molti», dichiara il Maestro Lanzillotta che evidenzia la difficoltà di scrivere per un’orchestra ridotta: è facile ottenere grandi risultati con settanta e più strumenti, ognuno col proprio colore e il proprio timbro. È con pochi strumenti a disposizione che si vede l’abilità di un compositore a esprimersi e il giovane direttore romano, presenza di eccellenza in tutti i maggiori teatri e festival mette magistralmente in luce la qualità di scrittura del giovane Bellini e dimostra la sua abilità nel gestire l’ampiezza dei cantabili di depurata bellezza. 

Il secondo cast dell’11 aprile non fa quasi rimpiangere le stelle assolute del primo. Soprattutto Marco Ciaponi, giovane tenore dal bellissimo timbro che ricorda quello del giovane Pavarotti. Apprezzato interprete del repertorio belcantistico – Nemorino, Tonio, Ernesto… – e vincitore di prestigiosi concorsi, Ciaponi ha già interpretato il ruolo di Elvino a Dresda. Assieme al dono naturale della voce si ammira la sensibilità di uno stile elegante mentre nelle pagine più liriche esibisce filati e mezze voci da brivido. Molto ben realizzate anche le variazioni nelle riprese. Solo gli acuti sono sembrati talora un po’ cauti, ma nel complesso la sua è stata una prestazione di gran classe e molto applaudita. Di Ruth Iniesta ricordiamo le sue ottime prove in repertori molto diversi quali la zarzuela, l’opera francese o il belcanto italiano. Qui dimostra una volta di più la sua convincente tecnica e il suo bel mezzo vocale. Non solo i momenti magici di «Come per me sereno» o «Ah, non credea mirarti», ma anche i duetti con Elvino rivelano la chiarezza delle agilità e il fraseggio espressivo del soprano spagnolo. Il giovane Manuel Fuentes delinea un solido Conte Rodolfo anche se con una certa monotonia nella linea vocale e talora la difficoltà di mantenere il passo con l’orchestra. Monica Bacelli da par suo conferisce una sapida dimensione a mamma Teresa mentre Francesca Benitez si rivela una sorprendente Lisa nelle sue due arie zeppe di impervie difficoltà affrontate e risolte con grande agio e temperamento. Mattia Rossi (Alessio) e Leonardo Trinciarelli (Notaro) completano un cast calorosamente applaudito assieme al coro molto ben preparato da Ciro Visco. Giuste ovazioni per Francesco Lanzillotta.

Beatrice di Tenda

 

foto © Marcello Orselli

Vincenzo Bellini, Beatrice di Tenda

Genova, Teatro Carlo Felice, 17 marzo 2024

★★★☆☆

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Il penultimo Bellini a Genova, grandi voci ma regia non pervenuta

Con Beatrice di Tenda si arrestava il proficuo sodalizio di Bellini con il librettista Felice Romani. Per diverse ragioni si interrompeva infatti la collaborazione con chi gli aveva scritto Il pirata, La straniera, Zaira, I Capuleti e i Montecchi, La sonnambula e Norma, ossia tutte le opere dopo il 1826. L’opera successiva, I puritani, sarebbe stata versificata da Carlo Pepoli e una riconciliazione tra Bellini e Romani ci sarebbe forse stata se non fosse avvenuta prematuramente la morte del compositore catanese. 

La Beatrice di Tenda è dunque la sua penultima opera e quella che più si stacca dalle precedenti per la mancanza di grandi arie e cabalette, elemento che, nonostante la presenza della diva Giuditta Pasta, ne decretò l’incerto esito alla prima veneziana del marzo 1833 e la scarsa popolarità successiva. In tempi moderni si deve a Joan Sutherland il recupero di questo titolo negli anni ’60 del secolo scorso. La sua fu un’interpretazione quasi metafisica per astrazione e raffinata linea vocale, a cui si contrappose poco dopo quella più naturalistica e drammatica di Leyla Gencer. Ora a Genova il soprano americano Angela Meade sfoggia la sua prodigiosa proiezione vocale, la precisione delle agilità, i filati preziosi e il fraseggio accurato che abbiamo ammirato altre volte nella parte di questa figura angelicata, pura e martire trasfigurata nella pace celeste che l’attende. La voce però ha un filo di metallico e un vibrato che prima non c’erano e la presenza scenica rimane quella che è, così che il personaggio, già di per sé non trascinante dal punto di vista emozionale, diventa ancora meno empatico del solito.

Annunciato leggermente indisposto, Mattia Olivieri ha lasciato tutto il pubblico in attesa di qualche sintomo della sua non perfetta forma, ma inutilmente: il baritono emiliano ha stupito tutti con una performance da manuale per il timbro meravigliosamente morbido, il canto omogeneo su tutti i registri, l’accento e l’espressività. Quanta strada ha fatto dai ruoli leggeri e buffi di qualche tempo fa! Il suo Filippo Maria Visconti, che ricordiamo aveva vent’anni meno della moglie, un abisso incolmabile per quell’epoca, con la sua presenza scenica fa diventare il perfido personaggio se non accettabile nelle ragioni per cui fa condannare la donna, per lo meno più comprensibile e indubbiamente fascinoso.

Il personaggio certamente non eroico di Orombello trova in Francesco Demuro una linea di canto elegante e un timbro piacevole ma l’impervia tessitura porta il tenore sardo a sbiancare gli acuti, anche se in linea con l’estetica belliniana. Non sembrano molto belcantistici invece i suoni marcati nelle consonanti e l’eccessiva espressività di Carmela Remigio, una Agnese del Maino meglio recitata che cantata. Peculiare nella voce l’Anichino di Manuel Pierattelli, l’unico personaggio umano in questa corte spietata mentre anche Giuliano Petouchoff fornisce buona prova nel breve intervento di Rizzardo del Maino. Il coro, istruito da Claudio Marino Moretti, è un vero e proprio personaggio che commenta continuamente le azioni. Qui esibisce buona intonazione, precisione e duttilità. 

La musica di quest’opera è quasi un unicum nella produzione belliniana: il tono dominante è scuro, mancano come s’è detto pagine melodicamente orecchiabili, strette e cabalette trascinanti e le scene si susseguono senza spettacolari cambiamenti di colore. Insomma, la drammaturgia è sobria pur nella tragicità degli eventi. Il direttore Riccardo Minasi ha dato efficace risalto alle pagine drammatiche, un po’ meno a quelle liriche, ma ha saputo fornire il giusto respiro ai cantanti e dosare l’equilibrio sonoro tra buca e palcoscenico. Apprezzato anche l’aver presentato il lavoro quasi senza tagli.

Il regista Italo Nunziata ha scelto di ambientare la vicenda non nel 1418 né all’epoca di Bellini bensì, inspiegabilmente, a fine Ottocento con gli eleganti abiti femminili richiamanti nella ricchezza dei broccati elementi del Rinascimento, ma tutti uguali per le coriste, mentre coristi e personaggi maschili sono in abiti da sera, disegnati da Alessio Rosati. Nella scenografia di Emanuele Sinisi il castello di Binasco è uno spazio chiuso e oscuro delimitato da quinte e pannelli mobili che sembrano soffitti di cemento squarciati. Le grandi fotografie di particolari architettonici che appaiono in certi momenti sono un omaggio a Ola Kolehmainen (non Kolemhainen com’è scritto nel programma di sala), fotografo finlandese contemporaneo. Un vecchio dagherrotipo che appare quando Beatrice ricorda il defunto marito Facino Cane e una sbiadita foto della Corte Suprema americana quando si insediano i giudici sono ulteriori elementi di questa scenografia. Le luci fisse di Valerio Tiberi accentuano la claustrofobia dell’ambiente in cui è assente la luce naturale esterna.

La scarsa drammaturgia offerta dal libretto ha suggerito al regista una lettura rinunciataria e totalmente statica. Gli unici movimenti in scena sono quelli dei pannelli o del coro, quando metà entra da sinistra e l’altra metà da destra, si incrociano nel mezzo, c’è chi sale i tre gradini e chi li scende, i maschietti impettiti a dritta e le donne che fanno le belle statuine a manca. Una coreografia che si ripete stancamente per tutti gli atti. Ai cantanti non è offerto nessun appiglio per rendere più intensi i duetti e i concertati e l’inamovibilità della protagonista sembra contagiare quasi tutti i presenti in scena. Che poi dopo le indicibili torture subite sia Beatrice che Orombello si presentino senza un graffio e perfettamente pettinati e vestiti non stupisce più di tanto. Il recente criticato allestimento parigino di Peter Sellars al confronto aveva almeno offerto qualche motivo di interesse in più.

Si è comunque trattato di un allestimento lineare, senza “stranezze” che l’attempato pubblico della domenica pomeriggio del Carlo Felice ha salutato con molto calore e autentiche ovazioni per la Meade e l’Olivieri.