Mese: ottobre 2015

Pelléas et Mélisande

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Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

Torino, RAI Auditorium Arturo Toscanini, 15 ottobre 2015

(esecuzione in forma di concerto)

«Je ne suis pas heureuse ici»

Per l’inaugurazione della sua nuova stagione l’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI ha eseguito in forma concertistica il capolavoro teatrale di Debussy, Pelléas et Mélisande. La sua unica opera per il teatro costituisce l’opera anti-wagneriana per eccellenza, ma non riesce tuttavia a fare a meno delle influenze del compositore tedesco e ciò si sente in più punti della partitura che rimandano al Parsifal o al Sigfrido. Vocalmente l’influsso maggiore, come ha ricordato Paolo Gallarati nell’introduzione all’opera che ha preceduto il concerto, è poi quello del Musorgskij del Boris, né va dimenticato il fascino subito da Debussy per le atmosfere di quel Poe di cui non riuscirà a completare la sua Fall of the House of Usher dopo averci lavorato sopra per quasi dieci anni.

Pelléas et Mélisande è l’unico dramma musicale portato a compimento da Debussy e inaugura, con un profondo mutamento di stile e di linguaggio, il teatro lirico del Novecento, ma proprio per questo non è stato capito subito. Alla prima del 1902 alla frase di Mélisande «Je ne suis pas heureuse ici» (Non sono felice qui) qualche buontempone del pubblico sembra abbia aggiunto ad alta voce «Nous non plus!» (Neanche noi!)… La mancanza di arie, l’andamento da poema sinfonico cantato e il suo “wagnerismo” divisero la critica di allora con Camille Saint-Saëns tra gli oppositori più accaniti da una parte e Vincent d’Indy fra gli estimatori dall’altra. L’opera è stata abbastanza trascurata nella prima parte del XX secolo fino a che Pierre Boulez non ha riacceso i riflettori su di essa con la sua personale lettura a Londra nel 1969.

In assenza di scene, e questa volta senza proiezioni di vedute o illustrazioni, si apprezzano maggiormente la rarefazione – quanti silenzi in quest’opera! – e le esplosioni orchestrali, gli stessi de La mer. Pelléas è un’opera liquida: il mare, la fontana, l’acqua stagnante dei sotterranei…  e del mare ha la lucentezza perennemente trascolorante. Uniche concessioni alla vista in questa esecuzione concertistica sono il gioco discreto delle luci, l’entrata e uscita dalle porte del palco dell’auditorium degli interpreti e soprattutto la loro misurata gestualità. Tutti convincenti attori infatti sono i cantanti impegnati ed eccellente la loro prestazione vocale. Ognuno ha fornito una perfetta caratterizzazione del proprio personaggio.

Sandrine Piau, apprezzatissima interprete del repertorio barocco, è una Mélisande ideale per la trepidante ingenuità della misteriosa fanciulla che ha il vizio di lasciar cadere nell’acqua oggetti preziosi. I trasalimenti adolescenziali sono resi con una vocalità educatissima e piena di una malinconia che non si sa definire. Pelléas passionale è invece quello dalla voce particolarmente chiara del baritono Guillaume Andrieux, la cui presenza vocale si impone per giovanile baldanza e proprietà nel porgere il declamato di Debussy. Scolpito nel bronzo risonante il Golaud di Paul Gay, il vero protagonista dell’opera, che ha messo magnificamente in luce tutte le innumerevoli sfaccettature del personaggio. Arkel ha avuto nella nobile e imponente voce dell’insigne basso Robert Lloyd le profonde sonorità dell’unico che sia vicino con il suo affetto a Mélisande. Geneviève affetta da un accento un po’ troppo inglese quella di Karan Armstrong, mentre prodigiosamente in parte Chloé Briot, un Yniold prototipo di tanti altri fanciulli della musica di quel periodo, da Humperdinck a Ravel a Mahler.

Juraj Valčuha ha condotto in porto il vascello dell’orchestra con sapienza mettendo in luce tutte le raffinatezze e modernità di quest’opera che doveva aprire una nuova strada al teatro in musica, ma che rimase invece un unicum, come ricorda Fiamma Nicolodi nell’ampio saggio contenuto nel programma di sala: «Non solo Pelléas et Mélisande sarà l’unica opera teatrale scritta da Debussy a sopravvivere accanto a una selva di progetti e abbozzi incompiuti, ma il suo modello, frutto di un delicato equilibrio fra gusto e tradizione, intuito e ragione o, per usare le parole dell’autore, fra natura e immaginazione, non avrà seguito nella storia del teatro musicale moderno. Resterà un pezzo unico che, com’è proprio di alcuni (rari) capolavori, non ammette repliche neppure al prezzo di un falso».

TEATRO VERDI

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Teatro Verdi

Firenze (1854)

1513 posti

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Il Teatro Verdi, originariamente chiamato Teatro Pagliano, ha assunto questo nome nel 1901. Sorge sul luogo dove un tempo era edificato il carcere delle Stinche. Adibito a carcere per cinquecento anni, l’edificio venne venduto e trasformato nel grande casamento attuale  su quattro piani, in parte occupata da quartieri, in parte da botteghee caratterizzata sia dalla presenza di una grande sala di equitazione sia di una sala per la Società Filarmonica posta al primo piano, con dodici ambienti di servizio. Circa nel 1850 si eresse un grandioso teatro, su progetto e direzione dei lavori dell’architetto Telemaco Buonaiuti e iniziativa dell’imprenditore Girolamo Pagliano. Fu così realizzato un teatro a pianta ovoidale con una grande sala che fra platea e i suoi sei ordini di palchi poteva ospitare circa quattromila spettatori. Negli interni intervennero i pittori Luigi Dell’Era e Cesare Maffai, mentre il sipario, raffigurante La disfida di Barletta, venne dipinto da Bandinelli. Fu inaugurato ufficialmente il 10 settembre 1854 con l’opera Rigoletto. Anche se l’opera fu un insuccesso, la nuova struttura teatrale fu molto apprezzata e fu caratterizzata da stagioni improntate su spettacoli lirici e drammatici presentati da compagnie di grande richiamo. Nell’insieme, per l’ampiezza del palcoscenico e per la capienza globale, risultava essere tra i più grandi teatri italiani, sicuramente uno dei pochi a consentire la messa in scena di spettacoli musicali anche complessi e grandiosi. Denominato inizialmente “delle Antiche Stinche”, fu poi per lo più noto come teatro Pagliano.

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Nel 1865 un incendio mise a dura prova la struttura del teatro, fino a che, per i molti debiti contratti, venne espropriato al Pagliano nel 1868, senza che peraltro l’attività venisse interrotta. Seguirono anni in cui la proprietà passò di mano in mano. Dal 1901, dopo essere stato intitolato a Luigi Cherubini, assunse la denominazione di teatro Verdi, e nel tempo si è adeguato, in ragione dei mutamenti di gusto del pubblico, ad ospitare manifestazioni e spettacoli dei più vari, compresi quelli cinematografici. Nel 1949-1950 il teatro e i locali di pertinenza furono completamente rinnovati. Su progetto degli architetti Nello Baroni e Maurizio Tempestini si procedette al consolidamento delle vecchie strutture ormai in avanzato stato di obsolescenza, pur nel rispetto delle decorazioni ottocentesche degli interni e dell’impianto generale, si aumentò la capienza della sala dando una più razionale distribuzione ai posti e infine si dotò il teatro di annessi più grandi e meglio distribuiti. A questo intervento risale l’attuale disegno dell’ingresso principale su via Ghibellina, viceversa di forme decisamente moderne, come pure vari bassorilievi decorativi sempre sistemati negli spazi interni dello scultore Giannetto Mannucci. Altri lavori di rinnovamento vennero eseguiti per rimediare ai danni provocati dall’alluvione del 1966 (in quell’occasione fu dotato di un nuovo schermo cinematografico, allora il più grande esistente in Italia) e infine, dopo il 1985, per l’adeguamento della struttura alle vigenti norme di sicurezza. Nel 1998 la struttura è stata acquisita dalla Fondazione Orchestra Regionale Toscana. Nel 2004, per i 150 anni dall’apertura, sono stati realizzati interventi per migliorare sia l’estetica che l’acustica, quest’ultima ottenuta grazie anche alla nuova pavimentazione in legno, alle nuove sedute ed alla nuova Camera Acustica per l’orchestra.

La sposa dello zar

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★★★★★

Il Rimskij migliore?

La sposa dello zar (1) è una delle poche opere non di genere fantastico di Nikolaj Rimskij-Korsakov ed è anzi altamente drammatica, quasi sinistra con le vicissitudini passate dai protagonisti. Il libretto, di Il’ija Tijumenev e del compositore stesso, è tratto dal dramma in versi omonimo (1849) di Lev Aleksandrovič Mej e la vicenda è basata sugli eventi del 1571, all’epoca dello zar Ivan IV, il Terribile, vedovo in cerca di una moglie, la terza. Dopo di questa ne verranno altre cinque…

Atto I – Il festino. Grigorij Grjaznoj, cavaliere (opriénik) del seguito dello zar Ivan il Terribile, è in preda a tristi pensieri: è ardentemente innamorato di Marfa, figlia del mercante Sobakin, ma lei è promessa in sposa al nobile Ivan Lykov. Grjaznoj organizza un banchetto in casa sua e tra gli invitati ci sono proprio Lykov, di ritorno da un viaggio in Europa, l’alchimista e medico dello zar Elisej Bomelij e un altro cavaliere del seguito di Ivan, Maljuta Skuratov. Grjaznoj presenta ai convitati la sua amante, Ljubaša, che si esibisce in una canzone. Terminata la festa, quando gli ospiti se ne vanno, Grjaznoj trattiene l’alchimista e gli chiede di preparargli un filtro affinché un amico possa far innamorare una ragazza. Bomelij acconsente, ma la conversazione è ascoltata da Ljubaša, la quale intuisce che Grjaznoj non la ama più e vuole il filtro per sé, per sedurre un’altra donna. Rimasta sola con Grjaznoj, Ljubaša lo implora di amarla, ma quando questi se ne va spazientito, pazza di gelosia, giura vendetta nei confronti dell’ignota rivale.
Atto Il – Il filtro d’amore. La folla uscita dal monastero commenta i progetti matrimoniali dello zar, che presto sceglierà la donna da sposare; poi scorge due ragazzi che escono dall’abitazione di Bomelij e li convince che il medico è in realtà uno stregone, amico del maligno. Marfa confessa all’amica Dunjaša il suo amore per Lykov. Le due ragazze attirano l’attenzione di un cavaliere di passaggio, che tuttavia non riconoscono: è lo zar, Ivan il Terribile, che con il suo sguardo raggela Marfa. Sopraggiungono quindi Lykov e Sobakin e tutti entrano nella casa di quest’ultimo. Arriva poi anche Ljubaša, alla ricerca della rivale, e si mette a spiare quanto accade nell’abitazione del mercante: vede la bella Marfa e comprende con disperazione che è lei la donna amata da Grjaznoj. Ljubaša decide allora di rivolger a Bomelij, per chiedergli un veleno che rovini la bellezza e la giovinezza di Marfa. In cambio, però, il medico esige l’amore della donna. Dapprima Ljubaša rifiuta ma poco dopo, fuori di sé e sotto la pressione delle minacce di Bomelij di raccontare tutto, accetta di concederglisi.
Atto III – II testimone di nozze. Nella casa del mercante Sobakin, Lykov e Grjaznoj discutono delle imminenti nozze di Marfa con Lykov, di cui Grjaznoj chiede, ed ottiene, dl essere il testimone. Il matrimonio, tuttavia, non può essere annunciato sino a quando lo zar non abbia scelto a sua volta la propria sposa: infatti sembra che Ivan il Terribile abbia ridotto il numero delle ragazze tra cui scegliere la futura moglie da tremila a dodici, e che tra queste vi siano anche Marta e Dunjaša, Sopraggiunge Domna Saburova, madre di quest’ultima, raccontando che, per come si è svolto l’incontro, lo zar molto probabilmente sceglierà proprio Dunjaša. A questo punto Grjaznoj propone un brindisi e approfitta della situazione per versare nel boccale di Marfa la pozione datagli da Boomelij (senza sapere che nel frattempo Ljubaša ha scambiato il filtro d’amore con il veleno ricevuto sempre dal medico). Lykov e Marfa brindano e tutti augurano un futuro radioso, ma i festeggiamenti sono interrotti dall’arrivo di Maljuta Skuratov, giunta per annunciare che lo zar ha scelto, in realtà, di sposare Marfa.
Atto IV – La sposa. Marfa, che ora alloggia nel palazzo dello zar, è afflitta da una misteriosa malattia. Grjaznoj, convinto che tale malattia sia stata provocata da un errore di Bomelij nel preparare la pozione, ha accusato Lykov di aver avvelenato la ragazza e ora giunge ad annunciare che questi, dopo aver confessato sotto tortura il suo misfatto, è stato da lui stesso ucciso per ordine dello zar. Alla notizia Marfa sviene, poi inizia a manifestare segni di follia, scambiando nel delirio Grjaznoj per Lykov. Grjaznoj capisce che, invece di ammaliare Marfa, l’ha suo malgrado avvelenata: sopraffatto dal rimorso, confessa di essere responsabile della malattia della ragazza e di aver ingiustamente accusato e ucciso Lykov. Ma Ljubaša confessa a sua volta di aver sostituito il veleno al filtro d’amore e di essere dunque la vera colpevole di tutto quanto è accaduto. Furente, Grjaznoj si scaglia contro di lei e la uccide. Di nuovo, prima di essere arrestato e condotto via per essere giudicato, Grjaznoj viene scambiato dall’ormai folle Marfa per l’amato Lykov.

Rappresentata il 22 ottobre 1899 al Solodovnikov di Mosca, è stata ritenuta dalla critica occidentale un’opera non tipicamente ‘russa’, mentre in patria è considerata non solo rappresentativa della cultura nazionale, ma anche la migliore opera di Rimskij-Korsakov. «In un’epoca in cui la ricerca stilistica stava diventando l’ossessione della nuova generazione di compositori, il cinquantacinquenne Rimskij ritornò – ancora una volta contro corrente – a uno stile ormai storicizzato come quello romantico, scegliendo di mettere in risalto la propria maestria compositiva in un’opera nella quale quintetti, sestetti e altri vari momenti di insieme si susseguono incessantemente, per non parlare del virtuosismo delle parti vocali (specialmente quella del personaggio di Marfa)». (Maria Cristina Petri)

In coproduzione con il teatro alla Scala, la Staatsoper di Berlino, orfana della sala su Unter den Linden in massiccio rifacimento, mette in scena nel brutto Schiller Theater questo nuovo allestimento di Dmitrij Černjakov che ambienta la vicenda nella nostra contemporaneità. Vero è che ad apertura del sipario vediamo una folla in costume in una scena tradizionalissima, ma quando il velario si alza ci accorgiamo che è una ricostruzione visuale, con le comparse in chroma key in uno studio televisivo. Di fianco, in una cabina di regia zeppa di monitor e computer, si sta costruendo un nuovo zar: giacché in tutta l’opera lo zar Ivan non compare mai, questi è inteso da Černjakov come una creazione dei boiardi stessi che riempiranno i telegiornali di regime con la sua figura virtuale. Per dare più credibilità alla loro finzione gli procurano poi una sposa in carne e ossa – di cui trasmettono le false immagini sorridenti quando questa è morta.

Un terzo ambiente, montato su una grande piattaforma girevole, è quello della festa di Grigorij Grijaznoj e negli atti successivi anche la casa dei Sobakin sarà in parte digitalizzata e con lo schermo di un televisore perennemente acceso che trasmette la scelta della moglie dello zar vista come una sfilata di bellezze russe. Il video design è il prodotto di Raketa Media, quelli che hanno realizzato le scene virtuali per l’inaugurazione del rinnovato teatro Bol’šoj di Mosca. Ma a parte le meraviglie tecnologiche la regia di Černjakov si impone per la meticolosa e intelligente cura attoriale degli interpreti e i particolari scenici sempre in linea con il libretto.

Quest’opera così poco rappresentata al di fuori del suo paese è nelle mani qui di un cast di primissimo livello. Daniel Barenboim mette sapientemente in luce tutte le modernità della partitura con una direzione intensissima. Nella parte titolare c’è una Peretjat’ko gioiosamente infantile ma dalla vocalità perfetta. Per la prima volta la ascolto nella sua lingua e le agilità tante ammirate in Rossini qui danno luce smagliante al suo personaggio. Completamente diversa, giustamente, Anita Rachvelishvili che gioca con somma sapienza con la sua voce di velluto dalle infinite sfumature nel complesso personaggio di Ljubaša. Suoi sono gli applausi più intensi del pubblico berlinese. Altrettante ovazioni per l’esperienza operistica (45 anni di carriera) di Anna Tomowa-Sintow quale Domna Saburova. Anche sul fronte maschile solo felici note: dal collaudato Vasilij Sobakin di Anatolij Kočerga al vigoroso Grigorij Grijaznoj di Johannes Martin Kränzle. Nella parte di Ivan Lykov c’è Pavel Černoch, un tenore ben più che emergente dallo smalto vocale splendente e dalla eleganza innata.

(1) Anche La fidanzata dello zar in italiano. Nell’originale russo Царская невеста, Carskaia nevesta; in inglese The Tsar’s Bride; in francese La Fiancée du tsar; in tedesco Die Zarenbraut.

(2) Ecco la struttura musicale dell’opera:
Ouverture
Atto I. Il festino
1. recitativo e aria (Grjaznoj)
2. fughetta a tre voci (Opričniki)
3. arioso (Lykov)
4. danza con coro
5. canzone (Ljubaša)
6. trio (Grjaznoj, Ljubaša, Bomelij)
7. duetto (Ljubaša, Grjaznoj)
Atto II. Il filtro d’amore
(coro)
8. aria (Marfa)
9. quartetto (Sobakin, Lykov, Dunjaša, Marfa)
10. intermezzo
11. aria (Ljubaša)
12. coro
Atto III. Il testimone di nozze
13. introduzione
14. trio (Sobakin, Lykov, Grjaznoj)
15. arietta (Grjaznoj)
16. arioso (Domna Saburova)
17. aria (Lykov)
18. sestetto con coro (Grjaznoj, Marfa, Lykov, Sobakin, Domna Saburova, Dunjaša)
19. canto in onore della coppia
Atto IV. La sposa
20. aria (Sobakin)
21. quintetto con coro (Grjaznoj, Skuratov, Sobakin, Domna Saburova, Dunjaša)
22. aria (Marfa)

TEATRO VERDI

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Teatro Verdi

Pisa (1867)

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È a partire dal 1830 che nacque l’idea di edificare a Pisa  un nuovo teatro che sostituisse l’ormai angusto Teatro dei Ravvivati. Questa idea prese però corpo solo nel 1864, quando si riunì una Giunta promotrice per dar vita ad una società per il nuovo teatro. Il modello fu il Teatro della Pergola a Firenze, già teatro granducale. l’Assemblea generale degli azionisti nominò architetto del lavoro Andrea Scala.

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Il 26 aprile 1865 ebbe inizio la costruzione del teatro. Per il sostegno delle fondamenta furono utilizzati 3621 pali di pino. Nel luglio dello stesso anno venne ultimata la copertura, ma lo Scala venne esonerato e i lavori di completamento interni furono affidati all’architetto Giuseppe Giardi mentre il Simonelli progettò la cupola autoportante che sovrasta la platea. Tutti i lavori di ornamento interno furono affidati a maestranze pisane. Il Regio Teatro Nuovo fu inaugurato la sera del 12 novembre 1867 con l’opera Guglielmo Tell di Rossini.

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Il palcoscenico è uno dei più grandi d’Italia: misura 26 metri di profondità e 32 metri di larghezza e rappresenta una sorta di importante “piazza” su cui è stato possibile realizzare scenografie per l’Aida, il Nerone di Boito o le opere di Wagner. L’ingresso, con la caratteristica loggia, ha tre porte. Da destra si accede all’interno del teatro e alla biglietteria, da sinistra si accede al bar del teatro. All’interno è presente un ridotto, intitolato nel 2006 al grande baritono pisano Titta Ruffo, con il pregevole affresco sulla volta Trionfo d’Amore di Annibale Gatti, lo stesso autore del telone del teatro, raffigurante Goldoni che legge alla colonia Alfea.

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La Wally

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Alfredo Catalani, La Wally

★☆☆☆☆

Ginevra, Grand Théâtre, 24 giugno 2014

(live streaming)

Una stella. Alpina.

«La migliore opera italiana che abbia mai diretto». È di Gustav Mahler la stupefacente dichiarazione, in contraddizione con le incomprensioni di buona parte della critica dell’epoca – e di quella odierna. Anche Toscanini però la amava, tanto da chiamare Walter e Wally i suoi primi due figli.

Quinta e ultima opera di Alfredo Catalani, che morirà trentanovenne l’anno seguente, su libretto di Luigi Illica tratto dal mediocre romanzo di Wilhelmine von Hillern Die Geier-Wally (1875), il lavoro andò in scena alla Scala nel 1892. A parte l’Introduzione all’atto III e l’Intermezzo sinfonico e Introduzione all’atto IV, solo l’aria «Ebben, ne andrò lontana» (questa sì quasi mahleriana), tratta dalla “Chanson Groënlandaise” composta da Catalani nel 1878 su versi di Jules Verne per il suo Voyages et aventures du capitaine Hatteras, si è imposta nella memoria del pubblico – anche grazie al film Diva (1981) di Jean-Jacques Beineix – e Wally, come La rondine di Puccini, è ancora oggi opera nota praticamente per una sola aria. La vicenda è squinternata (1) e l’opera proprio brutta: debole e senza ritmo sul piano drammatico, è poco ispirata su quello musicale, a parte l’aria del soprano e i pezzi strumentali appunto.

Con la speranza di una sua eventuale rivalutazione, al Grand Théâtre di Ginevra va in scena questo allestimento poco convinto di Cesare Lievi con la direzione di Evelino Pidò, non sempre seguito a dovere dall’orchestra della Suisse Romande. Un Tirolo da illustrazione per ragazzi quello dello scenografo Ezio Toffolutti: cime innevate dipinte sullo sfondo, alberi ritagliati come nei libri pop-up, marionette di legno, orsi di peluche, brache di cuoio per gli uomini e grembiuloni per le donne. Il ghiacciaio è reso con uno scivolo e un telo bianco, la valanga la solita nebbiolina di ghiaccio secco.

Nel ruolo titolare Ainhoa Arteta si adatta all’ingrata parte, ma la voce ha un eccessivo tremolo e utilizza mezzi espressivi esageratamente veristi – qualcuno ha notato che il suo «Lo voglio morto!» è più da terra di Sicilia che da Tirolo. Yonghoon Lee (Giuseppe Hagenbach) ha un accentuato timbro nasale che compromette addirittura la comprensibilità delle parole, ma non è questo il peggio. Il tenore coreano utilizza un canto di forza ingolato e monolitico che non conosce né sfumature né morbidezze. Dalla prima all’ultima non c’è frase che non sia berciata a squarciagola. Meglio gl’interpreti dei ruoli minori: Bálint Szabó, uno Stromminger inflessibile che però  lascia presto la scena in quanto muore prima del secondo atto; Vitaliy Bilyy (Vincenzo Gellner) l’innamorato rifiutato da Wally; Ivanna Lesyk-Sadivska, patetico Walter en travesti.

(1) Gli avvenimenti narrati nel romanzo sono qui condensati in un libretto dai risvolti involontariamente grotteschi.
Atto I. Alto Tirolo, epoca 1800 circa. Il «giovane ardito» e arrogante Giuseppe Hagenbach, di ritorno dalla caccia in cui ha ucciso un orso, attacca e offende il vecchio Stromminger di cui si festeggiano i 70 anni. Arriva la figlia («strana creatura […] bizzarra fanciulla […] i lunghi capelli disordinatamente sciolti e intrecciati di edelweiss») che invece di prendere le difese del padre si innamora dell’energumeno. Intanto Vincenzo Gellner dichiara il suo sincero amore per Wally al padre il quale gli promette la mano della figlia. Questa però rifiuta e viene cacciata di casa. «Ebben, ne andrò lontana» canta la fanciulla che prende la strada della montagna.
Atto II. Stromminger è morto lasciando la ricca eredità a Wally che è ritornata in paese tutta agghindata per la festa del Corpus Domini. C’è anche Hagenbach che nel frattempo si è fidanzato con Afra. Ciononostante Wally gli dichiara il suo amore e Hagenbach, per vendicare la fidanzata che è stata offesa precedentemente da Wally, finge di ricambiare il suo sentimento e alla fine del ballo la bacia. Accortasi dell’inganno Wally medita vendetta e chiede nientemeno che Gellner lo ammazzi: in cambio sarà sua.
Atto III. Wally ritorna a casa in preda a opposti sentimenti mentre Gellner spinge in un burrone il rivale. A quel punto Wally accorre disperata sul posto e, realizzando improvvisamente di aver provocato la morte dell’uomo che ama, tenta di uccidere Gellner. Un lamento la riporta in sé: Hagenbach è ancora vivo. Calatasi con una corda, Wally porta in salvo l’amato che affida, insieme ai propri averi, alle cure di Afra. Poi si allontana un’altra volta sulle montagne.
Atto IV.  Wally vive in una capanna e riceve la visita di Hagenbach, venuto a cercarla per dichiararle il suo amore. Wally è sorpresa e commossa.  I due restano a lungo assorti nei loro progetti di vita futura e non si accorgono delle nubi minacciose che si addensano preparando una tempesta. Quando Hagenbach torna in sé si avvede del pericolo e cerca una via di scampo, ma una valanga lo travolge. Wally, disperata, si getta anche lei nel burrone.

CULLEN THEATER

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Roy and Lillie Cullen Theater

Houston (1987)

1100 posti

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Il Wortham Center è la sede dello Houston Ballet e della Houston Grand Opera. Dalla sua inaugurazione nel 1987 è stato visitato da più di 5 milioni di spettatori. È stato utilizzato anche per galà, riunioni civiche, eventi, matrimoni. È il vero centro delle arti dello spettacolo della città. Questa meraviglia della tecnologia è stata disegnata dall’architetto Eugene Aubry.

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Comprende due teatri: l’Alice and George Brown Theater e il Roy and Lillie Cullen Theater. Il Brown è il teatro grande di Wortham, mentre il Cullen ospita produzioni di opera e balletto più piccole, musica da camera e barocca e recital vocali.

Wortham Center and Downtown Houston Skyline During Daytime

TEATRO VERDI

Giuseppe Verdi

Busseto (1868)

300 posti

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Nel 1845 in Busseto venne preparato un progetto per un nuovo teatro che tuttavia naufragò, venendo esso dichiarato «piccolo, indecente e quasi inservibile». Dopo che la Rocca Pallavicino (attuale Palazzo Municipale) venne acquistata dal Comune nel 1856, il podestà Corbellini, propose un progetto a firma di Pier Luigi Montechini, che venne approvato. Iniziarono immediatamente i lavori per la costruzione del nuovo teatro intitolato a Giuseppe Verdi. I lavori di costruzione furono affidati al bussetano Giovanni Sivelli e durarono 12 anni circa. Le decorazioni vennero affidate prima al Gelati e, una volta mancato, a Giuseppe Baisi e Alessandro Malpeli. Il sipario venne realizzato con tela decorata dal Baisi. Gli intagli furono affidati al parmense Carletti. Le lampade ai famosi bronzisti milanesi Pandiani. Il teatro venne inaugurato il 15 agosto 1868 con la messa in scena delle opere Rigoletto e Un ballo in maschera; per l’occasione, in onore del Maestro, le signore indossarono abiti di colore verde mentre i signori il verde lo ebbero nelle cravatte. Nonostante ciò Verdi non presenziò all’inaugurazione, né mai mise piede nel teatro a lui intitolato ritenendolo troppo costoso e inutile, nonostante avesse donato ben 10.000 Lire per la sua realizzazione.

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Negli anni 1993/1997, l’amministrazione incaricò l’arch. Cervellati di Bologna del restauro degli arredi, degli stucchi e dei rivestimenti in velluto. Nell’occasione venne realizzata un’importante scala lignea esterna quale via di sicurezza. Nel 2004 l’amministrazione incaricò Fulvio Beltrami, ingegnere in Cremona, per progettare e dirigere le opere di adeguamento alle nuove norme di sicurezza e prevenzione incendi. Il Teatro nel suo periodo di attività ha rappresentato quasi tutte le opere verdiane, le stagioni del 1913 e del 1926 furono dirette da Arturo Toscanini mentre nel 2001 Riccardo Muti vi ha diretto Falstaff e Franco Zeffirelli ha curato l’allestimento dell’Aida e nel 2002 de La Traviata diretta da Plácido Domingo. Il teatro è regolarmente utilizzato quale sede per alcuni spettacoli del Festival Verdi di Parma.

L’elisir d’amore

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Gaetano Donizetti, L’elisir d’amore

★★★☆☆

Bruxelles, Cirque Royal, 18 settembre 2015

(video streaming)

L’Elisir balneare di Michieletto

Ideata per il Palau de les Arts di Valencia dove è stata rappresentata nel 2012 (ma è passata anche a Madrid e Palermo), la messa in scena “balneare” di Damiano Michieletto si trasferisce a Bruxelles, ma non al teatro de la Monnaie, chiuso per restauri, bensì al Cirque Royal: infatti la scenografia realizzata da Paolo Fantin per il regista veneziano si sviluppa ora su un palcoscenico circolare sul quale si affacciano i posti della vecchia sala poligonale (un icosagono, ossia con venti lati) concepita nel 1878 dall’architetto Wilhelm Kuhnen per ospitare la Troupe Équestre Royale Belge Renz. Da qui viene trasmessa la recita del 18 settembre.

Nemorino/bagnino entra in scena/spiaggia con gl’infradito e portando degli ombrelloni che lascia maldestramente cadere a terra mentre gli orchestrali, anch’essi in tenuta da spiaggia, di fianco al “Bar Adina” dipanano le note saltellanti dei legni nel preludio in Do che precede il coro introduttivo. Quando entra Adina l’allegra brigata si immobilizza e due fasci di luce evidenziano Nemorino e l’oggetto della sua prima cavatina «Quanto è bella, quanto è cara» prima della lezione di stretching.

Il secondo atto inizia in discoteca: con una torta nuziale gonfiabile per lo schiuma-party di addio al nubilato di Adina. Le trovate di Michieletto sono opportunamente dosate ma senza posa per questo suo divertentissimo spettacolo a suo modo goliardico, ma coerente e godibilissimo, come dimostra l’entusiasmo del pubblico alla fine della rappresentazione.

I due poli tra cui si svolge l’opera di Donizetti, l’umoristico e il patetico, sono rispettati anche in questa ironica messa in scena che non tradisce l’assunto del lavoro, ma quelli che si perdono in questa coloratissima e ipercinetica visione sono la toccante semplicità e il carattere naïf della vicenda: i “villici” sono qui coatti da spiaggia, il libro di Adina è una rivista di gossip, il “magico licore” una bustina di pastiglie colorate e così via. Nonostante il libretto venga allegramente re-interpretato, i personaggi mantengono comunque la loro caratterizzazione: Belcore è un borioso Comandante Schettino che alla fine viene arrestato dopo che un cane anti-droga ha annusato il suo zaino; Dulcamara è il trucido spacciatore di una bibita energetica in lattina oltre che di altre sostanze non meglio specificate; Giannetta è la barista del locale di Adina che riceve per telefonino la notizia dell’eredità di Nemorino. La delicata materia di cui è fatto questo giovanile capolavoro donizettiano appena sopporta letture stravolgenti e non è un caso che una delle migliori rese de l’Elisir d’amore sia quella tradizionalissima di Schenk.

Direzione ben poco ispirata di Thomas Rösner cui per di più non giova la posizione con l’orchestra dietro i cantanti e causa di temporanee scollature.

Come sempre precisa nelle agilità e sicura negli acuti Olga Peretjat’ko è un’Adina dalla voce talora tagliente, ma sempre aderente al belcanto e rende molto bene l’interpretazione del suo personaggio che passa dall’altezzosità iniziale alla tenerezza amorosa del finale. Dmitry Korčak è convincente come personaggio, ma vocalmente un po’ tutto uguale e dagli acuti sforzati e anche se generalmente corretto il suo Nemorino non è dei più memorabili. Certo non la «Furtiva lacrima» con quei perigliosi sbandamenti di intonazione. Aris Argiris è a suo modo un efficace Belcore, ma la voce è sfibrata, non omogenea e del tutto senza fascino. Meglio vocalmente Simón Orfila dalla strana dizione (sembra un Ruggero Raimondi andaluso) con cui caratterizza il suo Dulcamara.

Piuttosto precaria la captazione delle voci (che si aggiunge all’acustica infelice della sala) e nonostante la possibilità di poter scegliere la qualità del video, anche alla massima possibile (720p) l’immagine rimane di bassa qualità. D’accordo che è gratis, però…

CIRQUE ROYAL

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Cirque Royal

Bruxelles (1978)

2000 posti

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Opera dell’architetto Wilhelm Kuhnen, il Cirque Royal è una sala a forma di poligono regolare di 20 lati di 37 m di diametro ideata per ospitare gli spettacoli della troupe equestre Renz e inaugurata il 12 gennaio 1878. All’epoca poteva ospitare 3500 spettatori su 15 file  e l’orchestra di 40 elementi era sopra l’ingresso dei cavalli. Nel sottosuolo c’erano box per 110 cavalli. L’arena si poteva trasformare in piscina.

CirqueRoyal1In seguito fu utilizzata soprattutto per grandi spettacoli (si potevano esibire fino a 200 artisti) di pantomime e balletti. Fu occasione anche di spettacoli nautici e riviste equestri. Fino alla Grande Guerra vi furono anche proiettati numerosi film muti. Dopo il 1918 ospitò anche soldati tedeschi prigionieri e dal 1920 riprese la sua vocazione di circo, con spettacoli di varietà e recital di cantanti (da Maurice Chevalier a Charles Trenet). Numerosi circhi itineranti vi furono ospitati negli anni ’50 e dal ’61 all’80 Maurice Béjart presentò qui alcuni suoi balletti.

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Le nozze di Figaro

 LE NOZZE DI FIGARO,ROH; Figaro; ILDEBRANDO D'ARCANGELO, Susanna; ALEKSANDRA KURZAK, Bartolo; CARLO LEPORE, Marcellina; ANN MURRAY, Cherubino; ANNA BONITATIBUS. Count Almaviva; LUCAS MEACHAM, Don Basilio; BONAVENTURA BOTTONE, Don Curzio; HARRY NICOLL, Antonio; JEREMY WHITE, Barbarina; SUASNA GASPAR,

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

★★★☆☆

Londra, Royal Opera House, 5 ottobre 2015

(live streaming)

Figaro imbolsito

La produzione di David McVicar del 2006, disponibile anche in DVD (1), viene per la settima volta ripresa alla Royal Opera House e trasmessa nei cinema in tutto il mondo. Uno dei più begli allestimenti dell’immortale capolavoro di Mozart/Da Ponte è così fruibile da un pubblico sterminato al prezzo di un biglietto per un film.

A Londra nel ruolo del Conte in questa produzione si sono avvicendati Gerald Finley, Chrstopher Maltman e Mariusz Kwiecen, fra gli altri, mentre nella parte di Figaro ricordiamo almeno i nostri Luca Pisaroni, Alex Esposito e Ildebrando d’Arcangelo.

La regia di McVicar sposta la vicenda a circa cinquant’anni dopo, nel 1830 – all’inizio del terzo atto il Conte si trastulla infatti con il modellino di una di quelle macchine a vapore che innescarono la prima rivoluzione industriale. Sono passati quindi quarant’anni da quell’altra Rivoluzione, ma non sembra che sia cambiato molto: la Restaurazione ha riportato gli equilibri di potere del passato e il contrasto fra servi e padroni è sempre presente, come evidenzia in più punti la regia di McVicar. Vivaci i controscena della servitù di nascosto ai padroni, due mondi impermeabili se non in materia di sesso: nel tempo chissà quanti nobili hanno avuto relazioni con domestiche volenti o nolenti e quante madame hanno compensato le negligenze dei mariti con robusti maggiordomi e stallieri!

Ripresa da Leah Hausman la messa in scena si è arricchita di molti particolari, ma ha perso un po’ del lavoro attoriale sui cantanti, che si affidano qui soprattutto alle proprie doti sceniche, soprattutto Schrott, vero animale di palcoscenico anche se ora imbolsito nella figura.

La scenografia di Tanya McCallin ben evidenzia la disparità tra i lussuosi ambienti dei padroni e quelli ben più miseri in cui lavora e vive la servitù, ambienti che si celano dietro quelle aperture ben mimetizzate nelle boiserie che mai ci aprono quando andiamo a visitare un castello o un palazzo nobiliare.

La direzione di Ivor Bolton manca talora della magia di certi momenti come quelli della “canzonetta sull’aria” e in generale prende tempi piuttosto veloci, ma è soprattutto sugli interpreti vocali che ricade la responsabilità di uno spettacolo musicalmente non eccezionale. Fin da subito si nota una certa scollatura tra orchestra e cantanti che stentano a segnare il passo della musica, così è ad esempio per Schrott che risulta appesantito anche vocalmente, pur nell’innegabile splendore vocale dello strumento. Della Susanna di Sophie Bevan, venuta a sostituire all’ultimo minuto l’indisposta Anita Hartig, non si può non lodare l’impegno, così come della Contessa di Ellie Dehn, ma la dizione imperfetta rimane un grosso handicap per una commedia come Le nozze così fondata sulla parola. Sono i recitativi infatti la parte più debole dello spettacolo e non sorprende che il nostro Carlo Lepore rifulga come fraseggio ed esattezza linguistica in mezzo a tanto italiese. Il suo Bartolo è poi tra i personaggi più indovinati per presenza scenica e simpatia. C’è solo da rammaricarsi di non averlo potuto vedere in coppia con Anne Murray poiché qui Marcellina è affidata alla pesante caratterizzazione di una Louise Winter dalla pronuncia inascoltabile.

Kate Lindsey, nonostante un certo timbro ingolato, si rivela però una grande stilista mozartiana nella parte di Cherubino in cui riceve una meritata dose di acclamazioni da parte del pubblico. Stéphane Degout, ammirato finora quale sommo interprete del repertorio francese, costruisce un Conte aristocraticamente suadente, ma con lampi minacciosi.

La presenza di comprimari di non grande spicco in questa produzione giustifica i tagli di tradizione delle arie di Marcellina e di Basilio del quarto atto.

(1) Su disco abbiamo Antonio Pappano alla guida dell’orchestra, come Figaro c’è lo stesso Schrott, ma Susanna è Miah Perrson, il Conte è Gerald Finley, la Contessa è Dorothea Röschmann e Cherubino Rinat Shaham. Molte altre sono le pregevoli edizioni in video di quest’opera.