Mese: settembre 2024

Sabbioneta Chamber Opera Festival

G. F. Händel, Minuetto in sol minore

J. S. Bach/Vivaldi, Sicilienne dal Concerto in re minore BWV 596

R. Schumann, Quattro Lieder per pianoforte

S. Rachmaninov, Vocalise Op. 34 n. 14

S. Rachmaninov, Spring Waters Op. 14 n. 11

Giuseppe Martucci, La canzone dei ricordi op. 68b

Marcos Madrigal pianoforte, Barbara Frittoli soprano

Sabbioneta, Teatro all’Antica, 28 settembre 2024

Dialoghi – La canzone dei ricordi

Certo, con i suoi 300 posti è minuscolo il Teatro Verdi di Busseto che ieri ha ospitato Un ballo in Maschera per il Festival di Parma, ma che dire allora dei 100 posti del Teatro all’Antica di Sabbioneta?

Come dice il nome la struttura è totalmente diversa: disegnato da Vincenzo Scamozzi e inaugurato nel 1590, può essere considerato uno tra i primi esempi dell’età moderna, essendo il primo teatro inserito in un edificio appositamente costruito (il precedente Teatro Olimpico di Vicenza, era frutto di una ristrutturazione). Un teatro moderno per la presenza di elementi innovatori per l’epoca, quali la facciata autonoma, il diversificato sistema d’ingressi, la forma della cavea, l’orchestra inclinata, il retropalco dotato di camerini per gli artisti. Spettacolare è il peristilio corinzio coronato da statue di divinità mitologiche che completa la cavea. In passato il palcoscenico a scena fissa era dotato di un’immagine lignea di città prospettica, ma la scenografia è andata distrutta e quella attuale è stata posta nel 1996.

Qui si svolge il “Sabbioneta Chamber Opera Festival”, nuovo titolo e maggiori ambizioni del precedente “Festival degli Olimpici” (ossia i teatri di Vicenza e Sabbioneta), che quest’anno si sviluppa per tre fine settimana dal 21 settembre al 6 ottobre con un programma variegato curato dal direttore del festival Andrea Castello. Iniziato con una versione cameristica di Das Lied von der Erde di Gustav Mahler, è continuato con una selezione di brani dalla Cenerentola di Rossini per voci e pianoforte. Le spettacolari chiese della cittadina ospitano importanti pagine sacre e poi ci saranno un concerto lirico che omaggia Puccini, musiche veneziane del XVII e XVIII secolo con Vivica Genaux e infine gli intermezzi Rosica e Moriano composti da Francesco Feo per il suo Siface.

Il concerto del 28 settembre vede protagonisti il pianista Marcos Madrigal e il soprano Barbara Frittoli. Nella prima parte il virtuosistico pianista cubano presenta un eclettico programma che contiene Händel, Bach, Vivaldi, Schumann e Rachmaninov. I primi due pezzi, il Minuetto in sol minore di Georg Friedrich Händel e la Sicilienne dal Concerto in Re minore BWV 596 di Johann Sebastian Bach e Antonio Vivaldi, nelle trascrizioni per pianoforte di Wilhelm Kempff e di Alexandre Tharaud rispettivamente, non hanno nulla dello stile degli autori originali: Madrigal esegue i due lavori con uno slancio romantico e un uso del pedale che snaturano il carattere delle due pagine che, complice anche l’acustica della sala con il suo eccessivo riverbero, perdono la trasparenza e la grazia settecentesca originali per diventare tutta un’altra cosa.

Le cose vanno un po’ meglio con i Quattro lieder di Robert Schumann trascritti da Franz Liszt per pianoforte: “Er Ist’s” (dal ciclo Liederalbum für die Jugend op. 79, il n° 23); “Frühlingsnacht” (l’ultimo del Liederkreis op. 39); “Frühlings Ankunft” (da Liederalbum für die Jugend op. 79, il n° 19); “Liebeslied” (anche noto come Widmund, il primo dei 26 lieder di Myrthen op. 25). Qui il tocco turgido del pianista sottolinea come Liszt prevalga abbondantemente su Schumann: senza parole la parte pianistica ha il sopravvento e mostra il suo lato più virtuosistico ed edonistico. Anche i due pezzi di Sergeij Rachmaninov sono trascrizioni per pianoforte di Alexander Siloti del suo Vocalise op. 24 n° 14 e di Rachmaninov stesso di Spring Waters op. 14 n° 11, soprattutto la prima una pagina molto famosa e arrangiata anche per voce e orchestra. Il tono trascinante e postromantico del compositore russo sembra quello più nelle corde di Madrigal ed è sintomatico del suo mondo espressivo l’aver scelto solo trascrizioni per pianoforte che mettano in luce la sua indubbia tecnica.

Nella seconda parte il pianista diventa accompagnatore della voce. E che voce! Anche se negli ultimi anni frequenta sempre meno i palcoscenici – ma l’anno prossimo alla Scala sarà la Duchesse de Crakentorp ne La fille du régiment diretta da Evelino Pidò nella deliziosa produzione di Laurent Pelly – Barbara Frittoli ha lasciato la sua indelebile impronta di interprete mozartiana. La sua ricercata vocalità fatta di espressività ed eleganza di fraseggio la ritroviamo ne La Canzone dei Ricordi, un lavoro del 1887 di Giuseppe Martucci: sette liriche su versi, onesti ma non eccelsi, di Rocco Emanuele Pagliara, bibliotecario del Conservatorio di S. Pietro a Maiella di Napoli e amico intimo del compositore.

Nel dolce ed espressivo “No, svaniti non sono i sogni” (n. 1) una donna coltiva la speranza di un amore su una melodia che pur ricordando nel tono le liriche francesi ha una sua precisa personalità. Nell’allegretto con moto di Cantava il ruscello” (n. 2) l’accompagnamento pianistico riprende la fluidità dello scorrere dell’acqua che ritroveremo in certo Debussy. L’andantino di Fior di ginestra” (n. 3) ha invece la cantabilità di uno stornello italiano mentre l’atmosfera si fa più mossa con “Sul mar la navicella” (n. 4) e francamente drammatica nell’andante di Un vago mormorio” (n. 5) dove la speranza della donna è ancora una volta delusa: «Ma ‘l mormorio che m’ha portato ‘l vento | è sussurro di rami e non d’amor!». Nell’andantino con moto di Al folto bosco” (n. 6) al poeta sembra scappare una citazione pucciniana con «Mite alba lunar», ma La bohème sarebbe andata in scena solo nel 1896! Il n. 7 riprende il testo del n. 1 concludendo così ciclicamente la composizione in un tono tra rassegnato e l’estatico.

A Giuseppe Martucci, l’araldo del sinfonismo germanico in un paese votato quasi interamente al melodramma, risponde con una punta di ironia la cantante, che nel suo bis propone un’intensa versione dell’aria di Santuzza «Voi lo sapete o mamma» dalla Cavalleria rusticana di Mascagni.

Un ballo in maschera

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Un ballo in maschera

Busseto, Teatro Verdi, 27 settembre 2024

Non grand-opéra, ma vaudeville: il Ballo in maschera a Busseto

Busseto, il borgo più odiato che amato da Verdi che qui nacque, fin da metà Ottocento possiede un teatrino incastonato nella severa mole della duecentesca rocca. Stucchi, dorature, velluti e damaschi rossi decorano la sala e i locali annessi di questo minuscolo gioiello di soli 300 posti dove il Festival Verdi allestisce almeno uno dei suoi spettacoli. Quest’anno tocca a Un ballo in maschera e come sempre è una sfida adattare una produzione lirica nata per un grande teatro alle ridotte dimensioni di un palcoscenico di sette metri. 

Nato nel 1859 per il Teatro Apollo di Roma, il lavoro tratto da Gustave III ou Le bal masqué di Scribe, basato su un fatto vero, ossia l’assassinio del re svedese Gustavo III avvenuto nel 1792, subì come sappiamo una travagliata gestazione a causa della censura e nel corso del 1858 Verdi vide con costernazione cambiare la sede del debutto (da Napoli a Roma), il titolo (da Gustavo III a Una vendetta in domino ad Adelia degli Adamari a Una festa da ballo in maschera a Un ballo in maschera), il protagonista declassato da re svedese a duca della Pomeriania a capo della fazione guelfa a Firenze a conte in quel di Boston, l’ambientazione passare dal XVIII secolo a un’epoca precristiana al XIV secolo alla fine del XVII. E così i nomi: Gustavo diventava Armando e infine Riccardo, Amelia fu Adelia prima di riprendere il suo nome e Carlo fu Roberto e infine Renato. Che si sia mantenuta la coerenza drammaturgica in tutti questi passaggi è un miracolo quasi inspiegabile. Non grand-opéra, ma vaudeville, una tragedia che si intreccia alla commedia, il sublime al grottesco, questo è Un ballo in maschera di Verdi e di questo deve tener conto chi ne realizza la partitura e chi lo mette in scena. 

«Ogni cura si doni al diletto»: l’esortazione di Riccardo alla sua corte pazzerella è la chiave interpretativa della messa in scena del giovane Daniele Menghini, assistente di Graham Vick nei suoi ultimi spettacoli quali la Zaide di Roma. Davanti al sipario ci mostra un palloncino colorato attraversare il palcoscenico prima di scoppiare nelle mani di uno degli invitati che ritornano ancora in maschera e in preda a una solenne sbornia da un ballo. Tutta la vicenda è letta come una corsa all’abisso di un sovrano stravagante, un artista che indossa la corona, come fu appunto Gustavo III, eccessivo e forse proprio per questo assassinato.

Nella lettura di Menghini Riccardo arriva dalla festa travestito da donna, la faccia con i segni di un trucco pesante, per trasformarsi poi nel marinaio che interroga la maga diventando il Jack Sparrow de I Pirati dei Caraibi. Non sono da meno i suoi amici in costumi irriverenti, ma non i congiurati, che per tutta l’opera esibiranno impeccabili smoking. Molto accurato e fantasioso il lavoro del costumista Nika Campisi: Ulrica è una cadaverica Elisabetta I e Oscar una vivace ragazza che si travestirà da uomo nel ballo finale. La scenografia di Davide Signorini è efficace per rappresentare i diversi ambienti richiesti: il tono camp della corte si trasforma abilmente nell’abituro della maga con angioletti neri che scendono dal soffitto e poi nell’orrido campo con profusione di teschi ghignanti, teste mozze e scheletri, mentre il ballo in maschera finale riprende, esaltandola, la scena iniziale con mirror balls che si aggiungono ai luttuosi amorini. Sempre ben realizzate le luci Gianni Bertoli.

Un giuoco della morte grottesco e ironico questo del regista portato avanti con mano maestra e grande senso del teatro. Non sono fuggiti alcuni particolari quali l’effigie di Gustavo III sulle bandierine sventolate nel primo atto e gli occhialini tondi di Tom, un rimando a quelli di Jacques Offenbach il cui spirito riaffiora spesso in questa sorprendente partitura. Elemento che invece sembra sfuggito a Fabio Biondi, che nelle sue note di direzione sul programma ricorda come «lontano dai grandi palcoscenici italiani, il teatro lirico si producesse in spazi assai ridotti e per questo fosse implicito ridurre l’organico orchestrale», ma non è solo un problema di riorchestrazione, si tratta anche di riarmonizzare gli equilibri sonori tra le diverse famiglie di strumenti e tra l’orchestra e la sala, cosa che porta a ripensare la drammaturgia sonora sottolineando la dimensione grottesca, cosa che è in parte mancata nella sua direzione non sempre ironica e leggera a capo di una compagine, l’Orchestra Giovanile Italiana, volenterosa ed entusiasta ma con suoni talora pesanti e poco precisi, messi in evidenza da un’acustica che, in un ambiente così piccolo, non perdona.

Riguardo alle voci si sono ascoltate molti interpreti giovani al debutto nella parte e anche allievi ed ex allievi dell’Accademia Verdiana del Corso di Alto perfezionamento in repertorio verdiano, come l’applauditissima Ulrica di Danbi Lee, l’Oscar pimpante di Licia Piermatteo e l’inappuntabile Samuel di Agostino Subacchi. Giovanni Sala non è nuovo ai palcoscenici italiani e i suoi mezzi vocali non strabordanti hanno avuto la meglio nell’acustica della sala così che la sua prestazione come Riccardo, dopo alcune iniziali incertezze, si è fatta sempre più convincente. Autorevole ma non molto ricco di colori il Renato di Lodovico Filippo Ravizza mentre Caterina Marchesini col suo timbro un po’ metallico ma una sicura tecnica ha costruito con intensità la parte di Amelia. Bene il Silvano di Giuseppe Todisco, il Tom di Lorenzo Barbieri e il Giudice di Francesco Congiu.

Insomma, si è trattato di uno spettacolo apprezzabile soprattutto per l’aspetto visivo, cosa non sempre scontata nella frequentazione dei teatri lirici.

Macbeth

 

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Macbeth

Parma, Teatro Regio, 26 settembre 2024

★★★★☆

Il Macbeth di Parigi, in francese, inaugura il Festival Verdi

Sei anni fa ci aveva fatto conoscere Le trouvère, la versione francese de Il trovatore. Quest’anno il Festival Verdi per inaugurare la sua XXIV edizione, intitolata “Potere e Politica”, mette in scena il Macbeth nella versione di Parigi del 1865 e in francese, anche se dal titolo questa volta non si capisce. Era stata eseguita in forma concertistica all’aperto al Parco Ducale nel 2020 durante la pandemia e registrata su CD, mentre nel 2018 al Teatro Regio era stata allestita la versione del 1847.

Dopo aver esaurito le opere del compositore a cui è dedicato, un festival deve approfondirne la conoscenza con le versioni meno popolari o desuete, oltre che metterle in scena in produzioni non banali. Entrambi gli scopi sono raggiunti da questa produzione del Macbeth con la regia di Pierre Audi, la concertazione di Roberto Abbado e un cast di grande livello. La revisione di Candida Mantica si basa sull’edizione critica di David Lawton.

La versione di Parigi, ma cantata in italiano, non è una novità per il pubblico: molto spesso quello che viene proposto sulle scene è un mix delle due versioni, ossia la seconda senza i ballabili e con l’inserimento del finale della prima versione. Oltre a piccoli cambiamenti per adattarsi alla prosodia francese, sostanziali sono le differenze tra le due versioni, quella del 1847 alla Pergola di Firenze e quella di diciotto anni dopo al Théâtre Lyrique di Parigi. Per questa nuova versione Verdi chiede l’intervento del Maffei per poi far trasporre tutto in francese da Charles Louis Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont. Accanto a piccoli cambiamenti di termini, importanti sono la sostituzione della cabaletta di Lady Macbeth del secondo atto «Trionfai! securi alfine | premerem di Scozia il trono» con l’aria «La luce langue» che diventa qui «Douce lumière». Nella versione del 1865 Macbeth si trova accanto la moglie anche nel terzo atto, dove le narra il responso delle streghe e assieme decidono di sterminare Macduff e prole e di cercare il figlio di Banco per ucciderlo. A questo fine la cabaletta di Macbeth solo in scena «Vada in fiamme, e in polve cada» viene sostituita dal duetto tra Macbeth e Lady Macbeth «Heure de mort e de vengence». Sempre nel terzo atto furono inoltre inserite le danze per adeguarsi alle convenzioni teatrali parigine. Nel quarto atto il coro «Patria oppressa» diventa una scena e coro e cambia la morte di Macbeth, che nella prima versione avviene fuori scena dopo che ha cantato «Mal per me che m’affidai | ne’ presagi dell’inferno!», mentre nella seconda abbiamo l’aria «Mais à jamais pourtant | par le crime ma vie | sera flétrie!», poi il duello tra Macduff e Macbeth con la morte di quest’ultimo in scena. Diverso anche il coro finale dei soldati «Un jour brillant rayonne». In questa versione il ruolo propulsivo della Lady, che in quella del 1847 si esauriva a metà del dramma, è molto più evidente: qui la coppia agisce in simbiosi, un organismo indissolubile, e i due coniugi diabolici muoiono in parallelo dopo un flusso di coscienza, irrazionale quello di lei, razionale quello di lui.

Il diverso tono delle seconda versione, la “tinta” come diceva Verdi, è individuato da Roberto Abbado, lo stesso dell’esecuzione del 2020, alla testa della Filarmonica Arturo Toscanini con l’Orchestra Giovanile della Via Emilia per la banda interna, nella corsa inarrestabile verso la catastrofe del protagonista, uno slancio drammatico di grande tensione realizzato con un ampio range dinamico e con l’orchestrale sempre pronta a realizzare le intenzioni direttoriali. Ammirevole è l’impegnativa prova del coro del teatro istruito da Martino Faggiani e particolarmente godibili i ballabili, per la qualità dell’accompagnamento strumentale e la coreografia di Pim Veulings che ha coinvolto in una specie di pantomima i due protagonisti al proscenio, mentre in secondo piano un Macbeth ballerino se la vede con ben tre Lady danzanti.

Il giovane baritono Ernesto Petti, debuttante nella parte, delinea un Macbeth dominato dalla moglie ma dai notevoli mezzi vocali, un bel timbro, un declamato chiaro e una grande espressività. Nella maturazione di questo giovane cantante si prevede un interprete di spessore e la conferma sarà probabilmente lo Gérard del prossimo Andrea Chénier a Torino. Aveva saltato la prova generale per un’indisposizione, ma si è presentata alla prima in piena forma Lidia Fridman, Lady Macbeth dal timbro non particolarmente bello, in linea quindi con quanto richiesto dall’autore, ma di grande temperamento. Qualche modulazione meno aspra, qualche passaggio di registro meno discontinuo sarebbe stato apprezzato maggiormente, ma così il suo fraseggio frastagliato definisce vocalmente quello che la figura scenica del soprano russo, ormai quasi italiano, suggerisce visivamente: una figura imponente che sovrasta il marito, l’elemento dominante di questa coppia senza figli. Luciano Ganci dà grande slancio, forse anche troppo, a Macduff nell’aria finale mentre come Malcom si ascolta un sicuro David Astorga. Bene anche le figure minori della Comtesse di Natalia Gavrilan e il Médecin di Rocco Cavalluzzi. 

E infine Banquo, che smette di cantare già a metà del secondo dei quattro atti, ma Michele Pertusi lascia la sua impronta indelebile anche in questa prova in francese dove ogni parola ha il suo senso teatrale, il fraseggio è senza pari, la presenza scenica imponente. È l’unico italiano del cast che con la sua lunga frequentazione di titoli francesi sembra essere nato sui bordi della Senna. Sarà anche perché è di qui, ma gli applausi più calorosi del pubblico sono proprio per lui.

La messa in scena di Pierre Audi è a dir poco austera e cupa, i movimenti sono quasi stilizzati e la recitazione minimalista. Qualche particolare non convince: far leggere la lettera («Je les vis apparaître au jour de la victoire») dalla Lady in presenza del marito – e nello stesso momento farle dire al servitore che annuncia l’arrivo del Re Duncan: «Macbeth l’amène?» – è un errore anche drammaturgico. Qui la Lady deve essere sola con i suoi propositi criminali nel coinvolgere il marito. Complessivamente comunque lo spettacolo convince ma non trascina, è curato ma freddo, come spesso accade con le produzioni del direttore del Festival di Aix-en-Provence. Nella scenografia di Michele Taborelli dei primi due atti la riproduzione della sala del Regio e le tende rosse ricordano il meta-teatro del Don Giovanni di Carsen, poi l’impianto scenico cambia, con delle grate che suggeriscono la gabbia in cui si stanno rinchiudendo i due assassini. Una piattaforma che sale e scende nel mezzo del palcoscenico aggiunge una dimensione alla staticità dell’impianto: qui si inabissa il cadavere di Duncan e risale già nella bara poco dopo. Senza particolari guizzi la realizzazione della scena delle apparizioni e quella delle ondine e silfidi con i giovani allievi di Professione Danza. Nel finale durante il coro finale Macduff gioca con la sedia facendola ruotare come avevano fatto le streghe. Audi vuole forse suggerire così la precarietà del potere?

Ottimo il gioco luci di Jean Kalman e Marco Filibeck e più che appropriati i costumi di Robby Duiveman, elegantissimi all’inizio, poi più dimessi. Certo che vestire la Fridman è facile: col suo fisico e la sua altezza sembra sempre pronta per una sfilata in passerella. Meno facile per gli uomini, eccetto per Pertusi che sfoggia sempre un’invidiabile eleganza innata.

Il caloroso esito con applausi prolungati per tutti gli artefici dello spettacolo, compreso il regista una volta tanto, dimostra l’opportunità di operazioni come queste nel proporre titoli largamente conosciuto in vesti parzialmente inedite, ma conferma anche che il francese è di rigore solo per le opere di Verdi nate in questa lingua, come Les vêpres siciliennes o il Don Carlos. E non è solo questione di abitudine: l’italiano del Macbeth è ben più incisivo della pur pregevole traduzione di Nuitter e Beaumont.

Stagione Sinfonica RAI

Richard Strauss, Der Rosenkavalier, suite dall’opera

Igor’ Stravinskij, L’oiseau de feu, suite dal balletto

Maurice Ravel, Boléro

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Andrés Orozco Estrada direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 25 settembre 2024

Concerto per i 30 anni dell’OSN RAI

Prima di iniziare la sua stagione ufficiale il 17 ottobre, l’Orchestra Sinfonia Nazionale RAI celebra il trentesimo anniversario di vita con due concerti diretti da Andrés Orozco Estrada.

Nel settembre 1994 si ascoltavano infatti le prime note della nuova orchestra nata dalla fusione delle quattro orchestre RAI dell’epoca: l’Orchestra Sinfonica di Torino, l’Orchestra Sinfonica di Milano, l’Orchestra Sinfonica di Roma e l’Orchestra da camera “Alessandro Scarlatti” di Napoli. La celebrazione si tinge quindi di amarezza perché ricorda lo scioglimento di ben tre orchestre e relativi cori. A tutt’oggi nessuno ha proposto di ricrearne almeno un’altra. (Per fare solo due esempi, Radio France ha quattro orchestre e la BBC cinque). Pochi mesi prima era nata Mediaset e la RAI abdicava definitivamente al suo ruolo culturale per combattere con gli stessi mezzi della concorrenza le nuove televisioni private. La televisione pubblica si allineava con l’offerta al ribasso delle reti private perdendo il ruolo di quello che era stato un elemento essenziale nell’unificazione linguistica dell’Italia – se nel 1861, anno dell’unificazione politica della penisola, solo il 10% della popolazione si esprimeva in italiano, ancora nel secondo dopoguerra erano gl’innumerevoli dialetti a dominare nella comunicazione orale – e una delle maggiori possibilità di acculturamento delle masse, facendo entrare nelle case il teatro, il cinema di qualità, la letteratura e la musica.

Il 22 settembre 1994 all’Auditorium del Lingotto per “Settembre Musica” la nuova orchestra eseguiva in forma di concerto il Pelléas et Mélisande di Claude Debussy diretto da Claire Gibault. Due giorni dopo Georges Prêtre dirigeva l’orchestra a conclusione del Prix Italia e il 29 settembre Giuseppe Sinopoli firmava il primo concerto della stagione sinfonica 1994-95. Il programma di quei due concerti è ora riproposto da Andrés Orozco Estrada in due serate, il 25 e 30 settembre.

Con – eccessiva – sobrietà sabauda, non un fiore ingentilisce la sala del concerto ripreso dalla televisione, non un cenno viene fatto dell’avvenimento, non una parola compare sul programma di sala. Per fortuna il pubblico che gremisce l’Auditorium Toscanini è prodigo di applausi per un programma di grande popolarità.

Il primo brano è la Suite per orchestra del Rosenkavalier, non scritta da Richard Strauss ma da lui approvata. I cinque movimenti riassumono la vicenda: il primo tempo “Con moto agitato” riproduce il preludio al primo atto col risveglio di Octavian e della Marschallin dopo una notte d’amore; il secondo “Allegro molto” l’arrivo a casa Faninal di Octavian per la presentazione della rosa d’argento; il terzo “Tempo di valse, assai comodo da primo” il valzer di Ochs; il quarto “Moderato molto sostenuto” il finale «Ist ein traum»; il quinto “Schneller Walzer. Molto con moto” è una ripresa dei valzer del II atto dell’opera. Così condensate, le musiche perdono il fascino melanconico dell’originale per trasformarsi in una specie di poema sinfonico per la ricchezza orchestrale, la suddivisione in scene e la lunghezza. O per lo meno questo è quello che si evince dalla lettura di Andrés Orozco Estrada che spinge sul pedale della magniloquenza delle trascinanti melodie e della ricchezza strumentale.

Il secondo brano in programma è anch’esso una suite, la seconda (del 1919) tratta dal balletto L’oiseau de feu che Igor’ Stravinskij aveva composto nel 1910 per Sergej Djagilev all’opera di Parigi. Il soggetto, quanto mai fantastico e orientaleggiante, corrispondeva all’immagine che la Russia proponeva di sé in Europa in quegli anni mentre nell’orchestrazione il ventottenne Stravinskij si ricordava del suo maestro Nikolaij Rimskij-Korsakov in una partitura prodigiosa che coniugava modernità e tradizione musicale russa, rutilanti colori strumentali e vivacità ritmica, efficacia narrativa e invenzione melodica. I sei pezzi seguono fedelmente la vicenda del magico uccello catturato dal principe Ivan nel giardino del perfido Kašej: Introduzione; L’Uccello di fuoco e la sua danza; Variazioni dell’Uccello di fuoco; Ronda delle Principesse; Danza infernale del re Kašej; Berceuse e Finale. Il pezzo sembra fatto apposta per mettere in risalto le qualità dell’orchestra RAI – precisione di attacchi, bellezza di colori, inesauribile gamma sonora – messa amorevolmente in evidenza dalla bacchetta di Andrés Orozco Estrada.

Ancora dieci anni e si arriva al terzo di questo formidabile trittico di pagine novecentesche: nel 1928 Maurice Ravel scriveva le musiche per un balletto che esaltasse la sua Spagna amata – Ravel era nato vicino a Biarritz e a pochi chilometri dal confine con i Paesi Baschi. Nasceva dunque Bolero, un pezzo che sfidava ogni forma, «una tessitura orchestrale senza musica», un semplice tema riproposto senza variazioni, senza modulazioni per 340 battute in un crescendo sonoro implacabile in cui a poco a poco entrano tutti gli strumenti dell’enorme orchestra (due ottavini, due flauti, due oboi, oboe d’amore, corno inglese, quattro clarinetti, tre sassofoni, due fagotti e un controfagotto, quattro corni, quattro trombe, quattro tromboni e basso tuba, varie percussioni, arpa, celesta e archi). Su un pizzicato appena percettibile delle viole e dei violoncelli Carmelo Giuliano Gullotto al tamburo rullante enuncia pianissimo il suo breve inciso ritmico (due battute) con terzine di semicrome e lo terrà inesorabilmente fino alla fine. Alla quinta battuta entra il primo flauto con il famosissimo tema. Alla battuta 21 entra il secondo flauto, seguito subito dopo dal clarinetto, dal fagotto e così via fino a che tutti gli strumenti si uniscono in un esplosivo finale. Un pezzo che ha una grandissima presa sul pubblico, e anche questa volta lo ha dimostrato grazie alla coinvolgente ma sempre lucida lettura del direttore principale dell’orchestra.

Ifigenia in Aulide

 

Nicola Porpora, Ifigenia in Aulide

Bayreuth, Markgräfisches Opernhaus, 5 settembre 2024

★★★★★

(live streaming)

A Bayreuth scoperto un altro tesoro: un’opera protoilluminista

Si può dire che ben pochi librettisti abbiano rinunciato a ispirarsi alla vicenda euripidea: da Apostolo Zeno a Luigi Romanelli, da Paolo Rolli a Marco Coltellini, da Matteo Verazi a Luigi Serio, da Leopoldo Villati a Ferdinando Moretti. Ancora più numerosi i compositori che oltre a Gluck hanno intonato la storia della infelice figlia di Agamennone: Antonio Caldara (1718), Carl Heinrich Graun (1748), Tommaso Traetta (1759), Niccolò Jommelli (1773), Vicente Martín y Soler (1778), Luigi Cherubini (1788) e Vincenzo Federici (1809) alcuni di questi.

L’opera di Nicola Porpora nasce dalla rivalità con Händel nella Londra del tempo: nel 1733 alla Arianna in Nasso dell’italiano il sassone rispondeva con la sua Arianna in Creta; nel dicembre 1734 Händel presentava il suo Oreste alla Royal Academy of Music, pochi mesi più tardi, il 3 maggio 1735 per la concorrente Opera of the Nobility, Nicola Porpora rispondeva con un’altra vicenda degli Atridi, Ifigenia in Aulide su libretto in italiano di Paolo Antonio Rolli. Nel cast di allora tre delle maggiori stelle dell’universo canoro dell’epoca: i castrati Farinelli (Achille) e Senesino (Agamennone) e il soprano Francesca Cuzzoni (Ifigenia).

Antefatto. L’esercito greco si è riunito nella Aulide prima di salpare insieme per Troia. Il capo dell’esercito Agamennone ha ucciso un cervo sacro nel bosco di Diana e ha deriso la dea. Infuriata per questa blasfemia, Diana fa calare i venti e impedisce ai Greci di salpare. Il sacerdote Calcante profetizza che solo il sacrificio della figlia di Agamennone, Ifigenea, può placare l’ira della dea. Con il pretesto che Ifigenia deve sposare l’eroe Achille, viene mandata nella Aulide con la madre Clitennestra.
Atto I. Nelle mani del guerriero Ulisse viene consegnata una lettera in cui si avverte Clitennestra che il presunto matrimonio tra Ifigenia e Achille deve essere ritardato; ad entrambi viene consigliato di fuggire ad Argo. Il sacerdote Calcante è fermamente deciso a rispettare l’ordine di Diana e che Achille non deve sapere nulla del futuro sacrificio. Il saggio Ulisse elogia la prudenza come la più alta virtù, persino superiore al coraggio temerario. Agamennone ha saputo che Clitennestra non può fare il viaggio verso la Aulide per motivi di salute. Questo gli fa sperare che Diana sia soddisfatta della sua disponibilità al sacrificio. Ma Calcante lo avverte di non prendere troppo alla leggera la furia divina. Clitennestra e Ifigenia arrivano inaspettatamente in Aulide e si stupiscono di non essere accolte secondo la dignità della loro posizione. Non riconosciute, si imbattono in Achille. Ifigenia e l’eroe si innamorano prima di riconoscersi con gioia. Il ricongiungimento di Agamennone con la moglie e la figlia è per lui un tormento. L’amore per la sua famiglia è più grande della paura per gli dèi. Achille nota l’angoscia di Agamennone. Quando apprende la verità, proclama di credere nella razionalità degli dèi, non nella loro crudeltà.
Atto II. La situazione si aggrava. Ulisse avverte l’ira dell’esercito, che non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nella partenza per Troia e chiede il sacrificio di Ifigenia. Achille la difende e la pone sotto la protezione del suo seguito, i Mirmidoni. L’alleanza con Agamennone inizia a incrinarsi. Calcante continua a diffondere la paura della vendetta di Diana. I due si scontrano in una furiosa guerra di parole: Achille contrappone alle crudeli convinzioni di Calcante la sua fede nella bontà e nella razionalità degli dei.
Atto III. Achille ha messo a punto un piano per portare di nascosto Ifigenia fuori dalla Aulide. Scortata da una truppa di Mirmidoni, deve essere portata su una nave. Durante il tragitto il gruppo incontra Calcante e i suoi sacerdoti: ancora una volta scoppia un conflitto tra il mondo delle armi e quello della fede. Ifigenia vuole porre fine al conflitto accettando volontariamente il suo sacrificio. Poco prima che l’atto venga compiuto da Calcante, Achille irrompe con la spada sguainata. La dea Diana in persona appare con una cerva morta e proclama che l’animale ha riscattato con la sua vita la morte del cervo sacro. L’eroica abnegazione di Ifigenia e la sua disponibilità al sacrificio, dice la dea, valgono per lei più del sangue. Achille loda la clemenza degli dèi e tutti si uniscono al giubilo.

La vicenda è dunque quella nota, ma Rolli nel suo pregevole libretto introduce un elemento che riflette gli ideali protoilluministici dell’epoca, ossia lo strapotere della religione, incarnato qui nella figura dell’augure Calcante, che fin dal suo primo intervento mette in chiaro le cose: «Ma del sangue miglior tinte esser denno l’are nostre, | onde scendane maggiore nelle turbe il rispetto ed il terrore» e poi nel terzo atto canterà l’aria: «Son nostre forze le turbe ignare». L’opera di Porpora contrappone l’illuminismo della ragione difeso da Achille alla superstizione e alla manipolazione delle masse orchestrata da Calcante e dai re greci Ulisse e Menelao mentre il conflitto tra Agamennone e il grande sacerdote quasi anticipa quello tra Filippo e l’Inquisitore nel Don Carlos verdiano: «AGA: E tu supremo interprete del fato, credi che in nostri petti tal legame d’affetti egli annodasse perché il coltello tuo poi lo tagliasse? CAL: Credo che la potenza alta infinita de’ Numi arbitra sia di morte e vita. Con gl’altri re giurasti vendicar Menelao, con gl’altri re che rege lor t’an fatto; e scioglier pensi il giuramento e il patto!» .

Ma l’opera non affronta solo il tema dell’isteria religiosa collettiva che porta ad atti innaturali come l’omicidio della propria figlia, affronta anche i problemi derivanti dal fatto che gli esseri umani, sfidando le leggi della natura, ne devono poi affrontare le conseguenze. Applicata ai nostri problemi contemporanei, l’uccisione del cervo sacro da parte del re Agamennone per sfamare il suo esercito affamato equivale alla distruzione della natura, qui la dea Diana, che così si vendica degli atti degli umani, fa notare il regista.

Iniziato con un’opera di Porpora, Carlo il Calvo, nel 2020 in piena pandemia da Covid, il Bayreuth Baroque Opera Festival alla sua quinta edizione si è rivelato tra i più interessanti festival lirici del mondo e lo dimostra anche quest’anno con un’altra gemma del passato. Porpora è un compositore che si spinge oltre i confini del virtuosismo vocale, sfruttando appieno le infinite capacità della voce umana e ce ne fornisce ulteriore prova in questa Ifigenia in Aulide affidata per la concertazione a Christophe Rousset al clavicembalo e alla guida de Les Talens Lyriques, orchestra in residence del festival quest’anno. Il suo approccio privilegia l’aspetto musicale-drammatico più che catturare l’attenzione con contrasti estremi di timbri, tempi ed effetti speciali isolati. In Porpora gli strumenti interagiscono con le voci, non sono un mero accompagnamento della linea vocale e Rousset con il suo prezioso ensemble sostiene alla perfezione le acrobazie canore dei cantanti. E che acrobazie! La parte di Achille fu scritta su misura per il Farinelli, la sua ampia tessitura e le agilità inarrestabili che il controtenore Maayan Licht affronta con disarmante facilità e fluidità. Punto forte della serata, il sopranista israeliano si era già fatto notare nell’Alessandro nell’Indie di due anni fa, ma qui nella figure del Pelide – il motore della vicenda, colui che, attraverso il suo amore e la sua forza di persuasione nell’affermare la bontà degli dèi, riesce a cambiare il corso degli eventi e a ribaltare la situazione apparentemente insolubile in cui si trova Agamennone – i suoi acuti stratosferici, la potenza sonora e i tono spavaldo ben si addicono a questo personaggio eroico, tipico dell’opera barocca. Dopo Ifigenia, Achille è quello che ha più arie solistiche, due per ogni atto, più un inconsueto duetto di carattere polifonico, quasi un fugato tra le voci di Achille e Calcante. (1) I suoli interventi vanno dalla esibizione più fantasmagorica di trilli, picchettati e note tenute nell’aria di sortita «Nel già bramoso petto», al languore della famosa «Le limpid’onde». A questo si aggiunga una perfetta dizione a una innegabile espressività recitativa. 

Solo due i numeri solistici, ma memorabili, quelli di Ulisse, affidati a un altro sopranista che si sta facendo strada in questi giorni, Nicolò Balducci, anche lui perfettamente a suo agio nelle colorature scritte da Porpora. Agamennone trova in Max Emanuel Cenčić l’interprete ideale per la complessità del personaggio che delinea con la morbidezza vellutata della voce, i colori caldi e gli accenti drammatici. La tessitura meno acuta del ruolo si rivela adatta ai maturi mezzi vocali del controtenore di cui si ammira anche l’impeccabile gioco scenico e attoriale. Calcante trova in Riccardo Novaro un baritono dal timbro non molto profondo, ma estremamente espressivo.

Solo due le interpreti femminili. Ifigenia e Diana sono qui cantate entrambe da Jasmin Delfs ma lo sdoppiamento del ruolo di Ifigenia con un’attrice muta, le cui parole sono affidate a Diana, è stato forse emotivamente alienante e il canto di grande purezza del soprano americano, anche se perfettamente equilibrato e preciso, ha rivelato una certa freddezza. Clitennestra ha la voce di Mary-Ellen Nesi, spesso ammirata in questo repertorio, ma qui la sua imponenza vocale non è pari a quella della sua matronale acconciatura anche se il personaggio, diviso tra regalità e compassione per la figlia, è complessivamente ben delineato.

La messa in scena di Max Emanuel Cenčić, oltre che cantante e regista anche Direttore del Festival, è in stile contemporaneo ma evocativa di un’atmosfera arcaica: durante l’ouverture, classicamente tripartita, viene narrato l’antefatto dell’uccisone del cervo sacro a Diana da parte di Agamennone e dei suoi soldati che entrano in scena nudi dalla vita in giù, questo per accentuare l’aspetto ferino e barbaro dei greci. Il nudo maschile non è una novità nell’opera ultimamente, ma era dai tempi dell’Ercole sul Termodonte di Spoleto che non venivano messi così in bella vista attributi maschili non solo per i figuranti: il regista non si è tirato indietro, dando lui stesso l’esempio. 

Il rosso, l’oro e il nero fanno da sfondo alla scenografia – di Giorgina Germanou che disegna anche i favolosi costumi – illuminata dall’attento gioco luci di Romain de Lagarde. Alti prismi triangolari mobili e rotanti formano i diversi ambienti offrendo una diversa faccia: la prima con segni marmorizzati, la seconda forma il disegno preparatorio del Sacrificio di Ifigenia di Carle Vanloo (1755), la terza hanno una lucentezza che riprende la cornice a specchio intorno al proscenio. Nelle scene del bosco sottili scheletri dorati di alberi morti evocano forse la morte della natura inflitta dalla dea. Oltre a Ifigenia, l’attrice Marina Diakoumakou, un altro attore muto si muove sul palcoscenico per rappresentare il re Menelao, George Zois.

Anche quest’anno l’intrigante messa in scena, la bellezza delle scenografie, dei costumi, delle luci, un cast comprendente tre eccezionali voci di controtenori, un’orchestra di eccellenza – per non parlare della magnificenza della sala del teatro margraviale – hanno contribuito a rendere memorabile la serata inaugurale del Bayreuth Baroque Opera Festival.

(1) Struttura dell’opera:
Sinfonia
Atto I
1. Svolgi l’impeto al valore (Ulisse)
2. Dall’Eolie caverne profonde (Agamennone)
3. Non corrisponde al ver (Ifigenia)
4. Nel già bramoso petto (Achille)
5. Con le fiamme più vivaci (Clitennestra)
6. Padre, sì grande affetto (Ifigenia)
7. Padre di tutti è Giove (Calcante)
8. Oh, se la sua beltà (Agamennone)
9. Allontanata agnella (Achille)
Atto II
10. Scegli Atride (Ulisse)
11. Lasciar bramo (Ifigenia)
12. Tu spietato non farai (Agamennone)
13. All’amor di dolce madre (Ifigenia)
14. Tratto al guardo avvelenato (Achille)
15. Il regno, la sorte (Clitennestra)
16. Per cader de’ i Num all’are (duetto Achille e Calcante)
Atto III
17. Quando sarai tra l’armi (Ifigenia)
18. Le limpid’onde (Achille)
19. Ah no, non piangere (terzetto Ifigenia, Clitennestra e Agamennone)
20. Son nostre forze le turbe ignare (Calcante)
21. Per tua gloria o Grecia amata (Ifigenia)
22. Già scherzando a i lidi il vento (Diana)
23. Bella Dea d’un bel contento (duetto Clitennestra e Agamennone)
24. Con alte lodi (Achille e coro)

La fabbrica illuminata / Erwartung

Luigi Nono, La fabbrica illuminata

Arnold Schönberg, Erwartung

Venezia, Teatro La Fenice, 15 settembre 2024

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Intreccio di anniversari e di relazioni umane nel dittico alla Fenice

Il 2024 non è solo il centenario della scomparsa di Giacomo Puccini, sono anche 150 anni dalla nascita di Arnold Schönberg, 100 dalla prima rappresentazione del suo Erwartung ma pure cento anni dalla nascita di Luigi Nono e 60 dalla prima rappresentazione de La fabbrica illuminata. Questo inedito dittico rappresenta il penultimo spettacolo della stagione del Teatro la Fenice di cui anche l’ultimo titolo, La vita è sogno di Gian Francesco Malipiero, sarà dedicato al ‘900.

Lo sciopero dei dipendenti della Fondazione lirico-sinfonico veneziana indetto venerdì scorso ha fatto slittare a domenica 15 settembre la prima rappresentazione de La fabbrica illuminata eseguita in questo stesso teatro in occasione del XXVII Festival Internazionale di Musica Contemporanea proprio il 15 settembre del 1964. Allora costituì il primo brano di un «concerto di musiche strumentali e registrate» comprendente la Sequenza II per arpa di Luciano Berio, la Musica stricta di Andrej Volkonskij e il Pierrot lunaire di Arnold Schönberg diretti da Bruno Maderna.

Dopo Intolleranza 1960, che nel 1961 l’aveva consacrato come nuovo compositore di fama internazionale, Luigi Nono incontra il poeta Giuliano Scabia e pensa a un progetto comune per denunciare le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche. Un diario italiano, questo il titolo previsto, sarebbe stato suddiviso in sei scene su testo appunto di Scabia, ma le trattative con la Scala, destinataria del lavoro, sfumano. La RAI nel frattempo chiede al compositore veneziano un lavoro per il Prix Italia del 1964 e così nasce La fabbrica illuminata, da quella che sarebbe dovuta essere la seconda scena di un progetto ormai accantonato. La costruzione del nuovo pezzo parte dalla voce di una cantante, il mezzosoprano Carla Henius, che era già stata protagonista di Intolleranza 1960, elaborata elettronicamente e restituita, assieme ad altri suoni e a un coro, anch’essi registrati su nastro, tramite quattro altoparlanti, realizzando così quel teatro musicale nuovo, antinaturalistico e antimimetico, che era nelle corde di Nono. Il pezzo è però rifiutato dalla RAI per «opportunità politica» – alla Fenice Intolleranza 1960 era stata contestata da frange di neofascisti – e la prima prevista il 12 settembre a Genova, allora sede del Prix Italia, salta. Viene allora prontamente recuperato a Venezia ed eseguito appunto il 15 settembre di quell’anno.

Esattamente sessant’anni dopo, La fabbrica illuminata viene presentata in forma scenica con la regia di Roberto Abbado. La duttile voce di Sarah Maria Sun, che sostituisce l’indisposta Valentina Corò, è l’unico elemento sonoro “reale” sulla scena, essendo le parole da lei pronunciate mescolate con quelle preregistrate, un doppio coro e vari rumori. Si ha quindi un flusso di tre elementi paralleli: il coro su nastro, la voce dal vivo e la voce di Carla Henius su nastro. Diviso in quattro parti – Esposizione operaia, Giro del letto, Tutta la città, Finale – si possono distinguere vari episodi: dopo una prima parte in cui la voce solista si staglia sul coro maschile, segue il momento della “colata”, quando tutte le voci tacciono ed entrano i suoni dell’impianto industriale in tutta la loro violenza – nel punto culminante il livello sonoro è indicato con ƒƒƒƒƒƒƒƒ – per poi passare a un episodio più calmo con le voci del coro femminile. Nell’epilogo la voce in scena intona quattro versi tratti da Due poesie a T. di Cesare Pavese che introducono una visione di speranza: «passeranno i mattini | passeranno le angosce | non sarà così sempre | ritroverai qualcosa».

Il testo di Scabia, come si vede nei manoscritti opportunamente esibiti nelle Sale Apollinee del teatro, già contiene indicazioni “tonali” fornite dal suo autore, ossia frecce colorate che collegano sillabe e parole in un loro “fraseggio”, dei veri e propri percorsi verbali multidirezionali tracciati a colori su un rotolo di carta che in un certo modo ritroviamo nella scrittura musicale di Nono, fatta di un canto frastagliato, con grandi salti e passaggi repentini di registro, passaggi parlati o note tenute con cui dare suono al testo: «fabbrica dei morti la chiamavano | esposizione operaia | a ustioni | a esalazioni nocive […] la folla cresce parla del MORTO | la cabina detta TOMBA | tagliano i tempi | fabbrica come lager | UCCISI […]». Parole che suonano profetiche: nel 2007 nello stabilimento della ThyssenKrupp di Torino sette operai morirono in un’esplosione nel reparto di carpenteria metallica, ma anche oggi ogni giorno c’è più di un morto sul lavoro nel nostro paese. 

Se ad Alvise Vidolin è confidata la regia del suono quadrifonico, è Daniele Abbado a occuparsi della messa in scena de La fabbrica illuminata. Con la scenografia e il gioco luci di Stefano Linzalata realizza uno spazio vuoto in cui si stagliano poche figure che rappresentano degli operai. Alcuni di loro si spogliano come se fossero alla fine del turno di lavoro, mostrando corpi segnati dalla fatica mentre sul fondo vengono proiettate immagini in bianco nero di interni di acciaierie, in particolare della fabbrica di Cornegliano. La visione sonora di Nono trova dunque corrispondenza nella sobrietà visiva del regista che però non risolve il problema di fondo di un lavoro che rivela la sua natura di frammento di un progetto più ampio non realizzato. I poco più che quindici minuti non sono sufficienti a costruire una drammaturgia convincente. E infatti il regista utilizza gli stessi elementi, i corpi seminudi distesi, per la seconda parte della serata dove entra l’orchestra che diventa personaggio in Erwartung (Attesa), il primo lavoro per il teatro composto da Arnold Schönberg nel 1909, ma che vedrà la messa in scena solo il 6 giugno 1924, a Praga, diretto da Alexander Zemlinsky. 

L’epoca della composizione è di poco successiva a quella in cui Sigmund Freud pubblica i suoi Studi sull’isteria e il testo di Marie Pappenheim, giovane poetessa e dottoressa, è modellato sugli stereotipi comportamentali femminili suggeriti dalla psicoanalisi. Nel monodramma in quattro scene abbiamo il delirante monologo di una donna che in un bosco ricerca angosciosamente l’amato in un continuo e isterico susseguirsi di emozioni, memorie, presagi e visioni puramente interiori.

Scena I. Una strada illuminata dalla luna, al limitare di un bosco. Una donna cerca il proprio amante, piena di ansia per la solitudine e l’oscurità che la opprime.
Scena II. Un oscuro sentiero all’interno del bosco. La donna avanza in preda al terrore per i suoni indecifrabili che la circondano e crede di urtare un corpo, che si rivela semplicemente un tronco d’albero.
Scena III. Lo stesso sentiero, nei pressi di una radura illuminata dalla luna. La donna è terrorizzata dalle ombre in movimento e dal rumore che ode tra l’erba.
Scena IV. Strada ampia illuminata dalla luna, all’uscita dal bosco. La donna si imbatte nel cadavere dell’amante, nei pressi di una casa che potrebbe essere quella della rivale. Chiede aiuto, ma nessuno risponde. Cerca di rianimarlo e si rivolge a lui come se fosse ancora vivo, accusandolo con rabbia di esserle stato infedele. Il corpo sanguina ancora: immersa nel delirio, la donna l’abbraccia con passione. Ma l’alba, che spesso ha interrotto i loro incontri, viene a separarli, stavolta per sempre.

In questo periodo il compositore austriaco sperimentava l’atonalità passando da uno stile post-romantico e post-wagneriano a un gusto espressionista caratterizzato dai grandi mezzi orchestrali esposti nel poema Pelleas und Melisande del 1903 e nei Gurre Lieder del 1913, che proprio di questi giorni sono stati eseguiti da Riccardo Chailly al teatro alla Scala.

Nei trenta minuti di musica di Erwartung, Schönberg adotta una forma atematica dove nessun materiale musicale ritorna una seconda volta nelle 426 battute, un taglio decisivo con il sistema dei Leitmotive wagneriani o straussiani. Si tratta di un pezzo di grande complessità, con infiniti cambi di tempo e di tonalità. Dopo averla diretta a Madrid, Jérémie Rhorer affronta un’altra volta Erwartung con le sue diverse atmosfere psicologiche, ora tese ora rilassate, dove viene magistralmente sfruttato il diverso peso delle variabili orchestrali: alle esplosioni sonore succedono momenti dove la tessitura strumentale è minimale, secondando gli stati psicologici della protagonista in scena. Il giovane direttore francese, che ha affrontato nella sua intensa carriera sia la musica antica che quella contemporanea, si dimostra a suo agio nella complessa scrittura di questo pezzo a cui rende tutto il suo vigore dirompente. In questo ha la collaborazione del soprano americano Heidi Melton che con i suoi sontuosi mezzi vocali riesce a rendere quella «registrazione sismografica di uno choc traumatico» di cui parla Adorno a proposito di Erwartung, o a «rappresentare al rallentatore tutto ciò che accade durante un solo secondo di massima eccitazione spirituale, allungandolo di una mezz’ora» come scrive invece Schönberg.

Contrariamente a quanto richiedeva il suo autore, di rappresentare cioè sulla scena in maniera assolutamente realistica l’ambiente in cui si svolge la vicenda (il bosco, la strada), il regista riprende la scena de La fabbrica illuminata della prima parte spogliata ancora di più e senza le immagini video. Disseminati sulla scena ci sono i corpi che avevamo visto prima, che moltiplicano il cadavere dell’amato. In entrambi i casi sono la solitudine e l’alienazione i sentimenti che vengono messi in scena collegando in tal modo i due lavori così distanti nel tempo e nelle intenzioni.

Il pubblico l’ha compreso tributando un caldo successo all’operazione. Nel palco reale alcuni discendenti dei due compositori hanno seguito insieme lo spettacolo, compresa Nuria Nono, la figlia di Arnold Schönberg che quattro anni dopo la morte del padre aveva sposato il compositore veneziano conosciuto ad Amburgo in occasione della prima esecuzione del Moses und Aron del padre. Un incredibile intreccio di anniversari e di relazioni umane quello presente nel teatro veneziano.

foto © Michele Crosera – La Fenice

Il cappello di paglia di Firenze

foto © Brescia e Amisano

Nino Rota, Il cappello di paglia di Firenze

Milano, Teatro alla Scala, 14 settembre 2024

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Cosa rara: una farsa italiana del ‘900

Nino Rota non è più considerato solo come autore di musiche per film (Fellini, Visconti, Scorsese…), ma è stato rivalutato come uno dei compositori italiani della seconda metà del Novecento. Autore di molta musica da camera, vocale e per orchestra, ha al suo attivo anche una decina di opere per il teatro. Quest’anno al Festival della Valle d’Itria è stato recuperato il suo Aladino e la lampada magica, alla Scala ritorna invece Il cappello di paglia di Firenze, 26 anni dopo la felice produzione di Pier Luigi Pizzi con un giovane baffuto Juan Diego Flórez, spettacolo registrato dalla televisione italiana e disponibile su youtube. Prima ancora, nel 1958, c’era stata la storica produzione di Strehler, tre anni dopo la prima palermitana.

Scritto per divertimento nel 1945, Il cappello di paglia di Firenze si proponeva a un pubblico che aveva voglia di svagarsi dopo cinque lunghi anni di guerra in un’Italia dai gusti semplici che si divertiva alle ingenue rime del libretto e alla sequenza di musiche orecchiabili. La storia è quella raccontata nel vaudeville di Eugène Labiche e Marc-Michel Un chapeau de paille d’Italie del 1851. Che la vicenda di cappelli, calessi e nobildonne fedifraghe potesse interessare un pubblico di un secolo dopo stremato dalle privazioni e dalle tragedie è comprensibile, non so quanto ancora possa interessare il pubblico di oggi. Ma probabilmente mi sbaglio: lo spettacolo sta ottenendo un buon successo e persino un regista come Damiano Michieletto riproporrà la sua vecchia versione fra pochi mesi al Teatro Carlo Felice di Genova!

Il vaudeville di Labiche era stato portato al cinema nel 1928 in un film muto di René Clair che aveva esaltato la frenesia della vicenda in cui Fadinard, un giovane benestante sul punto di sposare Hélène Nonencourt, quando sta per raggiungere lei e gli invitati in un calesse il suo cavallo mangia accidentalmente il cappello di paglia di Madame Beaupertuis, appartata in un boschetto del Bois de Vincennes con il tenente Émile Tavernier. Scoperti, i due amanti impongono a Fadinard di trovare immediatamente un sostituto al cappello perché il marito è particolarmente geloso. Inizia così una giornata convulsa in cui il giovane cerca di recuperare un cappello uguale per evitare che il marito scopra la tresca della moglie. Fadinard si reca dunque prima da una modista che non riesce a soddisfare la sua richiesta, ma che gli dà l’indirizzo della baronessa di Champigny, la quale ha appena comprato lo stesso cappello. Poi, dopo essersi sposato, si reca alla villa della baronessa a Passy, dove viene scambiato per un violinista che deve esibirsi in un concerto privato. Anche gli invitati alla festa di nozze arrivano alla villa, convinti che si tratti del ristorante dove si terrà il pranzo di nozze. Dopo varie peripezie, che includono anche un passaggio in prigione, alla fine tutto si risolverà per il meglio.

Il testo di Labiche viene adattato a libretto dal compositore stesso e dalla madre Ernesta Rinaldi. Molti personaggi della pièce originale vengono eliminati, i cinque atti ridotti a quattro – il secondo atto di Labiche diventa l’Intermezzo I nell’opera di Rota –, ma lo spirito del lavoro viene fedelmente conservato anche se in un libretto di mediocre qualità, con rime ingenue dove “balordo” rima con “sordo”, “Minardi” con “tardi”, “guancial” con “stral” e “guanti di Svezia” – in originale “gants de suède”, ossia scamosciati – con “inezia”. 

La partitura è una parodia di disparati linguaggi musicali ed è tutta scritta à la manière de: l’ouverture ammicca a Mozart, i concertati e i crescendi a Rossini, i gorgheggi di Elena al belcanto donizettiano, il temporale addirittura alla Walchiria di Wagner, mentre nei fiati si sente Stravinskij. E ovviamente non mancano le musiche per film, soprattutto da Il birichino di papà. È un continuo mimare stili, accostare idee diverse una dopo l’altra senza però svilupparle o approfondirle. I personaggi sono bidimensionali, la caratterizzazione sommaria e non suscitano una particolare empatia.

Il compito di dar vita a questa musica piacevole, ma anche superficiale, è nelle mani di un esperto quale Donato Renzetti, che esalta la leggerezza e vivacità della partitura con suoni trasparenti e ritmi precisi a capo dell’ottima orchestra e coro dell’Accademia Teatro alla Scala. Anche i giovani interpreti sono allievi, provengono infatti dall’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del teatro e si alternano nelle diverse recite. Sono tutti preparati e più o meno carismatici. Il 14 settembre è Andrea Tanzillo l’infaticabile Faninard: brillante vocalmente e ottimo attore, qualche acuto non perfettamente a fuoco non compromette una performance caldamente applaudita dal pubblico. L’Elena di Maria Martín Campos è sicura e spigliata; l’Anaide di Greta Doveri ha un bel timbro sensuale adatto alla parte della moglie infedele; giustamente manierata la baronessa di Champigny di Dilan Saka; lo spassoso zio Véziner di Paolo Antonio Nevi è il personaggio che salva la situazione essendo il cappello tanto bramato nel suo pacco regalo. Folta è la schiera di cantanti provenienti dall’estremo oriente: Xhieldo Hyseni è il suocero Nonancourt che ripete allo sfinimento il suo mantra «Tutto a monte!»; Wonjun Jo è Emilio; Haiyang Guo Felice; Tianxuefei Sun Achille di Rosalba e Guardia; Fan Zhou la Modista. Tutti superano la barriera linguistica con efficienza dimostrandosi ottimi attori.

Per la sua messa in scena Mario Acampa ricorre a una trovata tutt’altro che inedita: «Ho trasposto l’azione al 1955, anno in cui debuttò l’opera», scrive il regista, «e ho immaginato che il protagonista fosse un addetto alle pulizie di un cappellificio francese, la “Chapellerie E. Rota & fils”. Durante l’ouverture mostro una giornata tipo di Fadinard, un uomo alla base della scala sociale, maltrattato dagli operai della fabbrica e infine picchiato da un cliente. Un pugno fatale gli fa battere la testa e da quel momento inizia il sogno. Quello che avviene nel corso dell’ouverture si svolge nella dimensione della realtà ed è di mia invenzione, il seguito è esattamente quello che è scritto nel libretto, ma letto nell’ottica del sogno di Fadinard. Un elemento concettuale importante è che l’artefice del sogno è la modista, la titolare della fabbrica, e nella mia visione si chiama Ernesta, proprio come la madre del compositore. Lei, come un deus ex machina, farà muovere i personaggi che interagiscono con il protagonista per rendergli la vita impossibile». Un espediente non proprio necessario per animare una vicenda già complicata di sé, in cui la regia lavora per accumulo di controscene e gag che finiscono per distrarre l’attenzione. La scenografia di Riccardo Sgaramella ricorre – che grande novità! – a una piattaforma girevole con una struttura architettonica che ruotando forma i diversi ambienti in cui si sviluppa l’azione. La rotazione rende bene il ritmo da capogiro della vicenda, ma confonde anche abbastanza le idee dello spettatore, che deve riconoscere con prontezza nel vorticare della stessa la casa di Fadinard (atto I), il negozio della modista (Intermezzo I), la villa della baronessa di Champigny (atto II), la casa di Beaupertuis (atto III) o la piazza immersa nella notte (atto IV). Lo horror vacui del regista porta a mimare dietro una finestra quello che racconta il personaggio al proscenio ottenendo l’effetto di chi spiega una barzelletta e ne sminuisce così l’effetto comico. Le coreografie di Anna Olkhovava non si distinguono per necessità e originalità e i costumi Chiara Amaltea Ciarelli mescolano con eccessiva disinvoltura epoche differenti. Efficace è invece il gioco luci di Andrea Giretti.

Insomma, una serata tutt’altro che memorabile che però accende la curiosità per quello che saprà fare Michieletto a dicembre di questa farsa italiana un po’ datata nel testo e nella musica.

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 25 giugno 2024

★★☆☆

(diretta streaming)

Turandot continua a restare senza un finale

Nel 1924 Puccini a Bruxelles, dove era venuto per curare il suo tumore alla gola, moriva lasciando incompiuta Turandot. Cento anni dopo il teatro della capitale belga mette in scena il lavoro del maestro lucchese – l’ultima volta fu nel 1979, durante il regno di Gérard Mortier che non amava Puccini – in una produzione che ha destato qualche perplessità per la drammaturgia e l’ambientazione, non ultima l’aver affidato a una donna la parte dell’imperatore Altoum.

Prima che inizi l’opera con quelle quattro note strappate, sentiamo lontani ritmi da discoteca e vediamo una cameriera pulire il pavimento dal sangue mentre il volto di Liù, anche lei cameriera, è rigato di lacrime. Siamo nel ricco salone di un pent-house di un grattacielo di Hong-Kong – lo sappiamo dalle note del regista – in cui sono mescolati lusso e kitsch di gusto orientale, opere d’arte moderna e antichità cinesi. C’è una festa e gli invitati sono vestiti in modo esagerato, soprattutto le donne che sfoggiano abiti ridicolmente ingombranti. A sinistra una grande vetrata e una scala che porta a un ballatoio superiore. Sulla destra una porta e un salottino rotondo ricavato nel pavimento da cui esce una piattaforma circolare su cui saliranno i personaggi nei momenti topici della vicenda. Alla parete un quadro che sembra rappresentare un sesso femminile sanguinolento. La scritta al neon “entitled cunt” toglie il dubbio. Le mani e le braccia di una scultura in rilievo in alto a sinistra a un certo punto prendono vita mentre una specie di camino a forma di fauci di drago sputa fumo e fiamme aprendosi come una porta dell’inferno. Il regista si rivela un buon decoratore. 

Il “popolo di Pekino” è qui rimpiazzato da una società di miliardari annoiati che aspettano il brivido dell’esecuzione dei pretendenti della figlia della padrona di casa bevendo cocktails. Timur è anche lui uno degli invitati, così come Calaf, entrambi elegantemente abbigliati. I tre ministri di corte prima vestono le livree dei domestici, poi si presentano inopinatamente in smoking. Appare il principe di Persia, che viene spogliato e nudo entra in quella che sembra una camera delle torture dalla intensa luce rossa, ma che si rivelerà invece la camera da letto di Turandot – il che farebbe supporre dei risvolti inediti e imprevedibili della vicenda…

In quella camera si intrufola Calaf e ne esce estasiato dalla bellezza della principessa, che nel finale d’atto scende dall’alto nella sua regale maestà. Nel frattempo abbiamo fatto conoscenza dell’imperatore, o meglio della padrona di casa che sembra la matrigna cattiva che obbliga la figlia a giustiziare i pretendenti, sicuramente per mantenere il potere nelle sue mani – in totale contrasto con quanto però afferma nel libretto: «Un giuramento atroce [… ] basta sangue». Oppure no, la maltratta perché al contrario non cede al matrimonio. Chissà. Non è l’unica incongruenza incomprensibile di questa produzione.

Nel secondo atto la scena degli enigmi è grosso modo quello che ci si aspetta anche se insopportabilmente tutto statica. È nel terzo atto che le cose si complicano. Dopo la morte di Liù, che si getta dalla finestra, attacca il finale di Alfano, quello corto, senza Calaf però: la sua voce esce dal televisore mentre un corpo nudo e coperto di sangue esce dal quadro sulla parete: il principe di Persia, Calaf? Chissà, il mistero è nelle mani della scientifica della polizia che intanto è arrivata e arresta la ragazza, che fino a quel momento ha duettato con lo schermo televisivo. Nel finale ritorna l’enigmatica figura della padrona di casa che accede al piedestallo cilindrico che prima sale e poi si inabissa. Era dunque un ascensore interno?

Il regista Christophe Coppens, che si definisce artista multidisciplinare e designer, firma regia, scenografia e costumi, ma il gioco luci lo lascia al bravissimo Peter van Praet. Il ruolo di decoratore prevale su quello di regista che ha difficoltà a muovere le masse corali e lascia i personaggi senza personalità, gli interpreti sono abbandonati a loro stessi, l’azione è quanto mai inconcludente: quando Liù viene torturata, nessuno si muove per aiutarla, neanche Calaf che rimane al suo solito posto sulla sinistra, rivolto verso il pubblico. E quando Liù attraversa metà del palcoscenico per andare alla finestra nessuno, in una sala affollata di persone che bramano di sapere il nome di Calaf e con tanto di guardie armate, si muove di un centimetro per fermarla.

Rimpiazzando il previsto Kazushi Ono indisposto, il suo assistente Ouri Bronchti spinge un po’ troppo sul volume sonoro e fa perdere all’opera i suoi momenti magici. Quello che prevale è lo slancio teatrale e drammatico e sono sacrificate le mezze tinte. Anche il Calaf di Stefano La Colla esalta il volume, ma gli acuti sono forzati e la linea di canto perde di eleganza. Scenicamente poi è il più inespressivo e il meno convinto. Non molto diversa la situazione vocale della Turandot di Ewa Vesin, mentre come spesso avviene è Liù che vince, qui affidata al legato e al timbro soave di Venera Gimadieva che però stenta a commuovere. Inossidabile, ma scenicamente impacciato, il Timur di Michele Pertusi mentre come “Imperatore” invece di un tenore si ascolta il mezzosoprano Ning Liang. Dei tre dignitari di corte il più convincente è il baritono Léon Košavić, anche Mandarino. Il coro del teatro non è sempre preciso negli attacchi e anche qui si privilegia il forte. 

Si apprezza sempre quando un teatro cerca nuove strada, e il Théâtre Royal de la Monnaie si è sempre distinto in questo, ma questa volta il finale dell’opera incompiuta di Puccini, di per sé problematico, affidato a Christophe Coppens è risultato al di là di ogni plausibilità. Turandot a Bruxelles rimane un’opera aperta.

Suor Angelica

Giacomo Puccini, Suor Angelica

Alessandria, Palazzo Cuttica, 10 settembre 2024

La solitudine di Suor Angelica

Non poteva mancare all’appuntamento delle celebrazioni pucciniane il Conservatorio Vivaldi di Alessandria, che per Scatola Sonora ripropone la Suor Angelica di nove anni fa ambientata nel cortile di Palazzo Cuttica nelle stesse ore e nella luce vera del tramonto in cui si snoda la vicenda narrata nel libretto di Forzano. L’operazione fa parte del progetto “Casta Diva” finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del progetto NextGenerationEU il cui obiettivo principale è «promuovere il patrimonio culturale artistico e musicale italiano all’estero attraverso la creazione di un hub digitale multilingue che compili i risultati – di natura scientifica, ipertestuale e multimediale – delle attività collaborative di produzione artistica e di ricerca svolte dalle istituzioni partner sui temi specifici legati alle figure femminili nel teatro musicale italiano». 

L’orchestra sinfonica e il coro del Conservatorio alessandrino diretti da Marcello Rota e Luca Scaccabarozzi rispettivamente, assieme al coro di voci bianche istruito da Roberto Berzero che ascoltiamo nel grandioso finale, danno vita musicale allo sportello centrale del Trittico, quello più amato dal compositore. Penultimo lavoro per il teatro di Puccini, in questa partitura, e in quella della Turandot successiva, nell’estremo periodo della sua carriera creativa dimostra la sua straordinaria abilità di orchestratore a fianco della sua irraggiungibile vena melodica, Puccini riesce a essere un eccezionale narratore in musica, affidando agli strumenti non un mero ruolo di accompagnamento, ma facendoli diventare  elementi di propulsione dell’azione o di definizione ambientale. Con pochi tocchi – campane, celesta, archi – riesce all’inizio e dipingere l’atmosfera al contempo serena e claustrofobica del monastero mentre il raggio di sole che per tre sole sere rende «la fontana d’oro» o il belato dell’agnellino desiderato da suor Genovieffa si ritrovano chiaramente nell’orchestra che qui è schierata sulla sinistra allo stesso livello dei cantanti. Vero e proprio personaggio a sé, in cui gli allievi del conservatorio hanno modo di dimostrare la loro matura esperienza interpretativa sviluppando un fraseggio legato e fluido e una tavolozza di colori che si adattano a quanto avviene in scena. Ecco quindi il cambio di atmosfera all’ingresso della Zia Principessa, l’intreccio polifonico del canto di conversazione delle suore, l’abbagliante finale. Il suono pulito, gli attacchi precisi, le agogiche sempre efficaci sono il risultato di un lavoro continuo e appassionato che molte orchestre, ben più blasonate, non sempre dimostrano nella loro normale routine. Qui si sente invece l’eccezionalità e l’entusiasmo del momento.

Più che nelle eccellenze individuali, è nel gioco di squadra delle voci che vive un’opera come Suor Angelica e anche qui il lavoro fatto con le giovani e meno giovani cantanti, è evidente. Tutte hanno quel quid che le contraddistingue: il timbro sontuoso e imponente della Badessa di Zhai Ziyi; la freschezza della suora zelatrice di Chiara Sorce; la commovente partecipazione della suor Genovieffa di Anita Maiocco così come la sicura presenza di Lilia Gamberini, maestra delle novizie. Folto il numero di cantanti dall’estremo oriente come Lei Min (suor Osmina), YiQuing Sun (suor Dolcina), Jin Zhang (suora infermiera) o italiane: Angelica Lapadula (suor Lucilla), Valentina Escobar (conversa), Giada Ghiglino (cercatrice) e poi tutte le altre il cui nome si può leggere sul programma. 

Però due personaggi che si staccano nettamente dallo sfondo ci sono: suor Angelica, ovviamente, e la zia principessa. Nella parte del titolo il 10 settembre si è potuta ammirare Anna Scolaro che ha dato vita al suo personaggio con grande sensibilità e sicuri mezzi vocali in un ruolo estenuante soprattutto nella seconda parte. Il giovane soprano laureato a pieni voti al “Vivaldi”, dopo il jazz ha indirizzato i suoi studi sul canto lirico con grande profitto e innegabile temperamento. Nelle successive riprese in questa stessa parte si ascolteranno le voci di Alexandra Ivchenko e Zhao Huan. Anche la zia Principessa ha trovato nel contralto Gloria Senesi interprete autorevole e bella presenza scenica.

La componente visiva dello spettacolo è affidata come sempre a Luca Valentino che dà una lettura lineare ma intensa della vicenda che ambienta negli anni ’20 del secolo scorso – lo scopriamo dall’outfit della zia principessa e dall’automobile con cui arriva. Della povertà di mezzi riservati a queste produzioni Valentino fa tesoro e in queste limitazioni riesce a dare il meglio. La scenografia dunque è quella del cortile di Palazzo Cuttica, sede del Conservatorio, trasformato in un chiostro immerso nella luce vespertina. Da sotto le arcate a destra arrivano i canti dalla chiesa, in mezzo un pesante portone isola il monastero dal resto del mondo. Si aprirà solo per far entrare la zia Principessa scesa da una FIAT 514 con l’autista che porta i fogli da far firmare all’infelice giovane.

Piccoli tocchi ci fanno riconoscere le diverse personalità delle suore, indistinguibili altrimenti per la tunica bianca, o nera per la Badessa, che indossano. Solo suor Angelica ha in più un grezzo grembiule per il lavoro con le erbe. Sul pavimento di ghiaia del cortile le bianche figure formano semicerchi, si raggruppano in modo vario, ma il più delle volte sono figure isolate che sottolineano la solitudine di questi esseri strappati dal mondo e rinchiusi, spesso contro la loro volontà: sono gli innumerevoli casi di “monacazione forzata” con cui in passato ci si sbarazzava delle donne per questioni ereditarie o politiche. 

Dal gruppo di suore si stacca la figura di suor Angelica con la sua dolorosa vicenda: rinchiusa per un “peccato d’amore”, ma soprattutto per questioni di patrimonio dalla famiglia principesca, nella reclusione le viene impedito di vedere il figlio di cui apprende la morte. Negli ultimi momenti di vita in seguito all’assunzione di una pozione di erbe velenose, pentita per l’atto compiuto si rivolge alla Madonna chiedendo un ultimo segno di grazia e «vede il miracolo compiersi: la chiesetta sfolgora di mistica luce, la porta si apre: apparisce la Regina del conforto, solenne, dolcissima e, avanti a Lei, un bimbo biondo, tutto bianco…», come dicono le didascalie del libretto. Fortunatamente il regista ci risparmia l’apparizione mariana: dall’androne inondato di luce esce un bambinetto che prima porta un agnellino di peluche a suor Genovieffa e poi tende la mano alla mamma, suor Angelica morente a terra. E così termina l’opera.

Ma il momento di più intensa commozione dello spettacolo di Luca Valentino è quello durante la pagina puramente orchestrale, quando la notte scende sul chiostro e si illuminano le stanze delle sorelle che nella solitudine della propria cella si riappropriano della loro individualità e del loro essere femminile. Ed ecco allora chi si pettina i capelli, chi legge un libro, chi fuma una peccaminosa sigaretta, chi brucia una lettera appena arrivata, chi cerca calore umano fra le braccia di una consorella. È il momento magico che rimane nella mente mentre si lascia il cortile di Palazzo Cuttica dopo i calorosi e grati applausi del pubblico.

MITO


Simon Steen-Andersen

Simon Steen-Andersen, no Concerto

Lisa Streich, Ishjärta

Ludwig van Beethoven, Quinta sinfonia in do minore op.67
I. Allegro con brio
II. Andante con moto
III. Allegro
IV. Allegro

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Robert Treviño direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 9 settembre 2024

Back to Beethoven

Dopo tre serate “al fresco” nel bagno di folla della piazza di San Carlo a Torino, la musica di MITO-Settembre Musica, XVIII edizione, rientra nel confort e nella acustica dell’Auditorium RAI Arturo Toscanini con un programma che inizia e finisce all’insegna di Beethoven, anche se il brano con cui parte la serata è un Beethoven filtrato e rielaborato elettronicamente da Simon Steen-Andersen, compositore e regista danese classe 1976.

L’aspetto visivo è un elemento fondamentale del suo pezzo, commissionato dalla WDR (Westdeutscher Rundfunk Köln) e MITO in live electronics realizzato da SWR Experimentalstudio con Daniel Miska direttore del suono. I trenta minuti di no Concerto per pianoforte, voce recitante, speaker, orchestra, live electronics, luci e video pongono un sensibile interrogativo: che ne sarà della nostra civiltà musicale tra migliaia di anni? «In un lontano futuro in cui la musica i concerti non sono più conosciuti», scrive l’autore, «gli archeologi dissotterrano un registratore a nastro insieme a diverse bobine, una delle quali contiene una registrazione dal vivo del Quarto Concerto per pianoforte di Beethoven. Per comprendere meglio la natura dei suoni conservati su questi nastri perlopiù deteriorati, collegano la registrazione a una “camera di eco-localizzazione inversa”, una tecnologia che consente loro di visualizzare ed esplorare lo spazio in cui questi misteriosi segnale acustici sono stati originariamente registrati». Ecco quindi un video che mostra le mani di un nostro lontano discendente maneggiare un nastro magnetico e montarlo su un registratore per trarre quei lontani “rumori”. La futura tecnologia permette di ricreare da quei suoni le immagini a loro collegate ed ecco quindi un esploratore in tuta protettiva aggirarsi nel buio tra i leggii dell’Orchstra Sinfonica Nazionale RAI che suona il concerto beethoveniano i cui suoni vengono elaborati elettronicamente in tempo reale e restituiti a noi come provenienti da un lontanissimo passato. Incuriosito dagli strani “dispositivi portatili” che generano quei suoni, soprattutto da quel «grande dispositivo nero di tre metri per 1.50 con corde tese e serie di tasti su cui agisce l’operatrice» e dalla strana figura «dell’uomo in nero che al centro muove le braccia», l’esploratore viene ammaliato da quei rumori misteriosi e mentre il suono dell’orchestra si fa più nitido, si toglie il casco protettivo e muore tra le braccia della pianista. Ben costruita, la performance tocca le corde più sensibili di noi ascoltatori e non si può non provare una forte emozione. Assieme però all’ammirazione per l’abilità dei musicisti che mantengono l’aplomb esecutivo nonostante alle loro orecchie arrivino i suoni da loro prodotti ma distorti elettronicamente. Rei Nakamura è l’impassibile pianista, Vinicio Marchioni l’attore della voce recitante mentre Susanna Franchi si presta al ruolo dello speaker che introduce il programma alla radio – cosa che fa regolarmente per i concerti RAI.

Il secondo pezzo in programma è della ancor più giovane compositrice Rita Streich che con il suo Ishjärta per orchestra sembra riecheggiare il contrasto tra pianoforte e orchestra nel secondo movimento del concerto beethoveniano per ricrearlo qui tra archi e fiati prima e percussioni poi, le quali rispondono con violenza ritmica e sonora al trasparentissimo tappeto sonoro steso da violini e viole. Il titolo significa cuore di ghiaccio ed è anche quello di un thriller dello scrittore svedese Lars Wilderhäng. L’enigmatico pezzo dovrebbe ricevere qualche lume dalle parole dell’autrice: «L’attenzione si concentra principalmente su due distinti caratteri degli accordi: quelli più caldi e quelli più freddi. Da un lato c’è la dimensione interiore del cuore, che pulsa in modo udibile. Qui gli accordi sono molto caldi, compatti e forti. Intorno a questo c’è uno strato gelido composto da accordi che proteggono e sono più neutri dal punto di vista emotivo, dalla superficie quasi tangibile». Il pezzo ha comunque un grande fascino e dimostra l’abile scrittura della compositrice svedese.

Note più famigliari sono quelle della Quinta Sinfonia con cui si conclude il concerto. Qui il direttore ospite principale Robert Treviño fornisce una lettura travolgente della popolare pagina mostrando come il suo autore sia teso verso il futuro nelle scelte musicali in un lavoro che si sviluppa genialmente su una semplicissima formula ritmica – il celeberrimo ta-ta-ta-taa – nel primo tempo, per poi far presagire le atmosfere pastorali della Sesta nel Trio del terzo tempo, il quale si collega direttamente con l’Allegro finale tramite un irresistibile crescendo. Il morbido fraseggio scelto da Treviño mette in risalto la cantabilità più che l’eroicità della Quinta evidenziando gli ineffabili interventi dei legni – oboe, flauto, fagotto, ottavino – e poi dei contrabbassi che anticipano il “recitativo” dell’ultimo movimenti della Nona.

Il pubblico particolarmente numeroso – finalmente la sala ha recuperato le file di poltrone perse durante la pandemia – ha dimostrato di apprezzare sia le nuove proposte sia l’interpretazione della celeberrima sinfonia salutando le esecuzioni con calorosi applausi.