Mese: agosto 2023

Intervista a Ottavio Dantone

Innsbruck, 30 agosto 2023

Orlando Perera ha intervistato il prossimo Direttore Musicale delle Settimane di Musica Antica di Innsbruck

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Importanti novità in arrivo alle Innsbrucker Festwochen der Alten Musik, ovvero Settimane della Musica Antica di Innsbruck. Fondate nel 1976 nel capoluogo del Tirolo, con l’olandese Festival Oude Muziek di Utrecht sono fra le più prestigiose rassegne europee dedicate alla musica pre-classica, per intenderci. Dal primo settembre il sovrintendente e direttore artistico Alessandro De Marchi dopo tredici anni lascia il doppio incarico. Gli succede nel ruolo Eva Maria Sens, che sarà affiancata da un direttore musicale di grande fama, il nostro Ottavio Dantone, musicista e direttore d’orchestra di primo piano. 62 anni, originario di Cerignola in provincia di Foggia, diplomato in organo e clavicembalo al Conservatorio Verdi di Milano, Dantone ha esordito poco più che ventenne come “continuista” al clavicembalo, vincendo importanti premi a Parigi e Bruges. Determinante l’incontro con l’orchestra romagnola Accademia Bizantina, specializzata nel repertorio barocco con strumenti antichi. Una delle formazioni più accreditate nel settore, di cui ha assunto la direzione nel 1996, portandola ai massimi livelli internazionali. Gli dobbiamo registrazioni discografiche di riferimento, sia come solista sia nelle vesti di direttore, per etichette quali Decca, Deutsche Grammophon, Harmonia Mundi, Naïve, che hanno contribuito in modo determinante al rilancio del repertorio barocco, di Antonio Vivaldi in particolare. Questo non gli ha impedito di svolgere una non meno prestigiosa carriera di direttore di grandi orchestre classiche, cimentandosi anche nel repertorio tradizionale.

Orlando Perera – Maestro Dantone, lei è ben conosciuto a Innsbruck, dove nel 2019 ha diretto la “sua” Accademia Bizantina in una bellissima Dori di Antonio Cesti, italiano ma genius loci. È tuttavia la prima volta, se non sbaglio, che assume un incarico organizzativo così prestigioso, questo significa una nuova fase nella sua attività di direttore d’orchestra di fama internazionale, con un repertorio molto articolato?
Ottavio Dantone – Certo, anche se il mio incarico sarà più musicale che organizzativo, dal momento che la direzione artistica e la gestione della rassegna sarà affidata a Eva Maria Sens e l’efficientissimo staff delle Innsbrucker Festwochen. Il mio compito come direttore musicale sarà quello di assicurare il massimo livello musicale per un festival così prestigioso. Naturalmente avrò voce in capitolo delle scelte e nelle strategie artistiche, ma la mia attività sarà principalmente legata all’aspetto puramente creativo.

OP – In realtà lei ha sempre mantenuto un doppio ruolo, direttore e clavicembalista, e insieme studioso e musicologo, che con altri illustri colleghi ha dato un contributo fondamentale al rilancio del repertorio barocco, anche con incisioni discografiche di grande pregio. Quale di questi due ruoli la interessa di più? E come lo adatterà al nuovo incarico?
OD – Ritengo che nella musica, non solo antica, i ruoli di strumentista, direttore, studioso e musicologo non possano prescindere l’uno dall’altro. Amo infinitamente lo studio e l’analisi dei testi antichi, ma il poter mettere in pratica ciò che si è appreso, trasformandolo in emozioni da comunicare al prossimo è uno dei lavori più belli che si possano fare.

Il Maestro Dantone e la sua Accademia Bizantina

OP – Il suo predecessore Alessandro De Marchi ha talvolta piuttosto esteso i confini temporali del concetto di musica antica, inserendo autori come Paër e Mercadante, che appartengono di diritto all’Ottocento. Si trattava comunque sempre di operazioni filologiche, di revisioni o nuove edizioni della partiture. Condivide questa scelta? Anche lei non si farà costringere più di tanto nell’epoca che va dal Cinque al Settecento?
OD – A prescindere dalla programmazione che attueremo nei prossimi anni, ritengo che non si debba più pensare alla musica antica riferendosi solamente a un periodo storico che arriva alla seconda metà del ‘700. In effetti la musica dell’Ottocento è abbastanza antica ormai da poter essere considerata tale. Inoltre la riscoperta del repertorio romantico attraverso l’uso degli strumenti originali e con una lettura storicamente informata è già in atto da diversi anni e credo che caratterizzerà la fruizione di questa musica nei prossimi decenni. Personalmente con la Accademia Bizantina abbiamo già inciso e usciranno presto registrazioni di Schumann, Mendelssohn, Beethoven e Schubert. La filologia può aiutarci a scoprire ancora tante cose riguardo a quest’epoca. Detto questo il repertorio che affronterò in questi anni a Innsbruck sarà prevalentemente quello tra il Sei e Settecento, soprattutto italiano.

OP – A ben guardare, se si parla di “Alte Musik” – musica antica – si potrebbe legittimamente pensare anche a epoche precedenti, il Tre-Quattrocento ad esempio, ma questo, che io ricordi, a Innsbruck non è mai avvenuto, se non in qualche rara serata collaterale. Che ne dice?
OD – Lo ignoravo ed è un’osservazione interessante e legittima, in ogni caso già dall’anno prossimo ci sarà qualcosa inerente la musica medievale e rinascimentale.

La facciata del Landestheater di Innsbruck, una delle sedi delle Settimane di Musica Antica

OP – In ogni caso, che cosa pensa del ruolo della filologia nelle esecuzioni contemporanee di musica barocca?
OD – Per me è molto importante che il pubblico cominci a capire che cosa significa davvero filologia. Ancora oggi dopo molto tempo c’è chi crede che si tratti semplicemente dell’uso degli strumenti antichi e della prassi esecutiva, di suonare con poco vibrato o utilizzare lo stesso organico dell’epoca, eseguire le opere senza tagli e altre piccole cose del genere. Per me filologia significa, come evoca la parola stessa, imparare comprendere un linguaggio, un pensiero, un’emozione, un comportamento estetico. Riuscire a osservare una partitura e leggere tra le sue righe non solo ciò che è scritto e il suo significato, ma anche e soprattutto ciò che non è possibile scrivere perché celato dai codici retorici, attraverso lo studio e la relazione tra musica e parola. Significa conoscere tutte le fonti e utilizzarle ai fini creativi, avendo per di più la possibilità di andare oltre il pensiero del compositore pur rispettandolo profondamente.

OP – Lei porterà a Innsbruck anche l’Accademia Bizantina, la raffinata orchestra barocca di Bagnacavallo nel ravennate, di cui ha assunto la responsabilità nel 1996, quindi ormai da quasi trent’anni. A Innsbruck bisogna dire c’è già un’orchestra locale, di buon livello, anche se non paragonabile come prestigio. Ha trovato ostacoli in questa decisione, peraltro difficile da contestare?
OD – No, anzi. Mi è stato chiesto di assumere questo incarico anche e soprattutto con l’Accademia Bizantina. D’altra parte un’orchestra barocca si identifica con il proprio direttore e viceversa. L’Accademia bizantina rappresenta l’emanazione più pura del mio pensiero musicale e non avrei mai potuto accettare un incarico del genere senza di loro.

OP – Con l’Accademia lei ha tra l’altro realizzato registrazioni di riferimento di molte musiche di Antonio Vivaldi. Quest’anno a Innsbruck erano in cartellone ben tre titoli vivaldiani, l’Olimpiade, La Fida Ninfa, e l’oratorio Juditha Triumphans in forma scenica. Che spazio avrà nelle sue scelte il patrimonio di teatro musicale lasciato da Vivaldi, e ancora abbastanza misconosciuto?
OD – Per quanto riguarda le produzioni affidate a me e all’Accademia Bizantina, come ho dichiarato fin dalla prima conferenza stampa, la linea sarà quella di valorizzare autori attivi a Innsbruck o comunque nel territorio austriaco, oltre che riscoprire partiture rare e non ancora eseguite in tempi moderni. Relativamente alle produzioni degli orchestre ospiti e soprattutto dell’Opera Young, Vivaldi avrà certamente lo spazio che merita.

L’interno della Haus der Musik, un’altra delle sedi delle settimane di Musica Antica

OP – A proposito, vorrei ricordare l’impegno a favore dei giovani musicisti, che distingue Innsbruck fin dal 2010, quando nacque il concorso Cesti per giovani voci: tra l’altro lei era in giuria nell’edizione di quest’anno da poco conclusa. Poi c’è appunto la sezione Opera Young, dove interi cast di opere sono riservati ad artisti giovani. Immagino che tutto questo verrà mantenuto, giusto?
OD – Naturalmente! Il concorso Cesti e l’Opera Young rappresentano una delle più felici intuizioni di questo festival. Per i giovani significa avere la possibilità di di presentarsi di fronte a una giuria di professionisti e a un pubblico competente, con la prospettiva di avere un indirizzo importante per la propria carriera. Per il festival e per il mondo della musica antica è un’importantissima fucina di talenti che può alimentare le produzioni concertistiche ed operistiche, con grande vantaggio artistico ed economico.

OP – Che cosa consiglierebbe oggi a un giovane aspirante cantante lirico? Repertorio classico-romantico, magari belcantistico, o canto barocco?
OD – A mio parere è comunque importante riuscire a specializzarsi in un periodo storico non eccessivamente ampio. A prescindere da questo, la cosa fondamentale è non bruciare la propria carriera musicale con la fretta di entrare nel mondo dello star system. Bisogna valutare attentamente le proprie potenzialità e studiare assiduamente sia il repertorio e la tecnica che la prassi e l’estetica.

OP – Per concludere, come riassumerebbe in poche parole il suo progetto artistico-musicale per le Festwochen der Alten Musik di Innsbruck, probabilmente il più prestigioso festival di musica antica dei nostri giorni?
OD – Valorizzare il più possibile i compositori e il repertorio legato da Innsbruck al territorio austriaco. Affrontare temi interessanti che creino un ponte tra la concezione antica dello spettacolo e la moderna ricezione del suo linguaggio. Il massimo rispetto e rigore uniti alla volontà di rendere la musica antica comprensibile ed emozionante oggi come allora, oltre che compatibile e in armonia con il mondo e le emozioni di oggi.

 Il castello di Ambras.In primo piano la Spanischer Saal dove si svolgono molti concerti

Le Villi

Giacomo Puccini, Le Villi

Londra, Holland Park Theatre, 21 luglio 2022

★★★★☆

(video streaming)

A Londra finalmente convince la Giselle di Puccini

Londra non ha i teatri d’opera che hanno le capitali della lirica Parigi, Berlino e Vienna, ma d’estate utilizza per il teatro musicale i suoi bellissimi polmoni verdi.

Nel 1605 il diplomatico Sir Walter Cope si era fatto costruire una casa in stile giacobiano su un ampio terreno verde che divenne poi noto come Holland Park, ora una lingua di verzura che è quasi un’estensione a Ovest dei Kensington Gardens dopo un elegante quartiere sede di ambasciate. Originariamente nota come Cope Castle, Holland House fu una delle prime grandi case costruite a Kensington. Sotto il 3° Lord Holland divenne un centro sociale, letterario e politico scintillante, con visitatori celebri come Byron, Macaulay, Disraeli, Dickens e Sir Walter Scott. La Regina Elisabetta, la Regina Madre e il Re Giorgio VI parteciparono all’ultimo grande ballo tenutosi nella casa poche settimane prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Opera Holland Park fu fondata nel 1996 dall’ex direttore generale Michael Volpe nell’ambito dei servizi bibliotecari e artistici del comune. La produzione inaugurale dell’OHP fu Un ballo in maschera di Verdi. Da allora, nel mezzo dell’area verde, circondato da splendidi giardini formali e boschi selvaggi ogni anno nei mesi estivi, nell’auditorium all’aperto – dal 2007 dotato di una tettoia in tensostruttura – accanto agli intramontabili classici vengono proposti titoli meno frequentati e prime di lavori contemporanei.

Abbinata a Margot la Rouge di Frederick Delius, viene quest’anno messa in scena la prima opera di Puccini, quelle Villi (1884) con cui l’autore veniva salutato dalla critica come il “Massenet italiano” per «una fattura delle più eleganti, delle più finite». Alla guida della City of London Sinfonia è un esperto di questo repertorio il giovane Francesco Cilluffo che da tempo scava tra i titoli meno conosciuti di quell’epoca fine Ottocento per mettere alla luce capolavori, quando lo sono, dimenticati. Non è forse il caso di questo primo frutto di Puccini, ma è sempre interessante conoscere i lavori che preludono alla sua prodigiosa carriera compositiva.

Le Villi è una cupa storia di vendetta fantasma come quella del balletto Giselle. Qui è Anna a essere abbandonata dall’infedele Roberto che, partito per raccogliere l’eredità di un’«avara matrigna», dilapida la fortuna irretito da «una sirena | [che] i vecchi e i giovinetti affascinava [e che] trasse Roberto all’orgia oscena». «In cenci abbandonato» il giovane ritorna,  ma diviene vittima delle Villi, le figure delle fidanzate abbandonate e morte, tra cui il fantasma di Anna che si vendica: «con lui danza e ride e, colla foga del danzar, l’uccide». 

Con l’orchestra a ranghi ridott – quasi la metà dei 70 previsti dall’originale – Cilluffo sceglie la versione milanese del 1885  dandone una lettura trascinante con i suoi momenti di estasi – forse anche troppi per un lavoro di sessanta minuti – frutto dell’entusiasmo melodico creativo del giovane Puccini. Il quale già dimostra di saper scrivere bene per le voci così dando così ai tre interpreti la possibilità di farsi onore in pagine che già hanno l’impronta del Maestro di Lucca. Il soprano francese Anne-Sophe Duprel, una habituée dell’OHP, ha un colore particolare adatto a questo repertorio che corteggia il Verismo, grande proiezione ed espressività messe a frutto per delineare prima la fidanzata in preda a scuri presagi, poi il fantasma spinto da una cieca sete di vendetta. Bello e molto “italiano” il timbro della voce del tenore inglese Peter Auty, che affronta con agio e risolve magistralmente le impegnative richieste dei suoi interventi. Autorevole ed elegante la presenza di Guglielmo, il baritono Stephen Gadd a cui Puccini risparmia le difficoltà vocali ma gli assegna la recitazione di due  passi in prosa all’inizio del secondo atto: “L’abbandono”, con cui ci informa di quanto è accaduto nel frattempo, e “La tregenda”, con la leggenda delle Villi. Con il sottofondo orchestrale diventano due suggestivi Melodram.

Nella messa in scena di questa fantasiosa vicenda si poteva facilmente cadere nel kitsch se non addirittura nel ridicolo, invece il regista Martin Lloyd-Evans ci regala uno spettacolo un po’ scioccante, molto inquietante e assolutamente divertente, con ombre, tombe aperte e donne velate che danzano con abiti maschili vuoti che appaiono dal nulla. L’impianto dello scenografo takis si rivela semplice ma efficace: la buca orchestrale è nel mezzo del palcoscenico, i momenti più drammatici si svolgono sulla “passerella” che dà direttamente verso il publico mentre sulla parte posteriore una piattaforma girevole ospita lo spaccato di una capanna, la casa dei Wulf,  che all’occorrenza si trasforma in giardino o chiesa. In questo spazio ristretto si muovono bene i personaggi e il coro. Nelle  coreografie, un po’ basiche per la verità, tre danzatrici – sul libretto Le Villi è definita come “opera-ballo in due atti” – rappresentano le figure del titolo.

Questa produzione è riuscita a far considerare con più benevolenza il frutto un po’ acerbo del giovane Puccini grazie alla bravura degli esecutori e di chi ha curato l’aspetto visivo. La magia di Holland Park è poi  l’elemento aggiunto per apprezzare questa gothic story. 

 

The Greek Passion

Bohuslav Martinů, The Greek Passion

Salisburgo, Felsenreitschule, 18 agosto 2023

★★★★☆

(video streaming)

Passione e morte del nuovo Cristo, il pastore Manolios

Un tema di drammatica attualità eppure sempre presente nella storia dell’umanità è quello dei profughi che scappano dalla loro terra. In The Greek Passion, opera del 1958, l’esule Martinů tratta dei greci che fuggono ai turchi che hanno incendiato le loro città e cercano rifugio a Lykovrissi durante una delle guerre fra Grecia e Turchia. Qui il pope Grigoris dopo la messa assegna i ruoli per la sacra rappresentazione della Pasqua imminente: il caffettiere Kostandis sarà l’apostolo Giacomo; il commerciante Yannakos Pietro; Michelis Giovanni; la vedova Katarina Maria Maddalena; il suo amante Panais sarà Giuda mentre al pecoraio Manolios tocca il ruolo di Cristo. Quest’ultimo  entra sempre di più nel ruolo assegnatogli manifestando pietà verso i rifugiati, ma anche rifiutando di sposarsi con la fidanzata Lenio e respingendo le lusinghe della “Maddalena” Katarina. Il pope Grigoris è invece il più insensibile e risoluto a respingere gli estranei e alla fine sarà inevitabile il martirio del nuovo Cristo, che viene ucciso da Panais/Giuda durante un attacco guidato dai vecchi del villaggio contro i rifugiati, ai quali non resta che proseguire il proprio esodo alla ricerca di una terra più ospitale.

La versione scelta da Maxime Pascal alla guida dei Wiener Phiharmoniker è quella di Zurigo del 1961 eseguita senza intervallo. Il giovane direttore, specialista del repertorio contemporaneo, concerta con mano sicura una partitura eclettica ma coerente che assegna mondi sonori diversi alle due “fazioni”, lascia molto spazio al parlato, accompagna con uno stile rigoroso il declamato del prete Fotis che guida i rifugiati, ma sa sottolineare con efficacia i momenti struggenti come quelli del finale primo. Nel cast vocale di distingue il sofferto Manolios di Sebastian Kohlhepp, la Katarina presa dalle passioni terrene di Sara Jakubiak, il Fotis forse un po’ troppo stentoreo di Łukasz Goliński. La voce limpida e chiara di Charles Workman dà voce all’ingenuo Yannakos mentre Gábor Bretz connota efficacemente il detestabile pope Grigoris. Christina Gansch è una gioiosa Lenio, Scott Wilde il vecchio profugo che dona la vita per dare nuove radici al suo popolo, Julian Hubbard il Giuda/Panais.

Questo dramma  viene messo in scena con mezzi depurati ed efficacissimi da Simon Stone. Lo sconfinato palcoscenico della Felsenreitschule è lasciato vuoto dalla scenografa Lizzie Clachan, chiusi i primi due ordini di archi tagliati nella roccia – l’ultimo è la montagna su cui si rifugiano i disperati – una superficie senza colore forma il fondale con alcune aperture e botole nel pavimento da cui emergono cose o ne spariscono altre.  I costumi di Mel Page distinguono nettamente i personaggi: gli abitanti del paese sono in grigio come lo sfondo e in contrasto con la  variopinta umanità dei rifugiati –  nel corso della rappresentazione gli abitanti che passano dall’altra parte ne assumono i colori – e dei pochi oggetti che trasportano, che verrano gettati nelle botole per far sparire quello che non si vuole vedere e che disturba l’ordine costituito. Mentre il sangue di Manolios si spande in una vasta pozza attorno al suo corpo,  la voce di Katerina si sostituisce a quella del sacerdote alzandosi in preghiera. Il pastore greco è diventato la vittima innocente, il Cristo ri-crocifisso e lei la Maddalena peccatrice capace di provare quell’empatia che gli altri non sentono perché chiusi nel loro egoismo. Il “Kyrie eleison” degli abitanti del villaggio passa ai rifugiati connotando l’opera in una dimensione spirituale, quasi un rito suggellato dalla parola finale “Amen”.

Anche il pubblico ricco e mondano del festival è stato colpito dalla sincerità della proposta che denuncia l’ipocrisia della chiesa, qui ortodossa, e dei benestanti. Se qualcuno si è ritrovato nei personaggi bigotti dell’opera un risultato può essere considerato raggiunto. A prescindere dalla rivelazione di un titolo che meriterebbe maggiore diffusione.


Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 20 agosto 2023

★★☆☆☆

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Falstaff a Salisburgo: tutti gabbati, soprattutto il pubblico

Sono due i titoli verdiani in programmazione al Festival di Salisburgo quest’anno ed entrambi tratti da Shakespeare: del Macbeth si è scritto, il Falstaff è affidato a una coppia di collaudata scuola tedesca: Ingo Metzmacher e Christoph Marthaler. Il primo non è propriamente un direttore verdiano, il secondo un regista apprezzato in passato in alcune produzioni. Ma non in questa.

Nei recenti allestimenti dell’ultimo ineffabile capolavoro di Verdi, le letture hanno oscillato tra la comicità e la malinconia. Un esempio della prima è stata la produzione di Barrie Kosky con la sua irresistibile comicità teatrale, della seconda la messa in scena di Damiano Michieletto ambientata nella casa di riposo per artisti di Milano. Marthaler sceglie una strada diversa, quella della decostruzione cara al Regietheater con una drammaturgia del tutto aliena all’opera e criptiche citazioni, qui cinematografiche, che solo le note di regia possono rivelare. Il programma di sala dunque come libretto d’istruzioni per decrittare una regia? Grazie, no.

Dopo che il sipario si è aperto – e impiega quasi mezzo minuto sullo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus – si vedono i tre distinti ambienti della scenografa Anna Viebrock che ha disegnato anche i costumi. A sinistra le poltrone di una sala di proiezione, al centro uno stanzone/set cinematografico con pareti mobili, a destra un esterno di motel con sedie a sdraio e una piscina, senz’acqua ma con prevedibili materassi sul fondo per attutire le continue e ripetute cadute di personaggi. Nella piscina/Tamigi non cadrà però Falstaff, bensì il regista del film, un tipo che la pancia ce l’ha – il vero Falstaff invece si rifiuta di portare l’orrenda protesi – e che ha le sembianze di Orson Welles. Infatti di questo si tratta: il regista americano nel 1965 gira il suo Falstaff e lo interpreta rivestito di un’armatura con cui appare alla fine dell’opera. Un esercizio intellettualistico che non porta però da nessuna parte. Che cosa c’entra con Verdi e la sua musica? Per di più la realizzazione è tutt’altro che ben fatta, con i personaggi che si muovono a caso – quando si muovono e non stanno impalati con le mani in tasca. In modo alieno all’umorismo della vicenda si accumulano gag inutili e distraenti: oltre a quelle delle cadute, davvero troppe, ci sono quelle delle ceste; quella della acrobata che si avviluppa nel cavo elettrico; della coppia Cajus e Bardolfo i quali dopo il matrimonio che li ha uniti non la smettono di abbracciarsi e sbaciucchiarsi felici. Se non è umorismo di bassa lega questo…

Dopo un prologo muto, vediamo i personaggi leggere le loro battute ai leggii ma una telecamera li riprende (?) senza costumi (?) in un ambiente anonimo mentre il regista dalla sua sedia dà ordini. Presto però le macchine da presa spariscono ma gli interpreti agiscono come se stessero continuando a provare, anche se con sempre minor convinzione. Se all’inizio l’idea poteva avere uno spunto di qualche interesse, poi però il giochino si sfalda, diventa noioso e il finale, inconcludente, totalmente privo di magia fiabesca e ironia, è tra le cose peggiori.

Non tanto meglio va la parte musicale, con un direttore corretto ma lontano dallo spirito del lavoro, i concertati non hanno rilievo, i passaggi polifonici sono torbidi, le voci sono spesso coperte: Falstaff nel primo atto quasi non si sente travolto dal volume orchestrale. Dov’è la leggerezza della partitura? Persa è la trasparenza del gioco strumentale che accompagna gli arguti dialoghi di Boito. Qui è tutto greve, piatto, senza ironia. Regista e direttore riescono a distruggere l’impalcatura con cui si regge la mirabile costruzione dell’ultima opera di Verdi.

Sulla carta c’era un cast di prim’ordine, con due tra i più intelligenti interpreti di oggi: Gerald Finley, nella parte eponima, e Simon Keenlyside, due artisti di area anglosassone a loro agio nel teatro di Shakespeare. Il primo però sembra spaesato in tutto questo bailamme e per di più ha accusato dei problemi alla gola che non sembrano del tutto risolti, e infatti la voce sparisce dietro il muro di suono innalzatogli contro dall’orchestra. Il secondo è più a suo agio e riesce a dominare meglio la scena, ma non è un Ford memorabile, manca il gusto della parola tagliente nel monologo «È sogno o realtà?». Meglio le donne che a un certo punto cercano di prendere in mano la situazione con Alice (una bravissima Elena Stikhina) che si installa sulla sedia del regista. Assieme a Tanja Ariane Baumgartner (Quickly) e Cecilia Molinari (Meg) si forma un terzetto ben affiatato vocalmente. I due giovani, Nannetta e Fenton, trovano nella fresca voce di Giulia Semenzato e Bogdan Volkov due interpreti efficaci. Così come lo sono il Bardolfo di Michael Colvin e il Pistola di Jens Larsen. 

Nota finale: la political correctness è arrivata, inesorabilmente anche qui: le parole del libretto «Affiderei | la mia birra a un tedesco, | tutto il mio desco | a un olandese lurco, | la mia bottiglia d’acquavite a un turco» nelle traduzioni tedesca e inglese dei sopratitoli sono totalmente ignorate per non urtare le rispettive  sensibilità nazionali!

Delle reazioni finali del pubblico allo spettacolo non so dire: mi sono alzato e me ne sono andato appena è stato possibile. Uscendo ho sentito applausi frammisti ad alcuni buu.

Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 19 agosto 2023

★★★★☆

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La scossa del Macbeth di Warlikowski al Festival di Salisburgo

Mentre qui in Italia ci trastulliamo in provinciali polemiche su regie “tradizionali” e regie “moderne”, il più blasonato festival del mondo impiega solo i più “discussi” registi di oggi: Martin Kušej (Le nozze di Figaro), Christof Loy (Orfeo ed Euridice), Christof Marthaler (Falstaff), Simon Stone (The Greek Passion), Krzysztof Warlikowski (Macbeth). Certo non sono tutti spettacoli memorabili, anzi qualcuno è proprio brutto (due su cinque…), ma c’è comunque chi paga 465 € per una poltrona in platea e le sale sono sempre piene – e parliamo di oltre 5200 posti ogni sera nei tre teatri principali. Alla faccia della crisi dell’opera! 

Molta era l’attesa per la nuova produzione del “polacco terribile” dell’opera di Verdi: quelle di Warlikowski sono come un ottovolante: una corsa mozzafiato tra alti e bassi da cui non si esce indenni, come in questo Macbeth, che a momenti di grande teatro fa seguire altri meno convincenti, ma nel complesso è un’esperienza che lascia il segno. Che è quello che dovrebbe sempre fare il teatro.

Lo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus sembra ancora più esteso orizzontalmente nell’impianto scenografico di Małgorzata Szczęśniak, con una lunghissima panca di legno, come nella vecchia sala d’attesa di una stazione ferroviaria. Un video mostra in bianco e nero una madre che allatta un bambino. Una donna, la Lady, siede sulla panchina a destra, un uomo, Macbeth, all’altra estremità. Poi da sinistra entra una stanza dove donne bendate formulano oracoli, mentre da destra entra la cabina di un medico e una videocamera accompagna la donna nella cabina su una sedia ginecologica. La visita sembra stabilire la sua impossibilità di avere figli. 

La mancanza di figli – e quindi di una discendenza – è il tema centrale nella drammaturgia di Christian Longchamp, ancor più della brama di potere: se non hai qualcuno di tuo a cui lasciarlo, a che cosa serve? E sono molti i bambini che affollano la scena: quelli delle profezie, certo, ma anche i figli di Macduff, vittime di una strage degli innocenti allorché la madre decide di avvelenarli tutti, compresa sé stessa, per non consegnarli «fra gli artigli di quel tigre».

Anche Michieletto aveva puntato sulla mancata maternità della Lady, ma qui di diverso c’è la forte relazione di coppia dei due coniugi che mai si spezza. Neanche alla fine, quando vengono legati assieme, ormai dementi e fisicamente sfatti, prima di essere linciati dal popolo: lei era stata salvata dal suicidio e ha vissuto gli ultimi istanti assieme all’amato marito, amato forse anche più del potere. Molti sono i momenti nello stile di Warlikowski, ad esempio quello del banchetto, dove la Lady canta il suo brindisi al microfono, mentre Macbeth è ossessionato dalla visione di Banco che egli stesso ha disegnato su un palloncino. O quando viene servito il piatto finale e sotto la cupola c’è un bambolotto guarnito con broccoli. Appena incoronati dopo l’assassinio di Duncano, in piena regalia, una volta che la musica si ferma e la folla si disperde i due scoppiano a ridere per la facilità con cui l’hanno fatta franca, poi però subito dopo si rendono conto di non poter desiderare altro e da quel momento inizia il loro dramma e conseguente decadimento: lei inizia a bere, a delirare per inesistenti macchie di sangue; lui soffre del complesso di castrazione da parte della moglie/madre o delle streghe – sullo schermo della televisione erano intanto apparse le immagini dell’Edipo Re di Pasolini – e da quel momento vive su una carrozzina a rotelle, aiutato/dileggiato dai servitori.

Questa azzardata drammaturgia non sarebbe convincente senza la presenza di due interpreti che facciano propria la particolare visione del regista e Asmik Grigorian e Vladislav Sulimskij lo fanno. Lei lituana, lui bielorusso, si impadroniscono entrambi della parola verdiana, oltre che della psicologia dei personaggi, creando una coppia magnetica teatralmente e vocalmente notevole. È proprio qui da Salisburgo che la Grigorian ha iniziato la sua straordinaria carriera rivelandosi come Salome nella produzione di Castellucci. Le doti sceniche dell’artista sono eccelse, quelle vocali quasi altrettanto, e anche qui in questo temibile ruolo non delude le aspettative creando un personaggio umano e tragico allo stesso tempo, senza l’eccesso di malvagità che di solito viene attribuito al personaggio. Non perché la Lady non sia malvagia, ma perché qui prevale la sua nuda umanità. Il canto è espressivo, ma non espressionista e le note sempre perfettamente intonate. Non so se sarebbe piaciuta a Verdi che voleva dei suoni «aspri, soffocati, cupi», ma al pubblico è piaciuta senza riserve. Vladislav Sulimskij è un Macbeth tormentato che presto perde l’aggancio con la realtà e piomba negli abissi della quasi demenza. La voce è molto elastica ed espressiva e il suo «Pietà, rispetto, amore» è del tutto convincente, così come il conclusivo momento «Mal per me che m’affidai», l’aria recuperata dalla versione del 1847.

Macbeth è un lavoro dove predominano le due voci principali, ma anche Malcom e Macduff hanno a disposizione momenti importanti. Il primo con «Ah, la paterna mano» dove Jonathan Tetelmann ha riscosso un grande successo di pubblico con la sua voce dal bel timbro e dalla enorme proiezione, forse anche troppa: “less is more” vale anche per il fascinoso tenore cileno-americano. Il secondo sparisce presto dalla scena, ma ha modo di farci apprezzare Tareq Nazmi nella sua drammatica aria «Come dal ciel precipita» eseguita con le generose risorse vocali e interpretative del basso tedesco. Caterina Piva (la Dama della Lady), Evan LeRoy Johnson (Malcom), Aleksei Kulagin (il Dottore), Grisha Martirosyan (Domestico di Macbeth) e Hovhannes Karapetyan (Assassino e Araldo) hanno completato in bellezza l’eccellente distribuzione. Il coro poteva fare meglio, mentre meglio non potevano fare i Wiener Philharmoniker sotto la guida di Philippe Jordan che ha sostituito il previsto Franz-Welser Möst, che si è dovuto sottoporre a un urgente intervento ortopedico. Non sono il primo a dire che nella sostituzione tutti ci abbiamo guadagnato: la concertazione di Jordan è risultata trascinante pur nel rispetto delle voci in scena, con dinamiche spedite ma non affrettate, una grande forza teatrale con colori e luci (e ombre) mirabilmente realizzati dagli straordinari strumentisti.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo di grande impatto salutato dalle ovazioni del pubblico. Fino al 27 ottobre la registrazione video è disponibile su arte.tv.

Innsbrucker Festwochen der alten Musik

photo © Mona Wibmer

Tommaso Traetta, Rex Salomon

Innsbruck, Haus der Musik, 18 agosto 2023

Oratorio in due parti per soli, coro e orchestra

direttore Christophe Rousset, Suzanne Jérosme soprano, Marie-Ève Murger soprano, Magdalena Płuta contralto, Grace Durham mezzosoprano, Eleonora Bellocci soprano, coro NovoCanto, Theresia Orchestra

Tutto al femminile l’oratorio di Traetta per le ragazze dell’Ospedaletto venziano

La sinfonia parte con la baldanza di un’ouverture da opera giocosa: il tempo è vivace (allegro), gli ostinati degli archi rispondono ai richiami dei corni, si sentono contrastanti livelli sonori. Il secondo movimento (andante) ha un tono pastorale con il tema ondulante affidato ai violini. Il terzo movimento è ancora un allegro che alterna ai passi di un ballo campestre le fanfare dei corni. Così inizia l’oratorio Rex Salomon arcam fæderis adoraturus in templo (Re Salomone venera l’arca dell’alleanza custodita nel tempio) di Tommaso Traetta. E in effetti di una sinfonia d’opera si tratta, quella già utilizzata per l’Antigono (1764) e che verrà riciclata per L’isola disabitata (1768).

Eseguito per la prima volta il 15 agosto 1766, il giorno dell’assunzione di Maria al cielo nel calendario cristiano, Rex Salomon sanciva il debutto di Traetta come maestro del coro presso l’Ospedale dei Ss. Giovanni e Paolo, l'”Ospedaletto”, una delle quattro istituzioni residenziali ed educative veneziane per ragazze, la maggior parte delle quali provenienti da ambienti poveri o extrafamigliari. Qui ricevevano un’adeguata educazione musicale e alcune diventavano artiste acclamate. Il compito principale del compositore, che all’epoca aveva già alle spalle un’illustre carriera internazionale, era quello di ridare vita a un’istituzione in crisi e alle prese con problemi organizzativi ed economici. Ci riuscì: Rex Salomon divenne un successo e fu replicato più volte negli undici anni successivi.

Il libretto di Domenico Benedetti attinge alle Sacre Scritture con i libri dell’Esodo, dei Re e dei Salmi, include riferimenti mitologici, la figura di Cerbero, o storici, la “Pax Augustea”, ed è ricco di dotte citazioni inserite in un testo fluido e vivace. È centrato sulla figura del re Salomone e della Regina di Saba, questa conquistata dalla sapienza di lui. Come per tanti pezzi “sacri” di questo periodo – e fino allo Stabat Mater di Rossini – anche lo stile compositivo dell’oratorio di Traetta è improntato a un edonistico piacere musicale che attinge ampiamente e senza provarne vergogna dal repertorio profano, quello operistico.

Il genere totalmente femminile delle esecutrici originale viene rispettato anche in questa esecuzione al Festival di Musica Antica di Innsbruck: il coro NovoCanto è tutto al femminile e anche nella Theresia Orchestra prevalgono le fanciulle, gli unici tre maschietti essendo un violinista, un cornista e il clavicembalista. Dirige un esperto di questo repertorio, Christophe Rousset, che della bellissima partitura esalta i colori e le preziosità degli strumenti, dove gli archi sono predominanti poiché oltre al clavicembalo e all’organo sono presenti solo due corni naturali. Le suadenti melodie richiamano nella loro cantabile piacevolezza la scuola napoletana: Pergolesi sembra fare talora capolino con i suoi motivi e le acrobazie vocali richiamano Porpora o Vinci. Utilizzando la versione del 1776 in cui la voce di Abiathar invece che a un contralto venne affidata a un soprano, Rousset dosa con maestria questo tesoro musicale, con tempi adeguati e un attento accompagnamento delle voci.

Cinque sono le cantanti che danno voce ai personaggi, ognuna con due arie solistiche. Il soprano Suzanne Jérosme, una delle finaliste del Concorso Cesti 2016, offre il suo elegante strumento vocale alla figura del re Salomone prima nell’aria «Cor meum sit humile», un incantevole cantabile grazioso, e poi «In pace respirando», un’aria che segue a uno dei tre formidabili recitativi accompagnati previsti dal lavoro. In questa pagina agilità rapidissime vengono snocciolate con grande sicurezza dal soprano francese che abbiamo recentemente ammirato come Giuditta nel Carlo il Calvo alla Scala e la sua virtuosistica performance è tale da suscitare l’unico applauso “a scena aperta” della serata.

Come Regina di Saba si ascolta Marie-Éve Munger, soprano coloratura canadese che però non dà qui il meglio di sé in quanto evidentemente indisposta anche se riesce comunque a superare le difficoltà dei salti di registro nella sua aria «Tuba sonora in monte». Non sembra a suo agio neppure il contralto polacco Magdalena Płuta (Adon) nella sua agitata pagina «Audi tu, terra, et mare» incalzata com’è dai corni e poi nell’andante espressivo di «Peccator sum, et reus». 

Nessuna riserva invece per il Sadoc di Grace Durham, mezzosoprano tecnicamente ineccepibile nei vocalizzi sulla lettera a e nel da capo con complesse variazioni di «In alto somno | iacet pupilla». La grande proiezione della voce ricca di armonici esalta le deliziose volute della melodia nella sua «Nocte labente, | fulgida aurora». Ancora più trascinante si rivela l’Abiathar di Eleonora Ballocci, voce ferma e penetrante impegnata nelle acrobazie di «Nihil est nebula aquosa», aria che segue un altro degli impressionanti recitativi «con stromenti obbligati» dell’oratorio in cui l’orchestra si inventa mille suoni e colori per raccontare in linguaggio musicale quanto viene detto nel testo.

C’è poi il coro tutto femminile che si ascolta all’inizio di ognuna delle due parti e al termine in pagine eleganti – il primo è “spiritoso”, il secondo un allegro moderato e l’ultimo un allegro – ma non di grande struttura vocale. La compagine del NovoCanto non ha così modo di dimostrare le sue eventuali doti. Sarà per un’altra volta. Il folto pubblico ha salutato con grande calore facendo uscire a più riprese il direttore e le cantanti alla fine dell’apprezzatissima esecuzione.

La fida ninfa

photo © Birgit Gufler

Antonio Vivaldi, La fida ninfa

Innsbruck, Haus der Musik, 17 agosto 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

La “favola pastorale” del Vivaldi più maturo

Con la prima de La fida ninfa, il 6 gennaio 1732 veniva inaugurato uno dei più costosi edifici teatrali del XVIII secolo, il Teatro Filarmonico di Verona. La commissione dell’opera era andata ad Antonio Vivaldi, ma solo perché Giuseppe Maria Orlandini, che originariamente avrebbe dovuto mettere in musica il libretto, non fu più disponibile quando finalmente venne il momento di produrre l’opera. Scritta probabilmente in meno di due mesi, l’opera andò in scena con grande successo: furono lodate le scenografie del Bibbiena, i balletti di Andrea Catani, il testo di Scipione Maffei (figura di spicco nella cultura italiana del Settecento e finanziatore della costruzione del nuovo teatro), l’orchestra, «che riuniva eccellenti virtuosi provenienti da diverse parti» e, finalmente, anche le musiche «del signor Vivaldi». Meno plausi ebbero i cantanti, nomi insigni (Giovanna Gasperini, Gerolama Madonis, Francesco Venturini, Giuseppe Valentini) ma svantaggiati dalle poche prove. L’opera sarà poi rappresentata nel 1737 per celebrare la nascita della prima figlia dell’imperatrice Maria Teresa al Theater am Kärntnertor di Vienna, la città in cui Vivaldi avrebbe trascorso il suo ultimo anno di vita.

Con il numero di catalogo RV714, La fida ninfa è la 32esima opera vivaldiana secondo Reinhard Strohm, il massimo studioso del teatro musicale del Prete Rosso. Frutto della sua piena maturità, i tre atti presentano una serie di magnifiche arie con cui Vivaldi trasfigura codici e luoghi comuni dell’opera seria di cui il libretto del Maffei è ricco. Il testo mescola ninfe (intese però come giovani donne associate a pastori e contadini) e pirati in un complesso plot dove rapimenti, scambi di identità, agnizioni, intricate relazioni amorose, finte morti, suicidi annunciati, tempeste di mare e interventi divini sono spiegati solo alla fine dell’opera, come in un thriller di Agatha Christie, tanto da far dire a Narete: «Il tutto è chiaro» mentre Morasto conclude con: «O sommi dèi! | per quali occulte vie | conducete i mortali!». Tutto questo è rivestito di suoni di straordinario livello: i venti numeri musicali comprendono una serie di ensemble (un duetto, un trio, un quartetto e alcuni brevi cori) e pagine solistiche da antologia, tra le più impegnative di Vivaldi e in competizione tra loro per il virtuosismo vocale.

Atto I. Oralto, comandante pirata e signore di Nasso, rapisce un pastore, Narete, e le sue due figlie, Licori e Elpina. Licori era sposa di Osmino, che era stato anche lui rapito da soldati traci. Osmino, ora chiamato Morasto, diventa tenente di Oralto, ma nessuno lo riconosce. Il giovane è angosciato quando scopre che altri suoi compatrioti sono stati ridotti in schiavitù. Il fratello di Osmino, Tirsi, vive anch’egli nell’isola. I suoi genitori gli avevano dato poi il nome di Osmino in memoria del fratello creduto morto. Si innamora quindi di Licori. Ma per attirarne l’attenzione e renderla gelosa, seduce sua sorella. Licori piace anche ad Oralto che chiede aiuto a Osmino/Morasto per aiutarlo a ottenere la ragazza. Nel frattempo, il vecchio Narete trova scolpito su un albero i nomi di Osmino e Licori.
Atto II. Licori crede di aver riconosciuto in Osmino la persona a cui era destinata. Narete, tuttavia, tenta di negoziare con Oralto la redenzione di tutta la famiglia con un pagamento enorme al fine di ritornare in patria. Ma Oralto, irritato dal disprezzo di Licori, vuole venderli come schiavi del sultano. Morasto comincia la corte a Licori. Scopre tutta la verità, ma teme di rivelare il segreto. Osmino dichiara apertamente i suoi sentimenti per Licori. Elpina, profondamente ferita, accusa Osmino di abusare della sua fedeltà. Narete, che indovina le intenzioni di Oralto, chiede l’aiuto di Morasto, il quale accetta di aiutarli.
Atto III. Oralto minaccia Licori di vendere il suo schiavo e la sua famiglia se non acconsente a sposarla. Licori pensa al suicidio e fugge. Nella sua corsa, inciampa e cade in un fiume. Narete trova un velo e lo mostra ad Oralto come prova dell’annegamento della figlia. Il tiranno si assenta e dà il comando dell’isola a Morasto. Questo gli permette di rivelare la sua vera identità: è lui il vero Osmino. Licori, non affogata e fedele ai suoi voti, rinnova le sue promesse d’amore al primo fidanzato. Sono quindi volte le vele a Sciro, quando una terribile tempesta li sorprende in mare. Per fortuna. Giunone, piena di compassione per le miserie e l’amore indistruttibile di due giovani provati dalla sorte per lungo tempo, chiede a Eolo, il dio del vento, di calmare le onde.

Per la 47esima edizione del Festival di Musica Antica, l’ultima affidata al direttore artistico Alessandro De Marchi, il compositore delle due opere in programma è dunque Antonio Vivaldi, di cui vengono messe in scena L’Olimpiade e La fida ninfa. Oltre a vari altri suoi pezzi concertistici, è presentato anche l’oratorio Juditha Triumphans. Gli sforzi produttivi hanno privilegiato soprattutto L’Olimpiade piuttosto che La fida ninfa dell’Opera Young: nella prima sono sfilati cantanti di grido e ha avuto un’apprezzata messa in scena, nella seconda si sono esibiti cantanti promettenti ma un po’ acerbi e lo spettacolo è risultato visivamente bruttoccio. Il regista François de Carpentries non ha fatto alcuno sforzo per rendere più attuale la vicenda e si è limitato a una lettura lineare con una scenografia, di Karine van Hercke, autrice anche dei costumi, eccessivamente cheap per un festival prestigioso come questo di Innsbruck: una pecora di resina a sinistra e una bandiera dei pirati a destra definiscono i due mondi, tronchi o sassi disegnati sul cartone e una sedia in stile Luigi XVI sono i soli elementi della scena unica. Altri tronchi bidimensionali, catene o mostri dipinti scendono dall’alto per definire i diversi ambienti previsti: paesaggio boscoso con vista del palazzo di Oralto nel primo atto; porto di mare nel secondo; rifugio fiorito, aspro paesaggio montano con imbocco di grande caverna, palazzo di Eolo nel terzo. L’affannoso andirivieni dei personaggi non rispecchia una convincente idea registica e i fantasiosi costumi ricchi di piume dei pastori appagano coi loro colori la vista ma non aiutano a definire i personaggi, ad eccezione di Oralto, un Jack Sparrow de I pirati dei Caraibi. La “favola pastorale” prende contorni fiabeschi non solo nei costumi ma anche nella presenza di un bianco unicorno alato e nell’altrettanto incomprensibile passaggio di un personaggio femminile in verde che ricompare come Giunone nel finale.

La preziosa partitura trova una realizzazione accurata nella direzione di Chiara Cattani, una bionda “direttora” che non ha parentele politiche o incarichi istituzionali ma sa concertare con sapienza e riesce a tirar fuori il meglio dall’ensemble strumentale Barockorchester:Jung [sic], giovanile anche nel nome. Precisione negli attacchi, tempi e dinamiche corretti, magari senza particolari guizzi, ma ottimo equilibrio con i cantanti e i momenti solistici degli strumentisti.

La sfida maggiore di questa produzione è stata il voler affidare a giovani e volenterosi interpreti, alcuni provenienti dal Concorso Cesti, un lavoro così impegnativo. Licori è, assieme a Morasto, il personaggio con più numeri solistici, due arie consecutive nel primo atto, una nel secondo e una nel terzo, non particolarmente virtuosistiche ma intense: Chelsea Zurflüh, che ha vinto il secondo premio al Concorso Cesti dell’anno scorso, le risolve con giusto stile e sensibilità. La voce è potente anche se con un che di acerbo, ma la personalità è già presente e il temperamento anche. Molto applaudita è stata la sua aria più famosa «Alma oppressa da sorte crudele» in cui Vivaldi tocca insondabili profondità ben espresse dal soprano svizzero. L’altro personaggio con più arie solistiche è Morasto, in realtà Osmino, pastore di Sciro e ora tenente del pirata, cui dà voce il controtenore ceco Vojtěch Pelka dalle precise agilità e dalla giusta presenza scenica. Le sue sono le arie più virtuosistiche. Un altro controtenore dà voce a Osmino, in realtà Tirsi, anche lui pastore a Sciro, personaggio con una sola aria solistica al secondo atto, ma che è presente in due duetti, con Elpina nel primo atto e con Narete nel terzo, e nel quartetto del secondo: Nicolò Balducci, anch elui proveniente dal Concorso Cesti dell’anno scorso, è cantante dal bel timbro, grande musicalità e ottimo fraseggio ed è forse l’interprete più convincente, anche per la chiara articolazione delle parole. Cosa che di certo non è la qualità maggiore del giovane basso ucraino Yevhen Rakhmanin dallo strumento vocale generoso, dai bassi sonori, ma dalla linea musicale un po’ disordinata e dalla dizione totalmente incomprensibile: per capire quello che dice bisogna leggere i sottotitoli in tedesco – unica lingua presente anche nei programmi, tra l’altro. Nella parte di Narete si aspettava la presenza del vincitore del Concorso Cesti del 2022, Laurence Kilsby, che aveva incantato il pubblico e la giuria con la magistrale resa della commovente aria «Deh, ti piega, deh consenti», aria ripetuta alla fine del concerto finale dello scorso anno e che aveva portato il tenore inglese al meritato primo premio. Qui abbiamo un altro tenore britannico, Kieran White: il suo personaggio ha solo due arie solistiche, entrambe al secondo atto, oltre al duetto con Osmino nel terzo. Interprete elegante e sensibile, è stata apprezzata la sua performance nella suddetta aria che qui ha concluso la prima delle due parti in cui è stata suddivisa l’opera, ma si sarebbe gradita una maggior purezza nella linea vocale e suoni più limpidi. Completa il cast vocale il mezzosoprano Eline Welle, voce dal piacevole colore e buona musicalità esibita nelle due arie solistiche e nei due ensemble in cui si esprime il suo personaggio di Elpina, l’altra ninfa di Sciro.

P.S. Mi ha scritto la moglie (o la madre, il cognome è lo stesso) del regista dicendomi che non ho capito le intenzioni del suo (capo)lavoro. Non mi era mai capitato di essere attaccato direttamente dal regista o dai membri della sua famiglia!

Picture a Day like This

George Benjamin, Picture a Day like This

Aix en Provence, Théâtre du Jeu de Paume, 22 luglio 2023

★★★★☆

(video streaming)

Una favola sulla impossibile felicità

A dieci anni dal thriller Written on Skin e dopo il dramma psicosessuale Lessons in Love and Violence, con Picture a day like this il compositore inglese George Benjamin ritorna alle dimensioni cameristiche della sua prima opera, Into the Little Hill utilizzando anche questa volta un testo di Martin Crimp, librettista d’elezione, che dipinge il ritratto di una donna straziata dalla perdita di un figlio che cerca di riportare in vita. Per farlo, deve ottenere un bottone dai vestiti di una persona felice. In un viaggio disperato, declinato in sette stazioni, invano la donna sollecita una coppia di amanti, un artigiano, una compositrice e un collezionista, solo per scoprire che nessuno di loro è felice. Poi incontra la luminosa Zabelle e il suo giardino paradisiaco e trova la pace.

1. La pagina. «Non appena mio figlio ha iniziato a parlare con frasi complete, è morto». Una donna vede morire suo figlio. Si rifiuta di accettarlo e scopre che se riesce a trovare una persona felice e a ottenere un bottone dalla manica del suo vestito, questo semplice gesto riporterà miracolosamente in vita il suo bambino. Armata di una pagina di indicazioni, inizia la sua ricerca, piena di speranza.
2. Gli amanti. «Non ci vergogniamo. Siamo innamorati». Incontra per la prima volta una coppia di giovani amanti. Vedendo che sembrano felici e innamorati, chiede loro un bottone dell’abito, ma questo scatena una terribile discussione tra i due.
3. L’artigiano. «Posso elencare tutti i bottoni che ho fatto in vita mia». La donna incontra un artigiano e scopre che prima di andare in pensione faceva il bottoniere. Sembra quindi la persona perfetta per soddisfare la sua richiesta. Ma man mano che la scena procede, lo spirito dell’artigiano si deteriora.
4. La compositrice. «Dite che ho inventato tutte le sfumature della luce». La donna si imbatte in una famosa compositrice, accompagnata dal suo assistente, che sta per iniziare le prove. Quando la Donna cerca di far capire loro l’urgenza della sua richiesta, la compositrice è costretto a spiegare che la sua vita, invidiabile a prima vista, non è così semplice come sembra.
5. Aria. «Gli steli morti dei fiori tornano a vivere». La donna dà libero sfogo alla sua rabbia e alla sua disillusione. Nulla va come aveva sperato: la felicità le sfugge, la sua ricerca sembra destinata al fallimento.
6. Il Collezionista. «Ho stanze piene di miracoli». Dopo questo scoppio di rabbia e dopo aver perso ogni speranza, incontra il Collezionista. Nonostante il desiderio che sente per lei, egli si commuove per il suo dolore e accetta di aiutarla. Apre una porta ed entra in un giardino.
7. Zabelle. «Immagina un giorno come questo». In un giardino di grande bellezza e tranquillità, la Donna incontra finalmente Zabelle, un essere che chiaramente le assomiglia. Quando la Donna la prega di condividere la sua felicità, Zabelle le racconta una storia che la costringe a guardare il giardino – e Zabelle stessa – sotto una nuova luce.

Il libretto di Martin Crimp riprende due diverse trame: l’antico racconto popolare La camicia dell’uomo felice – in cui a un sovrano prossimo alla morte viene detto che sarà guarito se troverà la camicia di un uomo felice, ma l’unica persona veramente felice che trova è un uomo troppo povero per possederne una – e una leggenda buddista in cui una donna va alla ricerca di un miracolo per far tornare il suo bambino dalla morte. L’opera, della durata di un’ora, è per orchestra da camera e cinque interpreti. Picture a day like this è un racconto filosofico e iniziatico, «una ricerca, come Alice nel Paese delle Meraviglie o Candide di Voltaire», ha detto Crimp, «un viaggio di apprendimento che segue un personaggio dall’inizio alla fine mentre incontra una varietà di persone». Benjamin sperimenta con toni e stati d’animo molto diversi attraverso i vari incontri e di conseguenza l’opera «è come una serie di bolle» attraverso le quali passa la donna. Senza precedenti o conseguenze per ogni momento, e senza materiale cumulativo a cui fare riferimento o da spingere in avanti, ogni cambio di scena è come «iniziare quasi completamente un nuovo pezzo». Un approccio a “mosaico” ispirato dalla tecnica narrativa di Vladimir Nabokov, confessa il compositore.

Il lavoro viene presentato al Festival di Aix-en-Provence con la regia di Daniel Jeanneteau e Marie-Christine Soma, gli stessi che avevano messo in scena la prima di Into the Little Hill a Parigi e che qui fanno ricorso ai video di Hicham Berrada che ha creato giardini fantasmagorici all’interno di un acquario (realizzati tramite infiorescenze di reazioni chimiche) mentre la scenografia è limitata a uno spazio vuoto inclinato delimitato da pareti di vetro, come le “gabbie” di alcuni personaggi. Il palcoscenico è per la maggior parte del tempo immerso nell’ombra, semplici i costumi di Marie la Rocca ad eccezione di quello dell’artigiano, rutilante di bottoni.

Con un’audace economia di mezzi la scrittura musicale è sempre in fase col testo e ricca di sottigliezze. I suoni sobri ed enigmatici della partitura vengono sapientemente realizzati dall’autore alla guida della Mahler Chamber Orchestra e da un cast vocale di eccellenza. Per il personaggio principale, sempre presente in scena, la scelta di Marianne Crebassa si è rivelata vincente: il timbro caldo, drammatico ed espressivo del mezzosoprano francese ben si adatta alla sensibilità sofferta della Donna. Le fa da contrasto nel duetto finale la voce più aspra del soprano Anna Prohaska, Zabelle. Il baritono John Brancy presta il suo bel mezzo vocale e la sua espressività ai personaggi dell’Artigiano e del Collezionista. Il suo ruolo può essere definito da controbaritono in quanto la sua tessitura tocca le note del soprano raggiunte con la tecnica dei controtenori. Nella surreale coppia di Amanti e poi come Compositrice e Assistente troviamo il soprano Beate Mordal e il controtenore Cameron Shahbazi.

Dopo Aix-en-Provence lo spettacolo sarà alla Royal Opera House di Londra per 11 repliche dal 22 settembre con un altro cast e la direzione musicale di Corinna Niemeyer.



Eduardo e Cristina

Gioachino Rossini, Eduardo e Cristina

Pesaro, Arena Vitrifrigo, 11 agosto 2023

★★★☆☆

(diretta televisiva)

A Pesaro si completa l’opera di Rossini con l'”installazione” di Poda

Per inaugurare la 44esima edizione del Rossini Opera Festival viene scelto l’ultimo titolo, il 39°, non ancora eseguito a Pesaro,  Eduardo e Cristina, lavoro scritto assieme ad altri tre nel breve periodo di frenetica attività tra il dicembre 1818 e il marzo 1819: Ricciardo e Zoraide, Mosè in Egitto ed Ermione. Non stupisce quindi che per la nuova opera il compositore faccia largo uso dell’autoimprestito: il soggetto, una rielaborazione dell’Odoardo e Cristina di Giovanni Schmidt scritto nel 1810 per il Pavesi, viene rivestito di musiche in parte già composte per quelle opere e per l’Adelaide di Borgogna, titoli ancora non conosciuti al pubblico veneziano. Si tratta dunque di un centone, un collage di brani tratti da opere diverse, 19 sul totale di 26 numeri musicali. Ciononostante, la prima fu un grande successo, riportato da Lord Byron stesso durante il suo autoesilio veneziano. Il libretto di questo “dramma per musica in due atti”, riscritto da Andrea Leone Tottola e Gherardo Bevilacqua Aldobrandini, è siglato TSB, le iniziali di Tottola, Schmidt e Bevilacqua, ma anche quelle del Teatro San Benedetto dove Eduardo e Cristina debuttò il 24 aprile 1819.

Atto primo. Stoccolma, atrio della reggia attiguo a una piazza. La corte e il popolo attendono festanti il ritorno del generale Eduardo che, a capo delle armate svedesi, ha sconfitto in battaglia l’esercito russo. Alla gioia comune si uniscono re Carlo e Giacomo, principe reale scozzese, che credono definitivamente vinto il nemico; solo Cristina, figlia del re, si mostra turbata. Ella teme che con il ritorno di Eduardo il padre possa scoprire il suo segreto matrimonio con l’eroe e il figlio da lui avuto, Gustavo; per sviare ogni sospetto, la principessa attribuisce la propria angoscia al dolore per la recente perdita della madre. Giunge Eduardo alla testa delle truppe; nel tripudio generale si accorge del turbamento di Cristina e le rivolge furtivamente parole d’incoraggiamento. Mentre Eduardo è combattuto sull’opportunità di chiedere al re la mano della figlia come ricompensa per la vittoria, Carlo annuncia pubblicamente di averla destinata a Giacomo. Cristina, sbigottita, chiede e ottiene dal padre un momentaneo rinvio del rito matrimoniale; Eduardo, disperato, si affida all’amico Atlei, capitano della guardia reale. Gabinetto di Cristina. In preda alla disperazione, la principessa è confortata delle sue damigelle. Partite queste, la donna riceve la visita di Eduardo, introdotto segretamente nella stanza dal fido Atlei. L’eroe chiede di poter rivedere il figlio Gustavo e, a un cenno di Cristina, il bambino è condotto in scena dalla sua governante attraverso una porta segreta: per pochi istanti Eduardo, Cristina e il figlio possono godere di un momento di serenità. Mentre la coppia si confronta sull’opportunità di fuggire, Carlo, Giacomo e un gruppo di cavalieri irrompono nelle stanze della principessa per convocarla all’altare. Gustavo e la governante riescono a nascondersi nelle stanze segrete, mentre Eduardo e Atlei escono furtivamente. Ancora una volta Cristina rifiuta di seguire Giacomo all’altare, scatenando così l’ira del padre. A un grido della principessa, Gustavo esce spaventato dal suo nascondiglio per correre tra le braccia della madre. Il re, stupito e oltremodo irritato, fa minacciare il bambino con una spada e chiede spiegazioni alla figlia. Cristina, proteggendo Gustavo con il proprio corpo, confessa di esserne la madre, ma rifiuta di palesare il nome del padre. Carlo al culmine della rabbia minaccia di morte la figlia e la fa arrestare dalle guardie. Ampia sala della reggia. Carlo riunisce la corte per giudicare la figlia e farle confessare il nome del padre di Gustavo. La costante reticenza di Cristina è interrotta dall’inatteso ingresso di Eduardo che rivela pubblicamente di essere il seduttore. Allo stupore generale l’eroe reagisce offrendo la propria vita in cambio di quella della principessa e del figlio, ma Carlo, sempre più adirato, ordina che l’intera famiglia sia giustiziata. Cristina, Eduardo e Gustavo sono dunque separati e condotti altrove dalle guardie.
Atto secondo. Sala della reggia. I cortigiani lamentano l’eccessiva rigidità della legge imposta da Carlo, mentre Atlei si dispera all’idea che l’eroe che ha salvato la patria e la principessa reale siano stati condannati a morte. Nel frattempo Giacomo comunica a Carlo di essere ancora disposto a unirsi in matrimonio con Cristina e a riconoscerne il figlio, ma a condizione che Eduardo sia giustiziato. Carlo, commosso dalle parole di Giacomo, convoca Cristina e le sottopone l’offerta di Giacomo, ma la principessa rifiuta inorridita, sorda alle preghiere del padre e dei cortigiani. Il re, furioso, ordina che la figlia torni in prigione, mentre Giacomo, pur se deluso, spera ancora di poter salvare Cristina. Inaspettata giunge però la notizia che alcuni prigionieri russi, che un atto di clemenza del re ha lasciati liberi in città, si sono impossessati delle mura in attesa che la flotta nemica, non del tutto sconfitta, attacchi nuovamente Stoccolma. Carlo affida dunque il comando delle schiere svedesi a Giacomo e tutti si preparano alla battaglia decisiva. Atrio attiguo al carcere. Mentre i suoi seguaci ne compiangono il destino, Eduardo si dichiara pronto ad affrontare la morte. Sopraggiungono Atlei e alcuni soldati che, informato Eduardo dell’imminente attacco russo, liberano l’eroe che subito si pone con rinnovato vigore alla testa delle truppe. Interno di una torre. Cristina sogna l’esecuzione di Eduardo; risvegliatasi di soprassalto, teme che la sua costanza possa essere di ostacolo alla sorte di marito e figlio. I suoi pensieri sono però interrotti da alcuni colpi di cannone che abbattono parte del muro della torre. Contemporaneamente Eduardo, Atlei e alcuni soldati irrompono nella prigione della donna per liberarla, non prima però di averle comunicato che anche il piccolo Gustavo è stato posto in salvo. Piazza. È notte e in città imperversa la battaglia. Da parti opposte sopraggiungono Carlo e Giacomo; quest’ultimo informa il re che Eduardo, liberato dai suoi fidi, ha ancora una volta sconfitto il nemico. Giunge allora Eduardo che si inginocchia davanti a Carlo offrendo la propria vita in cambio di quella di Cristina e del figlio. Sopraffatto dalla virtù dell’eroe e dall’affetto paterno, Carlo perdona Eduardo benedicendo la sua unione con Cristina, giunta nel frattempo con Gustavo. Le sofferenze hanno dunque fine e la felicità pervade gli animi di tutti.

Eduardo e Cristina fu ripreso nel 1820 alla Fenice, l’anno successivo fu al Regio di Torino con Giuditta Pasta e Nicola Tacchinardi, nel 1822 è al São Carlos di Lisbona, nel ’24 alla Canobbina di Milano e nel ’31 al Comunale di Bologna. Poi l’opera scomparve dalle scene per essere riproposta solo nel 1997 al Festival Rossini di Willibad. Ora il ROF presenta la prima ripresa italiana in tempi moderni e la prima esecuzione assoluta nella nuova edizione critica della Fondazione Rossini curata da Alice Tavilla e Andrea Malnati. Sul podio, alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, è Jader Bignamini che affronta con impegno una partitura in cui l’assoluta asemanticità e funzionalità del suono nulla toglie all’efficacia del prodotto finito che regge perfettamente la prova del palcoscenico. Rossini non fa un’operazione di copia e incolla, in suo non è un pigro riciclo: i temi vengono riscritti a memoria, ne riecheggiano l’andamento, ma la situazione è diversa. Ciò è stato pienamente compreso da Bignamini e sotto le sue mani il risultato si rivela del tutto godibile, anche grazie al pregevole cast. Enea Scala affronta uno dei ruoli più impervi come Re Carlo, l’inflessibile monarca. La sua parte musicale, ampia e articolata, deriva ampiamente da Ermione e il tenore ragusano la realizza con squillo spavaldo, tecnica perfetta e grande temperamento. Daniela Barcellona ritorna al ROF con il ruolo en travesti di Eduardo e vi porta la sensibilità e l’eroicità del suo Tancredi. Debuttante a Pesaro è invece Anastasia Bartoli che conquista subito il pubblico con la sua presenza scenica e la passione che mette nella parte di Cristina. Bello il timbro, meno l’espressività del Giacomo di Grigory Shkarupa mentre Matteo Roma non sfigura nella non facile parte di  Atlei. Per quanto riguarda il coro del Teatro Ventidio Basso ci si aspetterebbe almeno un livello di qualità pari quello dell’orchestra, e invece…

La regia è affidata a un indaffaratissimo Poda, onnipresente in questi mesi tra Buenos Aires e Mosca, tra arene all’aperto e teatri bulgari, tedeschi e svizzeri. Le sue messe in scena sono le uniche riconoscibili anche da una sola fotografia e sono anche le uniche che dopo tre minuti ti fanno capire che cosa succederà nelle seguenti tre ore. Non fa eccezione questa sua lettura rossiniana che più che una regia è un’installazione artistica che prescinde dalla drammaturgia dell’opera e ripete le immagini della sua Thaïs o della Turandot o dell’Aida:   total white nella scenografia – qui gabbie contenenti copie di statue di varie epoche – o nei corpi nudi dei ballerini e nella maggior parte dei costumi. Bravissimo coreografo, Poda muove con efficacia i suoi danzatori, ma si preoccupa meno della vicenda e della psicologia dei personaggi che agiscono in un’astrazione buona per qualunque vicenda.

L’Opéra de quat’sous

Kurt Weill, L’Opéra de quat’sous

Aix-en-provence, Théâtre de l’Archevêché, 20 luglio 2023

★★★☆☆

(registrazione televisiva)

Kurt Weill inaugura il 75° Festival di Aix-en-Provence

Mackie Messer diventa Mac-la-lame e i soldi passano da tre a quattro nella versione francese della Dreigröschenoper di Brecht/Weill. L’Opéra de quat’sous inaugura la 75esima edizione del Festival di Aix-en-Provence, un’operazione fortemente voluta dal suo direttore Pierre Audi. La traduzione di Alexandre Pateau è un contributo al teatro brechtiano in Francia, un testo non appiattito, al contrario connotato da un ritmo, un’insolenza e una ruvida modernità. Un testo concepito per essere parlato e cantato, non letto. Tre elementi rendono interessante questa proposta: il ritorno alla versione originale del 1928, più atemporale rispetto alle versioni successive perché priva delle allusioni al nazismo aggiunte in seguito da Brecht; la decisione di affidarla ad attori, in linea con le intenzioni del drammaturgo, ma sempre problematica per quanto riguarda le parti cantate; e infine, la scelta della lingua francese, una scelta pericolosa per un testo così graffiante.

Ognuna di queste sfide è stata affrontata e in parte vinta: la prima messa in scena operistica del regista austriaco Thomas Ostermeier soffre di qualche prolissità e pleonasmo, ma ha anche momenti di efficace teatralità. La messa in scena cattura tutta l’ambiguità del teatro di Brecht, tra realismo e didascalismo: gli attori si piazzano spesso al proscenio per rivolgersi direttamente al pubblico che viene chiamato in causa dai personaggi, persino sollecitato alla maniera televisiva di quelli incaricati di far applaudire il pubblico a comando. Gli spettatori diventano così parte integrante dello spettacolo.

La scenografia di Magda Willi ricrea un mondo brutale e minimalista con una struttura metallica che funge da praticabile, passerella e prigione illuminata dalle luci basse o sovraesposte di Urs Schönebaum. Gli elementi scenici e video rimandano alla grafica costruttivista degli anni Venti sulle superfici geometriche che fungono da supporti ai video di Sébastien Dupouey mentre sottotitoli scorrono in lettere luminose lungo i due bracci di una croce adagiata sul pavimento in questa scatola nera che è il palco, con riferimenti alla tecnica fotografica con  i primi esperimenti cinematografici  di Eadweard Muybridge proiettati sugli schermi. Ma allo stesso tempo ricrea l’oscurità del mondo sotterraneo di Londra – e dell’umanità. 

La realizzazione musicale è affidata a Maxime Pascal alla guida della piccola compagine di  Le Balcon, composta da una decina di musicisti e dominata dagli ottoni in stile New Orleans: tromba, trombone, corno, clarinetto e soprattutto i sassofoni in tutti i registri disponibili.  Pascal combina meravigliosamente strumenti antichi, persino tradizionali (balalaika, banjo), un vecchio pianoforte Pleyel degli anni Trenta e percussioni penetranti (celesta) per produrre la colonna sonora che avvolge le parti cantate o declamate in forma di melodramma. Sempre in riferimento parodico al bel canto, questo o quello strumento a fiato raddoppia all’unisono questo o quel personaggio, per produrre una stretta alleanza tra parola e musica, significato e suono. La prima versione – più incisiva e in linea con le intenzioni di Weill – è arricchita di alcune pagine inedite.

L’elemento forte di questa produzione è la presenza della compagnia della Comédie Française. Una dozzina di attori che cantano e ballano per servire Brecht e Weill e dare corpo, voce e anima ai piccoli delinquenti, alle prostitute, ai mendicanti e agli altri protagonisti della malavita di Soho, dove «gli esseri umani possono vivere solo attraverso il crimine». Eccellenti i coniugi Peachum di Christian Hecq e Véronique Vella e la Polly di Marie Oppert, quella con il miglior bagaglio lirico. Su un livello inferiore il Mac-la-lame di Birane Ba.

Il pubblico, inizialmente un po’ disorientato, ha alla fine accolto calorosamente lo spettacolo ed è stato gratificato con un fuori programma: «Partez à l’assaut des nouveaux fascistes… c’est par leur faute que la nuit persiste» (Andate ad attaccare i nuovi fascisti… è grazie a loro che la notte persiste). Più chiaro di così…