Gaetano Rossi

Alfredo il Grande

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Alfredo il Grande

Bergamo, Teatro Donizetti, 19 novembre 2023

★★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Grandissimo successo per una gemma ritrovata

Con il progetto #Donizetti200, che consiste nel rappresentare in ogni edizione un’opera composta dal grande bergamasco nello stesso anno di due secoli prima, il 2023 offriva la scelta tra due lavori: Il fortunato inganno e Alfredo il Grande. Il Festival Donizetti Opera quest’anno ha optato per il secondo titolo. Dopo Pietro il Grande Donizetti affrontava un altro personaggio storico passando dalla Livonia all’Inghilterra in un melodramma eroico che avrebbe segnato il suo debutto a Napoli, la più importante “piazza” operistica italiana del tempo. Quel 2 luglio 1823 l’opera non riscosse alcun successo e non ebbe repliche. Non piacque il verboso e improbabile libretto di Andrea Leone Tottola che ricalcava quello omonimo di Bartolomeo Merelli del 1819 per Simone Mayr, il maestro di Donizetti, a sua volta tratto dall’Eraldo ed Emma (1805) di Gaetano Rossi.

Atto I. Sull’isola di Athelney, nel Somerset, la regina Amalia, seguita dal generale Eduardo, sta cercando in gran segreto re Alfredo, in fuga dai danesi che Io cercano a loro volta dopo aver invaso l’Inghilterra. Pastori e contadini accolgono i due stranieri, di cui ignorano l’identità. In lontananza si ode una marcia militare e poco dopo si vedono sfilare sulle colline truppe danesi. Dopo aver ricordato la sventura dell’invasione, il pastore Guglielmo offre ospitalità ad Amalia ed Eduardo. Chiede soltanto di rispettare «il cupo dolor» di un altro sconosciuto, che da qualche tempo il pastore ha accolto nella sua casa. Nel frattempo, i danesi Atkins e Rivers hanno individuato i due inglesi in incognito. Seguono la regina Amalia e il suo accompagnatore fin da Londra, sperando che le loro ricerche possano condurli ad Alfredo. Lo sconosciuto e proprio lui, Alfredo. Ha visto anche lui le schiere danesi avvicinarsi ed è assalito nuovamente dal timore di essere catturato prima di poter organizzare una riscossa. Ma dopo aver scacciato quei sentimenti negativi si prepara a vendere cara la sua cattura. Senti avvicinarsi qualcuno, si dispone a celare la sua vera identità e a trattenere l’atroce sofferenza che gli è causata da questa forzata clandestinità. Amalia ed Eduardo vengono introdotti nella capanna di Guglielmo Da Enrichetta, una contadina inglese, e da altre sue compagne.Amalia è impaziente di incontrare l’altro ospite sconosciuto, perché spera di poter riconoscere in lui il re che sta cercando. Quando finalmente il suo sguardo si incrocia con quello del misterioso straniero, per entrambi la gioia di essersi ritrovati è immediata. Atkins, che li ha seguiti fino a lì, fingendosi un inglese si avvicina alla capanna di Guglielmo. Il piano suo e di Rivers ha funzionato: seguendo Amalia, hanno intercettato il re in fuga. Sempre sotto mentite spoglie rivela al re che i danesi lo hanno scoperto e lo invita a lasciare il villaggio e a rifugiarsi altrove. Guglielmo si offre allora di guidarli per un sentiero nascosto fra le montagne; ma Atkins, che ha potuto ascoltare tutto, li precede e tende loro un’imboscata con le sue truppe: attende il drappello composto da Alfredo, Amalia, le due contadine Enrichetta e Margherita, e lo sorprende con i soldati armi in pugno. Tutto sembra perduto, ma ecco comparire un piccolo esercito di soldati e contadini inglesi, guidati da Eduardo e Guglielmo. Sono determinati e agguerriti, e riescono a sventare l’assalto e la cattura del re. I danesi battono in ritirata.
Atto II. Rinvigorito dal soccorso e dal sostegno ricevuti, Alfredo decide che è giunto il momento di riprendersi il suo regno. E inizia da lì, dal Somerset. Chiede a Guglielmo di raccogliere tutti coloro che voglio combattere al suo fianco. Nel veder crescere il morale del marito, Amalia manifesta la sua contentezza. Entrambi fanno propositi di condividere la sorte che li attende e si dicono sicuri di una futura vittoria. Alcune contadine vengono a riferire che sono in arrivo truppe britanniche sull’isola. Alfredo saluta allora Amalia e va incontro ai suoi uomini, mentre le contadine circondano la regina cercando di placare la sua agitazione. Margherita raccoglie la preoccupazione di Enrichetta per lo stato di ansietà della sua regina e fuga l’ansia di lei, che alla fine prorompe in un canto rasserenato. Le truppe sono tutte schierate: da un lato i militari inglesi, dall’altro bande di pastori armati, tutti desiderosi di combattere per il loro re. Eduardo li scalda annunciando l’arrivo di Alfredo. Quando il re compare, le schiere lo salutano battendo con entusiasmo le spade sugli scudi, e cantano un coro di lode. Alfredo, da parte sua, motiva i suoi uomini alla battaglia con un’orazione carica di passione, dopodiché si mette alla testa dei soldati, con Eduardo al fianco, mentre Guglielmo conduce le schiere di pastori. E tutti marciano con passo accelerato. Atkins, con una sparuta pattuglia di soldati danesi, osserva dal folto di una selva i movimenti militari del nemico inglese e manifesta la sua disdetta per il mutamento di stato d’animo di Alfredo. Il destino sembra aver rapidamente rovesciato in perdite i trionfi, ha scaraventato i danesi dalle «stelle» agli «abissi», dove sembra caduta anche la temuta Reafan (la bandiera della vittoria danese). Poi, alzando lo sguardo, Atkins vede poco distante tra la vegetazione Amalia, sempre seguita dalla fida Enrichetta. E decide di catturarla e sfruttarla come ostaggio. Assalita, Amalia coraggiosamente resiste. Impugna uno stilo, e malgrado Enrichetta cerchi di farla desistere, affronta Atkins a viso aperto. In quell’istante Eduardo, che è stato incaricato da Alfredo di proteggere Amalia, nell’attraversare con un drappello di soldati la selva, scorge Atkins e i suoi danesi mentre circondano la regina. Si lancia con i suoi uomini all’attacco, mette in fuga i nemici e cattura Atkins. Rivers si trova a coprire un altro fronte. È smarrito. Non ha notizie di Atkins e vede le truppe danesi soccombere sotto l’irruenza di quelle inglesi. È preso dal panico e fugge. L’esercito inglese marcia e canta il suo trionfo, acclamando il re. Alfredo ha Amalia al suo fianco ed è circondato dalle altre persone fidate, Enrichetta, Eduardo, Guglielmo. La regina è sopraffatto dalla gioia, ma dopo un iniziale momento di smarrimento, si lancia in un inno alla pace e a un futuro di felicità.

Mandandolo in scena per la prima volta in epoca moderna, il Festival di Bergamo offre a questo lavoro una prova d’appello e diciamo subito che il pubblico ha apprezzato sia la parte musicale sia quella visiva dello spettacolo, affidato a un non conosciutissimo Stefano Simone Pintor che ha saputo dare una lettura convincente a un’opera che rivela non pochi buchi drammaturgici. Proprio partendo da questo evidente difetto, Pintor ha ideato una messa scena che parte inizialmente da una esecuzione da concerto con gli spartiti in mano ai cantanti e al coro, per inserire a mano a mano i costumi dell’epoca, disegnati da Giada Masi. E allora le copertine in mano ai coristi diventano degli scudi con la croce rossa su fondo bianco. Partendo dalla figura del sovrano che promosse l’alfabetizzazione dei suoi sudditi, ecco i libri che piovono dall’altro nel video o sono sparsi in scena: la cultura contro la barbara violenza, la lettura contro il rogo delle biblioteche. 

Nella regia di Pintor i personaggi/interpreti si muovono con efficacia all’interno di una semplice struttura scenografica. Anche qui sullo stesso led wall de Il diluvio universale appaiono immagini reali, quali incendi, distruzioni e l’assalto a Capitol Hill (con il copricapo cornuto dello shamano che troveremo sulle teste dei danesi!), alternate a una grafica ironica ed elegante che utilizza i codici e le miniature dell’epoca. Ma la presenza delle immagini qui è molto meno invasiva e non distrae dalla musica come era invece successo nel Diluvio. 

Musica che si rivela sorprendente per bellezza e originalità: a momenti viene il sospetto che il Maestro Corrado Rovaris, che dirige l’Orchestra Donizetti Opera, si sia divertito a inserire pagine estranee, ma il fatto è che alcuni momenti richiamano un Rossini a venire – c’è infatti l’inno che troveremo nel Viaggio a Reims! – tanto è felice l’invenzione tematica e strumentale della partitura messa sapientemente in risalto dalla sua concertazione. Gli scatti ritmici delle marcette (alcune suonate da una grande banda in scena), i solenni toni degli inni, lo slancio delle cavatine, i colori degli strumenti, le gemme melodiche, la raffinata armonizzazione, tutto è reso con mano felice e l’equilibrio tra buca e voci sul palco viene mirabilmente realizzato. (1)

Al debutto di Alfredo il Grande nel 1823 nella parte eponima ci fu il celebrato baritenore bergamasco Andrea Nozzari. Qui Antonino Siragusa, cantante rossiniano per eccellenza, ne rileva la sfida senza problemi e dipana con sicuro squillo e infallibile tecnica la sua impegnativa parte. Al suo fianco Gilda Fiume (Amalia) è un torrente in piena di agilità, acrobazie, acuti e sovracuti, passaggi legati, note proiettate con potenza ma anche sensibili mezze voci nei momenti dolenti, il tutto espresso con timbro morbido e omogeneo nei passaggi di registro. La sua performance accende l’entusiasmo del pubblico che dopo il pirotecnico rondò finale decreta convinte ovazioni, estese anche agli interpreti secondari: Lodovico Filippo Ravizza, eccellente Eduardo; Adolfo Corrado, il possente barbaro Atkins; Antonio Garés, Guglielmo; Andrés Agudelo, Rivers. Enrichetta ha a disposizione un’aria eseguita con bello stile da Valeria Girardello mentre Floriana Cicìo, allieva della Bottega Donizetti, è Margherita. Non ultimo il valente coro della Radio Ungherese diretto da Zoltán Pad.

Quello che sembrava lo spettacolo meno attraente della rassegna bergamasca, dopo un dramma biblico e la versione francese di uno dei maggiori capolavori di Donizetti, non è solo un ripescaggio fortunato ma si è rivelato quello di maggior successo e uno dei migliori degli ultimi anni, tanto da convincerci che Alfredo il Grande abbia tutte le carte in regola per diventare un titolo di repertorio.

(1) Struttura dell’opera
Sinfonia
Atto I
Sinfonia
1. Introduzione Vieni Eduardo; Sventurata Britannia (Amalia, Eduardo, Enrichetta, Margherita, Guglielmo, Coro)
2. Cavatina S’inoltra alcun (Alfredo)
3. Coro Il lasso fianco chi vuol posar
4. Terzetto Sposo! … e fia ver (Amalia, Alfredo, Eduardo)
5. Finale Solingo è il sito, amici (Atkins, Alfredo, Amalia, Enrichetta, Margherita, Alfredo, Guglielmo, Coro)
Atto II
[Prima del Duetto] Me avventurato! (Guglielmo, Enrichetta, Alfredo, Pastori)
6. Duetto Questa man che un dì sull’ara (Amalia, Alfredo, Coro di contadine)
[Dopo il Duetto] Dove, o compagna? (Enrichetta, Margherita)
7. Rondò Quando al pianto ed all’affanno?, Di pace in grembo (Enrichetta)
[Dopo l’Aria di Enrichetta] Anelaste, o Britanni (Eduardo)
8. Coro All’apparir dell’astro; Elettrica scintilla (Coro di truppe e pastori armati)
[Dopo il Coro] Si, vinceremo (Alfredo)
9. Aria Che più si tarda? All’armi!; Celeste voce ascolto; Al campo, alla vittoria!; Se questo, amico nume (Alfredo, Guglielmo, Eduardo, Coro)
[Dopo l’Aria] Ti basta, o fato iniquo? (Atkins, Amalia, Enrichetta)
10. Quintetto Traditor! Di un ferro ancora; Se al generoso Alfredo; Sommerso ne’ flutti di un mar tempestoso (Amalia, Enrichetta, Guglielmo, Eduardo, Atkins)
[Dopo il Quintetto] Ah, chi di Atkins mi reca qualche novella? (Rivers)
11. Coro Viva Alfredo! Il grande! Il prode! (Alfredo, Amalia, Enrichetta, Margherita, Eduardo, Guglielmo, Contadine, Esercito inglese)
[Dopo il Coro] Al vostro braccio, o cari! (Alfredo, Amalia, Eduardo, Guglielmo, Margherita, Enrichetta)
12. Rondò Che potrei dirti, o caro; Torna a gioir quest’alma (Amalia, Coro)

Che originali! / Pigmalione


Giovanni Simone Mayr, Che originali!

Gaetano Donizetti, Pigmalione

★★★☆☆

Bergamo, Teatro Sociale, 25 novembre 2017

(diretta streaming)

Maestro e allievo riuniti in un originale dittico

A Bergamo il Festival Donizetti prrsenta un dittico formato da due brevi opere di Giovanni Simone Mayr e Gaetano Donizetti, ossia il maestro e l’allievo. Il primo con un lavoro della maturità, il secondo con la sua prima opera.

Che originali! è una farsa musicata da Mayr per il Teatro San Benedetto di Venezia dove andò in scena il 18 ottobre 1798. Il libretto di Gaetano Rossi è basato su una pièce francese del 1779 che mette in burla un fanatico di musica. Qui ci sono anche le ossessioni metastasiane della figlia.

Biscroma e Celestina, servitori nella casa di Don Febeo, un nobile di strette vedute e fanatico per la musica (anche se dilettante), decidono di aiutare la figlia maggiore del padrone, Aristea, lei infatuata dalla poesia di Metastasio, a sposare il suo innamorato Don Carolino. Don Febeo non solo vuole che Aristea e l’altra figlia, l’ipocondriaca e depressa Rosina, diventino affermate musiciste, ma anche che trovino un marito con un notevole talento musicale. Don Carolino, nonostante sia di rango aristocratico è musicalmente incapace agli occhi di Febeo e a causa della sua ignoranza musicale viene cacciato da Febeo. Avendo questi bisogno di un nuovo staffiere, si presenta un certo Carluccio, ma Febeo vuole che anche i suoi servitori se ne intendano di musica, perciò lo rifiuta. Carluccio risponde per le rime mettendosi a cantare e Don Febeo si convince ad assumerlo. Intanto Don Carolino con l’aiuto di Biscroma ritorna mascherato per farsi assumere come segretario. Per metterlo alla prova, Don Febeo gli detta alcune note, ma per colpa della sua ignoranza in fatto di musica viene smascherato. Don Febeo ora si deve recare all’Accademia musicale di cui è presidente per presentare la nuova opera lirica Don Chisciotte che però non piace. Si presenta nuovamente Don Carolino nei panni di un famoso maestro di cappella, tale Signor Semiminima. Don Febeo, suo grande ammiratore, va in uno stato di totale confusione, e quando Semiminima/Don Carolino chiede la mano di Aristea, gliela concede.

L’opera fu ripresa con diversi titoli: Gli originali, Il pazzo per la musica, La melomane, Il trionfo della musica, Il fanatico per la musica e La musicomania. Come Oh! che originali fu rappresentata ad esempio nel 1829 al Carcano di Milano senza il personaggio di Rosina. Appartenente ai lavori metateatrali cari al Settecento in cui si prendono in giro manie e smanie musicali e/o operistiche, il lavoro di Mayr ha un suo interesse per l’arguto libretto e la fine orchestrazione, la vivacità dei concertati e la virtuosità degli strumenti a fiato mentre le arie solistiche caratterizzano efficacemente i diversi caratteri, ovviamente in modo farsesco.

Nella versione originale, alla testa dell’Orchestra dell’Accademia Teatro alla Scala Gianluca Capuano fa del suo meglio con un’orchestra volenterosa, ma non sembra lo stesso di quando dirige Les musiciens du Prince-Monaco… Affidabile il cast di questa produzione del Festival Donizetti. Bruno de Simone è stato uno dei grandi buffi per molti anni e se ora la sua voce suona un po’ appannata non è uno svantaggio per la parte del “musicomaniaco” Don Febeo che comunque si fa valere nel duetto con Aristea e nella scena solista del suo Don Chisciotte. Leonardo Cortellazzi è perfettamente all’altezza delle esigenze vocali di Don Carolino. Angela Nisi (Donna Rosina) sfoggia una precisa coloratura e Gioia Crepaldi è una vivace e pimpante Celestina. Omar Montanari (Biscroma) non esagera nel macchiettismo ed è al suo massimo effetto nell’aria «Finché mie belle». Quantitativamente minore la parte di Carluccio in cui vediamo Pietro di Bianco parodiare l’aria mozartiana «Se vuol ballare signor contino» per farsi assumere. E poi abbiamo la prima donna, il mezzosoprano Chiara Amarù, la “metastasiasta” Aristea, che sfoggia buona voce, lettura sfumata ed espressiva nei recitativi e brillante nella cavatina «Chi dice mal d’amore», un pezzo che ha avuto una vita propria al di fuori dell’opera.

Roberto Catalano ambienta la lepida vicenda in un Novecento dai costumi pop di Ilaria Ariemme, dove fiori e glitter hanno il predominio. La scena unica di Emanuele Sinisi prevede una stanza con la parete di fondo occupata da una enorme tela di Lucio Fontna con i tagli che il servo Biscroma rattoppa con ago e filo e che quando viene rimossa mostra una parete semispecchiante in cui a tratti appare la scena della seconda parte, quella di Donizetti, con un effetto inquietante. La recitazione rimane sempre al di qua del farsesco ma il regista non sembra aver voluto cercare una particolare chiave di lettura.

Se nella farsa di Mayr il protagonista ostenta un’arte che non padroneggia e con cui ossessiona la sua vita e quella degli altri, nella “scena drammatica” di Donizetti l’artista è invece deluso dall’umanità e alla ricerca di un’ispirazione per arrivare all’autencità. Pigmalione fu scritto in sole due settimane nel settembre dal 15 settembre al 1° ottobre 1816 – com’è scritto sulla pagina autografa – da un diciannovenne Donizetti, studente di composizione a Bologna, probabilmente per la visita del maestro Mayr. Mai messa in scena, la prima rappresentazione avvenne il 13 ottobre 1960 a Bergamo. Il libretto di Simeone Antonio Sografi riprende l’episodio narrato nel decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio. Lo stesso Sografi aveva scritto il testo della Saffo (Venezia, 1794) di Mayr.

Lo scultore Pigmalione è in crisi creativa, il lavoro gli appare vuoto e senza senso. Per di più ha cominciato a provare una nuova e sconosciuta passione amorosa per una sua statua femminile le cui membra sembrano muoversi quando vi si accosta con gli strumenti del mestiere. Dilaniato da sentimenti contrastanti, si rivolge agli dèi, chiedendo pace e pietà. Ogni speranza però è vana e l’unica soluzione pare essere la morte: Pigmalione si rivolge a Venere, dea dell’amore, dicendo di voler consacrare la sua vita e la sua morte alla statua che chiama per nome: «Galatea dove sei?». Quando un fulmine la colpisce, la statua si anima e l’artista le dice di esserne stato il creatore, Galatea – scoprendo i palpiti del proprio cuore – comprende di essere viva e lo abbraccia.

«Il Pigmalione è un lavoro modesto in tutti i significati del termine» sentenzia l’Ashbrook, «La scrittura vocale ha un’estensione limitata ed è parca di abbellimenti; l’orchestra comprende un flauto, un oboe, due clarinetti, due corni, due fagotti e gli archi. È l’unica opera di Donizetti il cui autografo non prevede la divisione in numeri separati e ciò indica chiaramente che fu composta come esercitazione e non ai fini dell’esecuzione della pubblicazione. […] L’azione manca di tensione drammatica. I momenti migliori sono un grazioso ritornello in forma ternaria per flauto e archi, che accompagna la contemplazione della statua da parte dell’autore, Il recitativo in cui questi, nel sollevare lo scalpello, si accorge con spavento che un potere misterioso gli trattiene la mano; larghi intervalli nella linea vocale e dissonanze senza preparazione nell’accompagnamento illustrano qui la sua agitazione. Le arie sono brevi e simmetriche; tutti i recitativi sono accompagnati e, purtroppo, il duetto finale è il punto debole della partitura. L’influsso di Mayr è evidente in varie parti, quello di Rossini invece quasi non si nota».

Nella lunga scena solistica di Pigmalione Antonino Siragusa si conferma come sempre refrattario a qualunque ipotesi di recitazione ed è talora troppo squillante. Aya Wakizono ha poco da dimostrare nella parte di Galatea, che occupa i pochi minuti del duetto finale.

La scultura Uovo di Fontana collega iconograficamente questa seconda parte alla prima, ma la messa in scena è meno convincente e la regia non risolve il passaggio del personaggio femminile da statua a umano vivente e in questa ambientazione contemporanea, un’asettica camera d’albergo, le invocazioni agli dèi e a Venere suonano piuttosto incongrue.

L’italiana in Algeri


Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri

★★★☆☆

Amsterdam, Het Muziektheater, 13 gennaio 1995

(registrazione video)

Fo insiste con Rossini

Nella sterminata carriera teatrale di Dario Fo c’è stato posto anche per il teatro in musica con la messa in scena di L’histoire du soldat (1978) e di Pierino e il lupo (1992) mentre per quanto riguarda l’opera lirica vera e propria si ricordano le regie di Il barbiere di Siviglia (1986), L’Italiana in Algeri (1994), La Gazzetta (2001) e Il viaggio a Reims (2002). Solo Rossini quindi per Fo che lo ha ritenuto il compositore più affine al suo modo di far teatro, anche se c’è chi come Elvio Giudici che non apprezza il suo approccio: «Tradurre in scena lo scatenamento ritmico rossiniano sembrerebbe pane ideale per i denti aguzzi della mimica di Dario Fo, capace come nessuno di rivisitare i moduli teatrali antichi ristrutturandoli e ricomponendoli con modernità stupefacente. Ma Rossini è una brutta bestia per i registi. Quei ritmi che sembrano reiterarsi di continuo e sono invece sempre diversi, nutriti per giunta d’una sottile, quasi inavvertibile vena di languida di sensualità, costruiscono personaggi definiti non dalla situazione ma da quegli “accenti nascosti” sardonicamente indicati da Rossini quale meta espressiva ai propri interpreti. […] Mimi a profusione, dunque, vorticanti per ogni dove con in mano gli oggetti più disparati, ivi compresi e inutili e banalissimi cartelli con lacerti di testo. Gestualità a macchinetta nel tentativo (forse) di tradurre lo scatenamento ritmico rossiniano. Personaggi annegati nel profluvio di gente che passa, ripassa, piroetta, si maschera in varie forme zoomorfe e insomma rompe le scatole in sovrana e prosopopeica indifferenza alle vicende, ambiente o situazione sentimentale. Spettacoli di Fo musica di Rossini, insomma».

Non fa eccezione questa Italiana in Algeri che da Pesaro arriva al Muziektheater di Amsterdam, teatro che aveva già ospitato il suo Barbiere. A cominciare dagli animali in scena (uccelli vari, cammelli, leoni, scimmie, struzzi, zebre, giraffe…) cui si aggiungono giocolieri, saltimbanchi, acrobati, sbandieratori, trampolieri, ciclisti, mangiafuoco, giostre del saracino, marionette volanti, eunuchi, danzatori e danzatrici, colonne semoventi, per non parlare dei portatori di pali appuntiti di varie dimensioni… E tutto sul ritmo della musica con un senso di horror vacui che è accettabile solo per il sicuro senso del teatro di Fo e per il surreale umorismo della musica del pesarese. Scene e costumi, disegnati dallo stesso regista, costruiscono un mondo coloratissimo e folle (impagabile il trono-portantina di Mustafà di forma fallica) in cui la finzione teatrale è spesso messa allo scoperto: le onde da cui saltano i pesci sulle note puntate dell’ouverture si rivelano dei teli azzurri che, dopo essere agitati per rendere alla perfezione il moto ondoso di quel mare in cui naufraga il «vascello rotto ad uno scoglio e disalberato dalla burrasca», vengono ritirati ripiegandoli accuratamente.

Alberto Zedda sul podio garantisce sull’operazione a livello musicale con ritmi vivaci che diventano quasi forsennati nei concertati mettendo talora a disagio i cantanti, nella quasi totalità non italiani. Isabella è qui affidata ai modi manierati e alla voce che non conosce sensualità di Vesselina Kasarova, che dipana le agilità con meccanica freddezza. Non meglio l’Elvira di Elena Vink dal tono petulante. Il Mustafà di Peter Rose non strafà, è simpatico e vocalmente pregevole ma la dizione è quella che è. Non male il Taddeo di Jan Opalach, meno piacevole lo Haly di Eduardo Chama. Il meglio nel cast lo dà il Lindoro di William Matteuzzi che sfoggia con agio ed eleganza agilità, variazioni e puntature come se non ci fosse un domani. In alternativa alla cavatina «O come il cor di giubilo» presenta l’aria alternativa «Concedi amor pietoso», impegnativo pezzo musicale preceduto da una lunga introduzione al clarinetto.

Linda di Chamounix

Gaetano Donizetti, Linda di Chamounix

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 10 gennaio 2021

★★★☆☆

(diretta streaming)

Linda o il primo caso di musicoterapia

Nel libretto a stampa della Linda di Chamounix il nome della protagonista è all’ultimo posto, dopo quello della madre Maddalena, l’altro unico personaggio femminile di questo melodramma andato in scena il 19 maggio 1842 al Kärntertortheater di Vienna. Sì, Vienna perché dal 1838 Donizetti aveva praticamente lasciato l’Italia. Si era tsasferito a Parigi dove aveva scritto La fille du régiment (Opéra-Comique, febbraio 1840), Les martyrs (Opéra National, aprile 1840, versione francese del Poliuto che la censura napoletana gli aveva bloccato), La favorite (Opéra National, settembre 1840, riscrittura de L’ange de Nisida). Su raccomandazione di Rossini, il Metternich lo aveva poi invitato a Vienna dove avvenne appunto la prima dell’opera.

Nonostante abbia l’ultimo posto nell’elenco dei personaggi, la parte di Linda è sempre stata tra le favorite dalle prime donne del belcanto, dalla Eugenia Tadolini del debutto viennese, alla Fanny Tacchinardi che si fece scrivere la “tyrolienne” per la ripresa a Parigi sei mesi dopo, da Margherita Rinaldi a Lucia Aliberti a Mariella Devia, da Edita Gruberová a Diana Damrau. Jessica Pratt non poteva mancare all’appello: l’artista anglo-australiana, ora italiana di adozione e habituée del teatro fiorentino, l’aveva già cantata a Roma nel 2016 nella produzione del Liceu e ora è la protagonista di questa nuova edizione che inaugura la stagione 2021 del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, uno spettacolo registrato a porte chiuse e ora disponibile in streaming.

La Pratt è migliorata molto sul piano dell’espressività e della presenza scenica, le agilità sono sempre gloriosamente risolte e il fraseggio, se non la dizione, un esempio di stile. Qualche nota può non essere pulita ma gli acuti sono generalmente sicuri e precisi. Dopo averla spesso trovata un po’ gelida, ora sembra non compiacersi più troppo della mera tecnica vocale per cercare di dare una più convincente interpretazione della protagonista. Per quanto riguarda il Visconte Carlo, non è certo colpa di Francesco Demuro se il personaggio è del tutto insulso, ma il tenore sardo fa del suo meglio e si fa apprezzare per le belle mezze voci e le intenzioni espressive, così come per lo squillo luminoso. Delizioso Pierotto è quello di Teresa Iervolino mentre a Fabio Capitanucci tocca la parte più insopportabile, quella del Marchese di Boisfleury, disimpegnata con un certo distacco ch ela rende meno grottesca. Prefetto di lusso è quello di Michele Pertusi, come al solito autorevole, mentre chissà perché panzuto e decrepito molto più del dovuto l’Antonio di Vittorio Prato, che adatta con abilità la voce e il portamento alla scelta registica. Marina de Liso cerca di dare spessore alla inconsistente madre Maddalena. Conferma la buona impressione avuta al suo Il barbiere di Siviglia in questo stesso teatro pochi mesi fa e prima ancora in un altro Donizetti, L’elisir d’amore, a Torino, la direzione di Michele Gamba, che evidenzia le differenti atmosfere (le gelide montagne della Savoia, l’ambiente borghese della città) e le preziosità timbriche di una partitura destinata all’esigente pubblico viennese. «La tavolozza orchestrale è ricercatissima, le linee melodiche nobili anche quando di origine popolare. La musica si fa Koinè che affonda le radici nello spirito europeo del suo tempo» afferma il direttore. E non è da tutti poi saper ricreare in orchestra una ghironda con i suoi toni trasognati.

Come quello del fantastico, il genere dell’opera di demi-caractère non ha mai goduto di buona fama presso il pubblico al di qua delle Alpi, polarizzato da dramma romantico prima, realistico poi, e commedia più o meno buffa. Né aiuta, anzi mette in difficoltà il regista che lo mette in scena, come succede anche questa volta. La lettura di Cesare Lievi tenta la strada dell’ironia (lo sguardo obliquo di Demuro per le forme opime della Pratt…), ma si ferma a metà strada e lo spettacolo risulta piuttosto scialbo. Per di più le esigenze sanitarie della pandemia ci mettono del loro a complicare le cose portando a scene surreali come quella con cui inizia il terzo atto: i coristi impalati e distanziati con lo spartito in mano giubilano «Evviva, evviva […] facciamo un brindisi» in un’atmosfera che più lugubre non potrebbe essere mentre l’azione è demandata a figuranti che fingono di abbuffarsi con la mascherina sulla bocca. Peccato, perché la cura attoriale, soprattutto nel secondo atto, è evidente e anche i rimandi scenografici di Luigi Perego (che firma anche i costumi), con una contrapposizione non banale tra ambiente rurale e urbana, sono non spregevoli: una ferrosa paratia in lamiera chiude il cielo sia del villaggio rurale sia di quello parigino a sottolineare che la rivoluzione industriale è vicina e presto quei montanari scenderanno dai monti per entrare nelle fabbriche della pianura.

Così inizia la nuova gestione Pereira, con un titolo ai suoi tempi frequentatissimo, ora molto raro. Tutto sommato la Linda merita di tornare regolarmente nei cartelloni, anche soltanto per quel momento magico in cui tutto si risolve alle note di un tema cantato. Non esiste un’altra testimonianza più sincera del potere della musica e della sua funzione lenitiva. Ancora una volta dobbiamo ringraziare il buon Donizetti per avercelo ricordato.

Linda di Chamounix

Gaetano Donizetti, Linda di Chamounix

★★★★☆

Barcellona, Gran Teatre del Liceu, 20 dicembre 2011

(registrazione video)

«Pastrocchio melodrammatico di sesquipedale idiozia»

Il lapidario giudizio di Elvio Giudici è riferito a quello «squadernato dal second’atto: quattro duetti in fila in cui Linda si confronta con il bamboccione canterino, col giovane libertino ma non troppo e non fino in fondo, con il nobile malandrino, col babbo nobile ma ahimè tanto indisponente – e lei resta sempre uguale a sé stessa, innocente e pura oppure scema, dipende dalle personali reazioni», ma è facilmente estensibile a tutta l’opera. Il genere semi-serio o di mezzo-carattere non ha mai portato molta fortuna ai compositori italiani.

Eppure la musica della Linda di Chamounix è bellissima, a partire dall’esaltante duetto del primo atto il cui tema ritornerà come Leitmotiv per tutto il lavoro, uno dei più trascinanti duetti d’opera mai scritti. O il coro «O tu che regoli» che echeggia da vicino «Dal tuo stellato soglio», la preghiera del Mosè di Rossini. Ovunque nel corso dell’opera ci sono gemme melodiche e strumentali con cui Donizetti voleva fare colpo a Vienna, ma la drammaturgia del libretto era appena proponibile anche allora e ci si chiede se con quest’opera gli autori volessero farsi beffa del moralismo borghese. Se la Lucia manzoniana lasciava i «monti sorgenti dalle acque» per sfuggire al lubrico signorotto locale – gli anni sono quelli: nel 1840 era stata pubblicata la seconda e definitiva edizione del romanzo, nel 1841 Donizetti componeva l’opera –  lo stesso è per la Linda de La Grace de Dieu ou La nouvelle Franchon di Adolphe-Philippe d’Ennery e Gustave Lemoine che lascia i monti della Savoia per scappare alle sozze brame di «un indegno seduttor» per poi vivere nella città peccaminosa mantenuta dall’amato che crede pittore e che è invece visconte, ma non gli si cede per rimanere pura fino al sacro vincolo matrimoniale tanto agognato e non fare la fine della «buona figlia» della ballata di Pierotto.. 

Non sono frequenti le rappresentazioni di Linda di Chamounix anche per l’esigenza di un soprano e di un tenore di prim’ordine. Nel 2011 il Liceu du Barcellona fa il colpo grosso di ingaggiare due stelle del firmamento lirico. Della Linda di Diana Damrau si può parlate di un perfetto equilibrio raggiunto tra espressività e purezza della linea vocale. Delle perfette agilità non fa sfoggio vocale fine a sé stesso nella “tyrolienne” o nella scena della pazzia: tutta la parte dell’insopportabilmente ingenua fanciulla sembra sublimarsi nella tecnica e nella intensa presenza scenica del soprano tedesco e gli interminabili applausi che salutano la sua performance lo dimostrano.

Juan Diego Flórez da parte sua riesce quasi a rendere plausibile un personaggio insulso qual è quello del Visconte Carlo. Vocalmente è una prova magistrale quella che dipana sulla scena del Liceu, tutto un gioco di chiaroscuri e sfumature, fraseggio e filati di sogno, fiati e acuti luminosissimi accolti da un delirio di acclamazioni del pubblico. Flórez riuscirebbe a dare senso anche all’elenco del telefono, ci riesce anche stavolta con i versi di Gaetano Rossi. Vero è che a Carlo e a Linda Donizetti ha dedicato pagine di indicibile bellezza che hanno tra i vertici quello del loro duetto nel primo atto con quel tema che ti rimane appiccicato addosso anche quando esci dal teatro.

Il Marchese di Boisfleury, l’incongruo vilain che si esprime nei tipici sillabati rossiniani da basso buffo, è affidato a Bruno de Simone che riesce quasi a convincerci a voler tagliare la sua parte, quasi. Meno melenso del solito è il piacevole Pierotto della bravissima Silvia Tro Santafé. Molto efficaci Simón Orfila quale Prefetto e Pietro Spagnoli protoverdiano padre povero ma onorato.

Marco Armiliato alla guida dell’orchestra del teatro non sempre riesce a dare unità di intenzioni a questo ibrido pasticcio semiserio (semiscemo direbbe Mattioli) e manca la leggerezza di mano che si vorrebbe trovare in questa partitura strumentalmente molto curata da Donizetti. Non sempre l’equilibrio tra voci e orchestra è ottimale, ma tanto di più non si può dire data la qualità un po’ precaria di una captazione che non è mai stata oggetto di una registrazione commerciale.

La regia di Emilio Sagi è quasi inesistente, senza idee particolari: tutto è lasciato agli interpreti, ma solo la Damrau riesce a fornire una recitazione convincente, quasi tutti gli altri cantano e basta. Non aiutano certo le stilizzate scenografie di Daniel Bianco o i costumi di Pepa Ojanguren, troppo chic per un villaggio savoiardo di inizio secolo XX – lo slittamento temporale è evidenziato dall’entrata in scena del nobilastro seduttore su una splendida auto d’epoca. Ma che importa quando le orecchie sono deliziate dalle sublimi melodie del bergamasco in bocca a due fuoriclasse.

La cambiale di matrimonio

Gioachino Rossini, La cambiale di matrimonio

★★☆☆☆

Pesaro, Teatro Rossini, 8 agosot 2020

(diretta video)

La Cambiale dei due tenori

I festival estivi cercano di sopravvivere in tempo di coronavirus. Riducendo tutti il programma, qualcuno riducendo le opere stesse. A Pesaro il Rossini Opera Festival ha la fortuna di avere a disposizione dei lavori già originariamente brevi, ossia le farse in un atto del giovane pesarese, come La cambiale di matrimonio, appunto. Non il suo primo lavoro (che è Demetrio e Polibio), ma il primo a essere messo in scena, debuttando il 3 novembre 1810 al Teatro San Moisè di Venezia per supplire al ritiro di un altro lavoro in cartellone. Rossini aveva allora diciotto anni. Con questa prima opera nasceva l’immagine di un compositore «comico nella sostanza, drammatico negli accidenti» come scrive il Carli Ballola  che così descrive questo primo fecondo periodo creativo di Rossini: «Nelle farse veneziane Rossini ha trovato prontamente una formula sua e la cavalca allegramente come un giovane stallone focoso. Il demone o non piuttosto la furia creativa che nel giro di pochi mesi gli consentiranno di buttar giù i quattro atti unici per Venezia [La cambiale di matrimonio, L’inganno felice, La scala di seta, L’occasione fa il ladro], i due atti di un’opera buffa per Bologna [L’equivoco stravagante] e i due di un’opera-oratorio per Ferrara [Ciro in Babilonia] hanno del prodigioso, portano necessariamente allo sveltimento di una mano e al consolidamento di un formulario, elementi di supporto all’immancabile clinamen della pagina unica e memoranda».

La cambiale di matrimonio è l’unica nuova produzione rimasta nel cartellone del ROF, essendo le altre rimandate all’anno prossimo. L’atto unico è già passato sul palcoscenico pesarese, l’ultima volta nel 2006 con la direzione di Umberto Benedetti Michelangeli e la regia di Luigi Squarzina che ne firmava anche l’elegante impianto scenico. Qui sono due tenori a tenere a battesimo questa produzione che però fa rimpiangere quella. Alla direzione dell’Orchestra Rossini posta nella platea sgombera di poltrone – il pubblico è sistemato nei palchi – c’è Dmitrij Korčak, voce rossiniana qui impegnata a concertare gli interpreti in scena in modo accettabile ma con colori un po’ sbiaditi nel rendere la partitura. Alla regia c’è Laurence Dale, ex-tenore inglese, che costruisce uno spettacolo di tradizione senza una particolare chiave di lettura oscillante tra realismo e surrealismo, quando il grizzly che Mr. Slook si è portato dal Canada si rivela in cucina un raffinato confezionatore di torte nuziali a cui basta cambiare le statuine in cima per adattarle alla nuova coppia di sposi.

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Una facciata in stile georgiano si apre per rivelare gli ambienti interni della casa del ricco mercante Tobia Mill, commerciante di tessuti preziosi con cui sono confezionati il turbante e gli abiti suoi e della figlia Fannì, qui una sciantosa con lo strascico e le piume di struzzo in testa – d’accordo che il padre le aveva chiesto di indossare un vestito della festa, ma per stare in casa sembrano eccessivi. Nella scena del duello l’interno si trasforma in un paesaggio romantico con frasche uscite dalle quinte, nebbioline e luci radenti tali da rendere fantasmatico Slook che entra dicendo «Ma son risorto». Un po’ troppa roba per una semplice battuta.

Il cast è dominato da quella vecchia volpe di Carlo Lepore (Tobia Mill) che nei duetti ha facilmente la meglio per proiezione della voce ed espressività con lo Slook di Iurii Samoilov, giovane baritono ucraino di bella presenza – sembra Giuliano Gemma da giovane – e molto più attraente di Milford (e qui la regia manca l’occasione per rendere più intrigante la vicenda!) interpretato da Davide Giusti, interprete elegante ma un po’ stinto. «Vorrei spiegarvi il giubilo» è la pièce de résistance del soprano che interpreta Fannì,  una Giuliana Gianfaldoni che esibisce buona tecnica ma il timbro non è tra i più piacevoli.

Dopo Pesaro lo spettacolo parte per Muscat che l’ha coprodotto. L’atto unico era stato preceduto dalla cantata Giovanna d’Arco nella versione per orchestra con la voce di Marianna Pizzolato. Versione già eseguita al Festival Rossini in Wildbad nel 2011.

L’italiana in Algeri

Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri

★★★☆☆

Pesaro, Teatro Rossini, 10 agosto 2013

(registrazione video)

Barbarella in Algeri

Con Il barbiere di Siviglia e Cenerentola, L’italiana in Algeri forma una trilogia fondamentale quanto quella di Da Ponte/Mozart per il teatro in musica.

Anche se i librettisti sono diversi (Cesare Sterbini, Jacopo Ferretti e Angelo Anelli rispettivamente), gli anni di composizione sono compresi in un quadriennio come per Mozart e Rossini crea uno stile riconoscibilissimo che avrebbe rivoluzionato il concetto di opera buffa, dove la comicità dall’azione scenica passava alla musica. Elemento fondamentale è il concertato di fine atto: in quello mozartiano, capolavoro indiscusso quello del secondo atto de Le nozze di Figaro, la comicità è data dalle azioni dei protagonisti che si accumulano in una frenesia incontenibile e con un perfetto ritmo teatrale. Nei concertati rossiniani – «Mi par d’esser con la testa» finale primo del Barbiere, «Mi par d’essere sognando» finale primo de La cenerentola, «Nella testa ho un campanello» finale primo de L’italiana – l’azione è completamente sospesa e l’effetto esilarante deriva esclusivamente dalla musica con i suoi effetti ritmici e onomatopeici e l’irresistibile crescendo.

Le note puntate dei violini della celebre ouverture qui seguono i movimenti delle pompe che estraggono petrolio dal deserto nel video che accompagna la musica. Lindoro esce da un condotto in smoking bianco e pistola in mano come 007 e dopo vedremo Mustafà accarezzare un gatto come il capo della Spectre. I colpi d’arma da fuoco sono dei fumettistici “BANG” e l’italiana esce dai rottami dell’aereo a cui il Bey ha sparato.

Ecco in pochi tratti la cultura cinematografica e pop anni ’60 (Blake Edwards e la commedia ll’italiana) scelta da Davide Livermore per sua lettura de L’italiana in Algeri al Rossini Opera Festival del 2013, esattamente duecento anni dopo la prima veneziana al San Benedetto il 22 maggio 1813.

Le gag sono innumerabili, una generosità di trovate che da tempo è diventata una cifra stilistica del regista e che in questo caso alla “follia organizzata” del lavoro ha aggiunto la sua, ed è incontenibile. Alcuni esempi. Per servilismo c’è chi offre la mano come posacenere per Mustafà, ma questo sadicamente ci spegne pure i sigari che fuma in continuazione. Potrebbe finire lì, invece il/la malcapitato/a corre a immergerla in una caraffa d’acqua da cui però non riesce a tirarla via. Oppure, la babbiona “atterrata” assieme a Isabella anche lei è resa schiava e la vediamo passare l’aspirapolvere. Ma neanche questo basta: inavvertitamente aspira il pappagallo che prima aveva beccato, a turno, gli altri personaggi. Oppure ancora le pastiglie di Viagra trangugiate dal Bey e la “piccola disavventura” col revolver o le dosi di acido lisergico che sono all’origine dello stato confusionale generale, «Va sossopra il mio cervello». O le due sempre presenti hostess che traducono in una loro lingua dei segni le parole dell’aria di Lindoro. E tutto questo solo al primo atto. Non tutto è di buon gusto e ciò ha fatto storcere un po’ il naso al pubblico del ROF. Quello di Torino nel 1979 era stato ancora più insofferente con L’italiana in Algeri di Ugo Gregoretti, con lancio di monetine e fischi. Uno spettacolo dal quale, come i Rossini di Dario Fo, questo sembra essere la naturale evoluzione fino a una certa saturazione visiva.

Le scene di Nicolas Bovey consistono in una pedana rialzata e rotante con un elemento curvo che fa da schermo alle proiezioni in cui vediamo Lindoro pulire la piscina infestata da uno squalo, o che diventa un televisore durante l’aria «Pensa alla patria» con le rappresentazioni del boom economico, ma quando dovrebbero andare in onda «gli esempi di ardire e di valore» si perde l’immagine nonostante gli sforzi di Taddeo a orientare l’antenna. Se poi Haly canta «Le femmine d’Italia» davanti al sipario, questo rimanda le pagine delle riviste femminili del tempo. Come sempre negli spettacoli di Livermore l’aspetto visivo è estremamente curato. Così come i costumi, disegnati da quel genio di Gianluca Falaschi che dopo il bianco e nero del Ciro in Babilonia punta al technnicolor pescando nel pop anni ’60, tra Carnaby Street, Courrèges e Barbarella, Chanel e odalische del Crazy Horse con le nappine sui capezzoli. Un caso a parte di trionfo del trash il guardaroba di Mustafà, con tessuti stampati nei colori solari del nord’Africa e babbucce incrostate di gemme di plastica.

Quella di José Ramón Encinar alla guida dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna è una direzione tirata via e imprecisa in cui i concertati denunciano in più punti scollamenti tra scena e buca. Il cast vocale vede come interprete protagonista Anna Goriačëva, mezzosoprano di bel timbro ma carente nel registro basso, più a suo agio nella tessitura acuta. Niente da dire sulla sua avvenenza fisica generosamente esibita da Bond Girl, ma il personaggio non arriva a destare simpatia e resta una certa impressione di freddezza nonostante tutto l’impegno profuso. Lindoro è affidato a Yijie Shi, tenore dalla grande tecnica e dal timbro luminoso che lo fa svettare nei concertati, ma il tono è un po’ petulante. In Mustafà c’è Alex Esposito, istrionico animale da palcoscenico, ma di gran voce e ben utilizzata. Mariangela Sicilia delinea con stile e acuti ben piazzati un’Elvira qui quasi caricaturale a fianco della convincente Zulma di Raffaella Lupinacci. Haly elegante e sornione quello di Davide Luciano, mentre il Taddeo di Mario Cassi risulta vocalmente un po’ troppo leggero. Fra i tanti figuranti un irresistibile Sax Nicosia è un maldestro manicurista e svolazzante capo degli eunuchi in short rosa e vestaglia di seta.

Il crociato in Egitto

★★☆☆☆

Tra belcanto e quasi grand opéra

Ultimo dei sei melodrammi scritti da Meyerbeer nel suo periodo italiano, Il crociato in Egitto è quello che ebbe il maggior successo: una quarantina di allestimenti nei primi sedici anni. Ricavato da un mélodrame di Jean-Antoine-Marie Monperlier, Jean-Baptiste Dubois e Hyacinte Albertin, Les chevaliers de Malte ou L’ambassade à Alger, il libretto è di Gaetano Rossi, il librettista del Teatro La Fenice, dove l’opera andò in scena il 7 marzo 1824.

La complessa vicenda ha un antefatto che lo stesso librettista si premura di raccontare nella Protasi del libretto a stampa: «In una spedizione accaduta nella VI crociata [1228-29], sulle coste d’Egitto, sotto Damiata, un corpo di cavalieri di Rodi, comandato da Esmengardo di Beaumont, sorpreso, tradito, oppresso dal numero de’ nemici, dopo luminosi sforzi d’eroico valore tutto sul campo rimase; que’ prodi non cessero la vittoria che colle loro vite. Armando d’Orville, giovine cavalier di Provenza, iniziato, era fra que’ valorosi: il sangue perduto da una ferita l’avea tratto da’ sensi; rinvenuto alla vita, nel fosco di notte, altro non vide mezzo a salvarsi da infame schiavitù, che le armi vestirsi d’egizio estinto guerriero, e fra’ nemici confuso, attendere di fuggire il momento, e le forze, e i disegni intanto rilevar degli Egizi. Armando, sotto il nome d’Elmireno, ebbe occasione di segnalare il proprio valore, e la vita salvare d’Aladino sultano di Damiata. Il creduto giovine soldato di fortuna, il suo non comune valore, i gentili suoi modi interessarono l’animo del sultano: amico gli divenne, e nell’interno di sua famiglia l’ammise. Figlia del sultano era Palmide, fior di bellezza chiamata fra le egizie donzelle. Ella vide il supposto Elmireno, lo conobbe, e l’amò. Lontano dalla patria, quasi senza speranze di più ritornarvi, giovine, col cuore il più ardente, Armando obliò sé stesso, i suoi doveri, la fede promessa a Felicia, nobile fanciulla di Provenza, e all’amore di Palmide s’abbandonò. Segretamente de’ riti della di lui fede la istrusse, nodo segreto ad essa l’unì, e n’ebbero un figlio. Ma l’onore, la sua patria, i suoi falli, erano sempre al di lui cuore presenti, e funestavano la sua felicità. Aladino vedeva il reciproco loro affetto, e non attendeva che il ritorno da gloriosa campagna d’Elmireno onde unirli. I cavalieri di Rodi trattavano intanto del riscatto, del cambio di prigionieri, e pace anche offrivano, e una lor ambasciata era a Damiata rivolta. L’azione comincia all’arrivo dell’ambasciata».
Atto I. Un giardino nel palazzo del sultano Aladino di Damietta. Palmide, figlia del sultano, porta agli schiavi cristiani, impegnati in un duro lavoro, i doni di Elmireno, del quale è innamorata senza sapere che la sua vera identità è quella di Armando d’Orville. La giovane è presto raggiunta dal padre Aladino, che l’informa dell’imminente ritorno del vittorioso Elmireno. Squilli di tromba annunciano l’arrivo di una delegazione dei cavalieri di Rodi, che accende in tutti speranze di pace. Aladino annuncia a Palmide l’intenzione di darla in sposa a Elmireno, suscitando l’invidia del visir Osmino, innamorato della donna e desideroso di succedere ad Aladino sul trono, e al tempo stesso destando l’inquietudine di Palmide che, segretamente unita a Elmireno con rito cristiano, ha generato il figlio Mirva. Nei giardini del sultano, Elmireno raggiunge Palmide e Mirva: incalzato dagli eventi confessa a Palmide di essere cavaliere dell’ordine di Rodi e nipote del Grande Maestro Adriano di Montfort; inoltre, prima di incontrarla, era promesso sposo della nobile Felicia. La situazione incerta accresce l’agitazione dei due amanti, proprio mentre approdano navi europee nel porto di Damietta. Ne discende per prima Felicia, che reca l’offerta di pace dai cavalieri di Rodi e fra sé ricorda che proprio su quel suolo è perito il suo Armando. Questi incrocia in una spiaggia Adriano, che subito lo riconosce come il nipote dato per disperso. redarguendolo severamente per essersi alleato al nemico. Armando gli confida che non ama più Felicia, e immagina il dolore che arrecherebbe a Palmide se la abbandonasse; questo suo pensiero è però contrastato dal ricordo della madre, che lo richiama prepotentemente a casa. Nei giardini del sultano, Felicia incontra Palmide e apprende che Mirva è il frutto della sua unione con Armando; ella si appresta a dare il proprio definitivo addio all’amato e si nasconde quando lui entra per dire addio a Palmide. Nel palazzo di Aladino tutto è pronto per accogliere la delegazione di pace e per celebrare, insieme, le nozze di Elmireno e Palmide. Le bande militari delle due opposte fazioni sovrappongono musiche diverse, ma grande è il clamore soprattutto quando avanza Armando, vestito in abiti europei. Quando Aladino fa per avventarsi su di lui per pugnalarlo, s’interpone Felicia, suscitando in tutti confusione e costernazione. Serrate le fila, Aladino ordina che Armando venga imprigionato, mentre il clamore delle due bande sovrapposte sancisce sonoramente lo scontro in atto.
Atto II. A palazzo, il visir Osmino non riesce ad accettare che Palmide gli preferisca un cristiano e, scoperto di chi è figlio Mirva, trama per suscitare una rivolta nell’intero dominio del sultano. Di seguito Felicia esprime tutto il grande amore che, nonostante tutto, ancora la lega all’infedele Armando. Mentre Palmide ricorda gl’incontri amorosi con lo sposo nei giardini del palazzo, giunge Osmino, insieme al sultano, cui ha appena svelato l’esistenza del bambino. Aladino vuole uccidere Mirva, ma l’opposizione strenua della madre riesce a scuotergli l’animo; ordina quindi che Armando e Adriano siano condotti al proprio cospetto e restituisce loro la libertà, ma quando Adriano apprende della paternità di Armando, lo ripudia. In una spiaggia remota Osmino ed un gruppo di emiri spiano Armando, che supplica Palmide di fuggire con lui. Sopraggiungono Adriano e altri cavalieri e Palmide accetta di rendere pubblica la sua conversione al cristianesimo. Armando intona allora una preghiera, cui si uniscono via via gli altri cristiani, ma irrompe Aladino che, inferocito di fronte all’abiura della figlia, ordina che gli infedeli siano uccisi. Rimasto solo, Osmino medita ad alta voce sul piano già predisposto: armare i cavalieri cristiani in modo da deporre Aladino e conquistare il regno. Nel carcere, Adriano sprona i confratelli ad accettare eroicamente il destino: l’ora della morte si avvicina. Armando ha appena espresso il proprio amore per Palmide quando entrano Osmino e gli emiri, che offrono le spade ai cavalieri. Quando Aladino giunge per ordinare lo sterminio, Osmino gli si rivolta contro, ma i cristiani, invece di assecondarlo, si schierano a difesa del Sultano, su istigazione di Armando. Colpito da tanta generosità, Aladino libera i cristiani e approva le nozze fra Armando e Palmide, i quali partono per l’Europa insieme ai cavalieri.

Nella parte di Armando/Elmireno si esibì Giovanni Battista Velluti, l’ultimo dei castrati. In seguito, il ruolo fu affidato a interpreti femminili en travesti. Subito dopo la prima veneziana, Il crociato in Egitto fu rappresentato in altre città italiane e per alcune di queste rappresentazioni Meyerbeer compose pezzi nuovi, mentre per altre sezioni dell’opera procedette a sostituzioni, rielaborazioni e spostamenti. Il 25 settembre 1825 l’opera approdò al Théâtre Italien su invito di Rossini che ne era direttore artistico e la parte di Armando fu affidata a Giuditta Pasta, per la quale il compositore scrisse una nuova aria d’esordio. Fu questo suo successo nella capitale francese ad aprire a Meyerbeer le porte dell’Opéra.

Il crociato in Egitto viene un anno dopo la Semiramide di Rossini e come quella rappresenta una cerniera tra l’opera italiana belcantistica e il nuovo spirito romantico. Sia nel caso di Rossini che di Meyerbeer aprirà il periodo francese che culminerà nel silenzio per il compositore italiano, mentre per quello tedesco nel fragore del Grand Opéra.

Il lavoro di Meyerbeer richiede molto ai protagonisti: la vocalità è riccamente fiorita, tipicamente rossiniana, ma lascia presagire lo sviluppo di tipologie romantiche. Drammaticamente e musicalmente si tratta di un’opera estremamente complessa e l’orchestrazione è molto più ampia del solito. Anche la forma è spesso libera: la cabaletta di Palmide («Soave immagine in quel momento | a te sorridere il cor io sento») viene improvvisamente interrotta dall’arrivo del padre che ne riprende poi il tema in un duettino mentre nel finale primo sul palco sono presenti due bande distinte che si alternano in temi tipici delle due culture contrapposte.

«Per molti aspetti Il crociato guarda alle scene teatrali francesi e anticipa i caratteri che saranno, pochi anni più tardi, del grand opéra: così l’ampio tableau dell’introduzione, arricchita da una pantomima nella quale la musica descrive l’azione dei gruppi e delle singole persone; la scena della congiura; gli effetti orchestrali; l’impiego di gruppi corali contrapposti. In anticipo sui tempi è la proiezione dei conflitti privati su uno sfondo storico: il contrasto tra crociati ed egiziani, ad esempio, è vissuto come il confronto fra due culture e due religioni, ed è realizzato anche musicalmente con mezzi diversi (nel primo finale si fronteggiano, sul palcoscenico, due bande che impiegano strumenti e idiomi differenti, con un effetto oltremodo spettacolare). L’impianto generale dell’opera, tuttavia, è mediato dal melodramma rossiniano; a esso sono chiaramente riconducibili sia l’articolazione in ‘numeri’ chiusi, sia l’uso copioso della coloratura vocale. (Claudio Toscani)

Gaetano Rossi, autore anche del Tancredi e della Semiramide rossiniani, imbastisce una vicenda squinternata i cui personaggi sono in preda a sentimenti altalenanti in cui furori di vendetta si alternano senza logica a momenti di grande afflato affettivo. Un bel problema per gli interpreti che la mancanza di drammaturgia in questa produzione veneziana non fa che aggravare. Pier Luigi Pizzi opta per una mise en décor minimalista nelle scenografie – un drappo bianco con la parola Allah in arabo e la croce a otto punte, bianca su fondo nero, per i crociati a sintetizzare lo scontro di civiltà e di religioni – e nella regia, che è quasi nulla essendo la recita poco più che un’esecuzione oratoriale, a parte il roteare di scimitarre e le espressioni minacciose dei volti. Tutto il budget sembra sia stato destinato ai sontuosi costumi dei musulmani, per i quali si è saccheggiato il magazzino dei tessuti broccati di Rubelli.

Nella parte di Armando/Elmireno esordisce Michael Maniaci, un sopranista americano che dichiara di non utilizzare il falsetto, ma di possedere quel particolare registro acuto per una naturale conformazione fisica. Il timbro è piacevole, le agilità precise e lo stile appropriato, ovviamente il volume è quello che è e se anche con i microfoni della ripresa è evidente l’esilità, immagino che dal vivo la proiezione della voce fosse ancora più problematica. Non è un problema di volume invece per l’Aladin di Marco Vinco dalla presenza scenica un po’ rigida. Non memorabile l’Adriano di Monfort di Fernando Portari. La Palmide di Patrizia Ciofi è tra i personaggi meno improbabili della vicenda e il soprano toscano, a parte il poco piacevole colore della voce, affronta le difficoltà vocali con agio e intensa espressività, ma ancora più convincente è la Felicia di Laura Polverelli dalla bellissima linea di canto. Emmanuel Villaume fornisce una lettura corretta della partitura mentre il coro del teatro si disimpegna onorevolmente.

Il doppio disco della Dynamic non offre alcun extra se non i sottotitoli e due tracce sonore.

Semiramide

Gioachino Rossini, Semiramide

★★★★☆

Pesaro, Vitrifrigo Arena, 14 agosto 2019

(video streaming)

Edizione XL per la Semiramide (1)

Grazie anche alla presenza dell’Orchestra Sinfonica Nazionale, la RAI registra e trasmette la produzione ROF dell’opera monstre di Rossini, quattro ore di musica finalmente senza tagli. Un’opera con pochi recitativi e un flusso musicale quasi continuo che aveva fatto gridare al “germanismo” i critici del tempo.

Michele Mariotti porta a termine l’impresa con impegno encomiabile: la fatica e il caldo non gli impediscono di mettere in luce le straordinarie architetture di questo imponente e ambizioso lavoro con cui il compositore rendeva omaggio all’opera del passato e contemporaneamente guardava al futuro. Dopo Semiramide seguiranno le opere francesi e i rifacimenti – Il viaggio a Reims, Le siège de Corinthe, Moïse et Pharaon, Le Comte Ory, Guillaume Tell – e poi il lungo silenzio.

Il direttore pesarese espone la partitura in tutta la sua magnificenza musicale dopo averla presentata a Monaco di Baviera (che la scopriva per la prima volta) e anche qui conferma i pregi di una lettura che esalta il sinfonismo dell’opera – e non poteva essere diversamente con un’orchestra prettamente sinfonica – mettendone in luce le sottigliezze strumentali e gli intrecci tra musica e canto. Dinamiche e colori sono raffinati e sempre attenta la concertazione con i cantanti.

Semiramide è un’opera che richiede interpreti di eccezione e qui, anche se non stratosferici, sono di grande qualità e il cast omogeneo, cosa molto importante. Salome Jicia aveva già debuttato nel ruolo a Nancy e qui lo affina con una presenza scenica ancora più convincente. Vocalmente poi esibisce una tecnica ineccepibile e un timbro leggermente scuro perfetto per la parte. Anche Nahuel di Pierro proviene dalla stessa produzione dimostrando una notevole maturazione come Assur: con i suoi mezzi vocali non punta alla potenza ma all’espressività con un accurato fraseggio e una sensibilità che dà nuova luce al personaggio. Varduhi Abrahamyan, ottima attrice, è un Arsace sicuro nelle agilità e negli acuti. Efficace l’Oroe di Carlo Cigni e incantevole l’Azema di Martiniana Antoinie. Antonino Siragusa canta tutte le note, ma il timbro è quello che è.

Il coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno è impegnato anche scenicamente in un allestimento che suscita qualche perplessità nel pubblico. Non è tanto l’ambientazione moderna che colpisce nella produzione di Graham Vick, quanto la sua lettura: lo sguardo incombente di Nino e il trauma di Ninia privato dei genitori con l’immagine ricorrente e a diversa scala dell’orsacchiotto azzurro del bambino si affiancano alla confusione dei generi, essendo Arsace donna a tutti gli effetti e Semiramide non tanto regina quanto manager in pantaloni. A ciò si aggiungono i volti colorati come delle bandiere di tutti i personaggi non femminili, di significato non molto chiaro. Evidente è invece il contrasto tra il mondo criminale degli adulti e l’innocenza dell’infanzia rubata, ma chissà se è proprio questo il tema rilevante della tragedia di Voltaire riscritta da Rossi.

(1) Il 2019 è l’anno della quarantesima edizione del Rossini Opera Festival

L’italiana in Algeri

Gioachino Rossini, L’italiana in Algeri

★★★★★

Salisburgo, Haus für Mozart, 9 agosto 2018

(video streaming)

Tre uomini e una donna

Ma chi l’avrebbe mai detto che Gioachino Rossini ed Angelo Anelli sapessero che oltre due secoli dopo la loro L’italiana in Algeri sarebbe stata messa in scena da Moshe Leiser e Patrice Caurier? Non si spiega altrimenti come i tempi comici della sublime musica e gli arguti versi del libretto si possano adattare così a meraviglia al lavoro del duo registico e ai favolosi interpreti qui in scena a Salisburgo.

Interpreti concertati dalla mano nervosa di Jean-Christoph Spinosi a capo dell’Ensemble Matheus da lui fondato. Il direttore francese imprime tempi vertiginosi ma sempre perfettamente realizzati sia in buca dagli strumenti “antichi” sia in scena, salvo poi espandersi nei tempi rapinosi della cavatina di Isabella per esaltarne il languore. Efficaci anche dal punto di vista attoriale sono gli interventi del Philharmonia Chor Wien preparato da Walter Zeh.

Con Cecilia Bartoli non si sa se ammirare di più le capacità attoriali ed espressive nei recitativi o le agilità e le prodezze vocali nelle arie. Eccelsa stilista ed eccelsa attrice, passa dalla sensualità di «Per lui che adoro», alle fantasiose variazioni di «Qual piacer! Fra pochi istanti» alla comicità di «Ohi! che muso, che figura!» ai duetti assieme ad Alessandro Corbelli con perfetti tempi comici. La parte di Isabella è ideale per una voce che ha acquistato sfumature calde nel registro grave ma in quello acuto ha mantenuto inalterati i fuochi d’artificio della coloratura. Ancora una volta la sua è una lezione di canto rossiniano. Mustafa trucido e panzuto è quello di Il’dar Abdrazakov –  l’unico cambiamento rispetto all’edizione di Pentecoste (là era Peter Kálmán) – e sbalordisce come l’interprete di Filippo II, Attila e Boris Godunov riesca a rispondere così magistralmente alle agilità richieste da Rossini (e al ritmo travolgente di Spinosi) unitamente a un senso dell’umorismo e a un’autoironia ineguagliabili. La pienezza vocale, i fiati interminabili, la sonorità delle note basse, lo squillo degli acuti, il gusto nell’enunciazione della parola e la perfetta dizione si accompagnano a doti di eccelso attore comico che fa della voce, dell’espressione facciale e del corpo altrettanti mezzi espressivi. Alessandro Corbelli, un Taddeo mai grottesco né banalmente istrionico, non è solo la spalla perfetta della Isabella di Cecilia Bartoli, ma anche lo stilista dalla vocalità piena ed elegante che conoscevamo. Niente da dire sul Lindoro di Edgardo Rocha, più che adeguato, ma a lato di questi tre mostri sacri fatica ad emergere. Ottimi acuti per l’ironica Elvira di Rebeca Olvera ed eccellenti i comprimari, sia l’Haly di José Coca Loza che la Zulma di Rosa Bove.

Tutti si sono perfettamente adeguati al tono instaurato dai registi e reso palese fin dalla sinfonia, quando vediamo il talamo di Mustafa e della moglie Elvira la quale tenta inutilmente di risvegliare gli appetiti sessuali del marito, compresa una danza del ventre, per poi consolarsi con una scatola di loukum mentre il marito è più interessato ai suoi loschi affari come capo della malavita algerina. Infatti, scatole di elettodomestici di contrabbando o rubati entrano dalla finestra e transitano nella camera mentre il coro commenta dal quadro sopra il letto. Le scenografie di Christian Fenouillat costruiscono a colori vivaci la città di Algeri di oggi, con le parabole satellitari sui balconi delle case popolari mentre nell’aria si diffondono i richiami dei muezzin e sulle strade macchine scassate contendono il posto a pigri dromedari.

Ed è su un dromedario che arriva Isabella, una donna libera, emancipata, zaino sulle spalle, non ha timori di sorta: da quel momento sarà lei a dettar legge e manipolare i suoi uomini. Un bell’esemplare di femmina emancipata, di quelle «femmine d’Italia» che sono oggetto dell’aria di sorbetto di Haly, cantata davanti alla proiezione della scena del bagno nella fontana di Trevi da La dolce vita – anche se lì la femmina era svedese…

Un altro momento di comicità esilarante è il “quartetto del caffè” con Isabella immersa nella schiuma di una vasca da bagno a stuzzicare i tre uomini invaghiti di lei. Più tardi gli “schiavi italiani” sono i giocatori della Nazionale di calcio che appena liberati, ancora con le magliette azzurre, si abbuffano di spaghetti prima di vestire i panni del buffo coro dei kaimakan per imbarcarsi poi sulla nave da crociera che li riporta in patria. I costumi di Agostino Cavalca distinguono ironicamente i guardaroba delle diverse culture in gioco e arguta è l’idea di far vestire alla diva Bartoli un suo abito da concerto per il rondò del secondo atto!

Inutile riportare l’entusiasmo al calor bianco del pubblico che saluta con autentiche ovazioni le uscite di Bartoli, Abdrazakov e Corbelli.

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