Salvadore Cammarano

Roberto Devereux

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Roberto Devereux

Bergamo, Teatro Donizetti, 15 novembre 2024

★★★

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Tra letto e trono

Che si consideri una trilogia oppure no – ci sarebbe anche l’Elisabetta al castello di Kenilworth ma è un melodramma a lieto fine – quello dedicato alle regine Tudor costituisce un unicum nel corpus della settantina di melodrammi scritti dal compositore bergamasco. Roberto Devereux (1837) è comunque l’ultimo della serie iniziata con Anna Bolena nel 1830 e proseguita con Maria Stuarda nel 1835.

Come succederà nel Don Pasquale, anche Roberto Devereux è un’opera sulla l’inesorabilità del tempo: a dispetto del titolo, protagonista principale qui è Elisabetta, la regina che nel 1601, anno della morte del conte di Essex, aveva 67 anni. Sopravviverà ancora due anni prima di lasciare il trono a Giacomo I, come recitano gli ultimi due versi del libretto del Cammarano: «Non regno… non vivo… Escite… Lo voglio… | Dell’anglica terra sia Giacomo il re». Il senso della caducità degli uomini e delle cose è evidente nella storia della regina che ci viene mostrata vecchia e stanca nell’ultimo suo ciclo di vita a combattere inutilmente contro una rivale bella e giovane – quasi come la Marschallin del Rosenkavalier, che però non fa tagliare la testa al suo Octavian… 

Con la tradizionale ripartizione tra le quattro voci di soprano, mezzosoprano, tenore e baritono, la vicenda si avviluppa sulla passione senile della monarca per un 34enne innamorato invece della moglie del suo miglior amico. Il potere di sovrana e la vulnerabilità come donna formano un conflitto fonte di continui contrasti emotivi che fanno del personaggio della regina un banco di prova e di esibizione per le grandi personalità della lirica. Leila Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballé, Edita Gruberová, Mariella Devia: ognuna di loro ha fatto di Elisabetta il proprio rôle fétiche. 

Jessica Pratt ritorna al Donizetti Opera, arrivato alla decima edizione, dopo aver lasciato la sua personale impronta nella Rosmonda d’Inghilterra e ne Il castello di Kenilworth, rispettivamente nel 2016 e nel 2018. Definita da qualcuno l’Elektra del belcanto, Roberto Devereux dà agio alla prima donna di mostrare un temperamento scenico – l’analogo operistico della Bette Davis cinematografica! – e una tecnica vocale piegata a tutte le esigenze virtuosistiche del belcanto italiano. Il soprano australiano, al debutto nella parte, si dimostra sicuramente all’altezza esibendo una linea di canto dispiegata su un’ampia gamma. La Pratt in questa fase della sua carriera ha sviluppato una sfumatura di colore che ben si adatta a un ruolo scritto per un soprano d’agilità ma anche drammatico: il registro mediano è di grande proiezione e solidità, i legati e i filati sono sostenuti da fiati controllatissimi, i pianissimi eterei. Agli estremi della gamma non tutto funziona alla perfezione: le note gravi non sono il forte della cantante, qualche acuto non è di purezza cristallina e le variazioni sono caute, ma convincente è la definizione del personaggio nella sua tormentata umanità.

Nel Devereux Roberto, il conte di Essex, si dimostra estremamente improvvido, gestendo al peggio la relazione con le due donne – ma come si fa a regalare alla seconda l’anello avuto dalla prima o farsi scoprire con la sciarpa avuta dall’altra? – e ricambiando l’amicizia dell’unico che crede alla sua innocenza insidiandogli la moglie. Eppure, il tenore John Osborn riesce nel miracolo di renderci simpatico il personaggio non tanto per il suo particolare timbro, ma vestendo la sua presenza di note rese con sensibilità ed eleganza che raggiungono il culmine dell’empatia emotiva al terzo atto nella scena IV del carcere, «Io ti dirò, fra gli ultimi | singhiozzi, in braccio a morte», e in quella seguente «Bagnato il sen di lagrime, | tinto del sangue mio», qui però guastata da una pessima trovata registica di cui parleremo.

Il personaggio di Sara trova una validissima interprete nel mezzosoprano Raffaella Lupinacci impegnata in una tessitura molto alta che dopo la “belliniana” aria di sortita «All’afflitto è dolce il pianto…» affronta con sicurezza pagine via via più drammatiche, fino al violento duetto col marito, il duca di Nottingham, ruolo nobile in tutti i sensi a cui Simone Piazzola presta la sua bella voce e l’elegante espressività.

C’è un quinto personaggio nel Devereux: è lo Stato, rappresentato da Lord Cecil, da Sir Gualtiero Raleigh e dal coro, i quali fanno di tutto per sbarazzarsi dell’ambizioso Conte che minaccia il loro status quo. Il timbro luminoso di David Astorga dà insolito rilievo alla parte di Cecil, mentre per Raleigh è stato scelto un allievo della Bottega Donizetti, il giovane basso-baritono Ignas Melnikas. Ancora un basso, Fulvio Valenti, dà voce a Un famigliare di Nottingham e a Un cavaliere. Intonato e preciso si dimostra il coro dell’Accademia del Teatro alla Scala istruito da Salvo Sgrò.

Il bresciano Riccardo Frizza è figura di riferimento per il Donizetti Opera, è il suo Direttore Musicale e qui ha diretto innumerevoli titoli. La sua scelta è per l’edizione originale del Devereux, quella napoletana del 20 ottobre 1837, senza la sinfonia che cita l’inno inglese God Save the Queen – da pochi mesi sul trono d’Inghilterra era salita Victoria – aggiunta per la presentazione a Parigi del 27 dicembre 1838. Qualche differenza è anche nel duetto tra Elisabetta e Roberto, in questa prima versione più breve. La partitura del Devereux ha la raffinatezza dei lavori francesi che seguiranno, con una più attenta scelta degli strumenti per cui ne viene fuori un colore scuro che è proprio di quest’opera e che Frizza sottolinea fin dalle prime note che introducono il dramma in media res. Senza mai eccedere negli effetti, l’orchestra riesce a comunicare quel senso di dramma che rende questo un lavoro particolare, più moderno e a suo modo lontano dal modello di melodramma tradizionale del suo tempo.

La regia di Stephen Langridge è ricca di buone intenzioni quanto di cadute di gusto che rendono lo spettacolo complessivamente poco convincente. L’ambientazione utilizza una scenografia minimalista e costumi, entrambi disegnati da Katie Davenport, che suggeriscono l’epoca storica. Due praticabili semoventi formano le tribune dei Lordi (così nel libretto) o le pareti del castello dei duchi di Nottingham. Unici due pezzi d’arredamento sono un letto e un trono, entrambi rossi, rappresentanti simbolicamente l’intreccio di conflitti personali e di potere. Il tutto è incorniciato in un rettangolo luminoso la cui luce diventa abbagliante nei momenti clou dell’opera, praticamente tutte le arie. Un effetto gratuito e fastidioso, mentre puramente decorativo è l’espediente di proiettare i testi delle poesie di Essex, nella loro grafia originale, sulle pareti. Nella sua lettura il regista inglese introduce alcuni elementi disturbanti quali un burattino in scala reale di una Elisabetta scheletro, che a un certo punto si unisce sessualmente con un giovane alter-ego di Essex, e l’infantile “gioco dell’impiccato” mentre Roberto affronta l’aria più bella dell’opera, una caduta di gusto del tutto incomprensibile. Come poco comprensibile sia far apparire incinta Sara. Di chi poi? Boh.

Questi particolari non hanno impedito comunque allo spettacolo di suscitare gli entusiastici applausi del pubblico convinto dalle interpretazione dei cantanti e dalla direzione orchestrale.

La battaglia di Legnano

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, La battaglia di Legnano

Parma, Teatro Regio, 29 settembre 2024

★★★★☆

Cavalli di guerra

Nel viaggio a ritroso dei titoli verdiani del Festival di Parma, quest’anno all’insegna di “Potere e Politica”, si passa dal 1865 del Macbeth versione francese, al 1859 de Un ballo in maschera, al 1849 de La battaglia di Legnano, opera cerniera tra gli “anni di galera” e i lavori della maturità. 

Scritta nei momenti più roventi della storia del nostro paese – la rivoluzione siciliana del gennaio 1848, le Cinque Giornate di Milano a marzo, l’inizio della Prima guerra d’indipendenza, la Repubblica Romana del febbraio 1849 – La battaglia di Legnano è l’unica opera risorgimentale di Verdi, anche se istanze patriottarde gli verranno attribuite per alcuni momenti de Il trovatore (1853) o de Les vêpres siciliennes (1855), intenzioni probabilmente estranee al compositore il cui cognome comunque sembra fornisse l’acronimo per inneggiare a Vittorio Emanuele Re D’Italia sui muri delle case – se anche questa non è una leggenda costruita molti anni dopo l’unificazione del paese.

Il libretto del Cammarano riflette la temperie rivoluzionaria che si respirava in quel periodo e nel testo le invocazioni all’Italia – senza articolo, come si trattasse di una figura umana femminile – si sprecano: «Viva Italia forte ed una… la sacra Italia… il difensor d’Italia… il destino d’Italia son io… grande e libera Italia sarà… giuriam d’Italia por fine ai danni… salvi d’Italia, pietoso iddio, gli eroi più grandi chieggo per te… Italia risorge vestita di gloria… salvata Italia per questo sangue giuro… è salva Italia… io spiro»…

L’intreccio della grande Storia con la storia dei singoli qui ha un che di non convincente e il solito triangolo amoroso, dove il soprano sposato al baritono ama il tenore, si svolge in modo un po’ artificioso in parallelo a vicende epocali. Se già negli anni ’60 dell’Ottocento molte spinte ideali si erano esaurite e sorgevano i primi problemi di un’unificazione forse troppo affrettata, come possiamo accogliere noi oggi – che abbiamo visto la Lega (lombarda…) diventare un partito politico proclamatosi inizialmente secessionista! – entusiasmarci alle vicende dei comuni lombardi, uniti nel 1176 contro la minaccia dall’imperatore tedesco Federico Barbarossa, rilette in spirito risorgimentale? Ma soprattutto come possiamo accettare il concetto di nazionalismo che tanti danni avrebbe fatto negli anni seguenti, primo fra tutti i milioni di vittime della Grande Guerra e poi le dittature in Germania e Italia.

La regista Valentina Carrasco ha trovato una chiave di lettura dell’opera di Verdi pensando forse a uno spettacolo che prima a Broadway e poi nel West End londinese ebbe un successo enorme: War Horse, una pièce teatrale del 2007 tratta dall’omonimo romanzo di Michael Morpurgo e adattata per la scena da Nick Stafford. La storia di un giovane che ha cresciuto e addestrato personalmente un cavallo fino a che il rapporto tra i due è bruscamente interrotto dallo scoppio della prima guerra mondiale e il cavallo viene requisito dall’esercito. Per ritrovare il suo cavallo, il giovane non esiterà ad arruolarsi affrontando gli orrori della guerra. Lo spettacolo doveva buona parte del suo successo al sapiente utilizzo di modelli a grandezza naturale mossi da burattinai.

Qui nello spettacolo sono più prosaicamente dei cavalli (finti) su piattaforme fornite di ruote, che rappresentano le “vittime collaterali” e sono i simboli di quegli orrori che sono le guerre, tutte, anche quelle “giuste”, dove i loro corpi smembrati e insanguinati si mescolano con quelli dei caduti umani. Ad apertura di spettacolo vediamo le immagini degli occhi di un quadrupede e si fa quasi fatica a distinguerli da quelli umani. Rimarranno le poche immagini di uno spettacolo che fa del vuoto e del nero del palcoscenico il suo codice visivo. Non ci sono praticamente scenografie da ideare per Margherita Palli, che deve solo costruire gli stalli dei cavalli in cui viene rinchiuso Arrigo – il quale invece che precipitarsi dal verone della torre se ne esce comodamente dal cancelletto mal chiuso.

La scenografia qui la fanno le masse e i personaggi con i loro movimenti, splendidamente inquadrati dalle luci di Marco Filibeck che gioca con magnifici controluce – indimenticabile quello di Federico a cavallo come nella statua di Marco Aurelio. Silvia Aymonino nel disegno dei costumi pensa alle uniformi militari della Grande Guerra mentre per i lombardi riprende quelli storici dei portatori dei gonfaloni delle contrade di Legnano gentilmente prestati ad accogliere il pubblico all’ingresso del Teatro Regio. Unico elemento sullo sfondo l’apparizione dell’affresco del Cavalier d’Arpino, La battaglia di Tullio Ostilio contro i Veienti, nei Musei Capitolini, con il suo intrico di corpi umani ed equini e spade insanguinate.

A rendere coinvolgente la vicenda pensa la musica di Verdi che trova nella bacchetta del giovane Diego Ceretta il giusto equilibrio di slanci patriottici e momenti riflessivi presenti in partitura, con una lettura attenta e appassionata. Le voci in scena non fanno rimpiangere quelle di quando Gavazzeni alla Scala nel 1961 (centenario dell’Unità d’Italia) ripescava questo titolo negletto. Arrigo ha la voce generosa e luminosa di Antonio Poli, Marina Rebeka non manca certo di accento e temperamento nel delineare un’intensa Lida, Vladimir Stoyanov un Rolando autorevole ma vocalmente po’ affaticato. Breve ma decisiva la parte di Federico Barbarossa affidata alla sempre importante presenza scenica e vocale di Riccardo Fassi. Marcovaldo è il convincente Alessio Verna, mentre negli altri personaggi svettano le  fresche voci degli allievi dell’Accademia Verdiana: Emil Abdullaiev (Primo Console di Milano), Bo Yang (Secondo Console), Arlene Miatto Albeddas (Imedla), Anzor Pilla (Uno scudiero e Un araldo). Grande lavoro e ottimi risultati per il coro istruito da Gea Garatti Ansini.

Esiti calorosissimi per tutti, anche per la regista – non è dunque più il Regio di una volta, dove il loggione si faceva rumorosamente sentire quando la messa in scenausciva appena appena dalla tradizione… – con un unico isolato e del tutto incomprensibile buu per il maestro Ceretta. Un avversario in amore? Una mancata precedenza in auto? Chissà.

Lucie de Lammermoor

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Lucie de Lammermoor

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Bergamo, Teatro Sociale, 18 novembre 2023

Una Lucia a metà per ricordare le vittime di femminicidio

A poche ore dal ritrovamento del cadavere di Giulia Cecchetti, ennesimo femminicidio in Italia quest’anno, va in scena un’altra vicenda di violenza su una donna e Francesco Micheli, direttore del Festival Donizetti Opera, prima che il sipario si alzi su Lucie di Lammermoor, la versione francese del capolavoro donizettiano, sente il dovere di dedicare la rappresentazione a tutte le Giulie e le Lucie vittime della violenza maschile. Contemporaneamente però annuncia che l’interprete principale andrà in scena anche se indisposta. Purtroppo un altro annuncio alla ripresa della seconda parte conferma quello che si temeva: l’interprete prevista non è in grado di continuare e la sua voce viene sostituita da quella di un’altra cantante resasi disponibile nel frattempo.

Così funestata è dunque la ripresa di questa curiosità, non inedita peraltro in quanto nel 2002 aveva fatto epoca l’edizione dell’Opéra de Lyon diretta da Evelino Pidò di cui esistono fortunatamente ben tre diverse registrazioni: il CD Erato con Natalie Dessay e Roberto Alagna; il DVD Bel Air con Patrizia Ciofi e Alagna; la trasmissione video di Mezzo con Dessay e Sebastian Na.

Anche se Donizetti negli anni ’30 collezionava successi in patria, si apprestava a giocare la carta francese perché solo Parigi poteva ufficializzare il successo a livello internazionale. Sono di quegli anni dei soggetti che hanno qualche elemento transalpino: Parisina (1833), L’assedio di Calais (1836), Gianni di Parigi (1839). Anna Bolena era stata un successo al Théâtre-Italien nel 1831 e in questo teatro nel 1837 Lucia di Lammermoor era stata accolta con grande favore. Ma un’altra sala stava emergendo, il Théâtre de la Renaissance, che si era aggiunto agli altri tre grand théâtres della capitale – l’Opéra, l’Opéra-comique, il Théâtre-Italien appunto. Qui veniva messa in scena l’opéra de genre, una soluzione che non desse fastidio alle altre sale: non un grand-opéra dunque, non un opéra-comique con i suoi dialoghi parlati, ma nemmeno un’opera in lingua italiana, appannaggio del Théâtre-Italien. In questo sistema rigorosamente strutturato c’era spazio per un’opera italiana in traduzione francese, con i dialoghi cantati e un allestimento non troppo grandioso. 

Con il libretto affidato ad Alphonse Royer e Gustave Vaëz, Lucie de Lammermoor debutta al Théâtre de la Renaissance il 6 agosto 1839 con grande clamore. Una dimostrazione indiretta del favore riscosso dall’opera e della sua successiva popolarità è quella fornita da Gustave Flaubert nel capitolo XV della seconda parte della sua Madame Bovary dove narra del marito che accompagna Emma al teatro di Rouen per una recita della Lucie. Che si tratti proprio della versione francese ce lo rivelano alcuni particolari della recita vista con gli occhi della donna, moglie in crisi che si immedesima con il personaggio del titolo, tanto che «La voix de la chanteuse ne lui semblait être que le retentissement de sa conscience, et cette illusion qui la charmait quelque chose même de sa vie» (La voce della cantante le sembrava nient’altro che l’eco della sua coscienza, e l’illusione che la incantava qualcosa della sua stessa vita).

Rispetto alla versione originale, quella francese ha molte differenze, le principali essendo la soppressione del personaggio di Alisa assorbito da quello di Gilbert, che assimila anche la parte di Normanno, e il maggior ruolo di Sir Arthur. Manca qui l’assolo di arpa all’entrata della protagonista che invece di «Regnava nel silenzio» e «Quando rapito in estasi» canta le arie di Rosmonda d’Inghilterra diventate qui «Que n’avons nous des ailes» e «Toi par qui mon coeur rayonne». Viene soppressa anche la scena tra Lucia e Raimondo nel secondo atto e il terzo è rielaborato per ridurre il numero di cambi di scena. Donizetti non compone pressoché nulla di nuovo per Lucie de Lammermoor: quella che viene fuori è una versione «simplifiée» dell’originale italiano, un modo per rendere l’opera eseguibile con bassi costi d’allestimento e con una piccola compagnia. 

La soppressione di Alisa, l’unico altro personaggio femminile, ha il risultato di isolare ancor più il personaggio di Lucie in questo mondo tutto al maschile, tema su cui si è sviluppata la lettura del regista Jacopo Spirei. Fin dalla prima scena i cacciatori sono trasformati in “cacciatori di femmine”: quattro ragazze diventano le prede senza ritegno di un branco di maschi la cui brutalità segnerà tutto il corso dell’opera, fino al finale con un mucchio di cadaveri femminili e ambientato in un cimitero di automobili, non proprio le «tombes de mes aïeux, d’une famille éteinte»… La scena unica di Mario Tinti, una foresta dipinta, vale anche per gl’interni previsti dal libretto, mentre i costumi di Agnese Rabatti ci immergono nella contemporaneità. Poco è fatto dal regista per migliorare la presenza scenica dei cantanti e del coro, quello bravissimo dell’Accademia della Scala istruito da Salvo Sgrò, e alterna è la resa della direzione di Pierre Dumoussaud, con tempi lenti fin troppo allargati, e quelli veloci piuttosto disordinati. Incerta è l’intonazione dei corni dell’Orchestra Gli Originali, 47 elementi che nell’insieme danno un suono poco corposo e povero di colori.

Caterina Sala si è molto impegnata per questo debutto, ma un’indisposizione, che si sperava si risolvesse, non ha invece permesso al giovane soprano di terminare la sua performance: dopo la prima parte, portata avanti con evidente fatica, la cantante ha dovuto dare forfait e dopo l’intervallo è rimasta in scena per “mimare” la sua parte mentre veniva doppiata al leggio da Vittoriana De Amicis, che in così breve lasso di tempo ha generosamente permesso che anche la seconda parte dello spettacolo andasse in porto. La sostituzione ha fatto scoprire le buone qualità vocali di De Amicis che ha reso più che apprezzabile la resa della scena della pazzia, in questa versione accorciata rispetto all’originale, ma comunque irta di difficoltà affrontate e risolte con disinvoltura. Peccato solo che proprio nell’ultimo acuto ci sia stata un’imperfezione che ha così frenato il pubblico dall’esplodere in un’ovazione.

Se il soprano ha avuto dei problemi, non molto meglio è stato per il tenore: l’Edgard Ravenswood di Patrick Kabongo si è rivelato subito di voce sottile, poco proiettata e l’indubbia tecnica e l’ottima dizione non hanno salvato un’interpretazione deludente. Vocalmente non ha deluso invece Vito Priante, autorevole Henri Ashton, personaggio qui ancora meno accettabile anche se non si abbassa alle nefandezze dei suoi accoliti. Una piacevole sorpresa è l’Arthur Buckhaw di Julien Henric, tenore lionese dal timbro limpidissimo, bel fraseggio ed eleganza scenica, già apprezzato a Ginevra dove è stato membro dell’ensemble giovani del Grand Théâtre. Con lui si ha uno dei pochi casi in cui si rimpiange la repentina uscita di scena di Arthur! Eccellenti sono anche il personalissimo Gilbert doppiogiochista di David Astorga e il possente Raimond di Roberto Lorenzi. Non ci si può certo lamentare che manchino le belle voci maschili oggi.

Il trovatore

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Il trovatore

Parma, Teatro Regio, 24 settembre 2023

★★★☆☆

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Un Trovatore di luci e ombre al Festival Verdi di Parma

Dopo l’interruzione degli anni ’90, il Festival Verdi è stato reintrodotto nel 2001 in occasione delle celebrazioni del centenario della morte del compositore e da allora ha proposto cinque diverse produzioni de Il trovatore, l’ultima nel 2018 con la versione francese (Le trouvère) diretta da Roberto Abbado e con la regia di Bob Wilson. Mettere in scena quest’opera a Parma è una bella sfida: qui ognuno si sente il depositario dell’eredità di Verdi e poche produzioni sono uscite indenni dalle intemperanze del temuto loggione

Complice un budget ridotto che ha tarpato le ali al metteur en scène e le sostituzioni rispetto al cast inizialmente previsto, il dramma spagnolo di García Gutiérrez – «bellissimo, immaginoso e con situazioni potenti», scriveva il musicista a Cammarano, il librettista e seconda proposta del Festival Verdi 2023 – non ha convinto il pubblico, che ha sì applaudito ma non con l’entusiasmo con cui quest’opera così esaltante viene generalmente accolta, e ha suscitato anche qualche contestazione.

Nei consueti spazi del Teatro Regio, Francesco Ivan Ciampa dirige con passione ma attenzione verso i cantanti una delle partiture più trascinanti del teatro dell’Ottocento, un’opera fatta quasi tutta di numeri chiusi, la maggior parte forniti di cabaletta, un ritorno alla tradizione dopo l'”esperimento” del Rigoletto. Il trovatore è un’opera scura, notturna: «Allor mezzanotte appunto suonava», racconta Ferrando nella prima scena de “Il duello”, la prima delle quattro parti in cui è suddivisa l’opera; «Tacea la notte placida», canta Leonora nella seconda; «Tace la notte! Immersa | nel sonno, è certo la regal signora» dice il Conte di Luna nella terza; è notte quando il Conte e i suoi seguaci si apprestano a rapire la fanciulla nella scena terza de “La gitana”; è notte oscura all’inizio de “Il supplizio” nella torre del palazzo di Aliaferia (scena prima) e poi nell’«orrido carcere» (scena terza).

Bandita quella del sole, l’unica luce è il fuoco della tremolante lanterna di Leonora, della «perigliosa fiamma» paventata da Ines, della «terribil vampa» di Azucena, della pira evocata da Manrico, del rogo minacciato dal Conte («Come albeggi | la scure al figlio, ed alla madre il rogo!») passando per le braci raccontate da Ferrando. E la musica di Verdi è tutto un baluginare di lampi nell’oscurità che il Maestro Ciampa realizza con vivezza e con tempi che però talora possono mettere in difficoltà qualche strumentista dell’Orchestra del Comunale di Bologna. La sua lettura è trascinante, impetuosa, piena di contrasti, molto teatrale. Ciampa utilizza l’edizione critica di David Lawton che ripulisce la partitura di certe libertà “di tradizione” restituendone una versione più prossima all’originale.

S’è detto delle sostituzioni di ben tre cantanti (gli interpreti di Eleonora, del Conte di Luna e di Ferrando), cosa che non ha ben predisposto parte del pubblico che è sembrato prevenuto e pronto alla contestazione. Franco Vassallo, che ha sostituito l’inizialmente previsto Markus Werba, è ritornato nelle vesti del Conte dopo la versione francese vista qui al Teatro Farnese e ha confermato la grande proiezione vocale e l’intensità di espressione, a scapito talora dell’eleganza e nobiltà del personaggio, là con Bob Wilson più opportunamente stilizzato, qui leggermente sopra le righe. Però «Il balen del suo sorriso», vigorosamente intonato e con ben realizzati colori, è stato salutato da grandi applausi a scena aperta. Al posto di Eleonora Buratto, Francesca Dotto ha delineato una Leonora certamente corretta ma dalla voce un po’ sottile e poco timbrata. I momenti migliori sono risultati quelli più lirici dove legati e mezze voci hanno convinto comunque il pubblico, specialmente nell’aria «Tu vedrai che amore in terra» con cabaletta ripetuta, quando il regista isola l’azione e ne sottolinea l’aspetto melodrammatico accendendo le luci in platea e facendo scendere uno specchio incorniciato da un sipario drappeggiato, un effetto volutamente teatrale ma né originale né molto necessario. Terza sostituzione, stavolta di lusso, è quella di Ferrando: Marco Spotti, ammalatosi durante le prove, qui trova in Roberto Tagliavini un ammirevole sostituto che rende avvincente il lungo racconto iniziale.

Il trittico popolare di Verdi è centrato su tre figure di emarginati della società: la prostituta Violetta, il gobbo Rigoletto e l’«abietta zingara» Azucena, la quale nelle prime intenzioni dell’autore doveva dare il titolo all’opera. Si capisce quindi l’importanza della parte che alla prima romana del 1853 fu affidata a Emilia Goggi-Marcovaldi, grande cantante belliniana scomparsa precocemente all’età di 39 anni nel 1857. «Dopo quella della Malibran […] la più bella voce che ci sia occorso sentire» scriveva la Rivista musicale il 1 luglio 1840. Qui veste i panni della «fosca vegliarda» Clémentine Margaine, l’Amneris dell’Aida di Michieletto di Monaco, che è risultata l’interprete più apprezzata per la sua emissione sicura, il timbro particolare, il grande temperamento e l’equilibrio tra belcanto ed espressione drammatica. E infine Manrico, per interpretare il quale è stato chiamato il giovane Riccardo Massi, dotato di statura imponente e voce importante, ma l’interpretazione non convince, il tono è o stentoreo o lamentevole, l’articolazione della parola non incisiva, il fraseggio un po’ piatto e non bastano i do di «Di quella pira» a salvare una performance che non ha suscitato maggiori contestazioni solo perché queste si sono concentrate sul regista.

Davide Livermore è risultato troppo trasgressivo per una parte del pubblico, troppo tradizionale per l’altra! Sì, questo può succedere per una personalità come quella del regista torinese che ormai ha definito un suo stile che talvolta diventa stilema, come in questa produzione che non sembra comunque delle sue migliori. Abituato alle prime della Scala, il budget più contenuto del festival parmense ha un po’ compromesso la sua ispirazione, qui più sobria ma meno convincente del solito. Ambientato nell’ormai solito universo distopico di un paesaggio urbano devastato dalla guerra civile, i due mondi del Conte e Leonora e quello degli emarginati Manrico e Azucena sono nettamente distinti: grattacieli luccicanti formano quello dei nobili, un ambiente circense inquietante come il film Freaks quello degli zingari. La costumista Anna Verde disegna completi scuri e divise militari per il primo, sgargianti ma stracciati i costumi per i giocolieri e clown del secondo – tra i quali un mangiafuoco che aggiunge la sua dose di fiamme a quelle già previste dal libretto. Sul led wall del fondo si vedono le immagini digitalizzate della D-Wok: una gigantesca Luna, l’interno del tendone che prima si vedeva in lontananza nella periferia, un cavalcavia, un ponte in fiamme, l’interno di un ospedale allestito in una fabbrica abbandonata, l’esterno di un edificio carcerario, l’interno del carcere medesimo. E poi il cielo sempre minaccioso, con nubi nere come il fumo, pioggia di lapilli o cenere postnucleare, fiamme e magma incandescente. Nella scenografia di Giò Forma l’unico elemento reale è un imponente traliccio il cui utilizzo si rivela poco necessario ma il cui spostamento tra una scena e l’altra costringe a lunghi minuti di attesa a sipario abbassato che diluiscono la tensione e che aumentano di quasi mezz’ora la lunghezza dello spettacolo.

In definitiva si tratta di una lettura piuttosto tradizionale nella drammaturgia e nella gestione dei personaggi, che non guadagnano maggiore spessore psicologico nella attualizzazione, ma urta il pubblico per gli elementi contemporanei dei fucili, delle pistole, dei telefonini e delle sigarette, non tanto perché incongrui con l’ambientazione originale, ma perché diventati dei cliché di cui si può fare onestamente a meno.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

Milano, Teatro alla Scala, 13 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta televisiva)

Lisette Oropesa infiamma il pubblico della Scala

Con le trasmissioni video l’opera ha aggiunto la dimensione visiva a quella solo acustica dei dischi, in vinile o CD, a cui è stato confinato per parecchi decenni chi non poteva frequentare i teatri d’opera. Esserci di persona è un’altra cosa, è lapalissiano, ma è comunque già molto poter vedere lo spettacolo sullo schermo. Se poi si dispone di un impianto di riproduzione audio di alto livello la fruizione si avvicina abbastanza alla realtà.

Ahimè, non è il mio caso: il mio apparecchio televisivo denuncia i suoi anni e finché non passo a qualcosa di più sofisticato mi devo accontentare e adattare il mio udito al segnale sonoro che ricevo. Ecco quindi che per quanto riguarda l’ultima trasmissione televisiva offerta dal Teatro alla Scala, la Lucia di Lammermoor che doveva inaugurare la stagione lirica 2020-21 annullata per Covid, le impressioni devono fare i conti con le limitatezze del mezzo: equilibri e volumi sonori non sono quelli che avrei potuto ascoltare dal vivo e i miei altoparlanti evidenziano difetti che probabilmente in realtà non ci sono o al contrario smussano asperità che il pubblico in sala ha invece percepito. Tutto questo per mettere le mani avanti rispetto alla mia impressione sull’esecuzione musicale che mi è entrata in casa.

Meglio va per l’elemento visivo, anche se la regia televisiva talora migliora quello che si è visto dal vero, talora lo peggiora oppure ne fornisce una prospettiva diversa. Tre aspetti sono risultati comunque ben chiari in questa ultima Lucia alla Scala: l’apprezzamento del pubblico per la direzione musicale, il trionfo di almeno due degli interpreti vocali, i dissensi per la messa in scena.

Riccardo Chailly restituisce Lucia «alla purezza e all’identità donizettiana» con il ripristino di 33 battute e delle parti che troppo spesso vengono tagliate, soprattutto per quella di Raimondo che riacquista qui il suo giusto peso drammaturgico. Il Maestro si basa sulla edizione critica di Gabriele Dotto e Roger Parker della partitura utilizzata il 26 settembre 1835 al Teatro di San Carlo di Napoli e pone molta «attenzione alla continuità, cioè al filo armonico e drammatico» che lega le azioni dei personaggi, eseguendo senza interruzione le prime due parti, “La partenza” e “Il contratto nuziale I” prima dell’intervallo cui segue “Il contratto nuziale II”. Oltre all’utilizzo della glasharmonika per la scena della pazzia viene anche eliminata la cadenza del soprano col flauto, composta nel 1889 per Nellie Melba dalla sua maestra di canto, che quindi di Donizetti non ha nulla. 

Fin qui le intenzioni. Per quanto riguarda i risultati della sua lettura della partitura e la sua concertazione, la direzione di Chailly si è fatta ammirare per la incalzante continuità narrativa della fosca vicenda, la varietà delle dinamiche e dei colori, ma nello stesso tempo la cura per i dettagli strumentali. L’orchestra accompagna con partecipazione il duetto d’amore prima, l’inquietudine di Lucia poi, la convulsa scena del contratto di nozze, la tensione del grande concertato del secondo atto. L’atmosfera diventa violenta nella scena della torre dove la furia degli elementi sottolinea quella dei due uomini che si fronteggiano. Non è solo la glasharmonika a dare il tono spettrale alla pazzia di Lucia: i pizzicati degli archi, le volatine del flauto, le lunghe note di oboe e clarinetto, tutto converge a dipingere efficacemente la desolazione della donna e la sua conseguente follia omicida.

Autentiche ovazioni accolgono la performance di Lisette Oropesa. Un risultato sorprendente in un teatro che ha visto nel passato le ingombranti presenze di Maria Callas (1954), Joan Sutherland (1961), Renata Scotto (1967), Beverly Sills (1970), Luciana Serra (1983), Mariella Devia (1992) o June Anderson (1997). Elvio Giudici nel programma di sala analizza il ruolo che a Napoli e a Parigi fu della Fanny Tacchinardi Persiani per poi arrivare alle incisioni con la Pagliughi e Lily Pons, fino alle recenti Rancatore e Netrebko. Ora si inserisce a sorpresa quello appunto del soprano americano di cui si ammirano soprattutto la duttilità vocale e la presenza scenica. Vera interprete belcantista, non gioca solo magistralmente con piani e pianissimi, agilità fluide e leggere, acuti luminosissimi, ma riesce a delineare un personaggio drammaticamente consistente che da subito fa presagire l’instabilità mentale che la porterà alle estreme conseguenze dell’uxoricidio. Sentimenti quali il languore amoroso nei duetti con Edgardo o l’angoscia poi disperata, sono vissuti con grande sensibilità e forse un eccesso di vibrato dalla cantante che però ha dalla sua una bella freschezza vocale.

Secondo per intensità di applausi è il Raimondo di Michele Pertusi, personaggio che come già detto ha riacquistato la sua dimensione drammaturgica dando la possibilità al basso parmense di esibire le sue intatte doti vocali e interpretative sostenute da un’emissione potente ma morbida, da un fraseggio impeccabile, da un’espressione chiara e solenne tale da suscitare empatia verso un personaggio che ha invece i suoi lati ambigui. 

Sempre sul programma di sala Alberto Mattioli discetta del ruolo maschile dell’opera, l’Edgardo creato a Napoli da quel Gilbert-Louis Duprez che quattro anni prima aveva partecipato con scalpore alla inaugurazione a Lucca della prima italiana del Guillaume Tell rossiniano ma che diventerà il tenore preferito da Donizetti, il quale scriverà per lui ben sei opere – oltre alla Lucia, Parisina, Rosmonda d’Inghilterra, Les Martyrs, La favorite e Dom Sébastien. Qui alla Scala Chailly ha voluto Juan Diego Flórez che sconfina un poco in un repertorio non del tutto suo apportandovi però la sua classe. Nella ripresa televisiva non si nota la relativa mancanza di volume che qualcuno ha lamentato dal vivo, anzi. Unica pecca nella sua interpretazione è una presenza scenica poco efficace con una certa gesticolazione di maniera e un’espressività facciale poco fotogenica. Neanche Boris Pinkhasovič è un esempio di grande attorialità, vocalmente però è potente, elegante e il suo Enrico non ricorre a emissioni sforzate per sottolineare la crudeltà del personaggio. Efficace il coro e convincenti gli interpreti dei ruoli minori: Giorgio Misseri (Normanno), Leonardo Cortellazzi (Arturo) e Valentina Plužnikova (Alisa).

Sonori buu hanno salutato l’ingresso del regista Yannis Kokkos ai saluti finali: non è chiaro se perché la sua regia è stata considerata troppo tradizionalista o, all’opposto, perché ha scelto costumi moderni. In effetti gli abiti anni ’20 dei personaggi erano l’unico elemento imprevedibile di una messa in scena che poteva tranquillamente risalire a  cinquant’anni fa. La scenografia è scura e si avvale di pochi elementi didascalici come le statue di levrieri e cervi per la scena della caccia, di una donna velata come il Cristo della cappella Sansevero di Napoli per quella della fontana della Sirena, della Morte con la falce per il cimitero. Elementi scenici obliqui ricordano sia la produzione di Pier’ Alli del 1992 sia la recente Aida di Livermore mentre sulla scalinata ingombra degli invitati alla festa appare la figura di Lucia nella solita veste bianca macchiata, qui con moderazione, di sangue. Quasi totale la mancanza di regia attoriale e se ne esce comunque vincente la Oropesa, Flórez e Pinkhasovič ne risentono. Precisi ma prevedibili i movimenti del coro.

Nulla di particolarmente originale nella lettura di Kokkos dunque, ma neanche di fastidioso o fuorviante. Dalla Scala ci si aspetterebbe però qualcosa di più. Semplicemente quello che si può vedere appena al di là dei confini, come ad esempio la Lucia del Teatro Real di Madrid.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

New York, Metropolitan Opera House, 21 maggio 2022

★★★☆☆

(live streaming)

Al Met una Lucia splatter che piacerebbe a Quentin Tarantino

Il prezioso manoscritto della partitura della Lucia di Lammermoor andata in scena a Napoli nel 1835 e  custodito nella biblioteca Angelo Mai di Bergamo varca l’oceano la prima volta per essere esposto all’Istituto Italiano di Cultura di New York dove il 21 aprile è stata tenuta una tavola rotonda con la partecipazione di Riccardo Frizza che ha diretto al Metropolitan Opera House l’opera nella nuova produzione di Simon Stone, per la prima volta nel teatro americano, l’ultima delle centinaia rappresentazioni di questo titolo particolarmente frequente al Met. L’ultima delle repliche è stata trasmessa live nei cinema aderenti al progetto “The Met Live in HD”, ed è quella a cui si riferisce questa recensione.

Che la vicenda di Walter Scott abbia ultimamente abbandonato le originali brume della Scozia non fa notizia nei teatri che la mettono in scena in Europa, ma il Metropolitan di New York non si è sempre dimostrato molto aperto a una rivisitazione dei classici della lirica, preferendo regie tradizionali. Già i costumi Ottocento del precedente allestimento di Mary Zimmermann avevano fatto arricciare il naso ad alcuni spettatori, ma ora Simon Stone trasporta «Lucia, closeups of a cursed life» (Lucia, primi piani di una vita infelice) come si legge all’inizio, nella attualità di un desolato paese della Rust Belt. Ed ecco le dichiarazioni del regista: «La Lucia originale si svolge nella Scozia del XVIII secolo con la caduta dell’aristocrazia: è molto importante l’idea che la fine di quest’epoca gloriosa dell’aristocrazia scozzese abbia portato con sé ogni tipo di povertà e decadenza, utilizzando le donne per riconquistare un certo tipo di potere. Cerco sempre di ambientare ogni opera che faccio nel Paese in cui la metto in scena perché voglio parlare in qualche modo al pubblico che la guarda e in questo caso ho cercato di trovare un luogo in America che riflettesse un’epoca gloriosa passata e il posto più suggestivo che ci è venuto in mente è stata la Rust Belt», quell’area degli Stati Uniti dove il declino delle industrie ha lasciato spazio a declino economico e decadenza urbana.

La vicenda è dunque giustamente adattata: non è da un «impetuoso toro» che Lucia viene salvata, ma da un tentativo di rapina sventato da Edgardo, come vediamo durante il preludio; il racconto del fantasma della fontana, che è un impianto idroelettrico abbandonato, è l’omicidio di una giovane ragazza di colore; Edgardo, lavorante in un fast food, deve partire soldato; Enrico è un trafficante di droga e prostituzione i cui affari però vanno male; la lotta fra le casate è la lotta fra gruppi mafiosi; le lettere fra i due giovani sono i messaggi sui social; il «simulato foglio» è una fake news sul cellulare; la torre di Wolferang è un pick up parcheggiato davanti al supermercato e al banco dei pegni. E la scena dell’uccisione è in pieno stile splatter con Arturo ammazzato con un estintore. Ma non è niente in confronto a Lucia che sembra uscita da una doccia di sangue: nella gara a chi ne fa più uso, al momento questa la vince su tutte e l’horror confina col grottesco quando un esercito di zombie con le fattezze di Arturo salta fuori prima della cabaletta «Spargi d’amaro pianto». Prima ancora la festa di nozze era finita in una rissa tra gli invitati e a torte in faccia. Tutto ha una sua logica ma qui, più che altre volte, il contrasto fra le parole che ascoltiamo – il registro letterario dei versi di Cammarano – e le immagini di prosaica contemporaneità è insanabile. Ma c’è da dire che questo problema non riguarda gli spettatori americani che non conoscono l’italiano e hanno a disposizione dei sovratitoli con una traduzione molto libera del libretto.

La piattaforma rotante, di cui Stone è sempre stato un fedele utilizzatore e vero marchio di fabbrica degli allestimenti di oggi, è presente anche in questa scenografia di Lizzie Clachan: si passa quindi con continuità nei paesaggi degradati di motel, parcheggi, diner, cinema drive-in, squallidi cortili con le volgari decorazioni delle nozze. Su uno schermo in alto si vedono i primi piani degli interpreti ripresi da una onnipresente steady-cam, un’idea non originale e che funziona male nella trasmissione video in cui il regista insiste sui primi piani dei protagonisti e si perde l’incessante roteare della piattaforma.

Magnifica la concertazione di Riccardo Frizza, sempre rispettosa delle voci, con tempi giusti, con tutti i tagli di tradizione riaperti e l’uso della glasharmonika nella scena della pazzia. Nadine Sierra è una Lucia notevole per potenza vocale, agilità dipanate con maestria, variazioni nelle riprese e puntature fulminanti. Sempre in primo piano nella ripresa televisiva, si dimostra grande attrice ed è bravissima a non uscire dal personaggio durante gli interminabili applausi a scena aperta. Javier Camarena ha voce leggera e timbro chiaro che lo  connotano come l’innocente capitato in un mondo crudele. Inizialmente più Nemorino che Edgardo, prende quota nel corso della rappresentazione e negli acuti la voce esce fuori in tutta la sua potenza e drammaticità. Artur Ruciński è un Enrico trucido e vocalmente brutale, senza sfumature. Pieno di tatuaggi come un criminale o un affiliato della Yakuza, sniffa coca, si attacca alla bottiglia e ha sempre la sigaretta sulle labbra e il coltello in mano. Christian van Horn sostituisce Matthew Rose con grande autorevolezza nella parte di Raimondo. Ottimo come sempre l’apporto del coro.

Numerosi applausi a scena aperta, ovazioni e standing ovation finale ai quattro protagonisti principali. Qui al Met è importante dare al pubblico quello che si aspetta: immagini forti e acuti.

Luisa Miller

 

foto © Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

Giuseppe Verdi, Luisa Miller

★★★★★

Rome, Teatro dell’Opera, 6 février 2022

 Qui la versione italiana

Quand une œuvre sous-estimée se révèle être un chef-d’œuvre !

Verdi n’a jamais connu les joies de la famille, ses enfants étant morts à l’âge de deux ans, et sa femme peu après. Le thème de la relation père/fils-fille ressurgira sans cesse dans ses opéras, comme pour sublimer cette tragédie lointaine. On trouve dans Luisa Miller (Naples, 1849) une illustration de ces relations familiales douloureuses et conflictuelles.

Le livret de Salvadore Cammarano est basé sur un auteur qui a toujours été proche du cœur de Verdi, Friedrich Schiller, dont Giovanna d’Arco fut mise en musique en 1845 et I masnadieri en 1847. Schiller est l’auteur de Kabale und Liebe (Intrigue et amour, 1784), une « tragédie bourgeoise » et un exemple classique du Sturm und Drang, le mouvement culturel qui a anticipé le romantisme allemand…

la suite sur premiereloge-opera.com

Luisa Miller

 

foto © Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

Giuseppe Verdi, Luisa Miller

★★★★★

Roma, Teatro dell’Opera, 6 febbraio 2022

bandiera francese.jpg Ici la version française

Quando un’opera sottovalutata si riscopre un capolavoro

Verdi non conobbe mai le gioie della famiglia, essendo morti a due anni i figli, e la moglie poco tempo dopo. Il tema del rapporto padre/figli riaffiorerà continuamente nelle sue opere quasi a voler sublimare quella lontana tragedia. Anche in Luisa Miller (Napoli, 1849) c’è un conflitto di sofferte relazioni famigliari.

Il libretto di Salvadore Cammarano si rifà a un autore che è sempre stato nelle corde di Verdi, Friedrich Schiller, del quale aveva messo in musica Giovanna d’Arco nel 1845 e I masnadieri nel 1847. Qui Schiller è l’autore di Kabale und Liebe (Intrigo e amore, 1784), una “tragedia borghese” e classico esempio di Sturm und Drang, il movimento culturale che anticipava il Romanticismo tedesco. Gli elementi di esasperazione romantica ci sono tutti: l’amore di due giovani ostacolato dal Conte padre di lui che lo vorrebbe sposo a una duchessa; il padre di lei che finisce agli arresti per essersi ribellato alle prepotenze del Conte; il subdolo castellano che promette alla ragazza, della quale è invaghito, di liberare il padre a condizione che la giovane scriva una lettera in cui dichiari di aver raggirato il giovane e di amare il castellano; la lettera che finisce nelle mani del giovane il quale allora si rassegna alle nozze combinate dal padre per poi avvelenare la ragazza e sé stesso e scoprire troppo tardi gli inganni di cui i due giovani sono stati vittime. Se non altro andranno assieme nella tomba.

Luisa Miller è un’opera cerniera nella produzione verdiana: si lascia dietro i drammi “risorgimentali” per affrontare il dramma borghese, prelude a Stiffelio e passando per Rigoletto (di cui anticipa il rapporto padre/figlia) arriva dritto dritto alla Traviata, tutti esempi di un “teatro parlato” nettamente contrapposto al grand-opéra allora dominante. Ma non è solo nei contenuti narrativi che quest’opera di Verdi si stacca dalle precedenti: la vera novità sta nella musica, a iniziare dall’ampia la sinfonia – 356 battute, quasi cento in più di altre sinfonie più famose come quella de La forza del destino – sviluppata in forma sonata monotematica. Un pezzo strumentale che acquista una sua autonomia rispetto all’opera, ma nel contempo ne traccia il percorso drammatico che sarà svelato allo spettatore con quel tema che riapparirà in vari momenti trasformato nel tono e nel ritmo, ma chiaramente percepibile. La musica della Miller è sfumata e cangiante nella tinta e i personaggi definiti con efficacia anche a livello strumentale: il cattivo della situazione, quel Wurm di nome e di fatto (in tedesco il suo nome significa verme), è accompagnato da figurazioni cromatiche negli strumenti bassi che sembrano sottolineare la strisciante malvagità del personaggio, mentre Luisa è spesso accompagnata dal suono struggente del clarinetto.

Tutto questo è ben chiaro a Michele Mariotti, il nuovo direttore principale del Teatro dell’Opera, che debutta nella buca d’orchestra del Costanzi dando della Luisa Miller una lettura che conferma il ruolo di capolavoro di quest’opera un tempo sottovalutata. La trasparenza della strumentazione – che meraviglia i legni sotto il coro iniziale! – e la tensione drammatica sono i punti forti di una concertazione che esalta le qualità della scrittura verdiana. La continuità drammatica diventa ancora più evidente nel terzo atto, costruito in modo unitario e con il successivo ingresso dei personaggi in un crescendo implacabile realizzato da Mariotti con grande sensibilità e senso del teatro.

Senza punti di debolezza sono gli interpreti che formano un cast quasi ideale, a iniziare dalla protagonista, una sensibile e intensa Roberta Mantegna per la quale la parabola esistenziale di Luisa tocca i vertici vocali sia nei momenti solistici – e quanta trepidazione in quel «Lo vidi e ‘l primo palpito» della cavatina dell’atto primo – sia negli ensemble. La sua linea vocale è di grande nitidezza e si fonde a meraviglia con il timbro chiaro e luminoso di Antonio Poli, un Rodolfo in stato di grazia che incanta in quella che è una delle più belle melodie verdiane, «Quando le sere al placido», con quel sottofondo cullante del clarinetto (ancora questo strumento…), in cui sfoggia mezze voci, colori e scoppi di disperazione. Poli affronta con efficacia anche l’aspetto eroico nella travolgente cabaletta durante il confronto col padre che conclude il secondo atto e si dimostra a suo agio nell’impervia tessitura delle sue frasi che si inerpicano ogni volta più in alto nel pentagramma.

Di padri nella Luisa Miller ce ne sono due, accomunati entrambi dal desiderio di volere il bene dei figli, un desiderio che in maniera diversa li conduce invece alla distruzione. Michele Pertusi è l’inflessibile Conte di Walter, che arriva a usare l’inganno (la Kabale del titolo) esattamente come il fratello di Lucia di Lammermoor, per arrivare a un matrimonio di interesse. Il basso parmense non cerca di rendere meno odioso il suo personaggio, impresa impossibile, ma la sua ultima lapidaria battuta alla vista del cadavere di Luisa («Spenta!») condensa l’alterigia del conte con un po’ di rimorso, come succede per i vecchi Capuleti e Montecchi alla fine di Giulietta e Romeo. Come sempre Pertusi stupisce per l’attenzione al fraseggio e alla espressione, qui particolarmente asciutta e con voce sicura. Amartuvshin Enkhbat è l’altro padre, Miller, dove pietà paterna e onore del vecchio militare si uniscono in un commovente personaggio cui dà voce – una voce che riempie letteralmente il teatro col suo volume – il baritono che sta ridisegnando i ruoli verdiani con grandi risultati. Se ancora manca qualcosa in termini di espressività e presenza scenca, non si può non essere meravigliati dal bellissimo timbro e dalla impeccabile dizione. Daniela Barcellona è un’interprete di grande eleganza e autorevolezza vocale e delinea una Duchessa Federica difficile da dimenticare. Marco Spotti risolve con efficacia il truce personaggio di Wurm, uno Jago ancora più efferato, se possibile. I due giovani cantanti usciti dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma non sfigurano a fianco di tali stelle del canto, soprattutto Irene Savigliano che si è fatta notare come Laura per la qualità del mezzo vocale e dell’espressione. L’altro è Rodrigo Ortiz nella più breve parte del contadino che porta la lettera di Luisa a Rodolfo. Ottima prova, sotto la competente guida di Roberto Gabbiani, quella del coro.

A causa della pandemia nel maggio scorso Luisa Miller era stata eseguita in forma di concerto con buona parte degli attuali interpreti a porte chiuse e trasmessa in streaming. Ora riceve finalmente una veste scenica con la produzione che Damiano Michieletto aveva approntato per l’Opernhaus di Zurigo dodici anni fa. Il Costanzi diventa così il teatro italiano più frequentato dal regista veneziano dopo, ovviamente, La Fenice. La ripresa della regia è affidata ad Andrea Bernard e poche ma significative sono le modifiche rispetto all’originale: mancano le proiezioni sulle pareti, c’è un plafond con lucernario dove prima c’era il vuoto e, soprattutto, i costumi ora non sono più settecenteschi bensì novecenteschi per adattarsi meglio alla psicologia del personaggi: così è per gli eleganti tailleur della Duchessa, i vestitini di cotone stampato di Luisa, il cappottone nero di Wurm, tutti disegnati come sempre magistralmente da Carla Teti. L’importante gioco luci è firmato da Alessandro Carletti, un altro dei componenti del magic team di Michieletto. I personaggi si muovono in maniera simmetrica sulla scena, l’unico è Wurm, che si sposta obliquamente e più liberamente, come la Regina degli scacchi, per tessere le sue trame.

Motivi settecenteschi si trovano nella scenografia, come al solito sorprendente, di Paolo Fantin. Luisa Miller non tratta solo di conflitti generazionali, qui si scontrano anche due classi sociali – di qua una famiglia borghese, di là una nobile – e due concezioni inconciliabili – di qua pia religiosità, di là ambizione e frode – e l’ambiente che vediamo ad apertura di sipario riflette proprio questo contrasto. È un vasto interno, specularmente raddoppiato: in basso i muri scrostati e le rustiche sedie dei Miller, in alto le boiserie e le poltroncine di damasco del Conte. Al centro del palcoscenico una pedana ruotante con due letti e due tavoli accentua la simmetria dei rapporti. Col tempo i pavimenti di questi piccoli ambienti si sollevano e si richiudono a formare un cubo impenetrabile. Non ci sono esterni, anche quando le porte si spalancano danno sul buio, tutto avviene in un interno opprimente che di volta in volta è visto come l’abitazione borghese dei Miller o come il castello del Conte.

Anche per Michieletto il rapporto dei padri con i figli è un tema di grande rivelanza che ha spesso affrontato nelle sue messe in scene (Il flauto magico, Guillaume Tell, Macbeth…). Qui introduce due bambini in scena che rappresentano il passato di Rodolfo e Luisa, due bambini ignari delle differenze di classe, con i loro giocattoli, mentre si nascondono sotto i tavoli dei grandi, l’unico elemento sereno in una vicenda per lo più cupa. E con l’immagine dei due bambini che si prendono a cuscinate sul letto del cubo che ora si è aperto mentre i loro doppi adulti muoiono, si chiude uno spettacolo molto intenso, magnificamente realizzato e che è stato seguito con grande attenzione dai giovani che hanno affollato il teatro nella anteprima a loro riservata.

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★☆☆☆

Zurigo, Opernhaus, 20 giugno 2021

(video streaming)

La noia del teatro di regia

«L’avvenimento ha luogo in Iscozia, parte nel Castello di Ravenswood, parte nella rovinata torre di Wolferag. L’epoca rimonta al declinare del secolo XVI». Così indica il libretto del dramma tragico in tre atti di Salvatore Cammarano, ma nella messa in scena alla Opernhaus di Zurigo la Scozia è solo nel kilt di alcuni maschi e l’epoca è spostata nei soliti anni ’40 del secolo scorso – non una grande novità inverità.

Zeppo dei soliti clichet del teatro di regia è quello di Tatjana Gürbaca: ralenti, personaggi immobilizzati nei momenti di tensione, figuranti ingombranti, alter-ego infantili dei protagonisti, rapporti sessuali mimati, quantità industriale di sangue e coltellate nella scena dell’omicidio del novello sposo, scena che nel libretto è solo raccontata mentre qui è rappresentata esplicitamente, graphically direbbero gli americani. Nella drammaturgia di Beate Breidenbach vediamo Lucia e il fratello bambini giocare innocentemente, forse a evidenziare i tesi e talora ambigui rapporti da adulti. Fatto sta che qui Enrico alla fine si impicca. Il racconto di quando Lucia viene salvata da «impetuoso toro» dalla freccia di Edgardo, anche lui bambino, qui è visivamente rappresentato come un incubo della ragazza, incubo che ritorna la prima notte delle nozze con lo sfortunato Arturo.

La scenografia di Klaus Grünberg, che cura anche le luci, consiste in una struttura rotante che mostra praticamente sempre la stessa stanza, con tristi pannellature. Un letto perde nel corso della serata il materasso e nel finale diventa la tomba della protagonista. Le pareti col tempo si coprono di vegetazione per poi ridursi alla sola struttura. L’andirivieni dei personaggi da una all’altra si rivela incoerente e privo di necessità drammaturgica, così come la presenza del fantasma della madre (?) che suona un’arpa o il personaggio maschile a torso nudo e il minaccioso bucranio. Il tutto pare uno svogliato inserimento di psicologismo a buon mercato in una produzione di livello piuttosto mediocre.

Per di più le misure adattate dal teatro per la pandemia, ossia orchestra e coro a distanza (misure che hanno mirabilmente caratterizzato il Boris Godunov di Kosky), qui non funzionano: la direzione di Speranza Scappucci alla guida della Philharmonia Zürich è spesso frettolosa, con i tagli di cattiva tradizione e variazioni rispetto alla partitura – la scena della pazzia è trasposta in mi bemolle invece dell’originale Fa maggiore, il duetto maschile del secondo atto è abbassato di un tono rispetto all’originale La, altri aggiustamenti sono disseminati qua e là. L’intesa coi cantanti talora è precaria, così come gli interventi del coro, che rimane sonoramente distante, qui supplito da una folla di figuranti.

Nella parte del titolo Irina Lungu sostituisce la prevista Lisette Oropesa, che ha cancellato il suo impegno e la cui presenza sembra rimandata per la ripresa della produzione l’anno prossimo. Il soprano russo arriva stanco alla fine della scena della pazzia e l’acuto finale è un grido un po’ scomposto. Le agilità non sono sempre fluide e il vibrato piuttosto largo, ma il temperamento compensa una performance sostanzialmente accettabile – il che è però un po’ poco per un ruolo monstre come questo e per una produzione tanto attesa. Al suo fianco c’è Piotr Beczała, il più festeggiato dai pochi spettatori ammessi (sono pochi, ma non risparmiano i buu alla regia). Il tenore polacco, che ha cantato la parte innumerevoli volte, spiega un canto vocalmente generoso, ma sarà interessante sentire invece Benjamin Bernheim che prenderà il suo posto come Edgardo nella ripresa di primavera. Piuttosto rozzo e dal vibrato traballante è l’Enrico Ashton di Massimo Cavalletti, mentre quasi imbarazzante il Raimondo Bidebent di Oleg Tsibulko, un basso senza le note basse – e neanche le alte. Meglio i personaggi secondari di Alisa (Roswitha Christina Müller), Normanno (Iain Milne) e Andrew Owens (Arturo Bucklaw).

Lucia di Lammermoor

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Amburgo, Staatsoper, 20 marzo 2021

(video streaming)

L’incubo maschilista di Lucia

Non è la prima regia femminile per Lucia di Lammermoor: la tragica vicenda della disgraziata giovane, vittima dell’universo maschile che la circonda, ha già destato l’interesse, tra le altre, di Katie Mitchell. Ora Amélie Niermeyer, che a Vienna aveva urtato il pubblico con la sua Leonore, a Berlino non rinuncia a una lettura femminista del lavoro donizettiano.

La Lucia della Niermeyer non è una romantica eroina ottocentesca, è una ragazza di oggi, ben decisa, che non sviene – «Ella sta fra morte e vita!…» dice il libretto, ma qui invece sfida apertamente il fratello che le impone il matrimonio gettando per terra il manichino con l’abito da sposa – e non muore per amore: nella drammaturgia di Rainer Karlitschek scopriamo (spoiler alert!) che alla fine è viva ma è tenuta prigioniera nella sua camera e che il suo funerale è una messa in scena per far crollare il detestato Edgardo di Ravenswood. Prima e durante lo spettacolo (talora poco opportunamente) vengono proiettate le immagini di un gruppo di femministe che danzano per strada, o meglio eseguono dei gesti che anche Lucia ripete cantando

La scenografia di Christian Schmidt mostra un interno diviso in quattro ambienti su due piani distinti da colori e luci differenti montati su un piano scorrevole che può aumentare o diminuire l’ampiezza degli ambienti fino a nascondere alla nostra vista gli ambienti di destra, tra cui la camera di Lucia al primo piano. E infatti nel finale, mentre vediamo il finto funerale e il suicidio di Edgardo a sinistra, piano piano ci viene mostrata Lucia imbavagliata e legata al letto con un suggestivo effetto cinematografico. Molte belle ed efficaci sono le luci di Bernd Purkrabek, ma la regia è anche attenta alla musica, come durante le battute introduttive alla stretta «La pietade in suo favore», momento spesso imbarazzante in cui il baritono non sa che fare in attesa della sua battuta, e qui Enrico è alla ricerca di un accendino per la sua sigaretta. Subito dopo l’introduzione con arpa, che permetterebbe il cambiamento di scena, qui accompagna solo la transizione luminosa che suggerisce l’imbrunire nel parco e la “fonte” è un pianoforte verticale su cui suona la confidente/carceriera Alisa. Più psicologicamente intenzionali sono alcuni momenti come quello di «Verranno a te sull’aure», con i due giovani già irrimediabilmente separati. La puntatura finale del duetto sembra suggellare l’incolmabile distanza invece che esaltare il loro sentimento.

Alla guida dell’orchestra del teatro, talora manchevole soprattutto nei fiati, Giampaolo Bisanti dà una lettura drammatica e chiaroscurale e per la scena della pazzia di Lucia reintroduce il suono sidereo della glasharmonica, qui dei veri e proprio bicchieri di vetro suonati da un virtuoso, credo Sascha Reckert, ma il suo nome non viene citato nei credits.

Purtroppo i recitativi sono spesso accorciati ed è tagliata, secondo una infausta consuetudine dura a morire, la scena Edgardo-Enrico (seconda e terza de “Il contratto nuziale II”). È ripristinata invece la scena Lucia-Raimondo (terza de “Il contratto nuziale I”) che ridà importanza drammaturgica al personaggio del confidente con il quale si completa il ritratto degli uomini che opprimono la ragazza – lui con la scusa della religione, «Al ben de’ tuoi qual vittima | offri Lucia, te stessa; | e tanto sacrifizio | scritto nel ciel sarà». Il problema del distanziamento per i coristi è risolto anche qui con il coro fuori scena e con figuranti e mimi mascherati sul palcoscenico, soluzione riuscita dal punto di vista teatrale, un po’ meno da quello dell’equilibrio sonoro.

Ritorna nella parte che aveva portato a Monaco tre anni fa il soprano russo Venera Gimadieva, cantante non esaltante dal punto di vista espressivo, da un buon registro acuto facilitato però da un abbassamento di tono in questa versione. Ma non c’è alcun feeling con il suo Edgardo, qui un Francesco Demuro che non fa molto per corrisponderle: stentoreo e testosteronico il tenore italiano neanche cerca di interpretare, ma si accontenta di porgere le note, e non sempre in modo ineccepibile. Altra classe è quella di Christoph Pohl, un Enrico Ashton combattuto tra l’amore per la sorella e quello che significa un suo matrimonio per la salvezza del casato. La scelta però è quella implacabile del sacrifico della ragazza e il finale a sorpresa lo rende ancora più crudele. Alexander Roslavets è efficace nella ipocrisia di Raimondo che la regista fa incongruamente esultare quando lui riesce a ottenere dalla ragazza un primo assenso alle nozze. Ancora più viscido del solito è il personaggio di Normanno affidato qui a Daniel Kluge. Beomjin Kim è lo sventurato Arturo Bucklaw.