Novecento

Arabella

Richard Strauss, Arabella

Madrid, Teatro Real, 9 febbraio 2023

★★★★☆

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Un bicchiere d’acqua invece di una rosa d’argento

Per la prima volta a Madrid va in scena l’opera con cui Strauss conclude la sua collaborazione con Hugo von Hofmannsthal. Iniziato con Der Rosenkavalier, il sodalizio ebbe termine per la morte del librettista nel 1929: Arabella fu poi presentata nel 1933 e ingiustamente criticata di voler ripetere la ricetta di successo del Rosenkavalier. Se nel lavoro del 1910 era una rosa d’argento offerta alla futura sposa il fulcro della vicenda, qui è un bicchiere d’acqua fresca che lo sposo offre alla sua futura moglie secondo le consuetudini della Croazia, il paese da cui proviene il personaggio di Mandryka. Ma a parte l’ambientazione viennese – là la Vienna settecentesca di Maria Teresa, qui la Viena di Franz Joseph I negli anni 1860 – Arabella è una cosa completamente diversa, a cominciare dallo stile musicale che mescola motivi popolari slavi con passaggi di scrittura molto moderna. 

Quello di Madrid è il recupero della produzione nata all’Opera di Francoforte del 2009, la stessa che fu presentata nel 2013 al Liceu di Barcellona e acclamata come il miglior spettacolo e Christof Loy miglior regista di quella stagione. Lo stesso Loy anche a Madrid ha mietuto successi con le sue Ariadne auf Naxos (2006), Lulu (2009), Capriccio (2019) e Rusalka (2020). Ambientata negli anni 1950, la lettura del regista tedesco punta ai sentimenti dei personaggi che fa risuonare in una scenografia, di Herbert Murauer, depurata e scarna quanto mai: una scatola bianca il cui fondo scorre per mostrare gli altri ambienti realisticamente ricostruiti della casa dei Waldner assediata dai creditori, o della scalinata della sala da ballo con gli ospiti tramortiti dall’alcool. Loy toglie alla “commedia lirica in tre atti” qualsiasi aspetto anche solo lontanamente operettistico e si occupa di qualcosa di molto diverso: vuole mostrare come Arabella, l’àncora di salvezza della famiglia sull’orlo della rovina economica e che per questo deve maritare un ricco sposo, scopre sé stessa e diventa una donna indipendente, con una personalità distinta. E questo nella totale incomprensione dei genitori, ma certamente anche della sorella Zdenka, che qui abbandona l’esistenza da ragazzo per diventare una donna matura e piena di sentimenti quando solo allora potrà aprirsi a Matteo in modo più significativo rispetto al superficiale trucco della chiave nella stanza di Arabella. In primo piano nella messa in scena di Loy c’è ancora una volta l’elaborazione dei personaggi in tutti i loro dettagli e nelle loro fasi di sviluppo. Per questo non ha bisogno di una sfarzosa scenografia e la scatola bianca, inizialmente chiusa, mette magnificamente in evidenza l’azione dei cantanti in primo piano.

Grande sembra sia l’intesa del regista con il direttore David Afkham che padroneggia la difficile partitura con grande comprensione per le sfumature e i veloci cambi di tempo che Strauss adotta in alcune scene come il finale secondo. Esemplare il momento della rivelazione della sua identità da parte di Zdenka, quando Afkham ferma la musica per una piccola eternità, in modo che tutta la potenza emotiva di questo punto decisivo sia rivelata con tutta la sua forza, un momento certamente voluto da Christof Loy.

Nella serata trasmessa in streaming da mezzo.tv la protagonista è stata sostituita dal soprano americano Jacquelyn Wagner, che ha reso con sensibilità la bellissima dichiarazione d’amore nel duetto del secondo atto «Und du wirst mein Gebieter sein und ich dir untertan | dein Haus wird mein Haus sein, in deinem Grab | will ich mit dir begraben sein | so gebe ich mich dir auf Zeit und Ewigkeit» (Tu sarai il mio signore e io la tua suddita; mia sarà la tua casa; nella tua tomba sarò sepolta così da darmi te per la vita e per l’eternità). Voce fresca e timbro gradevole, non mostra però una grande varietà di colori e l’espressione finisce per rivelarsi un po’ monotona. Come Mandryka si ascolta il baritono olandese Josef Wagner di sicura vocalità e buona presenza scenica. Ottime doti attoriali necessarie a delineare i caratteri da commedia dei due genitori Waldner sono quelle di Martin Winkler e Anne Sofie von Otter, quest’ultima purtroppo in condizioni vocali piuttosto precarie. Splendida voce lirica e luminosa quella di Matthew Newlin (Matteo), scoppiettante di agilità alla Zerbinetta quella di Elena Sancho Pereg (Fiakermilli). Sarah Defrise connota una Zdenka trepidante e intensa mentre efficaci sono gli altri tre pretendenti di Arabella: l’Elemer di Dean Power, il Dominik di Roger Smeets e il Lamoral di Tyler Zimmerman. 

Guerra e pace

Sergej Prokof’ev, Guerra e pace

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 5 marzo 2023

★★★★★

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Due russi e la guerra

Il 5 marzo 1953 morivano nello stesso giorno Sergej Prokof’ev e Josif Stalin. Esattamente 70 anni dopo va in scena a Monaco di Baviera l’ultima sofferta opera di Sergej Prokof’ev, lasciata incompiuta e con almeno quattro diverse versioni con cui avere a che fare. Iniziata nel 1940 al suo ritorno in Russia dagli Stati Uniti, Guerra e pace fu destinata in parte a compiacere il paese che lo riaccoglieva e a esaltarne il patriottismo ispirando i russi a difendere la patria e a farli credere nella forza militare della nazione: soprattutto la seconda parte ai suoi tempi fu un mezzo di efficace propaganda stalinista.

Quella stessa esaltazione patriottica è ora altamente problematica adesso che la Russia da vittima dell’invasione nazista è diventata l’invasore di un altro paese. Molto sofferta è stata quindi la scelta di produrre questo lavoro: il sovrintendente Serge Dorny, il diretto Vladimir Jurovskij e il regista Dmitrij Černjakov hanno dovuto affrontare problemi esterni – gestione di un cast che proviene da tutte le repubbliche ex-sovietiche, Ucraina compresa – e ripensamenti personali, sollevando preoccupazioni riguardo alla presentazione di un’opera che ha al centro il militarismo russo mentre le bombe russe cadono sull’Ucraina. Jurovskij, moscovita ma con nonni ucraini, è arrivato ad affermare che la produzione è una denuncia dell’attuale regime russo e che non lavorerebbe mai con chi sostiene apertamente la guerra, ma che «ci sono molte persone che si trovano in una zona grigia, tra l’opporsi pubblicamente alla guerra e la paura della loro vita, del benessere delle loro famiglie, di perdere il lavoro». Alcuni degli artisti russi temono che la loro carriera possa essere danneggiata all’estero o che esibendosi in una produzione contro la guerra possano avere problemi in patria. Per questo gli artisti hanno rifiutato ogni intervista per non cadere nella trappola tesa dai giornalisti. Meno che mai viene loro richiesto di fare una pubblica denuncia contro la guerra.

In questa produzione il team creativo ha apportato modifiche per attenuare qualsiasi senso di patriottismo russo o di sentimento a favore della guerra, affermando che è importante continuare a mettere in scena opere russe anche quando la guerra continua. Nella seconda parte, la più problematica, sono accorciate le scene più nazionalistiche, eliminato il finale trionfalistico e sostituito con una musica senza parole: una sardonica fanfara di ottoni in scena subito dopo le parole di Kutusov per dare un diverso tono alla conclusione dell’opera. 

L’impianto scenografico di Černjakov è costituito da un elegante salone, un luogo fortemente iconico per la Russia: la “Sala delle colonne” della Casa dell’Unione – sede di cerimonie ufficiali, funerali, balli, processi, concerti, sfilate di moda… Jurovskij racconta di aver ascoltato qui il padre dirigere la Prima Sinfonia di Prokof’ev! È un ambiente chiuso in cui tutti i personaggi sono vittime di una qualche situazione tragica: non si tratta di rifugiati o di sfollati, bensì di un insieme di persone inserite in un esperimento sociale. Vestiti nei modi più vari, dormono accampati su materassi per terra, lettini da campo, sedie pieghevoli. Dall’esterno si sentono scoppi, sparatorie, grida. In alto uno striscione augura “Buon anno nuovo” ma nella seconda parte, quando i grandi lampadari di cristallo sono coperti da un velo nero, questo viene sostituito da un altro sbilenco e con lettere mancanti su cui si riesce a leggere a malapena “Lunga vita al grande invincibile Stalin…” affiancato da un didascalico “La battaglia di Borodino. Gioco di guerra patriottico”. Si tratta infatti di giochi, di finzione: i balli della prima parte hanno come personaggi gli stessi sfollati che si sono costruiti ventagli e tiare con la carta di giornale e giocano a fare gli aristocratici; la battaglia di Borodino è simulata con armi finte e finte esecuzioni. Ma se le vicende sono ricostruite nella finzione, così non è delle emozioni, che qui hanno la stessa intensità e Černjakov riesce come sempre a gestire in maniera esemplare i personaggi con le loro psicologie così come i movimenti delle masse. 

Con oltre 70 personaggi Guerra e pace è una formidabile sfida per chi la mette in scena. Le 9 settimane di prova, in confronto alle usuali sei, lo dimostrano, ma hanno avuto come risultato uno spettacolo di eccezione, dove la direzione di Jurovskij a capo dell’Orchestra di Stato Bavarese ha reso al meglio la musica fascinosa di Prokof’ev, che alterna momenti di intima liricità a scoppi tellurici a languidi e tristi valzerini. Una colonna sonora di grande qualità per un autore di fortunate musiche per il cinema. Assieme al fantastico coro del teatro, praticamente sempre in scena, un cast sterminato di altissima qualità in cui si fa fatica a identificare almeno le eccellenze più evidenti come ad esempio il tenore moldavo Andreij Žilikhovskij, tormentato principe Andreij Bolkonski; il soprano ucraino Olga Kulchynska, sensibile Nataša; l’armeno Arsen Soghomonyan, dal bellissimo timbro tenorile, nella sofferta parte di Besukhov; l’autorevole basso russo Dmitrij Ul’ianov, Kutusov; il Napoleone del basso-baritono islandese Tómas Tómasson; il basso rumeno-ungherese Bálint Szabó nella doppia parte del generale Belliar e del maresciallo Davout; il seducente mezzosoprano russo Viktoria Karkacheva come contessa Elena; il giovane e sfrontato Kuragin del tenore uzbeco Behzod Davronov e poi glorie di ieri quali Violeta Urmana, Marija Dmitrijevna Akhrossimova e Sergej Leiferkus, principe Bolkonskij.

Ora che lo spettacolo è andato in scena i timori sembravano infondati: nella lettura del regista la denuncia della guerra di invasione è chiara oltre ogni dubbio. E il pubblico lo ha capito e salutato lo spettacolo con grandiose meritatissime ovazioni.

 

Œdipe

George Enescu, Œdipe

Parigi, Opéra Bastille, 14 ottobre 2021

★★★☆☆

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L’unica opera di Enescu torna a Parigi

Lunga e tormentata la gestazione dell’unica opera di George Enescu: nel 1909 il compositore rumeno assiste a Parigi a una rappresentazione dell’Edipo re di Sofocle e l’anno successivo ne stende un primo abbozzo musicale. Edmond Fleg – Flegenheimer, brillante scrittore ebreo francese autore di una Anthologie juive – nel 1913 porta a termine una prima versione del libretto in due parti, da eseguirsi in due diverse serate. Negli anni successivi attraverso progressive modifiche Enescu giunge a dare al lavoro la veste definitiva, ma il sopraggiungere della guerra e altre incombenze lo distolgono a lungo dal suo Œdipe e solo nell’estate 1921 Enescu riesce a riprendere il lavoro. A novembre esegue al pianoforte l’intero spartito. L’orchestrazione si conclude nel 1931, ma la prima rappresentazione all’Opéra di Parigi ha luogo solo cinque anni dopo nella forma che conosciamo oggi in quattro atti, con il primo e l’ultimo che fungono rispettivamente da prologo e da epilogo. Poche le produzioni da allora, quasi tutte nei cartelloni dell’Opera di Bucharest. L’edizione su disco del 1968 è cantata infatti in rumeno.

Atto primo.Presso il palazzo di Laio si festeggia la nascita di Edipo. Tiresia profetizza che ucciderà suo padre e sposerà sua madre. Inorridito, Laio affida il bambino a un pastore perché lo uccida.
Atto secondo.Salvato dal pastore, Edipo è cresciuto alla corte del re Polibo e di Merope, a Corinto, ma l’oracolo gli ha rivelato il suo destino. Per sfuggire a una tale sorte, decide di lasciare tutto e partire, dirigendosi a Tebe. Sulla via incontra Laio che, dopo avergli chiesto di farlo passare con brutalità, lo insulta e lo percuote. Edipo, per difendersi, lo uccide. Risolto l’enigma della Sfinge, Edipo entra nella città vittorioso e ottiene la mano di Giocasta.
Atto terzo.Sono passati vent’anni. Tebe è oppressa da una pestilenza. Interrogato, l’oracolo risponde che il flagello durerà sino a quando l’assassino del re Laio non sarà smascherato e punito. Edipo promette di ottenere giustizia. Creonte chiama a corte il pastore che ha assistito all’omicidio e Tiresia. Questi, pur conoscendo i fatti non parla; ma quando Edipo lo accusa di essere l’assassino, è costretto a raccontare la verità. Sospettando un complotto di Creonte, Edipo scaccia l’indovino e il cognato, ma Giocasta gli rivela il luogo e le circostanze della morte di Laio e il re sente affiorare dentro di sé un presentimento. Il pastore conferma e Phorbas, giunto da Corinto dopo la morte di Polibo, dichiara che quest’ultimo e la regina Merope erano solo i suoi genitori adottivi. Compresa l’orribile verità, Giocasta si uccide; Edipo si acceca e lascia Tebe accompagnato dalla figlia Antigone.
Atto quarto.Giunto ad Atene presso Teseo, Edipo sente di essere giunto al termine della sua vita. Ma Creonte gli chiede di ritornare sul trono di Tebe. Allo sdegnato rifiuto di Edipo, Creonte cerca di rapire Antigone, ma Teseo interviene e ottiene giustizia per l’ormai vecchio Edipo, che può così ribadire con orgoglio la sua innocenza e la sua fierezza di fronte al destino. Poi si allontana con Teseo per morire in pace.

«Nello stile di Enescu [1881-1955] entrano in uguale misura la sua formazione francese con Gabriel Fauré, suo maestro (ravvisabile nelle musiche che descrivono la corte di Laio e nei festeggiamenti per la nascita di Edipo e, nell’epilogo, nella descrizione del mondo austero e pacifico di Teseo), come le acquisizioni più recenti del linguaggio neoclassico, fiorito nel periodo tra le due guerre; la tradizione delle sue origini rumene, così presenti al compositore e ravvisabili nelle melodie del pastore, il cui flauto evoca le ancestrali suggestioni della doïna e i lamenti del cîntec lung; gli sperimentalismi, impiegati a fini espressivi, dei quarti di tono (nella scena della Sfinge), anch’essi ravvisabili nella tradizione popolare rumena; una scrittura vocale varia e mobilissima, che passa con disinvoltura dal canto puro allo Sprechgesang, al grido e al bisbiglio; un contrappunto rinnovato attraverso l’impiego dell’eterofonia, di tradizione bizantina, anch’essa tipica del folklore rumeno. Enescu utilizza anche un certo numero di motivi ricorrenti, primo fra tutti quello del Destino, dal profilo discendente, modale, già presente nella Sonata per pianoforte in fa diesis op. 24 n. 1 (1924), che udiamo nel preludio iniziale, all’inizio del terzo atto e nei momenti più significativi della tormentata vicenda del protagonista». (Antonio Polignano)

Dopo un primo atto tutt’altro che esaltante, con il lungo rituale della nascita e dei festeggiamenti per il regale neonato, il lavoro prende quota con la partenza da Corinto di Edipo e il suo incontro con il padre sconosciuto e la sfinge, episodi seguiti dal tragico scoprimento della verità. Il lavoro si affloscia nuovamente nel quarto atto con la professione di innocenza di Edipo, vicenda assente nell’Edipo re di Sofocle, che condensa, in quelli che sono i due atti centrali del lavoro di Enescu, il conflitto tra volontà divina e responsabilità individuale. Le vicende dell’ultimo atto sono invece tratte con una certa libertà dall’Edipo a Colono, tragedia postuma dello stesso Sofocle.

Il direttore Ingo Metzmacher, che aveva diretto l‘Œdipe di Salisburgo con la regia di Achim Freyer nel 2019, trae il meglio dalla rigogliosa partitura che elabora le esperienze musicali dei primi decenni del secolo con le sue sofisticate armonie, i ritmi sfuggenti e la raffinata strumentazione. Qualche pagina ricorda la Pénélope del maestro Fauré o le atmosfere magiche del coetaneo Szymanowski. Enescu è ancora oggi ricordato principalmente per la sua produzione sinfonica (5 sinfonie) e cameristica (varie sonate per pianoforte e altri strumenti). Anche la vocalità sembra nascere dall’esperienza del suo tempo: siano il Pelléas di Debussy o il primo Schönberg nei momenti di canto parlato o parlato ritmico.

Quasi sempre presente in scena il personaggio del titolo non sembra porre particolari difficoltà tecniche se non per la tenuta dovuta alla fatica, ma Christopher Maltman riesce a superare lodevolmente la prova. La parte vocale più impegnativa è quella della Sfinge qui resa con grande tecnica da Clémentine Margaine. Ekaterina Gubanova è un’intensa Giocasta. Folta la schiera degli altri interpreti tra cui alcuni fuoriclasse: Clive Bayley (Tiresia), Brian Mulligan (Creonte), Laurent Naouri (alto sacerdote), Anne Sophie von Otter (Merope), Vincent Ordonneau (pastore), Nicolas Cavallier (Phorbas/guardia notturna), Anna-Sophie Neher (Antigone). Molto presente anche il coro debitamente istruito da Ching-Lien Wu.

Œdipe apre la prima stagione completa dopo la chiusura per pandemia del teatro francese ed è anche la prima produzione dell’era Neef, il direttore artistico dell’Opéra National che ha scelto il commediografo Wajdi Mouawad il quale aveva prodotto come prima opera lirica un Ratto dal serraglio all’Opera di Toronto come suo ultimo spettacolo alla guida del teatro canadese. Ora direttore del Théâtre National de la Colline di Parigi, Mouawad affronta il lavoro di Enescu con spirito didascalico, si sente infatti in dovere di narrare gli antefatti della vicenda in un pre-prologo, in cui racconta dalla fondazione di Tebe da parte di Cadmo alla serie di re che hanno governato su questa città, un tempo felice, fino a Laio, maledetto da Apollo perché aveva violentato un fanciullo. Il regista libanese aveva già affrontato in teatro l’Edipo di Sofocle tre volte e legge questo di Enescu in maniera molto lineare, privilegiando l’aspetto visivo con i fantasiosi costumi di Emmanuelle Thomas con copricapi fitomorfi a Tebe, piumati a Corinto. Le scenografie di Emmanuel Clolus sono essenziali ma suggestive e la recitazione, non particolarmente curata, è accompagnata da una gesticolazione stilizzata. Ne esce fuori uno spettacolo che appare datato e che non sembra esaltare le qualità di questo lavoro dimenticato.

  

Doktor Faust

   

Ferruccio Busoni, Doktor Faust

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 7 febbraio 2023

★★★★☆

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Il Faust di Busoni per la terza volta a Firenze, ma il pubblico è latitante

Onnipresente Davide Livermore! In questo periodo era a Torino con la sua Maria Stuarda di Schiller, ha presentato l’Aida all’Opera di Roma, tra pochi giorni ci sarà la sua Tosca al Carlo Felice di Genova seguita subito dopo da Les contes d’Hoffmann alla Scala. E fino a pochi giorni fa si poteva assistere al suo Barbiere di Siviglia al Petruzzelli di Bari.

Della sua irrefrenabile attività fa parte anche questo Doktor Faust, uno dei maggiori eventi che Firenze ha voluto dedicare al Faust e a Goethe, un festival inaugurato dalla Faust-Symphonie di Franz Liszt eseguita dall’orchestra del teatro del Maggio diretta da Marc Albrecht. Ma è di qualche mese fa Schauspiel Faust, lo spettacolo che la compagnia Venti Lucenti ha presentato al Teatro Goldoni per gli studenti delle scuole mentre anche il quartiere di Rifredi ha voluto ricordare il leggendario personaggio con lo spettacolo La tragica storia del Dottor Faust di Christopher Marlowe.

Ora nella sala grande del Teatro del Maggio, come secondo titolo della stagione lirica va in scena quest’ultima opera di Ferruccio Busoni, compositore diviso tra due identità, quella tedesca e quella italiana: la prima segnata dalla musica strumentale, la seconda dall’opera. Il Doktor Faust è la sintesi delle sue due personalità e il lavoro più ambizioso che lo ha impegnato negli ultimi dodici anni di vita fino alla morte nel 1924 quando l’opera viene lasciata incompiuta. Sarà terminata dal suo allievo Philipp Jarnach l’anno dopo e presentata al pubblico il 21 maggio 1925 a Dresda diretta da Fritz Busch. Il ritrovamento di schizzi che si pensavano perduti ha permesso al musicologo Antony Beaumont nel 1982 di completare l’opera aggiungendo altri sei minuti di musica agli ultimi due quadri. Delle due versioni però è ancora più utilizzata la prima, come avviene ora a Firenze.

La fonte letteraria primaria non è costituita tanto dal poema di Goethe o dal dramma di Marlowe, da cui deriva comunque il titolo, bensì da quegli spettacoli di marionette (Faustpuppenspiele) popolari in area tedesca e passione di Busoni fin dall’infanzia, come dichiara l’autore stesso ne “Il poeta agli spettatori”, il testo recitato dopo la Sinfonia. In questo testo il musicista indica anche la sua estetica che si oppone al Verismo dominante in quel momento nel teatro musicale: «La musica rifugge l’ordinario, il suo corpo è fatto d’aria […] il meraviglioso è la sua patria», il teatro dunque come svago spiritualizzato, campo di finzioni e artifici. La scelta del teatro di marionette permette a Busoni non solo di sottrarsi al rischioso confronto con il testo di Goethe, ma di muoversi con maggior libertà formale e narrativa, inserendo nella vicenda personaggi fantastici e situazioni grottesche inquadrate tra pagine strumentali di grande impegno. Il compositore abbandona una narrazione lineare a favore di una struttura a pannelli disgiunti e contrastanti: ecco infatti la singolare sequenza con cui si dipana questa “Dichtung für Musik”: Sinfonia, Ostervesper und Frühlingskeimen (Vespro di Pasqua e germogli di primavera) con coro; testo recitato, Der Dichter an die Zuschauer (Il poeta agli spettatori); Primo Prologo; Secondo Prologo; Intermezzo scenico; Azione principale, Primo quadro; Intermezzo sinfonico; Secondo quadro; Ultimo quadro.

Nel Primo Prologo Faust riceve da tre misteriosi studenti di Cracovia, in verità dei messi infernali, il libro esoterico Clavis Astarti magica con il quale può piegare la magia ai suoi voleri. Nel Secondo Prologo Faust evoca gli spiriti infernali ma scaccia, perché troppo lenti, Gravis, Levis, Asmodus, Belzebù, Megaros e sceglie Mefistofele con il quale firma un patto per «abbracciare il mondo […] comprendere le azioni umane […] avere il genio e il suo dolore, così da essere felice come nessun altro». Tutto in cambio del suo asservimento alla morte. Con l’intermezzo scenico, sulle minacciose note dell’organo entriamo in una chiesa dove il fratello della ragazza sedotta da Faust prega per la sua vendetta. Mefistofele si sbarazza di lui come aveva fatto prima con i creditori e i gesuiti che vogliono mandare Faust sul rogo. L’azione principale si dipana in tre quadri in cui vediamo l’ascesa e la caduta di Faust: a Parma con la seduzione e rapimento alato della Duchessa; quindi la taverna di Wittemberg con la disputa tra gli studenti; infine la strada innevata dove Faust ha le sue visioni e dove si consegna, cadavere, a Mefistofele.

I dubbi filosofici, i tormenti esistenziali, il dualismo perdizione-redenzione sono i nodi secondo i quali viene vissuta la vicenda di Faust, che diventa alter-ego del compositore, con i suoi problemi relativi all’atto creativo. La mancata conclusione del lavoro aggiunge un ulteriore elemento di dubbio sulla possibilità dell’artista di poter completare la sua opera di conoscenza e tradurla in modo creativo: «Che il compimento proceda con il desiderio, che l’atto si compia nella vita insieme all’intenzione! Che cosa volere di più? Posso sperare così tanto?» aveva esclamato nella sua richiesta di pienezza ed assoluto alla comparsa di Mefistofele, lo spirito «veloce come il pensiero umano».

Firenze era stata nel 1942 la sede della prima esecuzione italiana del Doktor Faust nella traduzione di Oriana Previtali, la stessa in cui venne ripresa nel 1964 con le stesse scene di Mario Sironi. Questa è dunque la terza produzione fiorentina dell’opera, finalmente nel testo originale tedesco. La concertazione è affidata a un grande sperto di musica moderna quale Cornelius Meister, stimato interprete del teatro wagneriano – è suo l’ultimo Ring di Bayreuth – ed entusiasta propositore di opere raramente eseguite. Della densa partitura di Busoni, Meister mette in evidenza la straordinaria personalità che unisce l’invenzione armonica della musica germanica con la ricchezza di temi melodici tipici dell’opera italiana. E non c’è nulla di post-wagneriano in questa musica che si proietta invece verso il futuro con i suoi colori scuri, le audacie timbriche e una certa torbida sensualità del suono che diventa sontuoso nelle pagine strumentali quali il bellissimo intermezzo sinfonico in forma di sarabanda, un pezzo che ha trovato talora la via dei concerti sinfonici. L’orchestra del teatro risponde con un’esecuzione di grande livello, come se la musica di Busoni fosse ormai entrata nel suo DNA e così avviene anche per il coro istruito dal Maestro Lorenzo Fratini. Un po’ squilibrato il rapporto tra scena e orchestra, con le voci che talora si perdono dietro il muro fonico degli strumenti, ma il problema è che il particolare stile del canto mette a dura prova i cantanti, sia che si tratti del baritono Faust sia del tenore Mefistofele. Dietrich Henschel è un interprete abituato ai repertorii più estremi, si tratti di Monteverdi o di musica d’avanguardia, Lieder o Oratorii, e come Faust ha già cantato nella produzione di Kent Nagano a Lione e a Parigi. La parte è impegnativa perché il personaggio è sempre in scena e la vocalità ardua. A parte alcuni acuti, le difficoltà sono agevolmente risolte da Henschel, ma la sua performance non brilla per particolare varietà di colori. Anche Mefistofele è massicciamente presente e la tessitura estremamente impervia è causa di qualche sbandata per Daniel Brenna che porta comunque a conclusione l’oneroso impegno anche se non lascia il segno dal punto di vista della caratterizzazione del personaggio. Non meno difficile ma senza intoppi la resa del basso Wilhelm Schwinghammer (Wagner e Maestro di Cerimonie), e del tenore Joseph Dahdah (Duca di Parma e Soldato), entrambi eccellenti nelle loro parti, così come efficaci sono i tanti altri interpreti maschili. Unica voce femminile è quella del soprano ucraino Olga Bezsmertna, Duchessa di Parma di bel timbro, grande proiezione vocale e fermezza negli acuti, oltre che preziosa presenza scenica.

In uno dei corridoi del labirintico teatro fiorentino è esposto il progetto di realizzazione del nuovo palcoscenico, una complessa macchina scenica che prevede «4 elevatori centrali, 8 carri mobili, 1 carro girevole» per realizzare grandiosi effetti teatrali quali la «comparsa e scomparsa rapida di un’intera scenografia» e analogamente una «piattaforma con un disco girevole per creare movimenti rototraslanti». Davide Livermore non sembra voler utilizzare queste possibilità nella sua messa in scena realizzata con mezzi tecnologici che riprendono, con spirito moderno, le scenografie storiche sette- e ottocentesche con fondali dipinti per ricreare lo spazio tridimensionale: qui ovviamente con ci sono vernici e sagome di cartone, ma un enorme led wall che occupa il fondo della scena chiusa ai lati da pareti a specchio nella scenografia dello studio Giò Forma. Ecco quindi le immagini video in continuo movimento della D-Wok formanti architetture in prospettive vertiginose e la sterminata biblioteca di Faust si trasforma così con ipnotica fascinazione in ambienti virtuali abitati da forme infernali, fiamme, immagini erotiche, quadri rinascimentali per evocare le figure richiamate dal libretto, e poi Elena che ha preso il posto di Cristo sulla croce in una delle visioni di un Faust che non distingue più il sacro dal profano: «Oh, pregare, pregare! Dove trovare le parole? Esse danzano nel mio cervello come formule cabalistiche».

Pochi gli elementi reali in scena: sedie, tavoli, un pianoforte su cui Faust si esibisce da pianista – come Busoni! – per ammaliare la Duchessa tramite un satiro cornuto che uscito dallo strumento diventa il mezzo di seduzione: la magia si mescola alla sessualità – un altro Doktor F. (Sigmund Freud) non è distante nel tempo e nello spazio all’epoca della composizione del Doktor Faust –, e il patto non è firmato col sangue su una pergamena, ma è suggellato da un bacio tra Faust e Mefistofele. Vestiti allo spesso modo, i due protagonisti si rispecchiano l’uno nell’altro e come gli  altri personaggi maschili tutti sono controfigure del compositore stesso e portano la stessa maschera: il volto di Busoni.

Uno spettacolo di grande impatto visivo come sempre sono quelli di Livermore che qui argina le sue idee in maniera felice. Peccato che il pubblico fiorentino non sia accorso in massa: alla prima erano molto più numerosi i posti liberi di quelli occupati e si spera che nelle prossime repliche il tam tam di chi c’era e ha applaudito con convinzione convinca quelli che sono rimasti a casa. Lo spettacolo vale la pena, fosse anche solo per la rarità della proposta.

On purge Bébé

Foto © Jean-Louis Fernandez

Philippe Boesmans, On purge Bébé

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 20 dicembre 2022

★★★☆☆

(diretta video)

Estrosa, delirante, irriverente e fuori dagli schemi l’ultima opera di Boesmans

La lingua francese ha peculiarità fonetiche e grafiche tali per cui “Les Hébrides”, ossia le isole Ebridi, a causa della liaison hanno la stessa pronuncia di “Les Zébrides”, ma anche di “Les Ébrides”, essendo l’h muta. Il bambino deve fare una ricerca per la scuola e il papà non si dimostra di grande aiuto, ma la mamma ha in serbo un altro dramma che vira verso lo scatologico: «Le bébé n’a pas été» canta in un’aria carica di mestizia, ossia non è andato al gabinetto: il bambino soffre di costipazione.

Solo i francesi possono scherzare su un argomento come questo, loro che per augurarsi buona fortuna dicono “Bonne merde!” e usano il verbo emmerder (annoiare, dare fastidio) senza urtare la sensibilità dell’ascoltatore. Non stupisce quindi che la lepida vicenda, che fu oggetto del primo film sonoro di Jean Renoir nel ’31, sia anche quello dell’ottava e ultima opera del compositore belga Philippe Boesmans scomparso pochi mesi fa a 86 anni.

Vi si narrano dunque le tribolazioni dei coniugi Follavoine, il cui insopportabile e stitico figlio Toto si rifiuta categoricamente di prendere il purgante che gli libererebbe l’intestino. Il signor Follavoine – che di mestiere fa il fabbricante di porcellana – deve ricevere il signor Chouilloux, funzionario del Ministero della Guerra, del quale spera di avvalersi per aggiudicarsi un lucroso contratto per 300.000 vasi da notte destinati all’esercito francese. La vicenda si trasforma in una tragi-comico per il padrone di casa, i cui vasi da notte, presentati come infrangibili, si rompono alla prima e alla seconda dimostrazione. Quando la signora Follavoine parla dei tormenti causati dal figlio di 7 anni, il signor Chouilloux mostra grande interesse e persino entusiasmo per la questione, essendo lui stesso piuttosto sensibile all’intestino. I genitori continuano a incitare il ragazzo infernale che si rifiuta ancora di bere la sua pozione. La signora Follavoine si lascia poi sfuggire per caso che Chouilloux è cornuto. Lo sfortunato ragazzo si consola svuotando per errore metà del purgante. Le cose non migliorano quando Mme Chouilloux e il suo amante Truchet, che lei presenta come suo cugino, arrivano per il pranzo e tutti brindano con il purgante, con le conseguenze che possiamo immaginare.

On purge Bébé è tratta dall’omonima pièce in un atto di Georges Feydeau del 1910 qui adattata da Richard Brunel che firma anche la messa in scena di questa produzione de La Monnaie. Trattando tutto questo con grande leggerezza, Boesmans opta per un approccio sillabico al testo per privilegiarne l’intelligibilità, ma si avvale di gustose citazioni dalle Ebridi di Mendelssohn (ovviamente), dalla “Méditation” della Thaïs e dal Parsifal, allorché il pitale «indistruttibile» assurge a coppa mistica. I suoni si accordano alla scena e ai rumori diventando un personaggio complementare in una logica teatrale inesorabile. Lasciata incompiuta dalla morte dell’autore, la decima e ultima scena è stata completata da Benoît Mernier

La pungente satira che vuole mettere in ridicolo le smanie di arrivismo della piccola borghesia in questa produzione viene attualizzata agli anni ’60, ma i temi trattati sono irrimediabilmente non contemporanei e nonostante le innumerevoli gag, la scelta come spettacolo per famiglie e “natalizio” denuncia i suoi limiti. Pregevole è la scenografia di Étienne Plus a mezza strada tra casa di bambole e cartoon con i suoi colori vivi e giusti i costumi di Bruno de Lavenère. Sugli interpreti non si è lesinato: madame Julie Fallavoine, la cui tessitura è acutissima, trova nel soprano coloratura Jodie Devos la cantante ideale. Nella parte di Bastien Fallavoine si impone Jean-Sébastien Bou, con agio nel suo fraseggio baritonale come nella sua presenza attoriale mentre Denzil Delaere interpreta con ironia la parte di Aristide Choullioux, funzionario del ministero della guerra. Il ruolo parlato del bambino è affidato all’inizio a un ragazzino che diventa presto un giovanottone alto due metri per un ulteriore effetto comico. Energica e precisa la direzione di Bassem Akiki alla testa di un ridotto ensemble di 27 strumentisti – sette archi, fiati a due, percussioni, arpa, pianoforte e celesta.

Der Rosenkavalier

Richard Strauss, Der Rosenkavalier

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 16 novembre 2022

★★★★☆

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Mais où sont les neiges d’antan!

Lo spettacolo coprodotto con Bologna avrebbe dovuto inaugurare la stagione 2023 del Comunale, ma la chiusura del teatro per restauri ha fatto saltare l’avvenimento in quanto il palco del locale fiera in cui verranno rappresentati i primi spettacoli nei previsti lunghi quattro anni di chiusura non è adatto. Peccato, perché il Rosenkavalier creato a Vilnius nel settembre 2020 e che arriva ora sulle tavole de la Monnaie è uno dei migliori di Damiano Michieletto.

Lo scorrere del tempo è il tema principale dell’opera di Strauss e il regista veneziano lo rende visivamente evidente grazie a Paolo Fantin che costruisce le scatole cinesi della sua scenografia, tre spazi ora distinti ora interconnessi: come ne Il viaggio a Reims sul palcoscenico c’è una cornice in cui si apre un sipario bianco dietro il quale appare la camera da letto di Marie-Thérèse von Werdenberg, la Marschallin, ma nel fondo di questa un’altra cornice e un altro sipario bianco danno sulla camera da letto di una Marschallin più giovane. Una terza, invecchiata, la vedremo su una sedia a rotelle spinta dal marito in pensione e carico di medaglie che canta l’aria del tenore. Ma ce n’è poi anche una quarta, bambina questa volta: quasi un’allegoria delle età nei quadri degli antichi pittori. Le diverse età della vita si succedono così con infinita malinconia in questo voyage autour de la chambre della donna in una giornata che era iniziata col suo risveglio tra le braccia di un giovane e finisce con l’addio del giovane che la lascia per una ragazza della sua età.

«Aber wie kann das wirklich sein, | daß ich die kleine Resi war, | und daß ich auch einmal die alte Frau sein werd… | Die alte Frau, die alte Marschallin!» (ma come può essere vero che io sia stata la piccola Resi, e che poi sarò un giorno una signora vecchia… la vecchia Marescialla!) canta la donna quando rimane sola nel primo atto. Guardandosi allo specchio Marie-Thérèse non vede più la fanciulla appena uscita dal convento a cui furono imposte le nozze e si chiede: «Wo ist die jetzt? Ja, such’ dir den Schnee vom vergangenen Jahr» (E dov’è ora? Sì, cerca la neve dell’anno passato). Ed ecco allora che nella stanza a un certo punto comincerà a scendere la neve i cui fiocchi la donna cerca di raccogliere in un bicchiere, ma nel bicchiere alla fine ci sarà solo acqua: l’innocenza e la freschezza dei primi amori si sono tristemente sciolti e restano solo rimpianti e desideri inappagati. Simboli della spensieratezze sono dei palloni bianchi che poi verranno rimpiazzati dai lugubri corvi neri delle allucinazioni di Ochs, uno gigantesco come quello che si vedrà nell’Archèus di Venezia.

Il tono onirico impronta la scena della levée della contessa, quasi un incubo popolato da grotteschi personaggi e una miriade di orologi a pendolo riempiono la scena. Il tema della neve si ritrova anche nella sfera con cui gioca il nanetto tutto vestito di bianco che rimpiazza Mohammed, il paggio nero della donna. E bianche sono anche le scenografie così come bianchi sono i costumi di Agostino Cavalca. Le luci antinaturalistiche di Alessandro Carletti sono efficacissime nel rendere il tono onirico della storia. Questa simultaneità dei piani temporali è il tratto più intrigante di questa produzione che rende ancora più chiaro il messaggio dell’opera.

Ma non è tutto solo rimpianto e malinconia e gli aspetti ilari della vicenda non sono affatto trascurati: il personaggio di Ochs è comicamente sottolineato e i servitori si muovono secondo un comico balletto, mentre Valzacchi e Annina, gemelli in ghette e occhio bendato, sono due personaggi d’avanspettacolo.

Trasparenza, dolcezza e un magistrale equilibrio dei piani sonori sono le doti della lettura che Alain Antinoglu fa della partitura. Sally Matthews è talora un po’ manierata e dal timbro un po’ troppo chiaro e leggero per il ruolo della Marschallin, ma risulta comunque convincente. Vocalità non esaltante con limiti nel registro acuto quella di Martin Winkler, un Ochs dalla decisa presenza scenica. Michèle Losier è un Octavian perfettamente credibile e di bella voce. La vocalità richiesta dalla parte del Cantante non riesce a mettere in difficoltà un belcantista come Francisco Gatell che qui aggiunge di suo la sensibilità nelo breve ma particolare ruolo creatogli dal regista. Dietrich Henschel (Faninal) e Ilse Eerens (Sophie) esibiscono entrambi un timbro poco gradevole.

Dialogues des Carmélites

  

Georges Poulenc, Dialogues des Carmélites

Roma, Teatro dell’Opera, 27 novembre 2022

★★★★★

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La donna crocefissa

La stagione del Teatro dell’Opera di Roma si inaugura coraggiosamente con uno dei maggiori titoli del Novecento, Dialogues des Carmélites  di Georges Bernanos messo in musica da Francis Poulenc e rappresentato la prima volta, in versione italiana, alla Scala il 26 gennaio 1957 mentre un anno dopo arrivava al Costanzi. L’opera manca da Roma dal 1991 e appartiene alla fase finale di una creatività marcata da un ripiegamento sulla spiritualità da parte di un compositore che fino a quel momento si era dimostrato tutt’altro, spiritoso e irriverente.

La lettura di Emma Dante oltre che sull’aspetto religioso, punta sulla violenza di cui sono vittime le donne: che cosa è se non un caso di femminicidio quello consumato a Compiégne nel 1794 negli ultimi tempi del Terrore quando sedici Carmelitane vengono espropriate del convento e ghigliottinate perché accusate di aver formato «una riunione di ribelli, di sediziose che mettono nel loro cuore il desiderio e la speranza criminale di vedere il popolo francese rimesso in catene dai suoi tiranni e la libertà inghiottita nei fiotti di sangue che le infami macchinazioni hanno fatto diffondere in nome del cielo», come recita l’editto del Tribunale Rivoluzionario letto dal carceriere. Ma la violenza la subiscono anche nel convento, quando le novizie vengono sottoposte dalle consorelle al supplizio masochistico/penitenziale dello schiacciamento di un piede con pesanti blocco di pietra, rendendole così sempre claudicanti. Prima ancora di essere monache, sono state «sorelle, amanti, corpi desiderati, donne sensuali» dice la regista, ed ecco allora sedici seducenti ritratti femminili di David, il pittore della Rivoluzione Francese, uno per ogni vittima, in cornici dorate nel salone del marchese De La Force, che poi nel corso dell’opera diventano grate del parlatorio del Carmelo, porte delle celle, o formano un “corridoio della morte” e infine rappresentano la ghigliottina, quando una tenda bianca scende al raccapricciante suono metallico previsto in partitura, a simulare la caduta della lama, cancellando la figura femminile che racchiudeva. Il crocefisso che vediamo fin dall’inizio ha un corpo femminile, «Dio è padre, ma più ancora madre» aveva detto Giovanni Paolo I. Su quello stesso crocifisso apparirà alla fine, per unirsi alle consorelle nel martirio, Blanche: la riconosciamo dal piede fasciato anche senza i primi piani della regia televisiva. E per la prima volta vediamo sorridere Corinne Winters, fino a quel momento sempre imbronciata, nella beatitudine del martirio. La parabola cristologica in cui Emma Dante ha trasformato, forzando un po’ la mano, certo, Dialogues des Carmélites è così completa.

Atemporale ed essenziale è l’ambientazione nella scenografia di Carmine Maringola: due lampadari di cristallo per la biblioteca «sontuosa ed elegante» del marchese De La Force, una enorme grata traforata per il convento. Nel breve momento in cui le suore assaporano la libertà, le vediamo girare in palcoscenico pedalando biciclette gialle, ma tutto lo spettacolo è pervaso dalla complice intimità delle donne intente ai lavori. Senza particolari riferimenti storici anche i costumi di Vanessa Sannino, sontuosi, dorati. Per le monache sono armature di guerriere, le “soldatesse di Cristo”, con elmi che richiamano le aurole dei santi dipinti da Giotto..

A capo dell’orchestra del teatro, il suo direttore musicale Michele Mariotti restituisce in tutta la sua bellezza una partitura ricca di richiami musicali che da Monteverdi si spingono fino a Puccini e l’orchestra risponde in maniera eccellente con un suono trasparente, morbido ma all’occorrenza tagliente. Omogeneo, e non dovrebbe essere altrimenti, l’insieme delle voci in scena seppure con le punte di Corinne Winters, una Blanche intensamente espressiva pur nella purezza della sua vocalità e grande attrice, e Anna Caterina Antonacci che veste sontuosamente i panni di Madame de Croissy, la priora morente, con un canto/recitazione di grande pregnanza. Ewa Vesin è la voce potente di Madamde Lidoine; Ekaterina Gubanova la tormentata Mère Marie de l’Incarnation; Emöke Baráth la giovanile Soeur Constance de Saint-Denis. Ottimi il Marquis De La Force del baritono Jean-François Lapointe e il figlio Chevalier di Bogdan Volkov. Pregevole l’apporto degli altri interpreti tra cui i diplomati della “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro.

Si temeva che Emma Dante riproponesse qualcosa di già visto, ma invece, pur senza rinunciare alla sua cifra stilistica, ha costruito uno spettacolo di grande forza immaginifica e profondità di pensiero che il pubblico ha dimostrato di apprezzare. Quella che sembrava la meno adatta a una inaugurazione mondana si è rivelata una scelta vincente. Chapeau al Teatro dell’Opera di Roma.

Z mrtvého domu / Glagolská Mše

 Leoš Janáček

Z mrtvého domu (Da una casa di morti)

Glagolská mše (Messa glagolitica)

Brno, Janáčkovo divadlo, 2 novembre 2022

★★★☆☆

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A Brno un connubio poco convincente

Non è facile trovare che cos’abbiano in comune due lavori così diversi come la Messa glagolitica, che Janáček aveva scritto per celebrare l’indipendenza della allora Cecoslovacchia nel 1926, e Da una casa di morti, presentata postuma nel 1930. Lavori che appartengono sì all’ultimo periodo creativo del compositore moravo, ma non convince che Jakub Hrůša e Jiří Heřman, rispettivamente direttore e regista, accostino le due musiche nello spettacolo che inaugura l’ottava edizione del Festival Janáček di Brno, la città natale di Janáček. La serata si divide in due parti: nella prima il primo e secondo atto di Da una casa di morti, dopo l’intervallo il terzo atto e la Messa.

Janáček non ebbe il tempo di terminare la sua ultima opera: nell’estate del 1928 portò la partitura del terzo atto a Hukvaldy, ma si ammalò di polmonite e morì il 12 agosto. Il suo lavoro rimase così incompiuto e gli allievi direttori d’orchestra Břetislav Bakala e Osvald Chlubna si occuparono del completamento della strumentazione e di piccoli adattamenti delle parti cantate. Fu apportata una modifica anche alla cupa conclusione, quando dopo la partenza di Goriančikov le guardie ricacciano i prigionieri e la vita nella casa dei morti continua implacabile. Negli anni successivi si è tornati al finale originario e, per la prima volta nella Repubblica Ceca, la produzione del festival presenta una nuova edizione critica a cura di John Tyrrell, che ricostruisce l’opera il più fedelmente possibile vicina alla forma che Janáček aveva previsto.

Come nel caso de L’affare Makropulos di Čapek, a prima vista Memorie da una casa di morti di Dostoevskij non sembra un tema adatto per un’opera: lo scrittore russo aveva trascorso quattro anni in una prigione siberiana in compagnia di assassini, rapinatori e persone semplicemente traviate da una sfortunata congiuntura e aveva attinto dalle sue esperienze in quel luogo per creare quest’opera letteraria, una cupa sequenza di racconti sulla vita quotidiana e sui destini dei singoli detenuti, con analisi psicologiche e riflessioni filosofiche, ma quasi senza dialoghi, senza un eroe centrale né personaggi femminili. Nonostante tutti gli orrori descritti, Dostoevskij scrisse al fratello: «Credimi, c’erano tra loro nature profonde, forti e belle, e spesso mi dava grande gioia trovare l’oro sotto una scorza ruvida». Anche Janáček vedeva qualcosa di più profondo e umano nei singoli personaggi. Questa volta lavorò direttamente con l’originale russo di Dostoevskij e la sua copia è piena di note e parti del testo sottolineate. Il libretto non è mai stato trovato, tranne una breve bozza, e si ritiene che Janáček lo abbia scritto direttamente sulla partitura. E questo non fu un compito facile e gioioso, come si può intuire dalle sue lettere a Kamila Stösslová: «Mi sembra di scendere dei gradini sempre più in basso, fino al fondo, dove abitano i più poveri dell’umanità. Ed è un cammino difficile».

L’origine della Messa glagolitica si intreccia in parte con la sua ultima opera: «Ho voluto catturare qui la fede nella sicurezza della nazione non su base religiosa, ma su base morale». Nelle intenzioni degli autori della produzione la versione teatrale della Messa glagolitica, come continuazione dell’opera, impregna entrambe le opere di una nuova testimonianza sulla forza della fede nell’uomo anche se il compositore fu un ateo convinto e fortemente critico della chiesa organizzata ceca che considerava «una chiesa piena di morte». Sulle note finali dell’opera si sente una campana suonare e attacca la fanfara del primo movimento, Úvod (Introduzione). Seguono cinque numeri cantati secondo il tradizionale “Ordinarium missæ” – Gospodi pomiluj (Kyrie), Slava (Gloria), Věruju (Credo), Svet (Sanctus), Agneče Božij (Agnus Dei) – un postludio per organo solo e un ultimo brano puramente strumentale a conclusione di un lavoro molto particolare non solo per la scelta della lingua, lo slavo arcaico, ma soprattutto per la peculiare cifra stilistica della materia sonora messa in campo dal Musorgskij moravo, secondo la definizione di Fedele D’Amico. Un organico atipico (soli, coro misto, orchestra e organo) e un’espressione terrena, quasi pagana caratterizzano questa «Sagra del cristianesimo, per parafrasare un altro tributo della modernità alla ritualità arcaica. […] Il contrasto tra asciutta trasparenza e tesa massa sonora in alcuni punti è di tagliente violenza. La scultorea essenzialità delle line fa pensare a profondi “intagli” nel vuoto o alla “costruttività del colore” nei pittori Fauve e al loro disinteresse per il chiaroscuro». (Franco Pulcini)

Se sulla carta non convince del tutto l’operazione di abbinamento dei due lavori, è la realizzazione che desta le maggiori perplessità: mentre Da una casa di morti ha una sua drammaturgia ben sfruttata dal regista che mette in scena uno spettacolo di grande forza drammatica e con idee teatrali efficaci – come le catene che scendono dall’alto, la presenza del Cristo/aquila simbolo di libertà, i fluidi movimenti scenici di Tomáš Rusín, i congrui costumi di Zuzana Štefunková-Rusínová – si rivela problematica quella della Messa, pezzo di natura oratoriale, consistente negli artificiosi movimenti delle masse e dei solisti vestiti di bianco che si muovono in processione sul palco. Qui il coro femminile e le cantanti soliste, che abbiamo visto nell’opera come i muti personaggi di Akulina, la moglie ammazzata nel racconto di Šiškov, e della prostituta, si trasformano in voci angeliche dispensanti il perdono e la redenzione eterna ai criminali incontrati prima. Nel finale il giovane Aljeja corre verso il fondale che da paesaggio ghiacciato si è trasformato in un verde e idilliaco panorama: libertà qui sulla terra o pace nell’aldilà? Sia Dostevskij che Janáček non propendono per una visione così ottimistica come quella prospettata dalla spiritualità di Jiří Heřman.

Musicalmente le cose vanno molto meglio con Jakub Hrůša, moravo anche lui e che diventerà Direttore Musicale della Royal Opera di Londra nel ’25, che qui si dimostra perfettamente a suo agio con un’orchestra che dirige per la prima volta con risultati eccellenti: i toni rabbrividenti degli archi, gli scoppi degli ottoni, i timpani che diventano personaggi in scena, con i percussionisti vestiti come le guardie carcerarie, tutto concorre a esaltare al meglio la musica di Janáček. Anche tra i cantanti vi sono delle eccellenze: Pavol Kubáň (Šiškov), Peter Berger (Skuratov), Kateřina Kněžíková (soprano), Jarmila Balážaková (Aljeja). Particolare il caso di Gianluca Zampieri (Luka/Filka), tenore veneziano di casa nei teatri della Repubblica Ceca.

Jenůfa

 

Leoš Janáček, Jenůfa

★★★★☆

Vienna, Staatsoper, 15 ottobre 2022

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Il realismo di Pountney nella Jenůfa di Vienna

La produzione di David Pountney di Jenůfa all’Opera di Stato di Vienna risale al 2004 ed è di impianto minuziosamente realistico – i sacchi di farina, le pentole sulla stufa, i costumi tradizionali – senza incursioni nel Regietheater o in elementi simbolici. Quest’ultima ripresa, la 32esima, ha giustificazione nella presenza di Asmik Grigorian che dopo Berlino impersona ancora una volta la figliastra, Její pastorkyňa, come dice il titolo originale di quest’opera al suo debutto nel 1904.

Nella scenografia di Robert Israel l’elemento dominante del primo atto è una gigantesca ruota che innesca altri meccanismi di un mulino che macina implacabile il destino dei personaggi; nel secondo atto i sacchi di farina sono accatastati come sacchi di sabbia a protezione delle pareti di un rifugio e una misera cesta di vimini è la culla dell’infelice piccolo Števa; più spoglio l’ambiente del terzo atto per le frugali nozze della coppia: un’enorme stanza, un ex magazzino, tutta rivestita di legno. Non c’è spazio per la natura in questo ambiente chiuso, i fiori e la pianta di rosmarino sono i pochi segni del mondo esterno che si presenta ostile, col suo gelo, il suo ghiaccio. Appropriati si rivelano i costumi di Marie-Jeanne Lecca così come le luci di Mimi Jordan Sherin. Nella sua sobrietà lo spettacolo messo in scena da Pountney non ha particolari elementi di novità, ma sfrutta abilmente le doti sceniche degli interpreti in un efficace gioco attoriale.

Tomáš Hanus, già ammirato a Ginevra, qui è alla guida di un’orchestra di ancor maggior prestigio: la precisione degli attacchi, il suono morbido degli archi, quello caldo dei legni, i lancinanti ottoni e tutti gli strabilianti effetti strumentali di una partitura meravigliosa sono resi con grande padronanza. Da brividi è l’attacco strumentale del secondo atto e per tutta l’opera l’orchestra non è mero accompagnamento delle voci, ma indiscussa protagonista del dramma.

E in quanto a voci il teatro viennese riesce a raccogliere un cast eccezionale, a partire dalla  Grigorian, che porta in scena una Jenůfa di grande intensità espressiva pur con atteggiamenti misurati. La bellezza del timbro e la proiezione della voce delineano un personaggio che dalla trepida fase di giovane innamorata passa alla contenuta ma disperata accettazione di una realtà terribile. Momenti di indicibile commozione sono quelli della preghiera del secondo atto o del breve colloquio con la madre del terzo, dove i diversi stili delle interpreti si confrontano drammaticamente: freddo, rassegnato quello della Grigorian, tragicamente sofferto quello di Eliška Weissová (Sagrestana), che sfrutta i salti di registro della sua vocalità per effetti espressionistici di grande teatralità. Il suo monologo allorché decide di uccidere il neonato è il risultato di una logica che esalta la tragica grandezza del personaggio ed è realizzato in maniera potente. Una terza generazione femminile è quella della vecchia Buryja, una idiomatica Margarita Nekrasova. David Butt Philip è un Laca un po’ troppo gridato ma giustamente tratteggiato, così come lo Števa di Michael Laurenz. Ben caratterizzati sono gli altri personaggi secondari e funzionale il coro.

Il castello del duca Barbablù

Béla Bartόk, Il castello del duca Barbablù

Göteborg, Konserthus, 7 maggio 2022

(video dell’esecuzione in forma di concerto)

L’ultima porta è dietro gli ottoni. Quando è l’orchestra stessa il castello

Dopo il prologo recitato fuori scena da Karin Tufvesson-Hjörne, Gerald Finley entra sul palcoscenico dellaGöteborgs Konserthus dove è schierata la Göteborgs Symfoniker diretta da Marin Alsop. Dall’altro lato incede Aušrinė Stundytė.

È infatti un’esecuzione in forma di concerto quella dell’opera di Béla Bartόk, Il castello del duca Barbablù che è ora a disposizione dello sterminato pubblico della rete. Una preziosa occasione per immergersi nella inquietante musica del compositore ungherese senza alcuna “distrazione” scenografica, anche se le immagini trasmesse sono di grande suggestione grazie alle luci e alla sobria ma efficace mise en espace di Georg Zlabinger: il castello è l’orchestra stessa e i due interpreti si muovono tra gli strumentisti e in platea tra il pubblico. Viene così posto in primo piano il potere evocativo della musica e il rapporto tra i due personaggi è evidenziato in tutta la sua forza. E non c’è in effetti bisogno d’altro quando si hanno a disposizione due artisti del calibro del soprano lituano e del baritono canadese, ognuno portatore di una personalità carismatica sulla scena e di una resa vocale magistrale. L’affascinante Gerald Finley è un Barbablù introverso e sofferto che non vede l’ora di confessare il segreto che lo tormenta. Non ho gli strumenti per capire se la pronuncia dell’ungherese è buona o no, ma i suoni arcani di questa lingua acquistano un valore idiomatico di grande forza nella sua linea di canto, elegante ed espressiva. Una inesauribile gamma di espressioni è quella realizzata da Aušrinė Stundytė, dall’infantile all’appassionato, dall’incalzante al gelido, tutti gli stati emotivi di Judith si fanno voce e figura. Sostenuta da una tecnica perfetta definisce fin dall’inizio con potenza il suo personaggio di donna innamorata ma determinata.

Prima donna a diventare chief conductor di una grande orchestra americana, la sinfonica di Baltimora, Marin Alsop è ospite dell’orchestra svedese per due concerti con due diversi programmi in qualche modo legati alla condizione femminile. Dopo The Confession of Isobel Gowdie, un lavoro di James MacMillan sulla caccia alle streghe nella Scozia del XVII secolo, è ora la volta dell’opera di Bartόk in cui un’altra figura femminile è messa in confronto al mondo maschile e inquietante del tenebroso duca. Le finezze orchestrali di questa mirabile partitura sono già state evidenziate da mille esecuzioni e anche se questa non ha nulla di memorabile, è comunque una pregevole versione che esalta i timbri e i colori di una delle pagine più esemplari del Novecento. Ottimi gli strumentisti dell’orchestra svedese e attenti alle indicazioni sempre precise della Alsop, soprattutto i fiati, qui chiamati a fornire il tono particolare del lavoro.

Il video è disponibile ancora per alcuni mesi qui.