Mese: marzo 2017

SLOVENSKÉ NÁRODNÉ DIVADLO

Slovenské Národné Divadlo

Bratislava (1886)

1000 posti

Situato in una piazza centrale della capitale slovacca, il Teatro Nazionale fu costruito in stile Neo-Rinascimentale sotto la dominazione austro-ungarica dagli architetti viennesi Fellner & Helmer, che avevano disegnato edifici teatrali in dieci paesi europei. Inaugurato il 22 settembre 1886 come Teatro Municipale con un’opera del compositore ungherese Ferenc Erkel. L’edificio era illuminato da 800 lampade a gas e la sala da un lampadario a 64 luci. Nel 1920 divenne Teatro Nazionale Slovacco. Restaurato tra il 1969 e il 1972, ora sfoggia una sfera di 2532 luci che possono essere variate da un programma per creare infinite variazioni di forme luminose.

Un moderno edificio più capiente è stato costruito vicino al Danubio ed è stato inaugurato il 14 aprile 2007. La costruzione è durata 27 anni per mancanza di fondi e per la continua crescita dei costi.

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Die Meistersinger von Nürnberg

Richard Wagner, Die Meistersinger von Nürnberg

★★★★☆

Milan, Teatro alla Scala, 19 March 2017

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A glorious Meistersinger from Harry Kupfer at La Scala

The Nuremberg that we see as the curtain rises in this Zurich-Milan co-production of Die Meistersinger von Nürnberg at Teatro alla Scala, is the wrecked town after World War 2 bombings. In the foreground, placed on a rotating platform, are the ruins of Katharinenkirche (the church where the Mastersingers’ meetings took place in the 16th century) and in the background we see the blackened facades and empty windows of the blown up buildings. In act 2, Hans Sachs’ lilac tree (“Wie duftet doch der Flieder | so mild, so stark und voll!”) comes out of the scaffolding that encase the same ruins, while several cranes, marks of reconstruction, soar into the grey sky. In act 3 the scaffolding is still surrounding the ruins, but in the skyline new skyscrapers cast a shadow over the spires of the old Gothic churches…

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Die Meistersinger von Nürnberg

Richard Wagner, Die Meistersinger von Nürnberg

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 19 marzo 2017

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Splendidi Maestri cantori, ma il tenore è latitante

La Norimberga che si presenta all’alzarsi del sipario in questo allestimento de Die Meistersinger von Nürnberg del Teatro alla Scala coprodotto con Zurigo è quella distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale. In primo piano, poste su una piattaforma rotante, le rovine della Katharinenkirche (la chiesa dove avvenivano le riunioni dei Maestri Cantori nel XVI secolo), sullo sfondo le facciate annerite e le finestre vuote dei palazzi sventrati dai bombardamenti. Nel secondo atto l’albero di lillà evocato da Hans Sachs («Wie duftet doch der Flieder | so mild, so stark und voll!») sbuca tra le impalcature che ingabbiano le rovine mentre sullo sfondo nel cielo grigio svettano le molte gru della ricostruzione della città. Nel terzo atto i tubi innocenti sorreggono ancora le rovine della chiesa, ma nello skyline i nuovi grattacieli oscurano le guglie gotiche.

La regia di Harry Kupfer, le scene di Hans Schavernoch e i bei costumi di Yan Tax fanno rivivere Die Meistersinger nella Germania del secondo dopoguerra facendo piazza pulita del Medioevo della vicenda, senza farlo rimpiangere. Nella lettura di Kupfer la ricostruzione della città dopo la barbarie bellica è come una risposta alle ultime parole di Hans Sachs sulla purezza dell’arte tedesca, parole esaltate dal regime nazista ma che alle nostre orecchie acquistano un tono profetico diverso. «Habt Acht! Uns dräuen üble Streich’!» (Attenti! Pessimi eventi ci minacciano!), ma non sarà la «der welsche Tand» (la latina frivolezza) a corrompere i buoni spiriti, ma una ben più autoctona ideologia.

Neanche Kupfer riesce pienamente nell’impresa di rendere convincente la rissa che conclude il secondo atto sotto un cielo tempestoso (musicalmente invece una delle cose mirabili della serata), ma si ammira comunque la sua abilità nel rendere teatrale ogni momento dello spettacolo. In questo è aiutato da interpreti che si rivelano ottimi attori e dalla concertazione magistrale di Daniele Gatti. Nel 149° anniversario dalla prima, il Satyrspiel di Wagner ha ricevuto infatti una lettura mirabile dal direttore milanese.

Una descrizione del terzo atto può dare un’idea del magnifico spettacolo. Dopo il preludio quasi bruckneriano, memorabile per come l’orchestra del teatro riesca a dispiegare tutte le possibili sfumature sonore che fanno di questa una pagina sublime, la scena con David, il lungo monologo di Hans Sachs e la scena con Walther prendono qui un sapore straussiano pieno della nostalgia e della matura rassegnazione del ciabattino che deve cedere al giovane sia il primato della propria arte sia l’amore per la ragazza.

L’arrivo di Beckmesser, dolente per le botte della sera prima, si trasforma invece in uno sketch che ha la comicità di un cartone animato in cui ogni smorfia e contorcimento del personaggio è sottolineato da un suono della duttile orchestra. Qui la bravura di Markus Werba permette di raggiungere un risultato umoristico raramente visto in scena. Mutamento totale poco dopo. il quintetto che segue tocca punte di un lirismo rarefatto ed estatico reso magnificamente dalla direzione sensibilissima di Gatti e la citazione dal Tristano aggiunge un momento di commozione indicibile. Nella scena finale di San Crispino, in cui le rovine sono sede della tenzone dei maestri cantori, una fanfara si inerpica sulla piattaforma più alta dell’impalcatura, la gente di Norimberga entra allegramente vestita a festa, carri, mascheroni, saltimbanchi e acrobati formano un gioioso corteo con variopinte bandiere e gonfaloni.

Michael Volle non solo riesce ad arrivare inesausto alla fine del suo massacrante ruolo, ma ci arriva dopo una prestazione maiuscola in cui ha toccato tutte le corde dell’espressività in un canto-conversazione che è sempre attento alla parola e alle sfumature del carattere del suo personaggio. La voce riesce ad emergere dall’orchestra anche quando usa mezze voci o toni sussurrati: una lezione di canto giustamente osannata dal pubblico. Sfortunato il ruolo di Walther von Stolzing in questa produzione: la prestazione del titolare alla prima era stata disastrosa forse anche per le condizioni di salute di Michael Schade, ma neanche il sostituto dell’ultimo momento si è rivelato all’altezza della situazione. Il pubblico è stato comunque indulgente per il generoso tentativo di Erin Caves.

Come s’è detto, eccellente il Beckmesser giovanile di Markus Werba: vocalmente ha esibito il suo bel timbro e scenicamente non ha esagerato in effetti caricaturali. Nobile e autorevole il Pogner di Albert Dohmen la cui voce dà qualche comprensibile segno di stanchezza soprattutto salendo all’acuto. Efficaci gli altri cantori. Un po’ fragili invece le due voci femminili, soprattutto quella di Jacquelyn Wagner, Eva di bella presenza ma vocalmente esile. Eccellente come sempre si è dimostrato il coro istruito da Bruno Casoni.

  

Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

★★★☆☆

Turin, Teatro Regio, 14 March 2017

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In this Manon Lescaut the most convincing interpreter is Geronte’s!

After Auber (1856) and Massenet (1884), the third operatic adaptation of Prévost’s novel, Puccini’s Manon Lescaut, premiered at Turin Teatro Regio in 1893. It was the composer’s first mature work, a big step forward compared with Edgar, but it was not yet the level of La bohème.

The libretto had a troubled genesis, to say the least: seven people got their hands on it. With its unnecessary repetitions, linguistic ambitions and inconsistencies it did not bode well, but the rich melodic invention of the composer prevailed and the success was resounding…

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Manon Lescaut

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 14 marzo 2017

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Quando nella Manon Lescaut l’interprete più convincente è quello di Geronte…

Terzo adattamento operistico della vicenda creata dall’abate Prévost. Dopo Auber (1856) e Massenet (1884), quello di Puccini vede la luce al Teatro Regio di Torino il primo febbraio 1893. Manon Lescaut è la prima opera matura del compositore, certamente un bel passo avanti rispetto all’Edgar, ma non è neanche ancora La bohème. Il libretto aveva avuto una genesi a dir poco tormentata: ben sette persone vi avevano messo mano! Con le sue inutili ripetizioni, le velleità linguistiche e le incoerenze, non faceva presagire nulla di buono, ma la seducente invenzione melodica del compositore che ha rivestito quel testo pretenzioso ebbe la meglio e il successo fu clamoroso. L’opera resta comunque un insieme discontinuo: nella prima parte fa il verso a un Settecento fastidiosamente di maniera, ma poi con l’intermezzo sinfonico vira in una seconda parte fortemente drammatica, addirittura insopportabilmente tragica nell’angoscioso finale. Qui la morte della protagonista non ha nulla della cristiana speranza ultraterrena, né della trasfigurazione metafisica realizzata nel teatro wagneriano: è la fine di una giovane ancora rivolta ai piaceri e alle illusioni di quell’unica vita che sta perdendo

Nella stessa città dello storico debutto, Jean Reno nel gennaio 2006 aveva allestito una Manon Lescaut destinata al suo amico Roberto Alagna, il quale però dovette lasciare la produzione per motivi di salute. Undici anni dopo, di quell’allestimento, unico caso di regia lirica dell’attore francese, rimangono solo le scenografie di Thierry Flamand, che vengono ora riutilizzate dal regista Vittorio Borrelli. Non erano particolarmente interessanti allora e non lo sono neanche adesso, ma in tempi di ristrettezze economiche i teatri riesumano quello che hanno in magazzino senza andare troppo per il sottile.

L’occasione poteva essere la proposta di due giovani promettenti da lanciare nei ruoli di Manon e Des Grieux, ma neanche questo sembra sia stato il motivo, visto che la scelta è ricaduta su due cantanti in maniera diversa affermati, ma per entrambi i quali occorre adottare una generosa dose di suspension of disbelief: la gaia quindicenne ha l’età e il fisico di una florida signora a cui sono stati per di più imposti costumi impietosi, mentre lo studente Des Grieux è più âgé del vecchio Geronte!

Il soprano uruguaiano Maria José Siri aveva già affrontato con successo un ruolo pucciniano per l’apertura quest’anno della stagione della Scala, ma la sua Madama Butterfly era sembrata allora più convincente di questa sua attuale Manon, una Manon senza malizia e sensualità. Sul piano vocale l’emissione è precisa e il fraseggio accurato, ma il personaggio non esce fuori e non commuove. Neanche Gregory Kunde riesce a convincere come giovane Des Grieux, ma vocalmente il suo canto è quanto di più incisivo si possa immaginare: ogni frase ha la sua giusta espressione, le mezze voci sono belle e gli acuti ben piazzati ed è sempre un piacere ascoltare il miracolo della sua resa vocale pressoché intatta, però…

Dalibor Jenis non fa molto per rendere il suo tenente Lescaut più interessante, mentre Carlo Lepore si distingue invece per un sapido Geronte di Ravoir dal bel timbro e mai incline ad effetti caricaturali nella sua definizione del personaggio. La direzione di Gianandrea Noseda è vigorosa e non arretra di fronte agli effetti veristici in orchestra, ma sa anche esaltare la meravigliosa vena melodica sparsa nella partitura o i fremiti di sensualità che pervadono i duetti dei due amanti e i momenti sinfonici.

Il turco in Italia

Gioachino Rossini, Il turco in Italia

★★★☆☆

Bologna, Teatro Comunale, 12 March 2017

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Rossini’s Turk in Bologna in Alberto Zedda’s memory

Produced by the Rossini Opera Festival (ROF) and presented last summer in Pesaro with Davide Livermore’s staging, The Turk in Italy is now in Bologna in a reprise that was to be conducted by Alberto Zedda, but the musicologist and founder of the ROF passed away just a few days earlier. This performance was thus dedicated to the memory of the tireless supporter of the acclaimed festival, renowned scholar of Rossini’s operas and one of the foremost protagonist of the composer’s revival in the past century.

The same Zedda had accurately pointed out similarities and differences between this work and the most popular Italian Girl in Algiers, written by Rossini the previous year…

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BADISCHES STAATSTHEATER

Badisches Staatstheater

Karlsruhe (1975)

1002 posti

ll Teatro di Stato di Karlsruhe è un complesso edificato nel 1975 che comprende tre sale: una grande da 1002 posti, una piccola da 385 e uno Studio da 120. Prende il posto del vecchio teatro distrutto da un incendio nel 1847, ricostruito da Heinrich Hübsch nel 1853 e nuovamente distrutto, questa volta dai bombardamenti aerei, nel 1944. Le rovine rimasero tali fino agli anni ’60, quando si decise di costruire un nuovo edificio secondo i disegni dell’architetto Helmut Bätzner.

Dal 1978 è sede del festival dedicato al compositore Georg Friedrich Händel. Nel 2014 è stato presentato un progetto di totale rifacimento e ampliamento il cui completamento è previsto per il 2027. Di seguito il rendering del progetto.

Il turco in Italia

Gioachino Rossini, Il turco in Italia

★★★☆☆

Bologna, Teatro Comunale, 12 marzo 2017

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Il Turco a Bologna in memoria di Alberto Zedda

Prodotto dal Rossini Opera Festival (ROF) e presentato a Pesaro la scorsa estate nella messa in scena di Davide Livermore, Il turco in Italia è ora a Bologna in una ripresa che doveva essere diretta dal maestro Alberto Zedda, ma il musicologo e fondatore del ROF ci ha lasciato proprio pochi giorni fa. La rappresentazione è stata dunque dedicata al ricordo dell’instancabile animatore della prestigiosa rassegna e uno dei massimi fautori della Rossini Renaissance della nostra epoca.

Lo stesso Zedda, grande esegeta dell’opera rossiniana, aveva puntualmente precisato somiglianze e differenze tra questo lavoro e la più nota Italiana in Algeri dell’anno precedente: nel melodramma dell’Anelli del 1813 il libretto allineava azioni inverosimili tipiche dell’opera buffa tradizionale – quella che Stendhal definiva «folie organisée» – senza curarsi della compatibilità con i personaggi, prototipi astratti di comicità; nella vicenda del Romani de Il turco in Italia invece l’umorismo deriva dai comportamenti quotidiani di persone di stampo borghese dotate di sentimenti veri. Qui sono i personaggi stessi a determinare il procedere del dramma in un ingegnoso meccanismo meta-teatrale in cui un librettista è in cerca di ispirazione per il testo di una nuova opera. Nella lettura di Livermore questo espediente diventa meta-cinematografico: il poeta Prosdocimo ha qui le fattezze di Marcello Mastroianni nel film di Federico Fellini 8 1⁄2.

Il regista ci ricorda infatti che Fellini e Rossini sono figli della stessa terra: il primo è nato a Rimini, il secondo a Pesaro, 40 chilometri più a sud sulla costa adriatica. Non è quindi del tutto campata in aria la lettura che Livermore svolge con coerenza per tutto lo spettacolo con Prosdocimo, il librettista, trasformato in sceneggiatore/regista della vicenda delle due storie intersecanti di Don Gironio e Fiorilla, il marito inetto e la moglie capricciosa, e di Selim e Zaida, il principe turco all’estero e la moglie ingiustamente ripudiata.

La trasposizione felliniana di Livermore non può fare a meno del circo ed ecco allora che il «coro di zingari, zingare, turchi e maschere» diventa una variopinta troupe circense (stupendi come sempre i costumi di Gianluca Falaschi) di domatori, saltimbanchi, trapezisti e clown. Anche Zaida è un immancabile personaggio del circo, la donna barbuta. Prosdocimo/Federico si muove attorniato dalle sue creazioni femminili mentre Fiorilla si muove in Lambretta e ha l’abito a pois bianchi e neri dell’attrice Claudia Cardinale. Il turco Selim è lo Sceicco bianco e Narciso un prete in tonaca lunga, presenza costante nelle pellicole del regista romagnolo.

Lo spettacolo inizia con la proiezione dei provini per i personaggi principali e termina con la ripresa dell’ultima scena con la ricomposizione delle coppie, anche se nell’ultima inquadratura il flirt tra Fiorilla e Selim non sembra del tutto concluso. Nel frattempo il poeta si era affannato sulla macchina da scrivere per le battute da fornire ai suoi personaggi.

L’unico interprete già presente nella produzione pesarese è Nicola Alaimo 
che qui raffina ancor più il suo ruolo di Don Geronio, facendone un personaggio perfettamente a fuoco sia vocalmente sia scenicamente. Se inizialmente la sua impacciata figura può provocare qualche sorriso, ben presto si guadagna invece l’empatia di tutto il pubblico che prova compassione e affetto per questo «marito debole e pauroso». Anche il personaggio di Fiorilla nel finale tocca le corde della compassione quando viene scacciata dal marito e canta «Tutto ho perduto. Pace, marito, onor, intendo…». Qui Hasmik Torosyan dopo aver esibito le sue doti di agilità, tira fuori toni di grande espressività, anche se il soprano armeno ha un che di metallico non sempre piacevole nel timbro della voce.

Il Selim di Simone Alberghini è corretto ma manca dei tratti mattatoriali che il suo personaggio dovrebbe esibire. Ci pensa Alfonso Antoniozzi a compensare tale mancanza con la consumata teatralità che caratterizza il suo ruolo di Prosdocimo. Lo stile di Maxim Mironov, Don Narciso, è eccellente, ma il non grande volume non emerge nei concertati e la voce è talora coperta dalla musica.

La direzione d’orchestra di Christopher Franklin non entusiasma e manca di verve, cionondimeno alla fine il pubblico rimane convinto e tributa un caloroso successo allo spettacolo.

Arminio

Georg Friedrich Händel, Arminio
★★★★☆

Karlsruhe, Badische Staatstheater, 1 marzo 2017

(video streaming)

Di barbari e di romani invasori

Con Arminio Händel intendeva approfittare della partenza da Londra del Porpora, l’insidioso avversario del King’s Theatre, ma due anni dopo i capolavori Ariodante e Alcina, il vecchio libretto di Antonio Salvi, scritto nel 1703 per Alessandro Scarlatti, proponeva un plot superato. Non bastò neppure il lussuoso cast, che comprendeva glorie del teatro händeliano come la Strada e i castrati Annibali e Gizziello, a capovolgere le sorti dell’opera, che ebbe solo cinque recite dopo il debutto al Covent Garden il 12 gennaio 1737.

L’opera ha per soggetto la disastrosa disfatta delle legioni di Varo in Germania, secondo la narrazione di Tacito negli Annales, con inserzione di particolari di fantasia. Due capi germani, Arminio e Segeste, il primo genero del secondo perché ne ha sposato la figlia Tusnelda, si trovano politicamente su fronti opposti: il primo deciso a difendere la libertà del proprio popolo, il secondo disposto a scendere a patti con l’invasore latino. Proprio grazie a Segeste Varo riesce a catturare il ribelle Arminio; non ha però fatto i conti con il genio femminile delle donne locali, incarnato da Tusnelda e dalla sorella Ramise che spingono Sigismondo, figlio di Segeste e amante di Ramise, a liberare Arminio. Reintegrato nelle sue facoltà di comando, il prode guerriero barbaro guida il proprio popolo nella resistenza contro i Romani, infliggendo a Varo una cocente sconfitta e ristabilendo la pace in terra di Germania.

Nel Badische Staatstheater di Karlsruhe viene ora allestita quest’opera di Händel in un settecento iper-connotato nei costumi e nelle architetture su piattaforme concentriche che ruotando permettono fluidi cambi di scena. Scenografia e costumi sono di Helmut Stürmer e Corina Gramosteanu. Per una curiosa inversione sono i barbari qui che hanno i vestiti più eleganti e le parrucche più vistose, i romani occupanti sono anonimi e grezzi militari. È quasi un omaggio del regista Cenčić alla corte di Sassonia. Con grande senso teatrale la sua bellissima regia rende questo, che non è certo tra i maggiori lavori di Händel, uno spettacolo notevole per eleganza, arguzia e anche suspence.

L’Arminio inizia con un duetto, ce ne saranno altri due assieme a 26 arie solistiche tutte molto ben caratterizzate, soprattutto quelle di Arminio, Tusnelda e Ramise a cui corrispondono gli interpreti più interessanti di questa edizione: Max Emanuel Cenčić, Lauren Snouffer e Gaia Petrone rispettivamente. Quest’ultima soprattutto, unica italiana della compagnia, dimostra qualità vocali e sceniche sorprendenti, oltre che una dizione perfetta. La sua Ramise è poi ricca di tratti ben assecondati dalla regia di Cenčić il quale tiene per sé il ruolo titolare con le arie più drammatiche («Vado a morir», «Ritorno alle ritorte») o più impervie vocalmente(«Sì, cadrò», «Fatto scorta al sentier della Gloria») che affronta e risolve con la solita nonchalance ed eleganza. Eccellente è anche la Tusnelda della Snouffler che accanto a una bella linea di canto luminosa dimostra agio nelle agilità e intensità espressiva. Non altrettanto efficaci si dimostrano gli altri interpreti. Juan  Sancho questa volta è molto efficace nel delineare un Varo roso dal dubbio, il basso Pavel Kudinov, Segeste, alla modestia vocale affianca una dizione insopportabile. Qualche problema di intonazione per il Sigismondo di Aleksandra Kubas Kruk e per le sue agilità. Acecettabile il controtenore Owen Willetts, Tullio. Rispetto all’originale qui l’«effeminato» Sigismondo è un soprano e Tullio un falsettista.

Nel finale si ricompone la scena iniziale con la tavola bandita dei regnanti e mentre fuori scena si ode il coro finale tutti i personaggi indossano una maschera d’oro e Segeste, cui era stato accordato il perdono, viene invece decapitato. Il potere è sempre il potere.

I 33 numeri musicali di cui è composta l’opera sono integralmente proposti da George Petrou e la sua Armonia Atenea con colori e piani sonori sempre appropriati.

Tannhäuser

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Richard Wagner, Tannhäuser

★★☆☆☆

Montecarlo, Salle Garnier, 19 febbraio 2017

(video streaming)

A Montecarlo va in scena le Tannhäuser. Sì, in francese.

Intensi ma tempestosi furono i rapporti di Wagner con Parigi. Il compositore era entrato nella cultura francese nel 1840 non come musicista, ma come scrittore: i suoi articoli apparsi sulla “Revue et gazette musicale” ne stabilirono la prima affermazione nella vita culturale parigina. Dopo Dresda, in cui aveva fatto debuttare il suo Tannhäuser, Wagner era ritornato nella capitale francese abbandonando da fuggiasco la patria in seguito alla sua partecipazione ai moti rivoluzionari del ’48. Frattanto era apparso sul “Journal des débats” un articolo di Liszt sul Tannhäuser, mentre altri articoli di Wagner e gli attacchi personali di Fétis avevano contribuito a creare un’atmosfera di grande polemica attorno alla figura del musicista tedesco i cui concerti del gennaio e febbraio 1860 causarono un deficit finanziario enorme e incontrarono l’opposizione della stampa parigina, sebbene fossero ben accolti da un ristretto pubblico di intenditori. Tra i brani eseguiti al Théâtre-Italien in forma di concerto (1) ce n’erano di quelli tratti dal lavoro che sarebbe presto andato in scena.

Per l’allestimento del Tannhäuser a Parigi non si lesinarono i mezzi e ci furono ben 160 prove prima che si raggiungesse un risultato soddisfacente per l’autore. Nel mentre la stampa parigina organizzava una grossa campagna denigratoria verso il musicista tedesco: sciovinismo e politica si mescolavano ancora una volta alle questioni più propriamente musicali – così come era già successo nel passato con la “querelle des bouffons” e con quella tra Gluck e Piccinni. Polemica accentuata anche da Wagner stesso, che non volle venire a patti con il pubblico parigino e le sue consuetudini teatrali opponendosi con tutti i mezzi alla proposta del direttore del teatro di inserire un balletto nel secondo atto – decisione più che saggia pensando al carattere solenne e tutt’altro che mondano della contesa poetica della Wartburg.

Il 13 marzo 1861, Tannhäuser andò dunque in scena all’Opéra di rue Le Peletier nella traduzione in francese di Charles Nuitter. Il pubblico in tumulto e la critica tagliente furono i motivi che indussero il musicista a ritirare il lavoro dopo appena tre rappresentazioni, ma per mesi la sua opera fu cause célèbre nei salotti di Parigi tra musicisti, esteti e politici.

Attualmente nella minuscola e iperdecorata sala Garnier del Principato di Monaco, Tannhäuser viene allestito proprio in quella versione parigina. Dal punto di vista musicale non è una vera e propria novità: già l’edizione viennese del 1875 comunemente rappresentata ai nostri giorni tiene conto delle modifiche del 1861. Semmai la curiosità qui sta nel libretto in francese e nella sua congruenza con la musica – soprattutto con tre interpreti che non hanno il francese come madrelingua e incespicano in una dizione a tratti improponibile: il «laisse-moi fuir» di Tannhäuser che diventa «lasse-moi fuir» (ripetuto ben tre volte) e le vocali mal accentate, i suoni nasali assenti sono alcuni dei tratti distintivi di questa produzione monegasca.

A capo dell’orchestra c’è il mezzosoprano Nathalie Stutzmann; nel ruolo titolare il tenore-baritono-direttore-regista José Cura e alla messa in scena l’ex-politico locale Jean-Louis Grinda. Tale commistione di ruoli porta a un risultato quantomeno discutibile.

Nell’allestimento di Grinda uno schermo semicircolare a mo’ di circarama (2) risolve economicamente con proiezioni tutta la scenografia richiesta dalla vicenda: il Venusberg è un bordello illuminato da luce rossa con cuscinoni di velluto, il paesaggio campestre è tutto un turbinio di fronde verdi, la Wartburg è l’interno di una cupola gotica tutta oro e azzurro lapislazzuli, il paesaggio finale è invernale e sotto l’immancabile neve, qui solo in videografica però.

Grazie a una pipa da oppio Tannhäuser ha le sue visioni in compagnia di signorine in négligé con i bordi di bianche piume di struzzo. Ad ogni crescendo dell’ouverture il protagonista aspira una lunga boccata per poi gettarsi sui suddetti cuscini fino all’arrivo di Venere, una rossa con le piume rosa. Anche lei si fa un tiro e finisce l’ouverture. Si dà quindi via al baccanale orgiastico che tanto aveva scandalizzato il pubblico parigino del tempo. Qui l’acme è il gilet sbottonato del protagonista a piedi nudi – che sembra abbia appena abbandonato il lavoro dei campi – e la proiezione di immagini da trip psichedelico anni ’60 mentre tutti si fanno una pennichella prima che le copie di Venere accennino a movimenti di danza che vorrebbero essere lascivi.

Dopo il doppio incontro con i pellegrini e poi con il langravio e la sua compagnia, Tannhäuser è ammesso alla Wartburg dove rivede Élisabeth con cui si rotola sul pavimento poco prima dell’arrivo di Hermann che però fa finta di niente. Il tradizionale corteo di nobili impettiti prelude allo svolgimento della gara poetica. Tannhäuser, ora tirato a lucido, scandalizza come previsto l’inclita assemblea e si becca un ceffone da Élisabeth che poi lo difende dall’ira generale minacciando di uccidersi con una pistola, cosa piuttosto contraddittoria per una pia vergine. Che infatti si taglierà le vene rendendo del tutto incongrua la domanda di Wolfram: «Élisabeth, permets-tu que je t’accompagne?». Finale a sorpresa: è Wolfram che se ne va con Venere mentre arrivano gli uomini a vendicare la morte di Elisabetta uccidendo Tannhäuser, anche se in effetti non si sente lo sparo delle pistole mentre il sipario si abbassa.

José Cura è al suo primo Wagner, autore che mai avrebbe affrontato, dice, a causa della lingua. Fosse solo un problema di lingua! Ormai il vibrato eccessivo, gli acuti sforzati, i suoni ingolati, fanno parte della sua performance vocale. Si salverebbe l’espressività, ma Tannhäuser non è Turiddu, e certi effettacci nel suo racconto del terzo atto sono decisamente di pessimo gusto. Sembra la caricatura del peggiore Domingo. A suo merito va comunque lo sforzo di aver imparato un ruolo che non canterà mai più. Non molti fra i suoi colleghi l’avrebbero fatto.

Annemarie Kremer è una Élisabeth il cui timbro un po’ metallico e l’intensità della voce non aiutano a delineare il lato angelico del personaggio. Nulla da dire sulla presenza scenica della Vénus di Aude Extrémo, ma qui sono la linea di canto e gli acuti strozzati la parte meno piacevole. Tra gli interpreti in lingua francese delude un po’ il Wolfram di Jean-François Lapointe che rende sì con eleganza il suo lied «Ô douce étoile, feu du soir», che prende il posto di «O du, mein holder Abendstern», ma è piuttosto carente nel registro basso in cui il suono è sfibrato. Steven Humes è un autorevole langravio, ma è il coro il punto più debole: non sempre riesce a mantenere un livello di intonazione accettabile soprattutto nelle pagine a cappella dei pellegrini e manca di precisione nei passaggi polifonici.

Specialista del repertorio barocco e fondatrice dell’Orfeo 55, la Stutzmann ha a disposizione un’orchestra non eccelsa che probabilmente non esprime al meglio le sue intenzioni. Il risultato se non negativo è comunque senza particolare rilievo. L’utilizzo dei microfoni per la ripresa video non permette di giudicare sull’equilibrio sonoro tra palcoscenico e buca orchestrale, anche se sembra che la fossa copra talora la voce dei cantanti.

(1) Ecco il programma dell’8 febbraio: Le vaisseau fantôme (Der fliegende Holländer), ouverture; Tannhäuser, marcia e coro II atto, preludio al III atto, lied di Wolfram, coro dei pellegrini, ouverture; Tristan und Isolde, preludio con finale da concerto; Lohengrin, preludio atto I, corteo nuziale e preludio atto III, coro nuziale con finale da concerto.

(2) Una delle principali attrazioni di “Italia ’61”!

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