Mese: Maggio 2022

Stagione Sinfonica RAI

Jean Sibelius, Le Oceanidi, poema sinfonico

Benjamin Britten, Four Sea Interludes from Peter Grimes

Bela Bartók, Il Mandarino miracoloso, Suite da concerto 

Maurice Ravel, La valse, poema coreografico

Juraj Valčuha direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 11 maggio 2022

Del mare e della danza

Dopo 13 anni si può ben dire che si sia instaurato un particolare legame, quasi affettivo, tra l’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI e il maestro Juraj Valčuha. Dal 2009 al 2016 direttore principale dell’OSN, l’introverso giovane direttore slovacco è maturato proprio in seno all’orchestra RAI e qui a Torino sono in molti a ricordarlo con piacere. Da allora ad ogni stagione lo si vede tornare per uno o due concerti e anche quest’anno dopo l’appuntamento di gennaio, con Khačaturian e Nielsen, ora per il XIII concerto è la volta di un programma in cui porta alla ribalta composizioni scritte nell’arco di trent’anni nella prima metà del secolo scorso.

Nella prima parte domina l’elemento marino poiché inizia con un titolo non molto frequentato di Jean Sibelius, il poema sinfonico op. 73 Le Oceanidi (Aallottaret) e continua con i Four Sea Interludes di Benjamin Britten.

Dieci anni dopo La mer di Claude Debussy, il lavoro di Sibelius, composto nel 1914, si accosta al movimento impressionista musicale con una pagina descrittiva che ci fa immergere nelle profondità delle acque dell’oceano allo stesso modo con cui Richard Strauss l’anno seguente ci farà salire sulle vette con la sua Alpensinfonie. Un lavoro di piacevole ascolto ma che non raggiunge la qualità della Quarta Sinfonia in la minore che lo precede e della Quinta in Mi♭ maggiore che lo segue.

Peter Grimes comprende sei interludi, ma Britten già nel 1942, tre anni prima della rappresentazione integrale dell’opera, ne aveva scelti quattro per la suite sinfonica op. 33a che riscuoterà poi grande successo tra le orchestre di tutto il mondo. La suite è formata da “Dawn” (Alba, lento tranquillo), che nell’opera conduce dal prologo al primo atto; “Sunday Morning” (Domenica mattina, allegro spiritoso), con cui inizia il secondo atto; “Moonlight”, (Chiaro di luna, andante comodo e rubato), che introduce il terzo atto; “Storm” (Tempesta, presto con fuoco), che lega la scena 1 alla 2 del primo atto. In tutti questi pezzi l’abilità coloristica e timbrica delle partiture viene esaltata dal gesto preciso e attento di Valčuha, che aveva concertato l’opera qualche anno fa a Bologna, e dalla qualità dell’orchestra. Qui non si descrive solo la natura, ma anche il carattere chiuso e ipocrita dei pettegoli abitanti del Borough e la psiche tormentata del povero Grimes.

Nella seconda parte del concerto va in scena la danza, si inizia infatti con Il mandarino miracoloso (o meraviglioso, in ungherese A csodálatos mandarin) di Béla Bartók, la suite da concerto tratta dall’omonima pantomima in un atto che alla sua presentazione a Colonia nel 1926 destò scandalo per la scabrosità dell’argomento tanto da venire poi vietata in Germania. In forma di suite e contenente due terzi della musica originale del balletto potè finalmente essere conosciuta e apprezzata. Sei anni dopo Le sacre du printemps di Stravinskij, la musica di Bartók tornava a scuotere il pubblico con la sua inaudita violenza sonora. In tre tempi – “allegro, maestoso, tempo di valse” – viene dipinto un mondo angoscioso e alienato dagli strumenti di un’orchestra dai colori smaglianti messi magistralmente in risalto dalla direzione netta ma insinuante di Valčuha e da un’orchestra al meglio delle sue possibilità.

Segue e conclude la seconda parte del concerto un brano frequentemente eseguito, ma che in questo contesto riflette nuova luce e conferma ancora una volta la strepitosa maestria orchestrale di Maurice Ravel. Il poema coreografico La valse non è solo un rutilante pezzo strumentale: nato nel 1907 quale omaggio nostalgico alla Vienna di Johann Strauss venne ripreso nel 1920 su suggerimento di Sergej Djagilev per i suoi “Ballets Russes”. Nel frattempo una guerra – la Grande Guerra –  è stata combattuta e il mondo non è più lo stesso: con un movimento quasi cinematografico la musica de La valse ci fa “vedere” tra la nebbia delle coppie che danzano, il fortissimo è la luce accecante dei lampadari della reggia imperiale, ma poi la musica è come se si avvitasse su sé stessa, il turbine diventa distruttivo, il mondo crolla, rimane la lucida nostalgia di un tempo che non è più. Impossibile da danzare, La valse è diventato uno dei brani sinfonici più ammirati. Anche ieri il pubblico dell’auditorium Toscanini, in verità un po’ scarso, è stato trascinato e alla fine ha coperto di applausi fragorosi la scelta di programma, la vigorosa concertazione, il ritmo sfuggente della performance dell’ex-Direttore Principale e attualmente Direttore Musicale del Teatro di San Carlo di Napoli, che tra un mese parte per gli USA dove è stato nominato Musical Director della prestigiosa Houston Symphony Orchestra. A luglio comunque sarà nuovamente a Torino nell’ambito del Regio Opera Festival per un concerto con musiche di Rota, Bernstein, Prokof’ev e Ravel.

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Austieg und Fall der Stadt Mahagonny

 

Kurt Weill, Ascesa e caduta della città Mahagonny

★★★☆☆

Parma, Teatro Regio, 26 aprile 2022

(video streaming)

Riproporre oggi Mahagonny in provincia

92 anni dopo ha mantenuto la sua carica eversiva il teatro di Brecht/Weill? Quel teatro che doveva “épater les bourgeois” non ha perso infatti il suo obiettivo? I borghesi non esistono più e il pubblico che dovrebbe  scandalizzarsi ora è assuefatto ad ogni provocazione – anche se il tema dell’avidità e dell’idolatria del dio denaro non si può certo dire che manchi di attualità. Come si può dunque mettere in scena oggi un lavoro come Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny (Ascesa e caduta della città di Mahagonny), la seconda collaborazione del drammaturgo tedesco col compositore di Dessau pochi anni prima della sua fuga dalla Germania nazista?

Henning Brockhaus sceglie di restare fedele allo spirito dell’opera utilizzando un campionario visivo in parte prevedibile ma di indubbia efficacia teatrale. Ma non bastano quattro ballerine con le parrucche e i capezzoli colorati a rendere trasgressivo uno spettacolo che non turba il pubblico di una città di provincia che incontra Weill per la prima volta. Soprattutto con le coreografie innocue di Valentina Escobar. Lo spettacolo era nato nel 2021 per celebrare Parma capitale della cultura, ma le vicende legate alla pandemia ne hanno ritardato ad oggi il debutto.

Le scene semplici ma efficaci sono di Margherita Palli, praticamente dei praticabili che si adattano alle varie situazioni, i congrui costumi anni ’30 di Giancarlo Colis, le luci di Pasquale Mari, i video un po’ miserini di Mario Spinaci. Non manca la passerella da varietà tra l’orchestra e il pubblico, i visi sono dipinti di biacca, il luogo è indeterminato, ma neanche il libretto è decisivo al proposito con tutti quei nomi geografici: Alabama, Oklahoma, Pensacola, ma anche Benares, Mandalay. Un indizio, a parte i tifoni e il deserto, è il fatto che da lì si può arrivare in barca in Alaska, ecco allora che viene in mente la California della corsa all’oro.

Mangiare, fare all’amore, fare a cazzotti e bere: questi sono i quattro comandamenti della Netzestadt Mahagonny, la città trappola. Quattro come i taglialegna arrivati dall’Alaska: Jach, Joe, Jim e Bill. Faranno una brutta fine: prima Jack che scoppia per il troppo mangiare, poi Joe che stramazza sul ring, poi Jim giustiziato per debiti – il comandamento principale è infatti avere soldi da spendere, altrimenti si finisce sul patibolo per aver infranto l’unica legge che conta. Bill è quello che si è meglio adattato, infatti si rifiuta di aiutare l’amico: «Jim, du stehst mir menschlich nah, aber Geld ist eine andre Sache» (Jim, mi sei vicino come essere umano, ma il denaro è un’altra cosa). Non potrebbe essere più chiaro di così il messaggio che Brecht e Weill confidano alla loro opera.

Opera a tutti gli effetti: dopo la suite di songs dell’Opera da tre soldi, con i suoi concertati, cori, arie solistiche, duetti, fugati, Mahagonny è una corrosiva presa in giro dell’opera, con le sue frasi ripetute e i continui ritorni del tema che si fanno beffa dei Leitmotive wagneriani. La partitura è complessa, sofisticata, eclettica, inserisce musica popolare e swing americano. Grande orchestra, classica ma con l’aggiunta di bandoneon, chitarra, banjo, mandolino, harmonium, un pianoforte in buca e uno scordato in scena. Christopher Franklin ne fornisce una lettura corretta senza spingere sul tasto dell’espressionismo e con un ritmo non sempre trascinante. Buona comunque la risposta di un’orchestra tutt’altro che avvezza a questo repertorio. Un narratore, l’attore Filippo Lanzi, cuce i vari momenti dello spettacolo con i suoi annunci al megafono in perfetto stile brechtiano.

La distribuzione vocale ha risentito molto della situazione sanitaria e ben quattro interpreti che hanno  sostituito all’ultimo momento quelli previsti, come il soprano Nadja Mchantaf che ha affrontato però la parte di Jenny con grande sicurezza. La voce è minuta, come la figura, ma così rende ancora più fragile il personaggio con la sua sensualità, le sue contraddizioni, la sua umanità insomma. Leokadja Begbick trova nel mezzosoprano Alisa Kolosova che debutta nella parte, una solida cantante/attrice così come Zoltán Nagy delinea un crudele Fatty. Chris Merritt (Dreieinigkeitsmoses) è in condizioni vocali imbarazzanti probabilmente dovute a un’indisposizione, infatti il cantante è stato sostituito dopo la prima. Particolari il timbro e l’espressione di Tobias Hächler, tenore di Basilea che qui debutta con efficacia come Jim. Di buon livello gli altri interpreti. Il coro del teatro è talora un po’ allo sbando ma il suo ruolo è impegnativo ed è richiesta una assidua presenza scenica.

Pessima ripresa video, che si perde in dettagli che fanno perdere la visione d’insieme con primissimi piani impietosi delle dentature e delle imperfezioni cutanee dei cantanti.

Shirine

Thierry Escaich, Shirine

★★★★☆

Lyon, Opéra Nouvel, 2 mai 2022

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Les Mille et Une Nuits à Lyon : première mondiale de Shirine

Il y a neuf ans, l’Opéra de Lyon présentait le premier opéra de Thierry Escaich, Claude. Voici maintenant une nouvelle création lyrique de l’organiste et compositeur français. Prévue pour 2020, la première a été repoussée de deux ans en raison de la pandémie. Entre-temps, en mars 2021, le Théâtre des Champs-Élysées, alors fermé au public, a présenté Point d’Orgue du même compositeur, suite et pendant de La voix humaine de Poulenc, avec lequel l’oeuvre a été associée, sur un livret et une mise en scène d’Olivier Py…

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Jenůfa

 

foto © Carole Parodi

Leoš Janáček, Jenůfa

★★★★☆

Genève, Grand Théâtre, 3 mai 2022

 Qui la versione italiana

Une Jenůfa toute féminine à Genève

La plupart des hommes de la pièce de Gabriela Preissová, Její pastorkyňa (Sa belle-fille, 1890, devenue un roman quarante ans plus tard) sont des crapules ou des méchants. Endettés par le jeu et la boisson, les mâles du village morave auraient dilapidé les biens du moulin s’ils ne s’étaient pas retrouvés entre les mains de la vieille Buryjovka, laquelle est toujours affairée à tenir fermement la caisse. Et ce sont encore les femmes qui transmettent le savoir de la lecture et de l’écriture d’une génération à l’autre : de Buryjovka à Kostelnička, Jenůfa, Jano : c’est ici la seule chance qu’elles ont de maintenir leur indépendance vis-à-vis des hommes…

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STADTTHEATER

 

(Stadt)Theater

Bonn (1965)

1024 posti

   

La storia del teatro a Bonn risale al tempo degli elettori. Alla fine del 17° secolo, un teatro di corte fu istituito presso il Palazzo Elettorale, dove si esibirono troupes francesi e italiane. Nel XVIII secolo, fu istituito un teatro amatoriale per opere tedesche (Nationaltheater), diretto da Gustav Friedrich Wilhelm Großmann dal 1778 al 1784, che mise in scena la prima de La congiura di Fiesco a Genova di Schiller. Il nuovo governo francese distrusse il teatro di corte nel 1797.


Nel 1826, i cittadini di Bonn costruirono una propria casa teatrale: un nuovo edificio fu inaugurato nel 1848, segnato dall’ouverture La consacrazione della casa di Beethoven. La casa divenne il teatro comunale nel 1859, con spettacoli del teatro di Colonia. Bonn fa risalire la storia della sua responsabilità per il teatro a quell’anno. Il teatro di Bonn operò con un proprio ensemble per recite di prosa dal 1902, per l’opera dal 1935.

Il teatro fu distrutto da un bombardamento durante la seconda guerra mondiale nel luglio 1943. Dopo la seconda guerra mondiale, sedi temporanee per il teatro furono una sala universitaria, una palestra, un cinema e il Prachtbau del Bonner Bürgerverein. Nel 1965, un nuovo edificio è stato aperto sul Reno che serve come il teatro d’opera di oggi, lo Stadttheater, ora semplicemente Theater Bonn.  L’edificio degli architetti Klaus Gessler e Wilfried Beck-Erlang ha un’aria scultorea e ospita l’auditorium principale (1024 posti) così come la Werkstattbühne (125 posti), un teatro studio più intimo che è usato principalmente per nuove opere teatrali e produzioni sperimentali.

Jenůfa

 

foto © Carole Parodi

Leoš Janáček, Jenůfa

★★★★☆

Ginevra, Grand Théâtre, 3 maggio 2022

bandiera francese.jpg Ici la version française

Una Jenůfa al femminile a Ginevra

Sono quasi tutti mascalzoni o dei poco di buono gli uomini del dramma di Gabriela Preissová Její pastorkyňa (La sua figliastra, 1890, diventato poi un romanzo quarant’anni dopo). Indebitati dal gioco e dal bere, i maschi del villaggio moravo avrebbero disperso il patrimonio del mulino se non fosse finito nelle mani della vecchia Buryjovka, che ancora tiene saldamente la cassa. E sono ancora le donne a tramandare il saper leggere e scrivere da una generazione all’altra: dalla Buryjovka alla Kostelnička a Jenůfa a Jano: la sola possibilità offerta loro per essere indipendenti dagli uomini.

Ed è una donna, Tatjana Gürbaca, alla sua sesta presenza al Grand Théâtre, a mettere in scena l’opera che consacra tardivamente la fama di Leoš Janáček. Jenůfa è la terza incursione della regista berlinese nel mondo del compositore moravo dopo La piccola volpe astuta dello scorso autunno a Brema e Kát’a Kabanová di un mese fa alla Deutsche Oper am Rhein. Assieme allo scenografo Henrik Ahr, che costruisce uno spazio tutto in legno dominato da una scalinata che sembra non finire mai e da un soffitto spiovente che rende l’ambiente simile all’interno di una cappella, la Gürbaca più che i fatti mette in scena le psicologie dei personaggi e l’ambiente chiuso, oltre a esaltare le voci, fa entrare in risonanza i sentimenti dei Buryja.

In mancanza di una messa in scena “teatrale”, sono i dettagli dei rapporti personali a dominare in palcoscenico, le piccole cose, i vasi di rosmarino, l’inopportuno regalo di nozze di Karolka (un biberon!), la tinozza di zinco cha da culla del neonato riprende il suo ruolo per il bucato e infine diventa la cassa da morto per il suo funerale! In scena infatti compare proprio il cadaverino del piccolo Števa, particolare fin troppo realistico, anche se qui giustifica appunto le esequie del piccolo, sotterrato con la terra del vaso di rosmarino… La scala su cui si arrampicano faticosamente i personaggi rappresenta la difficoltà della fuga dalla loro condizione, ma visivamente è troppo ingombrante nella scena, unica per tutti e tre gli atti. Solo il gioco luci di Stefan Bolliger e i costumi di Silke Wilrett apportano un po’ di varietà nella visione statica e claustrofobica scelta dalla regista. Dati i limiti fisici della scena questa sembra sempre anche troppo affollata, spesso con molti bambini. Uno, vestito di bianco, scenderà dall’alto della scala nel finale: è il figlio di Jenůfa “risorto” a consolare la madre. Con la sua lettura la Gürbaca esalta l’aspetto intimo, borghese della vicenda, là dove invece altri – Lehnhoff, Michieletto, Guth – avevano dato alla storia un respiro più ampio.

Più convincente è la rappresentazione dei personaggi, a cominciare dalla Buryjovka che non è la patetica e mite vecchina vista in molte rappresentazione: qui è quella che gira con la cassa, gestisce i soldi, fuma, beve e al matrimonio dove tutti sono vestiti di nero, anche la sposa, sfoggia un vaporoso abito bianco! La estroversa personalità di Carole Wilson delinea con grande efficacia il taglio del personaggio nella sua cecità nei confronti dello scapestrato nipote e nella sua punta di malignità nei confronti degli altri parenti. Rôle fétiche per le grandi voci della scena è quello della Kostelnička (la Sagrestana) ripreso qui da Evelyn Herlitzius con una potenza sonora che riempie la sala di suoni violenti per incarnare uno dei maggiori personaggi del teatro del Novecento, una donna dotata di uno «spirito da uomo», rispettata e temuta nel villaggio, autoritaria ma tenera matrigna. Tutta la gamma della sofferenza è presente nella straordinaria performance del temperamentoso soprano tedesco: la tenerezza, l’angoscia, la follia sono espresse con vigore, ma senza esagerazione. Debutta invece nella parte del titolo Corinne Winters e piega le sue doti drammatiche alla parabola espressiva della ragazza che perdona l’uomo che l’ha messa incinta, poi quello che l’ha sfregiata, infine la matrigna che le ha ucciso il figlio, tutte azioni fatte per amore! Il soprano americano si dimostra attrice straordinaria quando da timida adolescente si trasforma nel secondo atto in madre amorevole, per cui ancora più tragica sarà poi la scoperta nel terzo atto della confessione della matrigna. La dolcezza e la precisione dell’emissione connotano la sua interpretazione e la sua fresca presenza scenica della Winters. Anche il personaggio secondario di Karolka è trattato con insolita importanza dalla regista che aggiunge così una quarta personalità femminile al suo affresco. Come per Jano, la sera della prima per motivi di salute le interpreti titolari sono state rimpiazzate all’ultimo momento, ma né Séraphine Cotrez né Clara Guillon hanno fatto rimpiangere la sostituzione.

Nel reparto maschile si confrontano per stili opposti i due tenori Daniel Brenna e Ladislav Elgr. Il primo è un Laca dal timbro luminoso e dalla grande proiezione – Brenna è stato di recente un apprezzato Siegfried – ma estremamente espressivo sia a livello vocale che scenico. La sua goffa presenza dell’inizio, quando si trastulla col coltello per rovinare il rosmarino e poi, quasi per incidente, sfregia la guancia dell’amata, si trasforma in trepidante sposo nel finale e lascia la certezza che sarà un compagno fedele e consolatore per la sfortunata Jenůfa. Tutt’altro tono per lo Števa di Elgr, l’unico ceco della compagnia – e si sente nell’esattezza dei suoni consonantici così tipici in quella lingua e che difetta invece negli altri interpreti. Parte spesso frequentata, ogni volta esprime lati diversi del personaggio a seconda delle richieste registiche. Da vero attore camaleontico ne accentua il lato irresponsabile, la codardia di fronte alle sue azioni e la giovanile superficialità espresse con un canto aspro, tagliente, perfettamente intonato al personaggio. Di ottimo livello gli altri interpreti secondari e il coro istruito da Allan Woolbridge.

Tutto quanto è concertato con grande sensibilità da Tomáš Hanus, riconosciuto interprete di questo repertorio. Il dettaglio strumentale dell’Orchestre de la Suisse Romande non fa perdere la concezione unitaria di questo dramma sviluppato con una forza drammatica accentuata dalle pause piene di tensione che il direttore ceco dissemina nella lettura di questa magnifica partitura. Il pubblico, non numerosissimo e inizialmente freddo, al momento dei saluti finali si è finalmente lasciato andare ad applausi calorosi soprattutto nei confronti delle due interpreti femminili principali.

L’indomani nell’ornato foyer del teatro è stata presentata la nuova ricca stagione lirica intitolata “Mondes et migrations” che si inaugurerà con due opere di Fromental Halévy, La juive e L’éclair, quest’ultima in forma concertistica, e terminerà con il Nabucco. In mezzo ci sarà la Kát’a Kabanová di Tatjana Gürbaca, la seconda parte della Trilogia Tudor donizettiana con Maria Stuarda, un Parsifal, due serate dedicate a Monteverdi, Lady Macbeth del distretto di Mcensk e una prima contemporanea, Voyage vers l’espoir di Christian Jost.

Faust

Charles Gounod, Faust

★★★☆☆

Venise, Teatro la Fenice, 30 avril 2022

 Qui la versione italiana

Faust à Venise : le diable s’habille… en plumes !

Le destin de Faust à la Fenice est très particulier : l’opéra était présent lors de la première véritable saison du théâtre après sa fermeture suite au déclenchement de la deuxième guerre d’indépendance italienne en 1859 : réouvert le 31 octobre 1866, quelques mois plus tard, l’opéra de Gounod figurait parmi les six opéras au programme. Ce fut ensuite le titre inaugural de la réouverture de la Fenice en 1920, après les événements de la Grande Guerre qui avaient maintenu le théâtre fermé depuis 1914. La même chose s’est produite, cent ans plus tard, en juillet 2021, après la fermeture due à la pandémie. À l’époque, le public était dans les loges et l’action se déroulait en partie dans les stalles, avec un effet spatial inhabituel et surprenant qui combinait le besoin de distanciation avec un choix dramaturgique efficace qui exploitait brillamment cette situation inhabituelle…

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Griselda

La locandina dello spettacolo

Antonio Vivaldi, Griselda

★★★★☆

Venise, Teatro Malibran, 29 avril 2022

 Qui la versione italiana

Griselda, conte cruel de Vivaldi

Grâce au Teatro la Fenice, Antonio Vivaldi est un auteur fréquemment présent dans les programmations d’opéras de sa ville : Bajazet (2007), Juditha triumphans (2015), Orlando Furioso (2018), Dorilla in Tempe (2019), Ottone in villa (2020) et Farnace (2021) ne sont que quelques-unes des productions récentes du théâtre vénitien, présentées pour la plupart dans la salle plus appropriée du Malibran, comme cette Griselda qui fut créée le 18 mai 1735 à Venise. Le livret d’Apostolo Zeno (1701), tiré de la dernière nouvelle (X, 10) du Décaméron de Boccace, avait été mise en musique la même année par Antonio Pollarolo, puis par (entre autres) Tomaso Albinoni (1703), Luca Antonio Predieri (1711), Giuseppe Maria Orlandini (1717), Antonio Bononcini (1718) et Alessandro Scarlatti (1721)…

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Shirine

Thierry Escaich, Shirine

★★★★☆

Lione, Opéra Nouvel, 2 maggio 2022

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Le mille e una notte a Lione: prima mondiale di Shirine

Di Thierry Escaich nove anni fa l’Opéra de Lyon aveva presentato la sua prima opera, Claude. È la volta ora di una nuova creazione per il teatro dell’organista e compositore francese. Previsto per il 2020, a causa della pandemia il debutto è slittato di due anni. Nel frattempo nel marzo 2021 a Parigi, al Théâtre des Champs-Élysées chiuso al pubblico era stato presentato Point d’Orgue, un pendant de La voix humaine di Poulenc, con cui è stato abbinato, su libretto e messa in scena di Olivier Py.

Dopo l’inferno carcerario del racconto di Hugo e la claustrofobia della stanza di Elle, la vicenda di Shirine si apre ai paesaggi delle leggende orientali e le note di Escaich si vestono dei colori della musica iraniana tradizionale. Su testo dello scrittore franco-afgano Atiq Rahimi e in dodici quadri, narra degli amori impossibili della principessa cristiana d’Armenia Širin e del re di Persia Ḵosrow, vicenda tratta da un racconto persiano del XII secolo di Neẓāmi Ganjavi, coevo alla narrazione di Tristano e Isotta, un’altra sfortunata coppia di amanti.

Dopo il preludio col coro e i cantastorie Nakissâ e Bârbad, appare la scena del bagno di Shirine, sorpresa dal principe Khosrow, che è subitamente affascinato dalla sua bellezza. Quadro I. Il principe Khosrow racconta al suo amico, il pittore Chapour, la sua gioia e gli chiede non solo di trovare la bella principessa d’Armenia, ma di farla innamorare di lui. Quadro II. Nel giardino del palazzo di Shirine, c’è gioia e gioco. Shirine, la più vivace, nota un quadro appeso ai rami di un albero di melograno. Si avvicina, ne è profondamente commossa e non riesce a staccarsene, chiedendosi di chi sia e chi rappresenti. Nessuno lo sa. Chapour, travestito da mendicante, si presenta come l’autore del ritratto del principe Khosrow, che le descrive con grandi lodi ed entusiasmo, così come la sua passione per lei. Shirine chiede a Chapour come raggiungere il principe e lui le consiglia di farlo prima che arrivi Chamira, la sovrana dell’Armenia e zia di Shirine, che interroga la nipote sulla sua eccitazione. Shirine la rassicura e la avverte che l’indomani partirà per la caccia con il suo cavallo preferito Chabdiz; in realtà vuole trovare il principe Khosrow a Madaïn. Quadro III. Due messaggeri del padre, il re Hormoz, arrivano al palazzo di Khosrow a Madaïn. Le loro parole vengono riferite al principe da Nakissâ e Barbâd, e poi dal coro: il popolo è irritato dalla negligenza e arroganza del principe nei suoi confronti. Pur essendo l’unico erede della corona, il principe Khosrow viene bandito dal regno e si rifugia in Armenia dove spera di incontrare Shirine, che però è in viaggio per Madaïn. Gli amanti incrociano le loro strade una prima volta. Quadro IV. Khosrow sfoga il suo dolore di reietto e solitario con Chamira, che gli dice che Shirine è a Madaïn, nel gineceo del re Hormoz. Chamira lo trattiene, offrendogli un trono, un tesoro, un regno… e una regina. Chapour arriva ad annunciare la morte del re Hormoz: Khosrow è ora re di Persia e ha solo una cosa da fare: trovare Shirine. Chamira manda un messaggero a richiamare Shirine da lei. Gli amanti incrociano le loro strade per la seconda volta. Quadro V. Nel palazzo di Shamira, Shirine ascolta i suoi saggi consigli per usare moderazione nei confronti del principe. Un messaggero porta la notizia della sconfitta di Khosrow nella sua lotta contro l’usurpatore Bahrâm e del suo prossimo arrivo. Chamira si prepara ad accoglierlo con tutti gli onori, ma non si fa illusioni sul cuore di Khosrow. Quadro VI. In un’atmosfera festosa, i due amanti, finalmente ricongiunti, ballano fino all’alba. Chamira si è ritirata. Nel suo stato di ebbrezza, Khosrow cerca di abbracciare Shirine, che gli resiste ricordandogli la sua regalità caduta e gli ingiunge di riconquistarla. Colpito nell’orgoglio profondo, Khosrow la lascia. Oscurità. I cantastorie riportano la partenza di Khosrow verso Costantinopoli per chiedere l’appoggio dell’imperatore bizantino contro Bahrâm. L’imperatore gli concede la mano di sua figlia Maryam. Luce. Shirine assiste la zia morente che le dà le chiavi del regno. Quadro VII. Shirine, ora regina e doppiamente sofferente, sta morendo nel suo palazzo. Il suo regno sta appassendo. Chapour, inviato da Khosrow, le porta le condoglianze del re, ma anche gli omaggi della sua passione, invitandola a raggiungerlo in segreto. Shirine è arrabbiata e attacca violentemente Chapour e il suo padrone. Comprendendola, Chapour decide di restare con lei e, vista la stanchezza della regina, propone che l’architetto Farhâd venga da lei, per trapanare un canale che le porti il latte dagli altipiani lontani. Quadro VIII. Farhâd è al lavoro nella montagna di Bisoutoun. Shirine gli fa visita e lui si innamora immediatamente di lei. Dopo che lei gli offre i suoi gioielli, avviene un dolce scambio tra loro, finché la regina gli chiede di portarla in braccio alla pozza di latte che ha scavato nella montagna. Dopo la sua partenza, Farhâd scolpisce la roccia in sua effigie, quando arriva Khosrow. Geloso e curioso, interroga il suo ignaro rivale. Quando Khosrow se ne va, Farhâd torna al lavoro mentre Chapour, travestito, annuncia la morte di Shirine, che fa precipitare lo sventurato nel vuoto e nella morte. Quadro IX. Shirine è di nuovo in lutto. È molto irritata dalla lettera di condoglianze inviata da Khosrow, la cui moglie Maryam sta morendo. Quadro X. Il palazzo di Khosrow. Davanti alla bara di Maryam, il loro figlio addolorato Chiroya giura di vendicarla. Arriva Khosrow, seguito da Nakissâ che gli legge l’ambigua lettera di condoglianze di Shirine. Chiroya in preda alla rabbia strappa la lettera e litiga col padre che lo caccia dal palazzo. Quadro XI. Ai piedi della montagna Bisutoun: tre tende, una per Shirine, una per Khosrow e una per la riconciliazione. In un dibattito cortese, Khosrow e Shirine si rivolgono l’un l’altro attraverso i musici cantori e si avvicinano fino alla gioia della riunione sotto la terza tenda. Chiroya, in confusione, guarda la scena. Quadro XII, epilogo. Soli con Shirine nella loro stanza, o così credono – Chiroya sta ascoltando dietro una tenda – Khosrow racconta la sua preoccupazione per il figlio. Shirine lo calma e si ritira, mentre il re si addormenta. Chiroya ne approfitta per pugnalarlo. Al suo ritorno, Shirine scopre l’omicidio. Chiroya la trattiene e si offre di diventare suo. Shirine finge di essere d’accordo e chiede di poter dare l’ultimo saluto al re. Si inchina, e prendendo la spada di Chiroya, si uccide, poi striscia verso il corpo di Khosrow per un ultimo abbraccio. Chapour prima, poi i musicisti e il coro vengono a coprire con un lenzuolo bianco i corpi abbracciati dei due amanti, ormai entrati nell’eternità delle storie.

Escaich aveva inizialmente privilegiato nelle sue composizioni la produzione strumentale, ma negli ultimi lavori per il teatro è approdato a una scrittura vocale che raggiunge punte di edonismo in Shirine. Già nel preludio il trattamento delle voci si fa notare per originalità: i cantastorie Bârbad (basso-baritono) e Nakissâ (controtenore) ornano i loro interventi di melismi che prolungano le vibrazioni dell’orchestra. Il colore cambia da un quadro all’altro e ancora più sinuosi sono i vocalizzi di Shirine avvolti nelle note degli strumenti tradizionali del flauto nai, del duduk e del qânûn che si aggiungono a quelle di un’orchestra ricca di fiati (2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni), percussioni, arpa, pianoforte, oltre agli archi. La parola è inutile per descrivere tanta bellezza e il canto del principe Khosrow (tenore) si abbandona infatti a puri vocalismi alla visione del bagno nel lago della bella Shirine (soprano). Chapour, il personaggio manipolatore, è un baritono impegnato in un canto versatile fatto di insinuazioni, seduzioni, lusinghe, minacce, che mescola il parlato, il declamato e lo Sprechgesang. Il coro ha un ruolo preponderante e come nella tragedia antica osserva e commenta l’azione assieme ai due narratori che si presentano all’inizio per aprire il libro e alla fine per richiuderlo. Le voci sono sempre in primo piano e l’orchestra rimane trasparente anche nei momenti più drammatici accompagnati da ritmi ostinati e meccanici. Gli strumenti orientali tessono le loro volute delicate assieme agli archi spesso divisi o trattati solisticamente. Tremoli, uso della sordina, figure leggere, vibrazioni impalpabili dei timpani, la partitura di Shirine sfoggia una tavolozza di toni trascoloranti e vibratili. Tutto questo è ben reso dal maestro concertatore Franck Ollu, specialista della musica francese e contemporanea di cui ha presentato numerose prime mondiali. A capo dell’orchestra del teatro dipana i suoni iridescenti della musica di Escaich lasciando spazio agli interventi vocali di una distribuzione di eccellenza che vede nella parte della protagonista Jeanne Gérard, cantante dal timbro particolare ed espressivo. Tutto un gioco di riflessi, apparizioni e sparizioni, la donna dalla «beauté de féérie» esce ed entra nei sogni degli uomini con l’eleganza di una miniatura persiana, eleganza che ritroviamo nella bella presenza scenica del soprano francese. I trasporti erotici del «prince des plaisirs» sono affidati all’impeccabile fraseggio di Julien Behr. Il suo Khosrow è ardente, impetuoso, suscettibile, aspetti che il cantante sottolinea con eleganza e sensibilità unite alla bellezza di emissione tipica della scuola tenorile francese. Jean-Sébastian Bou, che aveva già interpretato Claude, offre la sua solida presenza al personaggio più complesso della vicenda, il pittore Chapour, risolto con la professionalità che da sempre ammiriamo nel baritono francese. Ottimi sono i rimanenti numerosi interpreti: i due cantastorie, il bravissimo controtenore Théophile Alexandre (Nakissâ) e l’autorevole Laurent Alvaro (Bârbad, che fu il più importante musico alla corte di Khosrow); Majdouline Zerari (Chamira, regina senza sposo, grande dame dell’epoca); Florent Karrer (Farhâd) e Stephen Mills (Chiroya, il figlio orfano chiuso nella sua rabbia non sopita). Il re Hormoz e la figlia Maryam sono personaggi muti.

Nella messa in scena di Richard Brunel, il nuovo direttore dell’Opera di Lione, non troviamo elementi favolistici orientaleggianti: la terra e le sterpaglie del deserto contornano la scenografia di Étienne Pluss, dominata da una struttura su piattaforma girevole che rende con efficacia i vari ambienti in cui si dipana la vicenda, un’azione che procede per sguardi più che per dialoghi: il principe spia la nudità della donna, lei è stregata dal suo ritratto, il ragazzo spia i due amanti… Il testo molto poetico e letterario di Rahimi offre pochi spazi alla drammaturgia ed ecco quindi che le pareti bianche diventano schermi su cui proiettare belle immagini di miniature persiane, il ritratto fascinoso del principe, i dettagli dell’ultimo incontro e della morte degli amanti. All’inizio si era anche vista l’immagine di una donna dalle labbra cucite. Particolarmente suggestivo per le luci di Henning Streck è l’ingresso avvolto nella nebbia dello scultore Farhâd su un costone di montagna in cui è scolpito un cavallo. Appropriati si sono rivelati i costumi di Wojciech Dziedzic e le sobrie  coreografie di Hervé Chaussard.

Lo spettacolo è stato caldamente applaudito da una sala strapiena in ogni ordine di posti da un pubblico molto giovane. Ma non si trattava delle solite scolaresche cooptate dagli insegnanti: un terzo dei frequentatori dell’Opéra de Lyon ha meno di trent’anni, mi è stato riferito.

Biennale d’Arte di Venezia 2022

Oφcina e Paolo Fantin, Lympha

Biennale d’Arte di Venezia (parte I, Giardini): in cerca di emozioni

Venezia, Giardini, 1 maggio 2022

Alla Biennale d’Arte di Venezia dominata dalla presenza femminile, tra padiglioni chiusi (Russia, per ovvie ragioni; Repubbliche Ceca e Slovacca per ristrutturazione), vuoti (Spagna, per “riallineare” di 10° i muri come quelli dei padiglioni contigui di Belgio e Olanda; Germania, per un ipotetico smantellamento e lasciare così più verde ai Giardini…), dominati dalla ipertecnologia (Giappone e Corea del sud), trasformati in incongrui padiglioni africani (USA) e operazioni concettuali molto astratte, si cercano le emozioni in quelli di Venezia (dove Paolo Fantin e Oφcina ricreano il miracolo di Archèus al Forte di Marghera) o della Danimarca (con una coppia di centauri di impressionante e straziante realismo).

Uffe Isolotto, We Walked the Earth