Ovidio

Hotel Metamorfosis

foto © Monika Rittershaus

da Antonio Vivaldi, Hotel Metamorphosis

Salisburgo, Haus für Mozart, 10 agosto 2025

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Geniale pasticcio vivaldiano

Al Festival di Salisburgo 2025 trionfa Hotel Metamorphosis, pasticcio vivaldiano ideato da Gianluca Capuano e Barrie Kosky. In un’unica stanza d’albergo si intrecciano cinque miti ovidiani tra ironia e pathos. Cecilia Bartoli, Philippe Jaroussky e Lea Desandre guidano un cast d’eccellenza. Splendidi Les Musiciens du Prince, scenografia suggestiva, regia inventiva: uno spettacolo visivamente e musicalmente folgorante.

Il pasticcio fu una forma musicale molto popolare nel XVIII: una raccolta di brani musicali tratti da varie opere, talvolta di più compositori, adattati per creare una nuova trama. Abbracciando il vero spirito barocco, Gianluca Capuano (direttore) e Barrie Kosky (regista) allestiscono un pasticcio con musiche di Antonio Vivaldi che si è rivelato lo spettacolo di punta del Festival di Pentecoste di Salisburgo 2025 e che viene ripreso ora nella sessione estiva. Alla base dell’operazione c’è Cecilia Bartoli il cui  “Vivaldi-Album” del 1999 fu determinante nella spinta verso la Vivaldi-Renaissance. Ora altri cantanti affrontano i pezzi che lei aveva scovato e salvato dall’oblio.

Semplice ma geniale la ricetta di Hotel Metamorphosis: prendi trenta delle più belle arie scritte dal Prete Rosse, collegale con altri suoi brani strumentali (1) e, invece dei recitativi tradizionali, unisci i numeri musicali con letture tratte dalle Metamorfosi di Ovidio o da Rainer Maria Rilke così da creare una vicenda in cui rivivono personaggi della mitologia. Prendi poi un dramaturg, qui Olaf A. Schmitt, che sceglie il personaggio di Orfeo come narratore, l’attrice Angela Winkler, ed ecco che si ricrea quella tensione drammaturgica che è spesso latitante nelle opere di Vivaldi. Un’operazione, come sottolinea Capuano nel programma, che mira anche a rendere più accessibili al pubblico moderno le opere vocali di Vivaldi, che non rientrano nel repertorio operistico standard, in modo da ottenere un’avvincente introduzione all’arte del compositore veneziano.

Hotel Metamorphosis è basato su cinque storie e un Prologo dove Cecilia Bartoli in veste di Euridice scompare letteralmente dagli occhi del suo Orfeo sprofondando tra le lenzuola del letto (il trucco utilizzato da Dimitris Papaioannou nel suo Inside) dopo aver cantato Sol da te, mio dolce amoredall’Orlando furioso con pianissimi evanescenti accompagnati dall’ammaliante flauto traverso obbligato di Jean-Marc Goujon.

La prima storia è quella dello scultore Pigmalione che è riuscito a scolpire una figura femminile così perfetta da considerarla umana e si innamora della sua stessa creazione. La figura si trasforma in un essere in carne e ossa e ricambia l’amore del suo creatore. Il Pigmalione di Philippe Jaroussky è immaginato da Barrie Kosky come un anziano occhialuto che vive con una bambola sintetica che tratta come moglie. Qui ascoltiamo il controtenore in due arie dove si ammira lo stile dell’interprete il cui mezzo vocale denuncia qualche debolezza nell’acuto compensata però da dolcezza di emissione e legati ineffabili.

La seconda è quella di Aracne, famosa per la sua abilità nella tessitura, che attira molti ammiratori ma è indignata per essere stata scambiata per un’allieva di Minerva, dea della saggezza e delle arti. Minerva visita Aracne sotto le spoglie di una vecchia che la ammonisce di non competere con la dea, ma Aracne la sfida in una gara di abilità artistica. Minerva crea un’opera d’arte che raffigura la natura unica del mondo degli dèi, mentre Aracne mostra come gli dèi, sotto varie forme, ingannino l’umanità. Umiliata da Minerva, Aracne tenta di togliersi la vita. Ma la dea la trasforma in un ragno affinché possa continuare a tessere. Per Kosky Aracne diventa una diva dei giorni nostri, esattamente come la Bartoli che sta al gioco con autoironia tra fans adoranti, fotografi e giornalisti. Uno dei quali la intervista sulle note di “Quell’augellin che canta“ da La Silvia, opera di Vivaldi del 1721, dove la cantante dispiega aeree agilità. La sfida con Minerva è quella di due visual artist che utilizzano l’intelligenza artificiale per spettacolari trasformazioni visive duettando sulle note di “In braccio de’ contenti” da La gloria di Imeneo, per poi portare la sfida sul piano vocale con le due formidabili arie di furore “Armate face et anguibus” dalla Juditha triumphans per Aracne e “Se lento ancora il fulmine” dall’Argippo per Minerva interpretata da Nadežda Karyazina, cantante di grande presenza scenica ed eccellente tecnica seppure con un vibrato eccessivo nella voce.

Nella terza storia facciamo la conoscenza di Mirra, attratta fatalmente da suo padre, che rifiuta tutti i pretendenti che lui le presenta. Confidatasi con la sua amica più cara, una notte, mentre la madre di Mirra è assente, l’amica riesce a introdurre Mirra nel letto del padre e al buio lui non riconosce la sua giovane amante. Lei condivide il letto del padre per diverse notti, fino a che lui decide di volerla vedere e riconosce la figlia che in preda ai rimorsi fugge, incinta del padre. Nella sua disperata situazione Mirra implora gli dèi che la trasformano in un albero. Qui è Lea Desandre a riprendere due cavalli di battaglia della Bartoli: “Agitata da due venti” dalla La Griselda e “Anderò, volerò, griderò” dall’Ercole sul Termodonte. Colorature e passaggi virtuosistici sono affrontati e risolti senza far troppo rimpiangere il modello maggiore.

La quarta storia è quella del giovane Narciso, circondato da uomini e donne che lo adorano, ma li respinge tutti. La dea della vendetta esaudisce la richiesta di uno degli uomini che egli ha respinto affinché anche Narciso non possa mai avere la persona che ama. In riva a uno stagno, Narciso vede il proprio riflesso nell’acqua, senza riconoscerlo come tale, e si innamora della sua immagine riflessa. La ninfa Eco è affascinata da lui, ma lui ha occhi solo per il proprio riflesso. Una punizione inflitta dalla dea Giunone fa sì che Eco possa rispondere solo con le ultime parole che ha sentito. Angosciata dal suo amore non corrisposto per Narciso, il suo corpo scompare gradualmente ed Eco continua a vivere come suono. Rendendosi conto di amare solo il proprio riflesso, Narciso è consumato dal desiderio e si trasforma in un fiore. Confrontandosi con le due figure di Narciso e del suo riflesso, Jaroussky rende con grande intensità Gemo in un punto e fremoda L’Olimpiade e “Sento in seno ch’in pioggia di lacrime” da Tieteberga.

Nella storia finale Orfeo non riesce a riportare in vita la sua amata Euridice e viene brutalmente assassinato dalle menadi. Euridice rabbrividisce di orrore alla sua morte e i loro corpi trasformati svaniscono nell’oscurità. La Bartoli ritorna come Euridice intonando “Sposa son disprezzata” (Bajazet) e “Gelido in ogni vena” (Farnace), un culmine di forza drammatica ottenuto con filati spettrali e forti scoppi improvvisi.

Diretti da Gianluca Capuano con stile e senso musicale, Les Musiciens du Prince dispiegano una variegata tavolozza di colori e di dinamiche che rendono al meglio le pagine vivaldiane, sia nelle arie sia negli interludi strumentali costituiti da concerti con strumenti solistici. Di Capuano sono anche le inedite modulazioni che legano fra di loro con efficacia teatrale i vari pezzi. L’ensemble corale de Il Canto di Orfeo con la sua presenza completa la parte musicale d’eccezione di questo spettacolo indimenticabile.

Con la scenografia di Michael Levine, Kosky ambienta le vicende nella stessa asettica stanza d’albergo occupata successivamente dai vari personaggi: sul fondo è la porta da cui entrano i camerieri che ogni volta rimettono in ordine la stanza, al centro un letto e una grande finestra a destra. Dietro il letto un quadro che rappresenta ogni volta una nuova scena mitologica. Klaus Bruns disegna gli abiti contemporanei e Franck Evin si occupa del raffinato gioco luci. Preponderante nell’episodio di Aracne è la video grafica della rocafilm. Il risultato è uno spettacolo visualmente stupefacente pieno di trovate e movimentato dalle vivacissime coreografie di Otto Pichler realizzate da un folto numero di eccezionali ballerini. Entusiasmo del pubblico alle stelle e infinite chiamate per tutti.

(1) Struttura dell’opera:
Prologo
Concerto madrigalesco RV 129: I. Adagio, Il. Allegro
“Sol da te, mio dolce amore” (Euridice), aria da Orlando furioso RV 728
Concerto madrigalesco RV 129: III. Adagio, IV. Allegro
Atto primo
Scena 1: Pigmalione
“Se in ogni guardo” (Pygmalion), aria da Orlando finto pazzo RV 727
“Sovente il sole” (Pygmalion), aria da Andromeda liberata ANH 117
Concerto RV 159: Il. Adagio
“Gemiti e lagrime” (Coro), da Dorilla in Tempe RV 709
Concerto RV 159: Il. Adagio
“Dimmi, pastore” (Pigmalione, Statua), duetto da La fida ninfa RV 714
Sinfonia da La verità in cimento RV 739
Scena 2: Aracne
“Lodate il gaudio” (Coro) da Laudate Dominum RV 606 (Vivaldi, Michel Corrette)
“Quell’augellin che canta” (Aracne), aria da La Silvia RV 734 con introduzione “Veni, veni me sequere fide” da Juditha triumphans RV 644
“Transit aetas” (Minerva), aria da Juditha triumphans RV 644
“In braccio de’ contenti” (Aracne, Minerva), duetto da La Gloria e lmeneo RV 687
Concerto RV 128: III. Allegro
“Armatae face et anguibus” (Aracne), aria da Juditha triumphans RV 644
”Se lento ancora il fulmine” (Minerva), aria da Argippo RV 697
“Dite, oimè” (Aracne), aria da La fida ninfa RV 714
Concerto con fagotto solo RV 499: I. Allegro
Scena 3: Mirra
“Agitata da due venti” (Mirra), ariea da La Griselda RV 718
Concerto RV 118: III. Allegro
“Non ti lusinghi la crudeltade” (Mirra), aria da Tito Manlio RV 738
“Nel profondo cieco mondo” (Nutrice), aria da Orlando furioso RV 728
Sinfonia al Santo Sepolcro RV 169: I. Adagio molto
“Scenderò, volerò, griderò” (Mirra), aria da Ercole sul Termodonte RV 710
Concerto RV 155: Il. Allegro
“Sonno, se pur sei sonno” (Mirra), aria da Tito Manlio RV 738
Atto secondo
Scena 1: Eco e Narciso
Sinfonia da Dorilla in Tempe RV 709  [Allegro]
“Dell’aura al sussurrar”, coro da Dorilla in Tempe RV 709
“S’egli è ver che la sua rota” (Eco, Narciso, Tenore), terzetto da La fida ninfa RV 714
“Alla caccia ognuno presti”, coro da Dorilla in Tempe RV 709
“Tu dormi in tante pene” (Narciso), aria da Tito Manlio RV 738
“Zeffiretti che sussurrate” (Eco), aria da e Ercole sul Terdomonte RV 710
“Ho nel petto un cor sì forte” (Giunone), aria da Il Giustino RV 717
“Aure placide e serene” (Eco, Giunone, Narciso), terzetto da La verità in cimento RV 739
“Gemo in un punto e fremo” (Narciso), aria da L’Olimpiade RV 725
Concerto RV 370: II. Grave
“Sento in seno ch’in pioggia di lagrime” (Narciso), aria da Tieteberga RV 737
Scena 2: Euridice agl’Inferi
Concerto RV 578: I. Adagio e spiccato
La Follia – Concerto grosso H 143 di Francesco Geminiani dalla Sonata per violino op. 5 n° 12 di Arcangelo Corelli: variazioni 1-8
“Sposa… son disprezzata” (Euridice), aria da Bajazet (Tamerlano) RV 707, musica di Geminiano Giacomelli
“Arma, caedes, vindictae”, coro da Juditha triumphans RV 644
La Follia – Concerto grosso H 143 di Francesco Geminiani dalla Sonata per violino op. 5 n° 12 di Arcangelo Corelli: variazioni 20, 21, 17-19, 23, 24
“Gelido in ogni vena” (Euridice), aria da Il Farnace RV 711
“Sileant zephyri” (Coro), musica di Antonio Vivaldi, testo tratto da le lamentazioni di Geremia

Polifemo

 

photo © Klara Beck

Nicola Porpora, Polifemo

Strasburgo, Opéra National du Rhin, 5 febbraio 2024

★★★★★

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Polifemo esce dallo schermo

Rivale di Händel a Londra, Nicola Porpora era riuscito ad accaparrarsi le star del canto dell’epoca per la sua nuova opera, quel Polifemo il cui libretto di Paolo Antonio Rolli riuniva due vicende che avevano come protagonista comune il ciclope monocolo che nell’Odissea Omero descrive come pastore sull’Etna che non disdegna l’antropofagia mettendo a rischio la vita di Ulisse e dei suoi nel frattempo sbarcati in Sicilia, mentre nelle Metamorfosi, otto secoli dopo, Ovidio trasforma in geloso amante della ninfa Galatea. Lo stesso Händel aveva trattato la seconda vicenda in un’opera giovanile, la “serenata a tre” Aci, Galatea e Polifemo scritta durante il suo soggiorno napoletano nel 1708, per poi riprenderla nel 1718, su testo inglese come la “little opera” Acis and Galatea.

Anche se il figlio di Nettuno gli dà il titolo, il lavoro di Porpora è piuttosto incentrato sugli amori paralleli di Aci e Galatea e di Ulisse e Calipso, gli altri quattro personaggi dell’intrigo. Il sesto, quello della ninfa Nerea, è un ruolo minore, che infatti sparisce nella seconda versione dell’opera. Il 1 febbraio 1735 al King’s Theatre di Londra Polifemo aveva riscosso grande successo, grazie anche alla presenza, come s’è detto, dei più rinomati cantanti del tempo: i castrati Farinelli e Senesino, nei ruoli di Aci e Ulisse, e il soprano Francesca Cuzzoni, Galatea, tutti transfughi della Royal Academy of Music di Händel. Anche il basso Antonio Montagnana, già Polifemo nell’Acis and Galatea, e il contralto Francesca Bertolli (Calipso) erano cantanti di nome mentre della “signora Segatti” (Nerea) si sa poco.

Polifemo è la seconda opera di successo di Porpora a Londra dopo l’Arianna in Nasso con cui il compositore italiano aveva risposto all’Arianna in Creta di Händel. Porpora utilizza frequentemente i recitativi accompagnati nei momenti più salienti della vicenda, mentre duetti e terzetti si alternano alle arie solistiche. Qui non non ci sono particolari novità nell’armonia, le arie sono accompagnate dall’orchestra con alcuni sapienti interventi di strumenti solistici, soprattutto dei legni e degli ottoni, ma l’accento è posto sulla voce, più che negli interventi puramente strumentali: mentre la scelta delle arie di Händel è precipuamente teatrale, la scrittura di Porpora è altamente edonistica e dedicata alla gloria dei cantanti. La drammaturgia è semplificata e procede per scene, come quella dell’accecamento di Polifemo in parte agito in scena, in parte raccontato.

Ben presto l’opera, come tutte le opere serie del Settecento, dovette lasciare il posto all’opera napoletana e poi a quella buffa, ma anche se non rimase nei cartelloni dei teatri, alcune sue arie hanno continuato a vivere nelle esecuzioni da concerto, prima fra tutte «Alto Giove» che è diventata un banco di esibizione per le grandi voci controtenorili di oggi come quelle di Philippe Jarousski, Valer Barna-Sabadus o Filippo Mineccia, il quale ne ha dato dato un’interpretazione di grande intensità. L’aria è stata portata alla notorietà anche nel cinema, con il film Farinelli di Gérard Corbeau del 1994 che ricostruisce la vita del leggendario Carlo Broschi. A quella produzione aveva partecipato per la parte musicale anche Emmanuelle Haïm che porta ora sulle scene dell’Opéra National du Rhin, per la prima volta in Francia, il titolo di Porpora. Assieme al suo Concert d’Astrée, una compagine di strumenti che utilizzano la pratica storicamente informata nei modi e nelle tecniche, la Haïm adotta uno stile asciutto ed elegante che mette in luce al meglio il palpitante ritmo della partitura e l’ampio respiro melodico realizzando un buon equilibrio sonoro tra buca e voci le quali, malgrado una scenografia non ottimale, riescono a non essere coperti dall’orchestra. La sua versione è un misto delle due versioni dove vengono accorciati, un po’ troppo, i recitativi, anche quelli accompagnati che sono la vera ricchezza di quest’opera, e sono tagliati anche alcuni numeri musicali tra i quali il primo coro, l’aria di Aci «Morirei del partir nel momento» nel primo atto e quella di Calipso «Lascia tra tanti mali» nel secondo.

A dispetto del titolo, i protagonisti principali del Polifemo sono, in ordine di numero d’arie solistiche, Galatea, Aci e Ulisse. Redivivo Farinelli, Franco Fagioli ha le prime e le ultime lettere del nome e si conferma una volta di più come lo strabiliante fenomeno vocale di oggi: in tre delle sue arie fornisce una dimostrazione di meraviglie vocali che entusiasmano anche il pubblico di oggi, come è avvenuto sulle tavole del teatro di Strasburgo. L’opera, in tre atti, è stata suddivisa in due parti con la prima comprendente l’atto primo e buona parte del secondo, così che l’aria di Aci «Nell’attendere il mio bene» funge egregiamente da finale primo con la sua ininterrotta esibizione di trilli, il da capo con acrobatiche variazioni e una cadenza che Fagioli affronta con disarmante facilità e tecnica impeccabile trasformando il semplice pastore in una fonte da cui sgorgano straordinari virtuosismi. Le stesse prodezze vocali, questa volta piegate a intenti espressivi, vengono esibite in «Alto Giove», allorché dopo essere rimasto schiacciato dal masso del ciclope Aci ringrazia il re dei numi per avergli accordato l’immortalità implorata dall’amata Galatea: trasformato in fiume accoglierà per l’eternità la ninfa tra le sue acque. Visivamente questo diventa un momento magico nello spettacolo del regista Ravella dove sotto una pioggia di coriandoli lucenti avviene la trasformazione del pastore in acqua corrente. Sul piano vocale i lunghi fiati, le note legate e la messa di voce incantano il pubblico a cui il controtenore argentino regala ancora una girandola di vocalità pirotecniche da togliere il fiato nella pagina «Senti ‘l fato | ch’è già fisso» prima del finale. Forse è il palcoscenico troppo vuoto, forse è il tempo che passa anche per lui, la voce di Fagioli questa sera non sembra però avere la proiezione che aveva un tempo.

Ottima performance è anche quella del secondo controtenore, Paul-Antoine Bénos-Djian, il cui timbro è più virile, gli armonici più ricchi, il volume sonoro cospicuo e ben dosato. Meno impegnativi sono gli artifici vocali richiesti dal ruolo di Ulisse, il personaggio che oltre ad amoreggiare con la ninfa Calipso, riesce a salvare la vita ai suoi compagni e a mandare su tutte le furie il ciclope accecandolo nel suo unico occhio. Il basso boliviano José Coca Loza presta con ironia i suoi mezzi vocali, spesso amplificati per esigenze sceniche, al personaggio del titolo nelle sue due sole arie solistiche e negli ariosi sopravvissuti ai tagli.

Nel reparto femminile ci sono sorprese e una conferma. Madison Nonoa è un soprano neozelandese che ha fatto il suo debutto a Glyndebourne nel Rinaldo di Händel e qui all’Opéra du Rhin l’anno scorso è stata Maria in West Side Story. Ha bellissimo timbro e dimostra grande sensibilità nel rendere una Galatea qui particolarmente affascinante anche se il ruolo è limitato a quello di fedele innamorata. Comunque è il personaggio con il maggior numero di arie solistiche. A Nerea è il compito di aprire teatralmente la seconda delle due parti in cui è suddiviso lo spettacolo cantando da un palco di proscenio la sua aria «Una beltà che sa | farsi de i cor tiranna» presentata come una canzone, ma che permette di mettere in luce le fresche e promettenti qualità vocali del giovane soprano inglese Alysia Hanshaw. Il contralto Delphine Galou conferma invece le sue doti sceniche e interpretative come fascinosa Calipso.

L’allestimento di Bruno Ravella legge la vicenda come ripresa cinematografica di un peplum, il genere molto popolare negli anni ’50 e ’60: film in costume di argomento mitologico o storico girati a Cinecittà sia dagli americani – I 10 Comandamenti (1959), Spartacus (1960), Cleopatra (1963)… – sia dagli italiani, con i titoli dedicati a Ercole, Maciste, Ursus, spesso in triviali parodie. Durante l’ouverture scopriamo dunque di essere su un set cinematografico con proiettori, macchine da presa, microfoni, un regista (lo stesso interprete di Polifemo) che si prende certe libertà con l’attrice giovane (Galatea) – e per questo nel finale sarà arrestato dalla polizia –, un pittore di scenari (Aci), il divo palestrato (Ulisse), l’assistente di regia ecc. Nel secondo atto vediamo gli attori in costume e le scenografie di cartapesta dove la figura del ciclope copia quella del film Il 7° viaggio di Sinbad (1958) di Nathan Juran: un gigante dalla testa cornuta, un occhio solo, ovviamente, e zampe caprine. Ravella riprende dunque questo genere mitologico colorato e improbabile per ricreare l’opera settecentesca dove subito dopo la voce dei cantanti l’elemento più importante dello spettacolo erano le scene dipinte e le macchine sceniche per destare quel senso di meraviglia che solo il teatro in musica poteva offrire al suo pubblico. E l’effetto è pienamente ottenuto: i cantanti stanno perfettamente al gioco e lo smaliziato pubblico di oggi si lascia andare e si diverte.

Lo dimostrano i copiosi applausi che nel finale hanno accolto i cantanti, con meritate ovazioni per Fagioli, Emmanuelle Haïm e parimenti il regista e le sue collaboratrici, Annemarie Woods per scene e costumi e D.M.Wood per le luci.

Dopo Strasburgo lo spettacolo, prodotto con l’Opéra de Lille, parte per Mulhouse e Colmar, ma meriterebbe che approdasse anche in altri teatri: lo chiedono la rarità del titolo, la bellezza della musica, l’esecuzione musicale di gran classe e l’intelligente e godibile allestimento.

Like Flesh


  

Piero del Pollaiolo, Apollo e Dafne, circa 1470

Silvan Eldar, Like Flesh

★★★☆☆

Lille, Opéra, 27 gennaio 2022

(registrazione video)

Mito, ecologia, femminismo, in attesa della Sesta Grande Estinzione. La nostra.

I problemi dell’ecologia e della difesa dell’ambiente, che sono vergognosamente assenti dai programmi dei politici, per lo meno nel nostro paese, non lo sono dall’opera, come è dimostrato dai recenti CO2 (Milano, 2015) e Anthropocene (Londra, 2019).

Il 2022 inizia con questo lavoro dal finale apocalittico e commissionato tra gli altri dai teatri di Lille, Montpellier e Nancy, dall’IRCAM-Centre Pompidou di Parigi e in collaborazione con Le Balcon, che inserisce un racconto radicato nel mito di Dafne nel tema della devastazione dell’ambiente, dove i tronchi degli alberi sono sostituiti da pali di cemento e gli animali selvatici sono scomparsi. Ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, Like Flesh (Come la carne) attinge alla moderna scienza per creare un nuovo mito sul nostro incrinato rapporto con l’ambiente.

Il libretto di Cordelia Lynn narra di una coppia che dopo quarant’anni scopre che il loro matrimonio è infelice:  la Donna desidera un mondo oltre i confini della carne e un’esistenza al di fuori delle convenzioni della società umana. Il desiderio segreto di una giovane Studentessa provoca una metamorfosi esplosiva e la Donna trova la sua perfetta liberazione come albero. Ma il mondo è un luogo oscuro sia per gli alberi sia per gli esseri umani e, nelle profondità della foresta, il Marito forestale e la studentessa reclamano un corpo di legno e foglie. Uno per denaro e l’altro per amore.

Scena 1. Cosa sapeva la foresta. La foresta mostra la sua conoscenza immemorabile della natura e della storia del mondo. La vita si insinua ovunque, cantano le radici degli alberi. Scena 2. Gli uccelli non vengono più qui. Il guardaboschi gestisce la foresta secondo le regole del mondo capitalista; la donna si rattrista nel vedere la natura progressivamente distrutta dall’uomo. La studentessa che ospitano parla del massacro degli animali; il forestale e sua moglie sono colpiti dalla sua curiosità e dalla sua passione. Scena 3. Cosa hanno fatto gli alberi. La Foresta racconta lo scioglimento dei ghiacciai, il graduale annientamento della natura e profetizza un mondo in cui gli alberi saranno scomparsi. Scena 4. Il colore rosso. La studentessa spiega il suo interesse per gli alberi, la donna ascolta con attenzione e il dialogo diventa un duetto d’amore. Scena 5. Lezioni imparate dalla gentilezza. La donna chiede al forestale se gli alberi soffrono quando li taglia. L’uomo vede la moglie andare nella foresta con la Studentessa; preferisce non saperne di più. Scena 6. Cosa ha fatto l’umano. Aneddoto raccontato dalla Foresta: il giorno in cui il taglialegna si avvicinò con l’ascia in mano, gli alberi esclamarono: «Guardate! Il manico è nostro». Scena 7. Il terzo sogno. La donna e l’abbraccio della studentessa. La donna si trasforma in un albero. Scena 8. Cosa ha fatto l’umano dopo. La Foresta recita la litania di tutti gli usi che l’uomo ha fatto del legno delle piante. Scena 9. Così tua moglie si è trasformata in un albero. La Studentessa informa il Forestale del miracolo appena avvenuto e  accusa l’uomo di sapere solo uccidere. Il confine tra la Foresta e gli uomini inizia a sfumare. Scena 10. Rimpianto. Il guardaboschi chiede alla moglie come si sente ora che è diventata un albero. Scena 11. Cosa ha visto la foresta. La foresta conserva la memoria dello spargimento di sangue e dei crimini commessi dall’uomo. Scena 12. Un albero ricorda. Dialogo tra l’Albero e la Studentessa nella foresta svuotata dei suoi abitanti dall’uomo. Il Boscaiolo piange l’assenza della moglie metamorfosata; la Studentessa scopre la difficoltà di comunicare con la donna diventata albero. Scena 13. Comportamento del legno. La Studentessa confida al guardaboschi il suo sgomento per non essere più in grado di vivere al ritmo dell’albero; il guardaboschi elogia il fuoco e la civiltà umana. Scena 14. Intreccio. L’Albero è ora totalmente unito alla Foresta, condividendone il cibo e le sofferenze. La donna che è diventata un albero dice che la Studentessa l’ha ferita incidendo cuori sul suo tronco, ma anche che si è presa cura di lei. La foresta spiega l’eterno ciclo di decomposizione e riciclo della materia organica. Scena 15. Ancora inverno. La Studentessa desidera la fusione con l’Albero. Il forestale sfrutta, taglia e pota, ma i rami ricresceranno sempre. Il monologo finale della Foresta: dopo la devastazione causata dal riscaldamento globale, la vita tornerà, la natura si riapproprierà del mondo.

La compositrice Sivan Eldar ha iniziato la sua formazione musicale a Tel Aviv all’età di 5 anni, studiando pianoforte e canto. All’età di 15 anni si è trasferita negli Stati Uniti per continuare la sua formazione presso lo United World College, dove si è concentrata sulla musica, impegnandosi al contempo in attività ambientali e politiche. Ha proseguito gli studi a Boston presso il New England Conservatory dove ha studiato composizione musicale, pianoforte ed etnomusicologia, oltre a corsi di studi di genere ed etica. Nel 2009 si è trasferita in California per conseguire il dottorato di ricerca in composizione alla UC Berkeley. Si è poi trasferita a Parigi per una formazione presso l’Institute de Recherche Acoustique/Musique (IRCAM) sotto la guida di Hèctor Parra e dal 2018 è in residenza all’IRCAM e dal 2019 è compositrice in residenza presso l’Opéra Orchestre National de Montpellier, dove presenta nuovi lavori e conduce laboratori per compositori emergenti.

Like Flesh è la sua prima opera. Suddivisa in quindici scene, la narrazione condotta dai tre protagonisti (soprano, mezzosoprano, baritono) è scandita dagli interventi poetici di un coro (6 voci, una per ogni tipo di registro (soprano, mezzosoprano, controtenore, tenore, baritono, basso) che rappresenta la Foresta e che ci guida dall’ultima Era Glaciale alla Sesta Grande Estinzione, e fornisce il contesto per i solisti. La musica è composta per un ensemble da camera di tredici strumentisti (flauto, clarinetto, tromba, trombone, 2 percussionisti, pianoforte, fisarmonica, quartetto d’archi, contrabbasso) al quale si aggiunge una traccia di musica elettronica diffusa da una serie di 64 altoparlanti sparsi per la sala che modificano gradualmente la percezione dello spazio da parte del pubblico, riflettendo il tema della trasformazione che è al centro del libretto.

Di impianto tonale, la musica è piuttosto rarefatta e non si risolve mai in una tema melodico mentre il live elettronico stende un tappeto sonoro dai suoni bassi e minacciosi. Il canto, sia monodico che polifonico, varia dal declamato lirico allo Sprechgesang al parlato ma il risultato è un lavoro poco coinvolgente nonostante il soggetto. Il tema viene sviluppato in maniera piuttosto fredda sia dalla librettista sia dalla compositrice: la distruzione dell’ambiente si rispecchia nella distruzione delle relazioni umane, ma la vicenda della coppia in crisi non riesce a smuovere emotivamente lo spettatore. La solitudine dei tre protagonisti è esaltata dai suoni della foresta sofferente, suoni algidi e distillati, e dalle immagini dei video di Francesco d’Abbraccio – tra cui quella del quadro del Pollaiolo – che appaiono in un alveolo sagomato nel fondo della scena. La regia di Silvia Costa rifugge da una lettura illustrativa della storia avvolgendo il palcoscenico nel buio e utilizzando pochi essenziali elementi in scena.

La visione in streaming soffre della mancata immersione data dalla spazializzazione e polifonia sonora dell’ascolto in presenza. La mano di Maxime Pascal, esperto esecutore di musica contemporanea, si evidenzia nella leggerezza e trasparenza della resa della partitura e nella attenta concertazione delle tre voci in scena, quelle di Helena Rasker (Donna/albero), Juliette Allen (Studentessa) e William Dazeley (Marito).

Presentata il 21 gennaio 2022, il 27 e il 28 dello stesso mese l’opera viene registrata a porte chiuse e resa disponibile su OperaVision.

   

Polifemo

 

Nicola Porpora, Polifemo

Bayreuth, Markgräfliches Opernhaus, 9 settembre 2021

(video streaming della versione per concerto)

Il rivale londinese di Händel e il suo Polifemo

Ultima delle cinque opere composte a Londra da Nicola Porpora, Polifemo andò in scena al King’s Theatre il 1° febbraio 1735 con un cast stellare: il Farinelli (Aci), il Senesino (Ulisse), la Cuzzoni (Galatea) e nel ruolo del titolo il basso veneziano Antonio Montagnana, già Polifemo nell’Acis and Galatea di Händel. I cantanti avevano lasciato la “seconda” Royal Academy of Music, fondata dal sassone dopo che la prima era fallita nonostante il supporto finanziario del re Giorgio I. I costi esorbitanti dei cantanti e il cambiamento dei gusti del pubblico erano alla base di queste trasformazioni. Una compagnia rivale raccolse tutti i cantanti transfughi e Porpora fu invitato a scrivere per questa nuova Opera of the Nobility con sede il teatro di Lincoln’s Inn Fields, e il suo primo lavoro fu Arianna in Naxo. Il Polifemo ebbe undici repliche nella versione originale e tre nella nuova versione che inaugurò la stagione d’autunno. La seconda versione si caratterizza soprattutto nel taglio del personaggio di Nerea e in alcuni cambiamenti. (1)

Il libretto di Paolo Rolli mescola le vicende mitologiche dell’uccisione di Aci, che viene così trasformato in fonte (Le metamorfosi, libro XIII), con quelle omeriche di Ulisse che acceca il ciclope (Odissea, libro IX).

Atto primo. Scena 1: Un mare calmo sulla costa siciliana, in vista dell’Etna. Galatea e Calipso si lamentano di essersi innamorate di due mortali. Mentre il coro loda l’amore, Calipso se ne va. Scena 2: Il tentativo di uscita di Galatea è interrotto da Polifemo. Egli desidera Galatea e si chiede perché lei non sia impressionata dal suo pedigree (è il figlio di Nettuno) o dalla sua forza sovrumana. Galatea afferma che non può amarlo. Polifemo risponde che le fiamme nel suo cuore sono più grandi di quelle dell’Etna. Conoscendo la sua tendenza all’ira e al furore, Galatea vorrebbe che lui capisse che lei si è innamorata del mortale Aci. Scena 3: Si vedono in lontananza delle navi da cui sbarcano Ulisse con il suo seguito. Dopo un lungo e faticoso viaggio, Ulisse è felice di essere approdato e vede una grotta che gli servirà da alloggio adeguato. Il pastore Aci mette in guardia Ulisse da Polifemo. il ciclope gigante che terrorizza le persone, uccidendole e divorandole. Aci spiega che conosce la routine del gigante e che è riuscito ad evitarlo ed esorta Ulisse ad andarsene. Ma Ulisse vuole vedere prima il gigante e spiega la sua mancanza di paura. Aci pensa che il coraggio di Ulisse è quello che può sconfiggere Polifemo. Poi vede Galatea, il suo amore, avvicinarsi su una nave. Scena 4. Un’altra parte del litorale con casette di pescatori. Calipso, travestita da pescatrice, incontra Ulisse. Egli è preso dalla sua bellezza, mentre lei gli assicura la sicurezza. Scena 5. Entra Polifemo e si diverte a trovare Ulisse pronto alla battaglia. Riconoscendo il suo eroismo, Polifemo si impegna a proteggere Ulisse e i suoi uomini, cosa che Ulisse accetta con diffidenza. Scena 6. In un boschetto, Galatea è felice di essere con Aci ma si meraviglia della mancanza di preoccupazione di Aci per Polifemo. Aci risponde che non ha paura del gigante. Galatea promette di visitare di nuovo il boschetto ma deve andarsene a causa dell’avvicinarsi di Polifemo. Aci risponde che la sua presenza gli dà gioia. Lui se ne va e Galatea si chiede cosa penseranno le altre ninfe del mare della sua relazione con un mortale.
Atto secondo. Scena 1. Calipso riflette sulle implicazioni del suo amore con un mortale. Nella prima versione Nerea incoraggia Calipso a usare il suo fascino nel placare Polifemo per liberare Ulisse dalla grotta dove lui e i suoi uomini hanno trovato rifugio. Scena 2. Ulisse si avvicina con un gregge e dice a Calipso che Polifemo gli ha dato dei compiti da pastore e che i suoi uomini sono tenuti prigionieri in una grotta. Spiega che sono prigionieri fino al ritorno degli schiavi di Polifemo con dei regali. Se gli schiavi non hanno portato regali a Polifemo, allora lui li divorerà. Calipso gli dice di non preoccuparsi perché gli dèi sono dalla sua parte e Ulisse è colpito dalla sua gentilezza. Scena 3. Aci si crogiola nella sua infatuazione per Galatea. Scena 4. Una vista sul mare. Preparandosi ad incontrare Polifemo, Galatea naviga nella sua conchiglia, incoraggiando le brezze a portarla da Ulisse. Polifemo la intercetta e le chiede perché gli preferisca un ragazzo. Lei lo rifiuta e Polifemo giura vendetta su Aci. Galatea continua a supplicare le brezze di portarla da Aci. Scena 5. Aci e Galatea. Aci incoraggia gli amorini a portare Galatea al sicuro a riva. Aci e Galatea hanno uno scambio concitato in cui rivelano il loro amore reciproco. Galatea dice ad Aci di incontrarla più tardi in una grotta e Aci promette di farlo, la sua passione per Galatea vincerà le sue paure. Galatea è colpita da Aci e desidera che tutte le sue speranze siano vere. Scena 6. Ulisse si sveglia e trova Calipso che gli spiega chi è lei. Lei gli promette sicurezza se lui le darà il suo cuore e lo avverte che gli schiavi stanno portando regali a Polifemo. Ulisse, felicissimo, canta dell’immortale bellezza. Scena 7. Un boschetto. Aci e Galatea esprimono il loro amore nonostante i sentimenti di paura.
Atto terzo. Scena 1. Una roccia vicino all’Etna, ai cui piedi, in un ombroso pergolato, si trovano Aci e Galatea. Polifemo ammonisce Galatea. Sarebbe stato volentieri una ninfa delle acque per stare con lei, ma è più potente di Giove e si vendicherà per il suo rifiuto. Getta un sasso e uccide Aci. Scena 2. Galatea piange Aci. Scena 3. Grotta di Polifemo. Ulisse e Calipso si preparano a incontrare Polifemo. Ulisse si chiede perché lei lo aiuta. Calipso spiega che le sue precedenti azioni eroiche l’hanno spinta ad aiutarlo. Lei diventa invisibile mentre Polifemo entra, esultante per aver ottenuto la vendetta. Ulisse gli offre del vino dell’Etna. Polifemo beve e si addormenta. Ulisse prende un tronco ardente e lo conficca nell’occhio di Polifemo. Calipso si rallegra nel vedere Ulisse battere Polifemo. Scena 4. Il sasso caduto su Aci. Galatea è felice che Polifemo sia stato sconfitto, ma implora Giove di restituire Aci alla vita. Scena 5. La roccia si apre e sgorga un ruscello. Aci, ora dio del ruscello, regge un’urna. Sia Aci che Galatea ringraziano Giove per avergli ridato la vita. Scena 6. Ormai cieco, Polifemo vaga per l’isola senza meta. Aci dice a Polifemo che Giove si è vendicato per averlo ucciso. Polifemo riconosce di essere consumato dalla rabbia. Scena 7. Ulisse elogia le ninfe e tutto ciò che lo circonda. Tutti cantano un coro all’amore.

I 29 numeri che compongono l’opera dimostrano la grande libertà del compositore nell’affrontare e scomporre le forme tradizionali facendo ad esempio diventare l’aria con da capo una struttura drammaturgica complessa: alla cavatina di Galatea «Placidetti zeffiretti» (n° 15, scena 4 dell’atto secondo) dopo il recitativo con Polifemo Aci risponde con «Amoretti vezzosetti» (n° 15bis) sulla stessa musica, come se fosse la ripresa dell’aria precedente. L’opera è poi piena di recitativi accompagnati, quasi degli ariosi.

L’aria «Alto Giove», inserita nel film Farinelli (1994), ha rinnovato l’interesse per il Polifemo di Porpora che è stato messo in scena nel 2013 dalla Parnassus Arts al Theater an der Wien mentre una rappresentazione semi-scenica si è avuta al festival di Salisburgo nel 2019. Ora Max-Emanuel Čencić, autore di molte riproposte dei lavori di Porpora, produce questa versione concertistica per il Bayreuth Baroque Opera Festival di cui è direttore. Alla direzione dell’ensemble Armonia Atenea il suo direttore artistico George Petrou esalta i colori e le bellezze strumentali della partitura ma procede a tagli non molto giustificati da un’esecuzione in forma di concerto. Decimati i recitativi, sono eliminate anche alcune riprese, dei cori e intere arie, come quella di Calipso e di Aci nel primo atto, ancora di Calipso nel secondo e di Nerea nel terzo. Particolarmente brutto il taglio del recitativo di Polifemo all’inizio del terzo atto quando scaglia il masso sulla coppia di amanti uccidendo Aci: in quei versi il librettista si premura di quasi citare quelli delle Metamorfosi di Ovidio come a ribadirne la nobile parentela.

Un cast di specialisti è quello che vediamo calcare il palcoscenico del meraviglioso Margräflisches Opernhaus. Nonostante il titolo, è Galatea il personaggio che ha più numeri solistici per sé: ben sette, contro i sei di Aci e i cinque di Ulisse. Il soprano Julija Ležneva affronta con agio la parte e al termine delle sezioni delle sue arie si sfoga con lunghe e complesse cadenze perfettamente eseguite anche se forse con qualche libertà stilistica. L’innamorato pastore Aci trova nel controtenore Yuriy Mynenko una voce di grande bellezza e purezza di emissione, meno eroica di quello che ci si potrebbe aspettare, soprattutto nell’aria «Nell’attendere il mio bene», con un marziale accompagnamento di trombe e corni, che Cecilia Bartoli in concerto rende in maniera più “virile”…

Max-Emanuel Čencić riserva per sé la parte un po’ meno virtuosistica di Ulisse che risolve al solito con grande classe. Le due ninfe Calipso e Nerea hanno nel mezzosoprano Sonja Runje e nel soprano Rinnat Moriah appropriate interpreti. E infine Polifemo, che ha soltanto due arie solistiche, ma che è il personaggio più complesso e meglio costruito da librettista e compositore, e qui il baritono Pavel Kudinov si cala con autorevolezza nei panni dell’arrogante ciclope crudelmente punito. Gli altri personaggi sono impegnati anche in pezzi di insieme come il duetto «Vo presagendo» di Calipso e Galatea nel primo atto, il duetto Aci/Galatea con cui si conclude gloriosamente l’atto secondo e il terzetto finale dell’opera con Galatea, Aci e Ulisse inneggianti all’amore.

(1) Struttura dell’opera. Tra parentesi quadre le principali differenze della versione alternativa.
Sinfonia
Atto I
1. Coro Vien, bell’aurora
2. Duetto Vo presagendo | crudel martire (Galatea, Calipso)
1 bis. Ripresa coro Febo, tu ancora
3. M’accendi il sen col guardo (Polifemo)
4. Se al campo e al rio soggiorna (Galatea)
5. Core avvezzo al furore dell’armi (Ulisse)
6. Dolci, fresche aurette grate (Aci)
7. Sorte un’umile capanna (Calipso) [nuovo testo: Vedrai che veglia il cielo]
8. Fa’ ch’io ti provi ancora (Ulisse)
9. Morirei del partire nel momento (Aci)
10. Ascoltar, no, non ti voglio (Galatea)
Atto II
11. Una beltà che sa (Nerea) [eliminata]
12. Lascia fra tanti mali (Calipso) [nuovo testo: Nel rigor d’avversa stella]
13, Fortunate pecorelle (Ulisse)
14. Lusingato dalla speme (Aci) [nuovo testo: Zeffiro lusinghier]
15. Placidetti zeffiretti (Galatea)
15 bis. Amoretti vezzosetti (Aci)
16. Nell’attendere il mio bene (Aci) [nuovo testo: Dal guardo che incatena]
[16 bis. Superato il disastro (Calipso)]
17. Fidati alla speranza (Galatea)
18. Dell’immortal bellezza (Ulisse)
19. Duetto Tacito movi e tardo (Galataea, Aci) [tagliati gli ultimi sei versi]
Atto III
20. Smanie d’affanno, ah, perché mai (Galatea)
21. D’un disprezzato amor (Polifemo)
22. Quel vasto, quel fiero (Ulisse)
23. Il gioir qualor s’aspetta (Calipso) [nuovo testo: Ad altri sia più grato]
24. Alto Giove (Aci) [sostituito dal duetto Immortale dal tuo sen (Aci, Galatea)]
25. Sì, che son quella, sì (Galatea) [eliminata]
26. Senti ‘l fato | ch’è già fisso (Aci)
27. V’ingannate | ninfe belle (Nerea) [eliminata]
28. Coro Scherzino con le Grazie [eliminata]
29. Terzetto La gioia immortal che alletta (Galatea, Aci, Ulisse)
28 bis. Ripresa coro Accendi nuova face [eliminato]

  • Polifemo, Haïm/Ravella, Strasburgo, 5 febbraio 2024

Che originali! / Pigmalione


Giovanni Simone Mayr, Che originali!

Gaetano Donizetti, Pigmalione

★★★☆☆

Bergamo, Teatro Sociale, 25 novembre 2017

(diretta streaming)

Maestro e allievo riuniti in un originale dittico

A Bergamo il Festival Donizetti prrsenta un dittico formato da due brevi opere di Giovanni Simone Mayr e Gaetano Donizetti, ossia il maestro e l’allievo. Il primo con un lavoro della maturità, il secondo con la sua prima opera.

Che originali! è una farsa musicata da Mayr per il Teatro San Benedetto di Venezia dove andò in scena il 18 ottobre 1798. Il libretto di Gaetano Rossi è basato su una pièce francese del 1779 che mette in burla un fanatico di musica. Qui ci sono anche le ossessioni metastasiane della figlia.

Biscroma e Celestina, servitori nella casa di Don Febeo, un nobile di strette vedute e fanatico per la musica (anche se dilettante), decidono di aiutare la figlia maggiore del padrone, Aristea, lei infatuata dalla poesia di Metastasio, a sposare il suo innamorato Don Carolino. Don Febeo non solo vuole che Aristea e l’altra figlia, l’ipocondriaca e depressa Rosina, diventino affermate musiciste, ma anche che trovino un marito con un notevole talento musicale. Don Carolino, nonostante sia di rango aristocratico è musicalmente incapace agli occhi di Febeo e a causa della sua ignoranza musicale viene cacciato da Febeo. Avendo questi bisogno di un nuovo staffiere, si presenta un certo Carluccio, ma Febeo vuole che anche i suoi servitori se ne intendano di musica, perciò lo rifiuta. Carluccio risponde per le rime mettendosi a cantare e Don Febeo si convince ad assumerlo. Intanto Don Carolino con l’aiuto di Biscroma ritorna mascherato per farsi assumere come segretario. Per metterlo alla prova, Don Febeo gli detta alcune note, ma per colpa della sua ignoranza in fatto di musica viene smascherato. Don Febeo ora si deve recare all’Accademia musicale di cui è presidente per presentare la nuova opera lirica Don Chisciotte che però non piace. Si presenta nuovamente Don Carolino nei panni di un famoso maestro di cappella, tale Signor Semiminima. Don Febeo, suo grande ammiratore, va in uno stato di totale confusione, e quando Semiminima/Don Carolino chiede la mano di Aristea, gliela concede.

L’opera fu ripresa con diversi titoli: Gli originali, Il pazzo per la musica, La melomane, Il trionfo della musica, Il fanatico per la musica e La musicomania. Come Oh! che originali fu rappresentata ad esempio nel 1829 al Carcano di Milano senza il personaggio di Rosina. Appartenente ai lavori metateatrali cari al Settecento in cui si prendono in giro manie e smanie musicali e/o operistiche, il lavoro di Mayr ha un suo interesse per l’arguto libretto e la fine orchestrazione, la vivacità dei concertati e la virtuosità degli strumenti a fiato mentre le arie solistiche caratterizzano efficacemente i diversi caratteri, ovviamente in modo farsesco.

Nella versione originale, alla testa dell’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala Gianluca Capuano fa del suo meglio con un’orchestra volenterosa, ma non sembra lo stesso di quando dirige Les musiciens du Prince-Monaco… Affidabile il cast di questa produzione del Festival Donizetti. Bruno de Simone è stato uno dei grandi buffi per molti anni e se ora la sua voce suona un po’ appannata non è uno svantaggio per la parte del “musicomaniaco” Don Febeo che comunque si fa valere nel duetto con Aristea e nella scena solista del suo Don Chisciotte. Leonardo Cortellazzi è perfettamente all’altezza delle esigenze vocali di Don Carolino. Angela Nisi (Donna Rosina) sfoggia una precisa coloratura e Gioia Crepaldi è una vivace e pimpante Celestina. Omar Montanari (Biscroma) non esagera nel macchiettismo ed è al suo massimo effetto nell’aria «Finché mie belle». Quantitativamente minore la parte di Carluccio in cui vediamo Pietro di Bianco parodiare l’aria mozartiana «Se vuol ballare signor contino» per farsi assumere. E poi abbiamo la prima donna, il mezzosoprano Chiara Amarù, la “metastasiasta” Aristea, che sfoggia buona voce, lettura sfumata ed espressiva nei recitativi e brillante nella cavatina «Chi dice mal d’amore», un pezzo che ha avuto una vita propria al di fuori dell’opera.

Roberto Catalano ambienta la lepida vicenda in un Novecento dai costumi pop di Ilaria Ariemme, dove fiori e glitter hanno il predominio. La scena unica di Emanuele Sinisi prevede una stanza con la parete di fondo occupata da una enorme tela di Lucio Fontna con i tagli che il servo Biscroma rattoppa con ago e filo e che quando viene rimossa mostra una parete semispecchiante in cui a tratti appare la scena della seconda parte, quella di Donizetti, con un effetto inquietante. La recitazione rimane sempre al di qua del farsesco ma il regista non sembra aver voluto cercare una particolare chiave di lettura.

Se nella farsa di Mayr il protagonista ostenta un’arte che non padroneggia e con cui ossessiona la sua vita e quella degli altri, nella “scena drammatica” di Donizetti l’artista è invece deluso dall’umanità e alla ricerca di un’ispirazione per arrivare all’autencità. Pigmalione fu scritto in sole due settimane nel settembre dal 15 settembre al 1° ottobre 1816 – com’è scritto sulla pagina autografa – da un diciannovenne Donizetti, studente di composizione a Bologna, probabilmente per la visita del maestro Mayr. Mai messa in scena, la prima rappresentazione avvenne il 13 ottobre 1960 a Bergamo. Il libretto di Simeone Antonio Sografi riprende l’episodio narrato nel decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio. Lo stesso Sografi aveva scritto il testo della Saffo (Venezia, 1794) di Mayr.

Lo scultore Pigmalione è in crisi creativa, il lavoro gli appare vuoto e senza senso. Per di più ha cominciato a provare una nuova e sconosciuta passione amorosa per una sua statua femminile le cui membra sembrano muoversi quando vi si accosta con gli strumenti del mestiere. Dilaniato da sentimenti contrastanti, si rivolge agli dèi, chiedendo pace e pietà. Ogni speranza però è vana e l’unica soluzione pare essere la morte: Pigmalione si rivolge a Venere, dea dell’amore, dicendo di voler consacrare la sua vita e la sua morte alla statua che chiama per nome: «Galatea dove sei?». Quando un fulmine la colpisce, la statua si anima e l’artista le dice di esserne stato il creatore, Galatea – scoprendo i palpiti del proprio cuore – comprende di essere viva e lo abbraccia.

«Il Pigmalione è un lavoro modesto in tutti i significati del termine» sentenzia l’Ashbrook, «La scrittura vocale ha un’estensione limitata ed è parca di abbellimenti; l’orchestra comprende un flauto, un oboe, due clarinetti, due corni, due fagotti e gli archi. È l’unica opera di Donizetti il cui autografo non prevede la divisione in numeri separati e ciò indica chiaramente che fu composta come esercitazione e non ai fini dell’esecuzione della pubblicazione. […] L’azione manca di tensione drammatica. I momenti migliori sono un grazioso ritornello in forma ternaria per flauto e archi, che accompagna la contemplazione della statua da parte dell’autore, Il recitativo in cui questi, nel sollevare lo scalpello, si accorge con spavento che un potere misterioso gli trattiene la mano; larghi intervalli nella linea vocale e dissonanze senza preparazione nell’accompagnamento illustrano qui la sua agitazione. Le arie sono brevi e simmetriche; tutti i recitativi sono accompagnati e, purtroppo, il duetto finale è il punto debole della partitura. L’influsso di Mayr è evidente in varie parti, quello di Rossini invece quasi non si nota».

Nella lunga scena solistica di Pigmalione Antonino Siragusa si conferma come sempre refrattario a qualunque ipotesi di recitazione ed è talora troppo squillante. Aya Wakizono ha poco da dimostrare nella parte di Galatea, che occupa i pochi minuti del duetto finale.

La scultura Uovo di Fontana collega iconograficamente questa seconda parte alla prima, ma la messa in scena è meno convincente e la regia non risolve il passaggio del personaggio femminile da statua a umano vivente e in questa ambientazione contemporanea, un’asettica camera d’albergo, le invocazioni agli dèi e a Venere suonano piuttosto incongrue.

Aci, Galatea e Polifemo

Georg Friedrich Händel, Aci, Galatea e Polifemo

★★★☆☆

Piacenza, Teatro Municipale, 15 novembre 2020

(live streaming)

Serenata a porte chiuse

Da sempre la gente di teatro ha saputo fare di necessità virtù aguzzando l’ingegno per reagire alle ristrettezze e agli imprevisti. In questi sciagurati tempi se la gente non può andare a teatro è il teatro stesso che sale su un camion e va a portare lo spettacolo per le strade – come ha fatto recentemente Davide Livermore col suo mozartiano Bastiano e Bastiana sul TIR (Teatro In Rivoluzione). Oppure sfrutta la tecnologia per riprendere lo spettacolo a porte chiuse e trasmetterlo in rete così da portarlo gratuitamente in migliaia di case – ma che angoscia quelle file di poltrone vuote e i cantanti che si inchinano nel silenzio a un pubblico inesistente…

Opera Streaming trasmette dunque su Youtube Aci, Galatea e Polifemo di Händel dal Teatro Municipale di Piacenza. La “serenata a tre voci” con cui il Sassone nel 1708 a Napoli aveva celebrato il matrimonio della giovane nipote Sanseverino viene presentata in una versione inedita, quella pensata per il Senesino e la Strada della ripresa napoletana del 1713. È una versione che si basa su frammenti manoscritti della British Library e che Raffaele Pe, Fabrizio Longo e Luca Guglielmi hanno ricostruito effettuando un cambio di registro per due dei protagonisti: Aci passa da soprano a contralto e Galatea da contralto a soprano; Polifemo resta un basso ma perde l’aria «Sibilar l’angui d’Aletto», che passerà al Rinaldo, ma acquista un recitativo e un’aria («Affanno tiranno») con cui inizia il lavoro mentre nell’orchestra qui aumenta il ruolo dei legni. Luca Guglielmi alla guida dell’ensemble barocco La lira d’Orfeo mostra il suo agio in questo repertorio e nella concertazione delle voci evidenzia la maestria compositiva del ventunenne Händel.

Di Raffaele Pe si è sempre ammirato il bel timbro e l’espressività, qui confermati entrambi. In lui non vanno ricercate particolari doti di agilità, la parte di Aci non è quello che richiede, quanto dolcezza di emissione e sensibilità, pienamente realizzate. Talora qualche nota è sforzata e qualche passaggio non perfettamente intonato, ma nel complesso la performance di quello che è tra i migliori controtenori italiani è pienamente soddisfacente. Con Giuseppina Bridelli dobbiamo abituarci a una Galatea più sopranile – nelle orecchie ci era rimasto il timbro di velluto di Sara Mingardo… – ma ben presto il personaggio prende corpo e diventa del tutto convincente anche in questo registro grazie alla personalità e alla sicurezza vocale del mezzosoprano piacentino.

Giubbotto di pelle sulla canottiera a rete, catenaccia d’oro al collo, avambracci tatuati, il Polifemo grunge di Andrea Mastroni si contrappone ai due giovani “per bene” in questo allestimento. Vocalmente è il personaggio al quale Händel affida la parte più stupefacente con quel «Fra l’ombre e gl’orrori» dagli abissali salti di registro, dal Sol#4 al Do#2. Mastroni ha una sonorità possente nelle note sotto il rigo, ma ricorre al falsetto in quelle acute. Dei tre è comunque il personaggio più intrigante e il basso milanese riesce a rendere i suoi duetti con Galatea più interessanti di quelli della ragazza con l’amato Aci. C’è un momento in «Non sempre, no, crudele, mi parlerai così» in cui Galatea quasi sembra cedere al fascino ben più maschio del gigante e forse qui la regia avrebbe avuto buon gioco a rendere ancor più ambiguo il rapporto tra il ciclope e la nereide. La regia di Gianmaria Aliverta è invece un po’ rinunciataria, poco più che una esecuzione in forma di concerto con una scenografia estremamente essenziale, una pedana con tre schermi a led. Il regista punta giustamente  sull’immagine dal momento che il lavoro di Händel manca di una plausibile drammaturgia, ma queste immagini  si rivelano piuttosto banali. Il confronto con la video grafica dell’Aci, Galatea e Polifemo di Livermore non gioca a favore qui della Tokio [sic] Studio Light.

L’Orfeo

Claudio Monteverdi, L’Orfeo

★★★☆☆

Monaco, Prinzeregententheater, 27 luglio 2014

(video streaming)

L’Orfeo umano, troppo umano di Bösch

Ci sono registi che hanno una specificità tale da sconfinare nella prevedibilità: dopo poche immagini, se non addirittura dopo aver visto alcune istantanee dello spettacolo, già si capisce con chi si ha a che fare. Due metteur en scène completamente diversi che rispondono a questa descrizione sono Robert Wilson e David Bösch. Del secondo, il giovane regista di Lubecca, già sappiamo che l’ambientazione sarà più o meno trash, i costumi contemporanei e trasandati, la recitazione vivace, la drammaturgia disinvolta.

L’Orfeo della Bayerisches Staatsoper messo in scena da Bösch è dunque ambientato in un panorama post-apocalittico (le scene sono di Patrick Bannwart) dove una comunità di hippie un po’ trucidi si spostano con l’iconico furgone Volkswagen T2. Un cartello indica nel 27 luglio 1974 la data della vicenda, il matrimonio tra Orfeo ed Euridice e l’incongrua lira è un regalo di nozze degli amici. Orfeo è il meno variopinto del gruppo –  ma sarebbe stato difficile immaginare Christian Gerhaher quale maturo “figlio dei fiori”. In questo desolato paesaggio lunare le margheritone che salgono da terra sembrano ventilatori dalle pale di latta i cui petali cadranno alla seconda morte di Euridice.

Se nella prima parte, gli atti primo e secondo, la drammaturgia di Rainer Karlitschek ben si adatta all’atmosfera spensierata della festa – il ballo, l’alcol, la droga , il sesso – nella seconda gli aspetti macabri da Halloween di periferia dell’oltretomba cominciano a mostrare la corda e il Plutone irsuto, lercio e dalle corna segate perde ogni nobiltà di dio degl’inferi. Inferi cui si accede con un ironico tappeto rosso. A questo punto diventa accettabile che Caronte sia su quello che è rimasto di un taxi.

Ivor Bolton guida la Monteverdi-Continuo-Ensemble rimpolpata con elementi della Bayerische Staatsorchester con classica compostezza e un robusto continuo. Chissà quale finale sceglierà il direttore, viene da domandarsi: la scena delle baccanti o la discesa di Apollo? Il secondo, ma scenicamente è del tutto insoddisfacente e completamente avulso dal testo senza proporne però una lettura alternativa convincente: l’Apollo che canta «Muovo dal ciel» è un barbone con stampella e vestito di stracci (che poi l’interprete abbia la metà degli anni di quello di Orfeo è un altro problema) e la soluzione che propone al “figlio” è di tagliarsi le vene e darsi la morte così da scendere con la sposa nella tomba. Un po’ troppo ordinario per un mito classico e per l’opera con cui nasce il melodramma, atto della cui rilevanza sembra importare meno che niente al regista.

Il cast è stratosfericamente dominato dall’Orfeo di Christian Gerhaher, che infonde nel recitar cantando la sua somma sensibilità liederistica: ogni parola ha il suo giusto accenno, il canto è quasi sempre a mezza voce, la dizione meglio di un italiano madrelingua – talmente giusta che salta all’orecchio una piccola imperfezione: ‘siéno’ invece di ‘síeno’, ma è veramente l’unica. L’Euridice di Anna Virivlansky non lascia il segno vocalmente, ma la parte è talmente ridotta e la presenza scenica compensa grandemente. Più convincente Angela Brower, Musica/Speranza dalle ali di cellophane, gli abiti sbrindellati e un triste ukulele nella valigia. Anna Bonitatibus è al solito Anna Bonitatibus, più che Messaggera/Proserpina, vibrato ed esposizione manierata sono quelli di sempre. Vocalmente un po’ sopra le righe il primo pastore di Mathias Vidal e giustamente impressionante il Caronte di Andrea Mastroni. Coro smilzo e talora un tantino sguaiato quello della Zürchner Singakademie.

L’Orfeo

Claudio Monteverdi, L’Orfeo

Madrid, Teatro Real, 19 maggio 2008

★★★★☆

(registrazione video)

Primo vero capolavoro della storia del melodramma

In occasione dei 440 anni dalla sua nascita, nel 2007 innumerevoli sono state le esecuzioni nei maggiori teatri del mondo per celebrare Claudio Monteverdi e questa produzione si affianca a quelle del Nederlandse di Amsterdam (Stephen Stubbs), la Monnaie di Bruxelles (René Ja­cobs), la Scala di Milano (Rinal­do Alessan­drini), per citare solo al­cune di quelle disponi­bili in DVD.

Qui siamo al Teatro Real di Madrid nel 2008 e c’è la garan­zia di un William Christie sul podio. L’esecuzione dura 113 minuti, come quella di Alessandrini, mentre quella di Harnon­court arriva a 102 minuti, 171 quella di Jacobs, passando per i 130 di Malgoire e i 140 di Stubbs e Savall. Christie utilizza, come è ormai prassi consoli­data, un’orchestra, quella de Les Arts Floris­sants, storicamente informata, con dulciana, tiorba, lirone, viola da gam­ba ecc. Gli orchestrali non sono in buca, ma a livello della platea – non c’è infatti separazione con la scena – e nella prima parte vesto­no costumi d’epoca, così come il direttore, che sem­bra es­sere appe­na uscito da un quadro fiammingo con la sua ele­gante e candi­da gorgiera pieghettata.

Sulla scena del teatro madrileno Pier Luigi Pizzi fa rivivere la prima sto­rica rap­presentazione e non si risparmia sugli effetti spettacolari, con un palazzo ducale che sorge dal basso alla luce di fiaccole, al suono marziale dei tambu­ri dei Sacqueboutiers di Tolosa per l’esposizione della famosa fanfa­ra, prima in scena e su­bito dopo ripresa dall’orchestra con un mira­bile effetto di ampli­ficazione. Siamo dunque nelle sale del pa­lazzo di Mantova e si celebra­no le nozze di Orfeo con Euri­dice quando entra la Musica a esporre la sua prosopopea.

Sontuosi i costumi in sete sgargianti e tradizionali ma fun­zionali i movimenti coreografici di Gheorghe Iancu. Questo nella pri­ma parte, che termina con il racconto della Messaggera, un gran coup de théâtre che interrompe l’allegro bachelor party di Orfeo e dei pastori con l’accorato rac­conto della tragica morte di Euridice punta da «angue insidïo­so». Nella seconda parte tutti smettono i fastosi costumi per in­dossare semplici abiti moderni per  il viag­gio agl’inferi di Orfeo.

Interpreti di prim’ordine per i ruoli di Euridice (Maria Gra­zia Schiavo), Speranza (Sonia Prina) e per il quartetto di pastori (soprattutto Cyril Auvity e il controtenore Xavier Sabata). Qual­che perplessità desta la scelta come Orfeo del baritono Die­trich Henschel, eccellente in­terprete sia della musica moderna che di quella antica (soprattutto Bach), di ottimo fraseggio e pre­senza sce­nica, ma ha un timbro sgradevole e non sempre è a suo agio con la vocalità richiesta da Monteverdi, complice an­che una dizione non perfetta. Rivelatore è il duetto finale con Apollo, qui il ti­nerfeño Agustin Prunell-Friend, vero specialista di musica barocca, al cui confronto Hen­schel mostra difficoltà evi­denti nelle fioritu­re del canto.

Phaéton

Jean-Baptiste Lully, Phaéton

★★★★☆

Versailles, Opéra Royal, 2 giugno 2018

(video streaming)

Il Sole sul carro e il Sole sul trono

Allegoria della divorante ambizione per il potere, la tragédie lyrique su libretto del Quinault (tratto dalle solite Metamorosi ovidiane) si sviluppa musicalmente in un declamato arioso strettamente legato alla parola che nel 1683 andava contro corrente rispetto a quanto si faceva nell’opera veneziana,  dove la forma aria-recitativo assumeva il predominio. Per certi verso il Phaéton di Lully è quindi il testimone oltralpe del recitar cantando nato a Firenze e divenne fondamentale per l’opera francese, essendo la sua “sublimità retorica” pienamente congeniale alla corte del Re Sole.

E anche qui si parla del Sole, o meglio del carro del Sole secondo la vulgata mitologica, su cui salirà per la prima e ultima volta, giacché ci perderà la vita, Fetonte.

Il prologo ha il consueto fine encomiastico, celebrativo delle qualità del monarca: nei giardini del palazzo di Astrea si celebra «un eroe cui spetta gloria immortale» e i personaggi divini proclamano l’avvento di una nuova età dell’oro (quella di Luigi XIV) in cui regnano pace e giustizia. Nella rielaborazione di Quinault, il mito di Fetonte viene arricchito da un intreccio di carattere sentimentale: Teone, figlia di Proteo, capisce che Fetonte non l’ama più e intende sposare Libia, figlia del re Merope, per diventare re d’Egitto. Climene, madre di Fetonte, dapprima sostiene il figlio nei suoi progetti, ma dopo la profezia di morte di Proteo cerca invano di dissuaderlo. Merope annuncia di aver scelto Fetonte come proprio successore, provocando la disperazione di Libia, che ama riamata Epafo, figlio di Iside. Quest’ultima rifiuta le offerte sacrificali di Fetonte, che vengono distrutte nel suo tempio trasformato in un abisso abitato dalle Furie. Per dimostrare le proprie origini divine al rivale Epafo, Fetonte ottiene dal padre, il Sole, di guidare il suo cocchio, ma quando perde il controllo rischiando di incendiare la Terra viene colpito da un fulmine di Giove.

Non è facile capire il parallelismo del Re Sole con uno dei personaggi dell’opera. Certo non con Fetonte, la cui ambizione si rivela mortale, ma neppure con il Sole (Apollo), un dio che vede il figlio distrutto sotto i propri occhi. Allora non rimane che Giove, dispensatore di punizione a chi troppo ambisce, ma purtroppo non si sa come venne effettivamente letta a corte questa allegoria.

C’è chi visto nel Phaéton di Lully un’allusione alla caduta di Fouquet, colpevole di essersi troppo elevato alla corte del Re Sole. Ma il tema è sempre attuale e la messa in scena di Benjamin Lazar gioca con i luoghi e i tempi mescolando pronuncia antica e gesticolazione dell’epoca barocca con i fantasiosi costumi di Alain Blanchot e le scenografie di Mathieu Lorry-Dupuy, a un tempo sobrie e monumentali, con prismi dorati per la scena del palazzo del Sole. Invece delle coreografie alla fine del II atto vengono proiettati video di parate militari di tutte le epoche – un’altra forma di esibizione del potere – e immagini caleidoscopiche.

Vincent Dumestre, alla guida di un nutrito ensemble formato dal Poème Harmonique e dagli strumentisti di MusicÆterna, ottiene un ricca tavolozza di colori aiutato da un coro impegnato anche in passi di danza. Eccellente il reparto vocale femminile in cui Eva Zaïcik delinea una casta Libye, Lea Trommenschlager un’autorevole Clymène e Victoire Bunel una sensibile Théone. Nonostante un ruolo musicalmente poco impegnativo, lo haute-contre Mathias Vidal riesce a creare un Phaéton di rara eleganza ed efficacia, certo non a rendercelo simpatico, impresa impossibile. Ma è Cyril Auvity (nelle tre parti del Sole, del Tritone e della Terra ferita) a destare la maggiore impressione dal punto di vista vocale. Altrettanto degna di nota è la resa vocale di Lisandro Abadie, anche lui nell’impegno triplice di Epaphus, Jupiter e Saturn in cui fa rifulgere un’ampia tessitur. Nelle parti minori figurano efficacemente Elizaveta Svešnikova (Astrée), Aleksandre Egorov (Merops) e Viktor Šapovalov (Protée).

L’anima del filosofo

Frederic Leighton, Orfeo ed Euridice, 1864

Franz Joseph Haydn, L’anima del filosofo ossia Orfeo ed Euridice

direzione di Nikolaus Harnoncourt

regia di Jürgen Flimm

Vienna 1995, Theater an der Wien

Nel 1951 alla Pergola di Firenze veniva rappresentata per la prima volta un’opera di Haydn il cui debutto era previsto a Londra 160 anni prima, il 31 maggio 1791, cinque mesi prima della morte di Mozart. Erich Kleiber sul podio e Maria Callas in scena facevano rivivere questo lavoro con cui doveva essere inaugurato il King’s Theatre che però non ottenne la licenza d’apertura per beghe tra il principe di Galles e il re Giorgio III. Il lavoro fu quindi sospeso e dimenticato non essendo stati pubblicati né libretto né partitura.

Haydn aveva avuto a disposizione un testo di Carlo Francesco Badini dal titolo L’anima del filosofo, riscrittura della storia di Orfeo ed Euridice la cui versione gluckiana (1762) Haydn ben conosceva avendola diretta più volte. Il testo ha poco a che vedere col mito originario e nulla con la versione del Calzabigi: il significato del titolo non si ritrova nel libretto e pone il dubbio che esistesse un quinto atto perduto che gli desse una svolta filosofica. Solo pochi versi sembrano giustificare il titolo, ossia quelli del Genio che suggerisce all’afflitto Orfeo «I gemiti ed i pianti | Non ti ponno giovar. Se trovar brami | Efficace conforto al cor dolente, | Della filosofia cerca il Nepente»: la speculazione concettuale è rimedio al dolore dei sentimenti.

Atto primo. Euridice è promessa sposa ad Arideo per volere del padre, ma ama, ricambiata, il cantore tracio Orfeo. Per sottrarsi alle nozze, fugge nella selva dove incontra alcuni mostri. Orfeo riesce a incantarli con la propria musica e a salvare Euridice e Creonte è così costretto ad accettare l’amore dei due giovani.
Atto secondo. Un guerriero di Arideo tenta di rapire Euridice, che fuggendo viene morsa da un serpente e muore invocando Orfeo. Orfeo intona un lamento, mentre Arideo e Creonte manifestano i loro propositi di vendetta.
Atto terzo. Tutto l’atto è dominato da arie e cori di contenuto morale; un genio inviato dalla Sibilla promette a Orfeo di accompagnarlo negli inferi.
Atto quarto. Negli inferi. Un coro di ombre infelici e di Furie accoglie Orfeo, che chiede a Plutone di oltrepassare la soglia infernale. Appare allora Euridice, ma il coro raccomanda a Orfeo di non voltarsi a guardarla. Questi non riesce a trattenersi e la perde per la seconda volta. Il genio abbandona il suo protetto, che cade nella disperazione. Tornato nel mondo dei vivi, Orfeo incontra un coro di baccanti e, ormai indifferente all’amore e ai piaceri, accetta da loro una coppa di veleno. L’opera si conclude su un coro delle baccanti, che, volendo far vela per l’isola dei piaceri, rischiano di soccombere alla furia di una tempesta.

«Questa curiosa rivisitazione del soggetto di Orfeo ed Euridice mostra molte incongruenze: le più vistose sono l’introduzione dei caratteri secondari di Creonte e Arideo, che non hanno nulla a che vedere con il mito originale, narrato nelle Georgiche di Virgilio e nelle Metamorfosi di Ovidio. Enigmatico è il titolo stesso: L’anima del filosofo. Chi è il filosofo? Orfeo che esercita il dominio sulla natura tramite la forza incantatrice della musica, oppure l’anima del filosofo è Euridice, o, ancora lo stesso Genio che lo conduce agli inferi, come Hermes psicopompo o il Virgilio dantesco? Il senso di queste innovazioni vanno ricondotte sia all’esigenza di introdurre elementi nuovi in un soggetto troppo sfruttato, sia al desiderio di trovare occasioni per arie dottrinarie e sentenziose, consone al gusto filosofico di Badini, il traduttore italiano delle Pensées di Pascal. Anche Haydn sembra evitare analogie con i celeberrimi esempi gluckiani: Orfeo non ha un’aria di fronte alle porte infernali, né Euridice, quando compare per l’ultima volta. I numerosi cori, più spesso a due e talvolta a quattro voci, sono di eccellente fattura (come è da aspettarsi da un consumato autore di musica sacra e dal futuro autore della Creazione e delle Stagioni) e l’aria di Euridice in punto di morte è molto toccante (“Del mio core”). Grande rilievo è dato alla scrittura orchestrale sia nei ritornelli delle arie e dei duetti sia nei recitativi accompagnati che precedono le arie principali, per lo più monostrofiche o bipartite. Inutile cercare tuttavia una coerenza drammaturgica o un piano musicale di grande respiro, paragonabile ai coevi esempi mozartiani; in ambito teatrale Haydn accettò e seguì le convenzioni del genere, ravvivandole talvolta con felici invenzioni e una ricca scrittura musicale con l’attenzione rivolta tuttavia al canto, piuttosto che al dramma». (Michela Garda)

L’ultima opera di Haydn è il suo più ispirato lavoro per il teatro, quello in cui il compositore imbocca una strada innovativa per la vocalità, i valori espressivi e l’efficacia drammaturgica: la scena della morte di Euridice ha una forza che manca nel lavoro di Gluck, così «i campi inferni», la pagina della tempesta al quarto atto e quelle corali ne sono fulgidi esempi.

Nel 1995 Cecilia Bartoli è la protagonista in una registrazione audio dell’Academy of Ancient Music diretta da Christopher Hogwood in cui ricopre anche il ruolo del Genio. Ma pochi mesi prima era stata l’Euridice di una messa in scena di Jürgen Flimm alle Wiener Festwoche con Nikolaus Harnoncourt a capo del Concentus Musicus e dell’Arnold Schönberg Chor. Roberto Saccà era Orfeo, Wolfgang Holzmair Creonte, Eva Mei il Genio e Robert Florianschutz Plutone.

Di quella rappresentazione è disponibile in rete una registrazione della ripresa televisiva che, nonostante la pessima qualità (trasferimento da un vecchio VHS), permette di apprezzare la direzione tesa di Harnoncourt, la geniale regia di Jürgen Flimm, ma soprattutto la performance di una memorabile Cecilia Bartoli su cui Elvio Giudici non lesina le lodi: «bellissimo timbro, emissione da manuale per quanto concerne appoggio, controllo e proiezione del suono, sì da risultarne una linea d’assoluta compattezza e scorrevolezza lungo i diversi registri; […] facilità nel dominare e svolgere la coloratura, che sfiora dappresso il fenomeno vocale. Ma ancora una volta, quanto davvero contraddistingue e rende unica la Bartoli è la capacità di bruciare in espressività ogni prodigio esecutivo, facendolo sparire nel momento stesso in cui ne viene esaltata al massimo la funzione. Il dominio della parola, innanzitutto, origina certo da dizione eccezionale: travalicata però dalla capacità di accentare, colorire, vivificare ogni singola parola in virtù di un’articolazione fonetica in grado di sprigionarne ogni possibilità musicale».