Settecento

Iphigénie en Tauride

Christoph Willibald Gluck, Iphigénie en Tauride

★★★★★

Cremona, Teatro Ponchielli, 5 dicembre 2021

bandiera francese.jpg Ici la version française

Emma Dante e la mediterraneità della Grecia di Gluck

Teli rossi agitati dagli attori per simulare la tempesta che si abbatte sulla Tauride: un semplice ma efficace mezzo teatrale che Emma Dante ha utilizzato fin dalla sua Muette de Portici all’Opéra Comique nel 2012. Qui sono onde rosso sangue che sembrano nascere dalla gonna di Ifigenia, epicentro nella scena mentre prega gli dèi irati di far cessare la furia degli elementi.

Non sarà l’unico momento di grande forza teatrale di una lettura che, come avviene spesso nelle produzioni della regista siciliana, mette al centro la figura della donna, non solo la protagonista eponima, ma quella di una società matriarcale a dispetto della presenza del tiranno maschio, qui un sempre irato Thoas. Ed ecco quindi il palcoscenico popolarsi di sacerdotesse, furie, Eumenidi, prefiche: donne mediterranee di nero vestite e dal capo coperto ma dalle forme femminili evidenti. Anche le cariatidi della loggia del tempio di Diana qui sono viventi. La Grecia filtrata dalla sensibilità settecentesca di Gluck riacquista la sua mediterraneità e il bianco marmoreo delle armature e delle colonne contrasta con i rossi e i neri dei costumi di Vanessa Sannino. Nella scenografia di Carmine Maringola il richiamo alla classicità è nelle colonne ioniche dell’Eretteo ateniese, qui montate su basi semoventi così da formare configurazioni diverse e suggerire i vari ambienti. Fedele alla vicenda, e alle sue origini, la Dante popola la scena di immagini significative, come lo scheletro della cerva che sostituisce la statua di Diana (qui la trama della storia), ma che richiama anche il cavallo del Trionfo della morte negli affreschi del palermitano palazzo Abatellis. O il drammatico fregio/tableau vivant o la estenuata preparazione del sacrificio. Prima ancora, la Dante aveva fatto uso di un bellissimo trucco nel quale un sudario nero aveva simulato un corpo tridimensionale.

A questa dovizia di immagini risponde la musica magnificamente resa dall’orchestra diretta da un Diego Fasolis che mette a frutto la sua esperienza nel repertorio barocco per restituirci un Gluck energico e drammatico, elegiaco quando è ora come nell’aria di Pylade, o ironicamente selvaggio (con le percussioni che si sfogano in barcaccia) nella danza degli Sciti, allorché questi scoprono i due naufraghi greci vittime sacrificali designate dal destino. «Ici le peuple exprime sa joie barbare dans un divertissement très court» commenta il libretto. L’Orchestra dei Pomeriggi Musicali non è un ensemble dedicato a questo repertorio, ma forse proprio per questo la freschezza e l’entusiasmo con cui si cimentano sotto la sapiente guida di Fasolis aggiunge interesse a questa esecuzione che, anche se non storicamente informata negli strumenti, è musicalmente convincente nel risultato.

Prima donna assoluta è Anna Caterina Antonacci, presenza scenica magnetica, dizione del francese oltre la perfezione, timbro sontuoso e una vocalità il cui infinitesimo accenno di stanchezza aggiunge valore alla espressività. Fin dalla prima frase, «Grands Dieux! Soyez-nous secourables, détournez vos foudres vengeurs», ci si trova di fronte a una tragédienne di alta scuola. Il suo racconto «Cette nuit… j’ai revu le palais de mon père» ci mette sotto gli occhi la maledizione degli Atridi («race toujours fatale!») dal punto di vista di chi l’ha vissuta di persona e che nella bellissima aria «Ô toi qui prolongeas mes jours» chiede di troncare con la morte questa sofferenza. Ancora più lancinante la sua richiesta alla dea Diana di metterle nel cuore «la férocité» per poter eseguire il sacrificio che la sua mano si rifiuta di svolgere. La infinita palette di sentimenti di questo grande personaggio trova nell’arte della Antonacci la migliore realizzazione.

Di grande livello anche gli altri interpreti: da Bruno Taddia, misurato eppure espressivo Oreste sempre accompagnato dalle Eumenidi, all’ineffabile Pylade di Mert Süngü, cui si deve quell’esempio di dichiarazione di amore tra uomini («Unis dès la plus tendre enfance, | nous n’avions qu’un même désir») che la poesia greca ha sempre esaltato. La chiara voce baritonale di Taddia e il tenorile e luminoso timbro di Süngü hanno ricreato alla perfezione quel sentimento che aveva già unito, tra i tanti, Achille e Patroclo. Nella parte del re Thoas Michele Patti mostra qualche fatica nel registro acuto mentre Marta Leung interviene efficacemente a risolvere la vicenda quale dea ex machina trasformandosi da statua inanimata in imperiosa e reale Diana. Perfettibile il coro istruito da Massimo Fiocchi Malaspina, ma proprio al coro è affidato un bis richiesto a gran voce dal pubblico entusiasta al termine di una rappresentazione che ha visto il teatro Ponchielli felicemente occupato in ogni ordine di posti.



Iphigénie en Aulide / Iphigénie en Tauride

Le due Ifigenie di Gluck

Iphigénie en Aulide (1774) è la tragédie lyrique che Gluck ricava dalla omonima opera di Racine (1674) basata ovviamente sull’ultima tragedia di Euripide, rimasta incompiuta. I Greci sono fermi nell’Aulide con la loro flotta di mille navi in attesa di sal­pare per Troia, ma i venti sono sfavo­revoli al viaggio perché Dia­na è irata e richiede il sacrificio di Ifigenia, la fi­glia di Agamen­none. Il padre è lacerato tra l’amore paterno e il dovere di stato e a nulla valgono i lamenti della moglie Clitennestra e del promes­so sposo Achille. Ifigenia è condotta all’altare dei sacrifici e solo un intervent­o all’ultimo momento della dea salverà la vita della fanciulla.

Antefatto. L’azione si colloca nella fase iniziale della guerra che condurrà, secondo il mito narrato da Omero, alla distruzione della città dell’Asia Minore. Una continua bonaccia impedisce la partenza delle navi e il sacerdote Calcante ha rivelato al condottiero dei Greci, Agamennone, che essa è provocata dall’ira della dea Diana nei suoi confronti per un affronto da lui arrecatole, e che solo il sacrificio di sua figlia, Ifigenia, potrà valere a pacificare la divinità. Agamennone ha in qualche modo segretamente accondisceso ed ha convocato la figlia in Aulide con il pretesto di darla in sposa ad Achille.
Atto primo. L’opera ha inizio con l’angoscia e i dubbi del re: nonostante il suo giuramento, egli pensa ancora di sottrarsi al sacrificio della figlia, inventando che Achille non la ama più e quindi evitando che Ifigenia giunga in Aulide. Mentre però è intento a perorare la sua causa con Calcante, canti di gioia annunciano l’arrivo al campo della ragazza accompagnata dalla madre Clitennestra: lo stratagemma del re è fallito perché il suo braccio destro Arcade non è riuscito a raggiungere in tempo le due donne. I festeggiamenti vengono interrotti dall’indignata Clitennestra che, venuta a sapere della (falsa) infedeltà di Achille, sollecita la figlia ad apprestarsi a ripartire. Rimasta sola, questa dà sfogo al suo dolore finché Achille stesso non compare in scena, rivelando di non aver nemmeno saputo del prossimo arrivo di Ifigenia, e negando risolutamente qualsiasi infedeltà da parte sua. L’atto si chiude quindi in una tenera scena di riconciliazione, nella quale i due promessi sposi si appellano al dio del matrimonio perché li unisca quello stesso giorno.
Atto secondo. Ifigenia ed il suo seguito meditano sulla situazione difficile in cui la ragazza si è venuta a trovare, presa tra l’orgoglio del padre e l’ira dell’amato, quando Clitennestra annuncia che Agamennone si è finalmente convinto e che i preparativi per la cerimonia di nozze sono in corso. Li raggiungono Achille con l’amico Patroclo e con il suo seguito. Viene celebrato il valore dello sposo, mentre la sposa dona la libertà alle schiave di Lesbo che Achille ha portato con sé. L’atmosfera cambia però radicalmente con l’arrivo di Arcade, il quale, non riuscendo a trattenere i propri sentimenti, rivela che Agamennone sta attendendo la figlia all’altare non per celebrarne le nozze, ma per sacrificarla. Le parole del soldato provocano espressioni di orrore da parte degli astanti e del coro. Clitennestra, furibonda e disperata, implora Achille di salvare sua figlia e questi infine si impegna con la giovane a proteggerla senza però nel contempo far alcun male a suo padre. Dopo un furibondo duetto tra i due eroi, in cui Achille comunica al futuro suocero che dovrà passare sul suo cadavere prima di poter attentare alla vita della figlia, Agammennone ha una nuova resipiscenza e dà disposizioni ad Arcade perché riconduca le due donne a Micene. L’atto si chiude con la toccante espressione dell’amore del re per la figlia, prima, e poi con la sua baldanzosa sfida alla dea perché si prenda la vita di lui piuttosto che quella dell’innocente Ifigenia.
Atto terzo. L’atto si apre con il coro dei Greci che sollecitano Agamennone al sacrificio della figlia, per timore di non riuscire più a raggiungere Troia. Ifigenia, che ha rifiutato di seguire Arcade, si è ormai rassegnata al suo fato e saluta teneramente prima lo sposo e poi la madre trepidante. Rimasta sola, Clitennestra è protagonista di una sorta di scena della pazzia in cui ha la visione allucinata dell’imminente sacrificio, e che sfocia nell’implorazione appassionata al padre Giove perché annienti con il fulmine il campo dei Greci. La scena si chiude con le sue parole di angoscia che si levano al di sopra dei canti del coro che accompagna Ifigenia al sacrificio. Sulla spiaggia, nei pressi dell’altare, Ifigenia è inginocchiata mentre i Greci cantano inni agli dei e Calcante ha già alzato il coltello sacrificale, quando Achille irrompe in scena con i suoi guerrieri tessali deciso ad impedire la cerimonia. La voce di Calcante si leva al di sopra del tumulto generale e, del tutto inopinatamente, annuncia che Diana ha rinunciato alla morte di Ifigenia e ha consentito al matrimonio.

In Iphigénie en Tauride (1779) – che Gluck basa sull’omonimo dramma in prosa che Guimond de La Touche (1757) trae dalla tragedia di Euripi­de, così come farà anche Goethe (1787) – la scena è appunto nella Tauride quindici anni più tardi. Dopo la bonaccia dell’opera precedente, qui infuria invece una tempesta spaventosa. Ifigenia, dopo la guerra di Troia e la morte di Achille, è diventata sacerdotessa di Diana e presiede ai riti orrendi del sacrificio di qualunque umano sbarchi sull’isola del tiranno Thoas. Questa vol­ta è suo il tragico dilemma che deve affrontare allor­quando ha il sospetto che il greco che sta per sacrificare sia suo fratello Oreste. Di fronte alla stupidità della guerra e alla fol­lia sanguinosa della superstizione religiosa nell’opera si salva solo la purezza dell’amicizia tra Oreste e Pilade. Anche qui l’in­tervento della dea risolve in extre­mis il dramma.

Antefatto. Gli eventi narrati nell’opera si inquadrano nelle vicende mitiche relative alla guerra di Troia. Per propiziare la spedizione degli Achei a Troia, il condottiero Agamennone, re di Micene e di Argo, aveva accettato di sacrificare la propria figlia Ifigenia, così destando l’odio e il rancore della moglie Clitennestra, alla dea Artemide (nel libretto però sempre chiamata con il suo nome latino di Diana), che era offesa contro di lui. Al momento del sacrificio, però, Diana aveva voluto salvare miracolosamente la giovine, sostituendola con una cerva e trasportandola in incognito in un proprio tempio nella Tauride, dove ella era diventata grande sacerdotessa. Al suo ritorno da Troia, Agamennone era stato assassinato dalla moglie e dall’amante di lei Egisto, mentre, a sua volta, il figlio Oreste, allevato lontano dalla patria, nella Focide, insieme al cugino Pilade, ed istigato dall’inflessibile sorella Elettra, aveva vendicato il delitto uccidendo i due parricidi: egli aveva levato in tal modo la spada contro la propria madre, provocando così l’ira delle Furie contro di lui. All’epoca in cui è ambientata l’opera, Oreste, allo scopo di cercar di espiare la sua colpa, e sempre accompagnato dal cugino/amante Pilade, è stato inviato da Apollo nella Tauride con l’incarico di recuperare una sacra immagine di Diana. Nella Tauride è in uso il costume barbaro di sacrificare alla dea tutti i malcapitati stranieri che si trovino a mettere piede nel paese.
Atto primo. Ingresso del tempio di Diana in Tauride. Ifigenia e le altre sacerdotesse (che si assumono anch’esse provenienti dalla Grecia) pregano gli dèi di proteggerle dalla tempesta ma, anche dopo che essa si è calmata, Ifigenia rimane sotto l’orribile impressione di un sogno che le è occorso nella notte e nel quale ha visto Clitemnestra uccidere il marito, e poi il fratello Oreste uccidere la madre, e infine lei stessa trafiggere il fratello. Mentre le compagne commentano sgomente il sogno , Ifigenia, in preda all’angoscia, invoca Diana perché la faccia riunire con Oreste o si riprenda altrimenti il dono della vita che le aveva fatto al momento del sacrificio. Le sacerdotesse si uniscono commosse al suo pianto. Entra quindi in scena Toante, re della Tauride, oppresso anch’egli da pensieri oscuri: gli oracoli gli hanno predetto morte e rovina ove anche un solo straniero dovesse scampare nel suo regno al sacrificio rituale. Un coro di Sciti si presenta allora sul palcoscenico recando la notizia di due giovani greci scampati ad un naufragio durante la tempesta. Raggiante, Toante invia Ifigenia e le sue compagne a preparare il sacrificio e i suoi ad elevare un canto di guerra. Gli Sciti si dànno allora ad una barbara invocazione di morte, e subito dopo celebrano la loro feroce esultanza nel quadro del divertissement danzante. L’atto si chiude con i due naufraghi, Oreste e Pilade, trascinati in scena dai nativi, che riprendono i loro canti selvaggi.
Atto secondo. Stanza interna del tempio destinata alle vittime sacrificali. Oreste e Pilade languono in catene, ed il primo, fortemente angosciato, maledice sé stesso perché sta per causare la morte del suo migliore amico, ma Pilade gli rivolge un accorato canto di amicizia e di amore in cui benedice il giorno che li farà morire insieme se un unico sepolcro riunirà le loro ceneri. Dopo che un ministro del tempio ha recato via Pilade tra le manifestazioni di disperazione dell’amico, Oreste è colpito da un’improvvisa apparente tranquillità e si assopisce. Il suo sonno, però, è orrendamente tormentato dalle Furie. Ifigenia entra in scena e, sebbene i due non si riconoscano, Oreste è colpito dall’impressionante somiglianza della donna probabilmente con l’uccisa Clitemnestra. La giovane interroga allora lo straniero sulle vicende di Agamennone e della Grecia ed egli le racconta dell’avvenuta uccisione del re da parte della moglie, e di questa da parte del figlio, ma, quando è interrogato con apprensione anche circa la sorte di quest’ultimo, risponde che Oreste ha finalmente incontrato la morte tanto lungamente cercata, e che ormai Elettra è rimasta sola a Micene. Appreso così della rovina dell’intera sua famiglia, Ifigenia congeda lo straniero e insieme al coro delle compagne piange la sorte propria e della patria e celebra una cerimonia funebre in onore del fratello creduto morto.
Atto terzo. Appartamento di Ifigenia nel tempio. Ifigenia, sola con le compagne, si propone di informare Elettra della propria sorte e dà mostra di turbamento nei confronti dello straniero che tanto gli ricorda il fratello. Fatti condurre i due prigionieri, li informa quindi di aver la possibilità di salvare uno di loro, ma solo uno, dal sacrificio richiesto da Toante; però chiede, come contropartita, che colui che sarà salvato recapiti per suo conto un messaggio ad Argo, dove lei ha avuto la vita e dove si trovano ancora degli amici. Entrambi i giovani giurano sugli dèi, e Ifigenia, sia pur con l’anima spezzata, sceglie Oreste per la salvezza, ed esce. Pilade si mostra entusiasta della scelta della sacerdotessa, almeno quanto Oreste ne è orripilato: questi domanda all’amico che amore sia il suo se, una volta che egli avrebbe finalmente trovato la morte tanto agognata, intende allearsi con gli dèi implacabili per raddoppiare il suo tormento. Lo implora quindi perché prenda il suo posto, ma Pilade si oppone con tutto sé stesso . Quando Ifigenia ritorna con il messaggio da consegnare in Grecia, Oreste insiste perché ella modifichi la sua decisione e, di fronte al suo rifiuto, minaccia di darsi la morte davanti a lei. Sia pure con estrema riluttanza, la donna deve quindi cedere e, partito Oreste, consegna a Pilade il messaggio, rivelandogli che è indirizzato ad Elettra, ma rifiutando di spiegargli quali rapporti la leghino con la principessa micenea. Rimasto solo, Pilade invoca l’Amicizia perché venga ad armare il suo braccio: egli è risoluto a salvare la vita dell’amico od a correre incontro alla morte insieme a lui.
Atto quarto. Interno del tempio di Diana. Ifigenia sente di non esser capace di levare il coltello sacrificale sullo straniero ed invoca Diana perché le infonda nel cuore la necessaria crudeltà. Le sacerdotesse introducono Oreste, che è stato preparato per il sacrifizio ed egli rincuora la sorella, ancora sconosciuta, dicendole che la morte costituisce il suo unico desiderio, ma è nel frattempo intenerito dal dolore profondo che lei gli dimostra. Le sacerdotesse innalzano quindi un grande inno a Diana e pressano poi Ifigenia perché proceda al rito sacrificale. Quando ella sta levando il pugnale, Oreste si sovviene del sacrificio della sorella, tanti anni prima, ed invoca il suo nome: «Così peristi in Aulide, Ifigenia, sorella mia!». L’agnizione tra i due si compie in tal modo, drammaticamente, proprio mentre Toante e gli Sciti, annunziati da una donna greca, si apprestano ad irrompere sul palcoscenico, avendo appreso della fuga di uno degli stranieri.  Toante è infuriato contro il tradimento della sacerdotessa: ordina quindi ai suoi di prendere in consegna Oreste e, siccome Ifigenia chiede alle compagne di difenderlo, si appresta ad ucciderlo lui medesimo, insieme alla stessa Ifigenia. Un gran rumore dietro la scena annuncia però l’arrivo di Pilade con i rinforzi greci, e il giovane eroe si avventa sul re prevenendolo e trafiggendolo nel momento stesso in cui sta per colpire a sua volta le due vittime. Il conseguente scontro tra Greci e Sciti viene risolto dall’intervento ex machina di Diana, la quale ordina ai secondi di restituire alla Grecia la sua statua, tanto da loro disonorata con gli orribili sacrifici umani, annuncia a Oreste che i suoi rimorsi hanno cancellato le sue colpe, e l’invita a tornare a Micene per esserne il re, conducendo seco anche la sorella. Mentre la dea risale al cielo, l’opera si conclude con il raggiante invito di Oreste a Pilade perché riconosca nella sacerdotessa la propria sorella perduta, al cui coraggio egli deve la vita.

Entrambe le opere appartengono al periodo della polemica tra Gluck e Piccinni che divise il pubblico parigino in due fazio­ni come già era succes­so quasi trent’anni prima nella “querelle des bouffons”, innescata dalle opere italiane di Pergolesi da una parte e quelle francesi di Lully e Ra­meau dall’altra. In particola­re Iphigénie en Tauride costituisce il coronamento della carrie­ra musicale gluckiana e quella in cui il compositore riesce me­glio a realizzare la sua riforma operistica. Dopo di lui nessuno potrà prescindere dalla sua memorabile combinazione di musica e dram­ma. Certo non Berlioz, i cui Troyens sembrano un grandioso tributo al maestro di cui si considerava l’erede. Ma neanche Wagner potrà fare a meno delle invenzioni gluckiane e ovviamente il Mozart delle opere serie deve moltissimo al suo predecessore, così come tutta l’opera francese del­l’ottocento da Meyerbeer a Gounod.

Nonostante l’interpretazione mirabile della Callas alla Scala nel 1957 in Ifigenia in Tauride, le due opere sono entrate fati­cosamente in repertorio ed è quindi un avvenimento la ripresa di en­trambe in un’unica produzione che porta i nomi di Marc Minkow­ski in orchestra e Pierre Audi in scena e che è stata registrata al Nederlandse Opera di Amsterdam il 7 settembre 2011.

Diretta con la solita bravura, l’orchestra dei Musiciens du Louvre Greno­ble suona con strumenti d’epoca e un diapason abbassato di un tono per riprodurre il suono della rappresenta­zione parigina e se ne avvantaggiano non solo le voci dei cantan­ti, ma il tono stesso e l’atmosfera dell’ope­ra.

Nella prima parte Véronique Gens esprime bene la sofferenza delle gio­vane Ifigenia, nella seconda c’è la tormentata Ifigenia matura di Mireille Delunsch. Anche le al­tre parti sono disimpegnate egregiamente da can­tanti che sono an­che grandi interpreti dal punto di visto dramma­turgico. Cito sol­tanto la Clitennestra amorevole di Anne Sofie von Otter e gl’intens­i Jean-François Lapointe e Yann Beu­ron nel ruolo dei fra­terni amici Oreste e Pilade.

La scenografia è la stessa per entrambe le opere: un nudo palcosce­nico e due praticabili con ripide scalinate in stile ponteggi da edilizia. La fossa orchestrale sta dietro, ossia tra il palcoscenico e il coro che pren­de po­sto in una gradinata assieme a parte del pubblico in fondo alla sce­na. I cantanti hanno quindi il direttore d’orchestra alle spalle e si rivolgo­no direttamente al pubblico della platea. È sicuramente un elemento di maggior difficoltà per gli in­terpreti, ma così ci risparmiano le occhiate del can­tante al direttore. La bravura e la professionalità degli interpreti non sem­brano ri­sentire di questa anomala soluzione.

Siamo ormai abituati a costumi che non rispecchiano né l’e­poca della vi­cenda né quella dell’autore dell’opera. Qui, giac­ché si tratta di un eserci­to in partenza per la guerra, nella prima parte, e di un tiranno sanguinario come molti dittatori di oggi, nella secon­da, i personaggi sono in vesti­ti militari moderni, con i motivi mi­metici ripresi anche negli abiti femmi­nili. L’Ifigenia che deve esse­re sacrificata porta addirittura il giubbotto esplosi­vo dei suicidi per rappresentare la sua accettazione del sacri­ficio. Un po’ scioccante all’inizio, ma efficace come idea.

Audi non prevede momenti coreografici: in mezzo a quelle armi e a quei ceffi bellicosi non c’è spazio per le danze. Poco filologico, forse, ma coe­rente con la scelta registica.

Immagine perfetta e due tracce audio. Extra con interviste per entrambe le due opere con gli interpreti. Ma perché farli faticosamente parlare in una lin­gua che non è la loro, l’inglese? Non si può tradurli dopo? Sembra invece perfet­tamente a suo agio in francese, inglese e olandese il regista libanese Pierre Audi.

L’isola disabitata

Franz Joseph Haydn, L’isola disabitata

★★★☆☆

Ravenna, Teatro Alighieri, 23 ottobre 2021

(diretta streaming)

L’Isola di Haydn a Ravenna

L’isola disabitata viene rappresentata a Esterháza il 6 dicembre 1779. Il libretto di questa «azione teatrale in due parti» – l’unico testo di Metastasio musicato da Haydn e basato su L’infedeltà fedele di Giambattista Lorenzi – era stato precedentemente intonato da Giuseppe Bonno nel 1754 e sarà in seguito utilizzato da Manuel García nel 1820 e da Nino Rota nel 1931. Con lo stesso titolo è il dramma giocoso per musica di Polisseno Fegeio (nome àrcade di Carlo Goldoni) presentato al Teatro Grimani di Venezia nell’autunno 1757 con musica di Giuseppe Scarlatti. Lì i personaggi erano una «giovane chinese» e un ammiraglio olandese «in un’isola del mare di Kamtkatkà nella China».

Antefatto. «Navigava il giovane Gernando co’ la sua giovanetta sposa Costanza e con la piccola Silvia ancora infante, di lei sorella, per raggiungere nell’Indie Occidentali il suo genitore, a cui era commesso il governo di una parte di quelle; quando da una lunga e pericolosa tempesta fu costretto a discendere in un’isola disabitata per dar agio alla bambina ed alla sposa di ristorarsi in terra delle agitazioni del mare. Mentre queste placidamente riposavano in una nascosta grotta, che loro offerse comodo ed opportuno ricetto, l’infelice Gernando con alcuni de’ suoi seguaci fu sorpreso, rapito e fatto schiavo da una numerosa schiera di pirati barbari, che ivi sventuratamente capitarono. I suoi compagni, che videro dalla nave confusamente il tumulto, e crederono rapite con Gernando la bambina e la sposa, si diedero ad inseguire i predatori; ma, perduta in poco tempo la traccia, ripresero il loro interrotto cammino. Desta la sventurata Costanza, dopo aver cercato lungamente invano lo sposo e la nave che l’avea colà condotta, si credé, come Arianna, tradita ed abbandonata dal suo Gernando. Quando i primi impeti del suo disperato dolore cominciarono a dar luogo al naturale amor della vita, si rivolse ella, come saggia, a cercar le vie di conservarsi in quell’abbandonata segregazion de’ viventi; ed ivi dell’erbe e delle frutte, onde abbondava il terreno, si andò lunghissimo tempo sostenendo con la picciola Silvia, ed inspirando l’odio e l’orrore da lei concepito contro tutti gli uomini all’innocente che non li conosceva. Dopo tredici anni di schiavitù, riuscì a Gernando di liberarsi. La prima sua cura fu di tornare a quell’isola, dove aveva involontariamente abbandonata Costanza, benché senz’alcuna speranza di ritrovarla in vita».
Parte prima. Costanza e la sorella minore, Silvia, si trovano in un’isola disabitata, convinte di essere state abbandonate da Gernando, marito della maggiore. Costanza, che ha allevato Silvia mettendola in guardia contro gli uomini, sta incidendo su una roccia un’iscrizione nella quale chiede vendetta al viandante nei confronti di Gernando. Dopo aver ritrovato la sua fedele cerva che si era allontanata, Silvia, piena di entusiasmo, raggiunge la sorella e Costanza, nell’ammirare le semplici gioie della giovane, rinnova il proprio dolore per il presunto tradimento subìto ed esprime nostalgia per il mondo da lei abbandonato e che Silvia non ha mai potuto conoscere. Rimasta sola, Silvia vede arrivare dal mare una nave. Mentre si chiede se sia un mostro marino, vede delle figure sulla spiaggia. Sono Gernando ed Enrico, giunti sull’isola per cercare Costanza e Silvia, dopo che Gernando ha scontato una prigionia di tredici anni. Silvia si domanda se siano uomini quei due viventi che non sembrano avere l’aspetto feroce da cui Costanza l’ha sempre messa in guardia. Si propone di andare ad avvisare la sorella, ma viene trattenuta da uno sconosciuto sentimento verso uno dei due uomini.
Parte seconda. Gernando si accorge dell’iscrizione che Costanza aveva iniziato ad incidere e teme che la sua sposa sia morta. Chiede a Enrico di lasciarlo morire sull’isola e di andare ad avvisare suo padre dell’accaduto. Enrico non gli ubbidisce, ma ordina ai marinai di rapire lo sposo infelice per riportarlo a casa. Subito dopo incontra Silvia e, nonostante lo spavento della ragazza, Enrico le conferma di essere un uomo e di aver accompagnato Gernando in cerca delle due donne. Le spiega che Gernando non ha abbandonato la sposa, ma è stato rapito dai pirati mentre Costanza e Silvia riposavano in una grotta. Una volta confidato il sentimento di attrazione reciproca che li lega, i due si lasciano con l’intento di rivedersi, non prima di aver avvisato Gernando e Costanza l’uno del fatto che la sua sposa non
è morta e l’altra del ritorno dello sposo rimastole fedele. Costanza torna alla roccia, vi trova Gernando e sviene. Gernando va in cerca di acqua e viene rapito dai marinai. Anche Enrico giunge alla roccia e trova Costanza che a poco a poco rinviene. Enrico le spiega l’accaduto e la donna si mette in cerca dello sposo. Silvia la avverte del rapimento, ma Enrico interviene ricordando che è stato lui a ordinare ai marinai di portarlo sulla nave per distoglierlo dalla sua intenzione di lasciarsi morire. Gernando in realtà è sfuggito ai marinai, raggiunge Enrico e le due donne e abbraccia Costanza. Riuniti i due sposi, Enrico chiede a Silvia di convolare a nozze e le due coppie festeggiano la loro felicità.

L’opera di Haydn risente dell’influenza di quelle di Gluck – l’Orfeo e l’Alceste sono del 1762 e 1767 ripettivamente – nel trattamento del continuo musicale, che lega l’ouverture senza soluzione di continuità all’inizio dell’opera, e per i recitativi accompagnati utilizzati per tutto il lavoro. La partitura risente della destinazione dell’opera: una ristretta corte aristocratica alloggiata in un palazzo sperduto tra Austria e Ungheria a cui erano destinati intrattenimenti raffinati ma dall’orizzonte ristretto. La musica di Haydn rispondeva pienamente a queste richieste con opere spensierate ed elegantemente costruite. L’orchestra qui è sempre in primo piano sia che si tratti dell’ouverture agitata da un impulso Sturm und Drang, sia dei recitativi accompagnati. Nelle arie, che sono senza particolari abbellimenti le voci hanno un carattere quasi strumentale e non richiedono particolari agilità. I due personaggi femminili hanno due arie ciscuna a disposizione, quelli maschili solo una e tutte le voci si uniscono nel festoso quartetto finale.

Coprodotta con l’opera di Digione, l’operina di Haydn – la durata è poco più di un’ora – è sulla scena del teatro ravennate diretta da Nicola Valentini alla testa del Dolce Concento Ensemble. Il giovane direttore riesce a ben maneggiare i contrasti dinamici e sonori dell’ouverture anche se la compagine orchestrale non brilla per una particolare bellezza del suono e accusa qualche incertezza nelle parti solistiche, ma nel complesso evita il naufragio sull’Isola disabitata. Delle quattro voci in scena si stacca decisamente quella di Giuseppina Bridelli che per intensità espressiva riesce a fare di Costanza un personaggio tutt’altro che lagnoso, ma composto e austero. Particolarmente belli gli acuti con cui dà sfogo a un dolore pieno di dignità. La sorellina Silvia ha in Anna Maria Sarra un’interprete non esaltante per timbro e tecnica vocale. Il tenore Krystian Adam e il basso Christian Senn delineano con efficacia i due amici Gernando ed Enrico.

La semplice messa in scena è affidata alla coppia di artisti che hanno creato la compagnia Fanny & Alexander, ossia Luigi de Angelis che si occupa di regia, scene, luci, video e Chiara Lagani per drammaturgia e costumi. Una specia di tenda a lamelle forma il mosso fondale e fa da schermo alle proiezioni alle vedute di Ravenna e dell’isola di Marettimo. L’isola più occidentale delle Egadi è stata scelta per la sua natura selvaggia che manca totalmente in scena dove vediamo solo un divano moderno e un sasso. L’astrazione della scena contrasta con i costumi delle interpreti femminili che sembrano pronte per una serata in discoteca – lustrini, minigonne – più che per uno scampato naufragio. Il libretto le vorrebbe «vestite a capriccio di pelli, di fronde e di fiori», qui i tessuti hanno motivi animalier e le scarpe col tacco a spillo sono coperte di pelliccia. Più convincenti le tele cerate da balenieri che vestono i due maschi invece dell’«abito indiano» delle didascalie.

Per il finale i quattro cantanti scendono in platea vestiti da sera per intonare il trionfale quartetto che conclude degnamente la composta esecuzione.


Don Giovanni


Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 7 agosto 2021

★★★★★

(video streaming)

«Chi son io tu non saprai»: il Don Giovanni di Currentzis e Castellucci

Il Festival di Salisburgo nel 2020 ha compiuto 100 anni, ma solo quest’anno, per le note ragioni, ha potuto festeggiarli e come spettacolo di punta non ha il timore di presentare questa particolare lettura del Don Giovanni di Mozart da parte di Teodor Currentzis alla testa della sua musicAeterna Orchestra e di Romeo Castellucci che firma regia, scene, luci e costumi. L’interpretazione musicale e drammaturgica qui si sono dimostrate un tutt’uno in uno spettacolo sconvolgente, choccante e discutibile, come sempre dovrebbe essere il teatro.

La versione scelta da Currentzis è quella di Vienna senza il duetto Zerlina-Leporello del secondo atto, «Per queste tue manine», ma col finale di Praga. Tra i numeri mozartiani sono inserite altre musiche, particolarmente lunghe quelle che precedono la scena del cimitero. Dopo aver abbassato il diapason a 430, le scelte dinamiche del direttore greco-russo sono portate all’estremo, con recitativi molto “recitati” e con lunghe pause, ma la loro dilatazione ha un corrispettivo con le dilatazioni visuali adottate dal regista. Le arie che seguono hanno un attacco repentino, molte variazioni nelle riprese e improvvisazioni al pianoforte. In questo Currentzis non fa che riattivare una pratica musicale del tempo di Mozart: altro che provocazione, quella di Currentzis è pura filologia da questo punto di vista, anche se spesso improvvisazioni e variazioni non sono esattamente in stile settecentesco.

Anche Castellucci reintroduce nella pratica teatrale di oggi quella del Settecento, ridando senso teatrale a quella che è spesso la pratica museale di molte esecuzioni moderne. Come scrive Dino Villatico nel suo imprescindibile articolo su “Gli stati generali”: «Le sue messe in scena non sono mai un’illustrazione più o meno avvincente del dramma, ma sono sempre una sorta di discorso parallelo o sotterraneo che commentano il testo rappresentato. Del resto anche il Don Giovanni letto da Kirkegaard non è quello di Mozart, ma quello di Kirkegaard. Castellucci si prende la stessa libertà: ma trasporta sulla scena, invece che sulla pagina, un’interpretazione, che riveli lati nascosti o poco indagati del testo».

Castellucci è a Salisburgo per la seconda volta dopo la sua Salome del 2018 e affronta un lavoro di Mozart per la terza volta dopo Die Zauberflöte (Bruxelles, 2018) e Requiem (Aix-en-Provence, 2019). Nel Don Giovanni la vicenda è talmente nota che nella sua lettura il regista italiano ne rovescia tutti i meccanismi narrativi grazie alla drammaturgia di Piersandra di Matteo. Qui la solitudine del cavaliere è assoluta, la sua serenata è un numero totalmente solipsistico e nel finale completa la sua autodistruzione, disperatamente cercata fino a quel momento, rimanendo solo e nudo, ricoperto di bianco al pari di una statua classica o come i gessi di Pompei in cui si trasformano anche gli altri personaggi. In questa visione del tutto pessimistica del “dramma giocoso” il regista privilegia il primo termine: non c’è nulla di gioioso nella sua lettura e «l’antichissima canzon» intonata dal coro fuori scena alla fine diventa una cantata che conclude con solennità una tragedia.

La scena rappresenta l’interno di una chiesa che viene completamente svuotata e rimane uno spazio “sconsacrato”, non c’è spazio per la dimensione spirituale in questo dramma tutto esistenziale. Una garza rende le immagini sfocate, oniriche. Tutto è in un bianco abbagliante, i particolari sono poco distinguibili, come avvolti in una nebbia. Leporello sarà l’unico a uscire fuori da questo velatino nel finale: libero dal padrone lo può osservare con distacco attraverso un diaframma. Don Giovanni e Leporello sono uguali: l’unica differenza è la catena che Leporello porta a mo’ di cintura, quella con la quale il padrone tiene “incatenato” il servo. Donna Anna è in nero, gli occhi sono senza iride, come nei fantasmi dei film horror e la donna incarna una delle furie («Come furia disperata | ti saprò precipitar») che la accompagnano. Solo Donna Elvira osa qualche colore negli abiti, mentre Don Ottavio evidenzia il suo carattere fatuo e svirilizzato cambiando outfit ogni volta – ammiraglio, esploratore polare norvegese, crociato – in una serie di travestimenti femminilizzanti al limite del ridicolo. Zerlina ha un alter ego nudo per sottolineare la componente erotica del suo personaggio, ma il suo «Vedrai carino» è rivolto ai pezzi di un manichino, non al martoriato corpo dello sposo: la sessualità qui è sempre deumanizzata e Don Giovanni sogna il «ristoro» che gli può procurare la bella alla finestra accarezzando una scala di alluminio. Il «Lasciar le donne» di Don Giovanni è una lunga gag e l’elemento femminile è spesso presente come una folla di donne (150 cittadine salisburghesi) di ogni età, genere e (dis)abilità, fino a creare una massa intimidatoria come il coro giudicante della tragedia greca. Sono ancora i loro corpi, coperti di veli neri, a formare il cimitero del secondo atto.

La messa in scena di Castellucci non è priva di simbolismi e autocitazioni: il pianoforte che cade dall’alto e si sfascia – ma ancora è possibile strimpellarci sopra le note del basso continuo – o l’automobile, o il catalogo di Leporello che ironicamente diventa non una ma due fotocopiatrici, la seconda calata dall’alto come il registratore Revox nel suo Moses und Aron. Altre sono più criptiche, come l’immondizia che riempie il palcoscenico nel finale primo, ma nel complesso il suo è uno spettacolo altamente intrigante, anche se certo non col ritmo che ci aspettiamo dalla folle journée di un libertino.

Altrettanto sorprendente è la performance vocale dei solisti, ognuno a modo suo efficace, soprattutto il terzetto degli interpreti maschili. Un Don Giovanni seducente ma interiorizzato è quello di Davide Luciano che dà prova di grande resistenza – è pressoché sempre in scena – e sensibilità: il bel timbro caldo si piega a sottigliezze che raramente abbiamo ascoltato in altri seduttori canterini. Vito Priante non ha mai esibito una particolare verve scenica, ma tanto qui non è richiesta e può fare quindi a meno dei lazzi di maniera per fornire una prova solida in una parte da lui già proficuamente frequentata. Non solo nell’abito, nel timbro e nel colore della voce, anche le fattezze fisiche del servitore sono molto simili a quelle del padrone. Oltre ogni encomio è il Don Ottavio di Michael Spyres, che infonde nuova bellezza ai suoi due ineffabili interventi tenorili pòrti con uno stile e un’eleganza ineguagliabili. Al Masetto di David Steffens manca solo una dizione più precisa per essere più convincente mentre Mika Kares è al solito autorevole come Commendatore. Molto diverse le due donne: Nadežda Pavlova, nonostante qualche incertezza di intonazione, delinea una Donna Anna di grande intensità drammatica; la Donna Elvira di Federica Lombardi è maggiormente passionale e vocalmente talora meno controllata. Anna Lucia Richter è una credibile ed espressiva Zerlina, ragazza che porta ancora sul volto i lividi della collutazione con l’uomo che ha cercato di farle violenza – immagine di cui siamo purtroppo testimoni ogni giorno.

«Povero Mozart»? Nella sua città natale non si ha il timore di mettere in scena i suoi capolavori interpretandoli e facendoli diventare uno spettacolo di oggi: choccante e da discutere, come sempre dovrebbe essere il teatro contemporaneo – sì anche e soprattutto il teatro musicale: il melodramma è nato come teatro, non dimentichiamolo. Ma è una cosa difficile da far digerire al sud delle Alpi in cui domina il conformismo culturale e tutto ciò che è diverso da quello a cui siamo abituati viene sdegnosamente rifiutato.

La registrazione dello spettacolo è disponibile fino al 5 novembre sul sito di ARTE Concert.

Griselda

Alessandro Scarlatti, Griselda

Martina Franca, cortile del Palazzo Ducale, 1 agosto 2021

Continua la collaborazione con Orlando Perera, questa volta con un suo compte rendu dal Festival della Valle d’Itria.

La Griselda di Scarlatti a tre secoli dalla prima

Fondato da un gruppo di musicofili innamorati dei luoghi, tra cui l’allora sovrintendente della Scala Paolo Grassi, il Festival della Valle d’Itria si è fin dall’inizio distinto per le scelte innovative. In anticipo di due o tre anni sui tic dell’interpretazione filologica (oggi si preferisce dire “storicamente informata”) della musica del passato, ha riproposto titoli inediti e prassi esecutive dimenticate. Altri filoni tracciati negli anni Ottanta sotto la presidenza di Franco Punzi (tuttora attivo in questo ruolo) e la direzione artistica di Rodolfo Celletti, il repertorio belcantistico, da Monteverdi a Donizetti e oltre, e la grande scuola napoletana, operistica e strumentale. Insomma la migliore tradizione italiana, che tra Seicento e Ottocento ha insegnato la musica al mondo, imponendo com’è noto il proprio lessico, a partire dalla stessa parola “concerto”. Di certo, nel cortile del seicentesco Palazzo Ducale di Martina o nel teatro Verdi o nel chiostro di San Domenico, mai si è visto un titolo ovvio, né una messinscena banale. Magari kitsch, a volte poco riuscita: di routine mai. Gli spettacoli si tengono ora causa Covid solo nel cortile del Palazzo Ducale, dove ho ritrovato tutto quanto sopra detto.

La Griselda, ultimo esito nel genere di Alessandro Scarlatti (1660-1725), siciliano cresciuto artisticamente a Roma e Napoli e padre del più celebre Domenico, è proposta al Festival nel trecentesimo anniversario dalla prima rappresentazione (Roma, Teatro Capranica gennaio 1721). Il libretto di Apostolo Zeno del 1701 è stato intonato da molti musicisti coevi, come Antonio Pollarolo, Tommaso Albinoni e Giovanni Bononcini. Ispirò anche Antonio Vivaldi, che però lo fece modificare da Carlo Goldoni. Scarlatti si rivolse invece, secondo il musicologo Luca Della Libera, al poeta arcadico Carlo Sigismondo Capece.

La fonte è l’ultima novella del Decamerone di Boccaccio. Griselda è una povera fanciulla sposata a un gran signore, qui Gualtiero re di Sicilia, che l’ha scelta capricciosamente per moglie e che la sottomette a molte prove per verificare la sua obbedienza. Lei le supera tutte e alla fine conquista il suo cuore.

Atto I. Il re di Sicilia Gualtiero ha preso in moglie Griselda, umile pastorella di grande bellezza e virtù; la loro unione è però sempre stata osteggiata dai cortigiani, che non gradiscono avere una contadinotta per regina. Lo stesso Gualtiero ha spesso messo alla prova la fedeltà di Griselda, togliendole ad esempio la loro figlia primogenita e raccontandole di averla uccisa in nome della ragion di Stato; la donna non è però mai venuta meno ai suoi doveri e all’amore per suo marito. Dopo la nascita dell’erede maschio Everardo, i nobili siciliani scatenano una ribellione; Gualtiero decide allora di sottoporre sua moglie a un’ultima prova: dapprima la ripudia, rimandandola nei boschi a fare la pastorella; in seguito le annuncia di volersi risposare con Costanza, una bellissima trovatella cresciuta alla corte del principe di Puglia Corrado. Griselda, pur struggendosi di dolore, dà prova di grande fedeltà arrivando persino a decantare la bellezza della sua rivale, quando la vede in un ritratto; nel frattempo il nobiluomo Ottone, da sempre innamorato di lei, approfitta della situazione e tenta di insidiarla, ma lei non cede alla sua corte. A Palermo arrivano intanto Costanza, Corrado e il fratello di lui Roberto; questi è da sempre innamorato di Costanza, ricambiato, ma decide di rinunciare al suo amore poiché non vuole mettere a repentaglio l’alleanza tra Puglia e Sicilia; questo causa il gran dolore di Costanza, che decide a sua volta di rinunciare al suo amato e offrirsi in sposa a Gualtiero.
Atto II. Mentre Costanza viene accolta a corte con tutti gli onori, Griselda si adatta a vivere insieme a Everardo nella decrepita capanna in cui aveva abitato prima del matrimonio. Giunge Ottone, venuto a portare via il bambino; Griselda tenta di opporsi, ma quando Ottone le mente dicendo che si tratta di un ordine di Gualtiero si arrende al volere del suo amato, pur consapevole che suo figlio potrebbe essere ucciso come la primogenita; non cede nemmeno quando il nobiluomo le propone di salvare il ragazzo dandosi in sposa a lui, e lo scaccia malamente. Durante una battuta di caccia, Costanza giunge alla capanna di Griselda: le due donne provano subito un grande affetto reciproco e riconoscono nell’altra la madre e la figlia che hanno perduto, pur non osando confessarlo. Quando Gualtiero giunge in cerca di Costanza, sottopone Griselda a un’ennesima umiliazione: ella diventerà la serva della sua nuova moglie. Griselda, mossa sia dall’amore per lui che dall’affetto per Costanza, acconsente senza opporsi alla decisione.
Atto III. Dopo un tentativo da parte di Ottone di rapire Griselda, si scopre che il nobiluomo aveva rapito Everardo di sua volontà, e non per ordine di Gualtiero: sottoposto a processo, egli confessa di averlo fatto per amore di Griselda, sottolineando che la donna è stata irremovibile. Gualtiero, commosso dal gesto della donna, lo perdona. Più tardi Roberto e Costanza hanno uno struggente incontro in cui dapprima si rinfacciano la reciproca infedeltà, e poi finiscono per scambiarsi tenerezze; a quel punto vengono scoperti da Griselda, che rimane sdegnata della loro infedeltà nei confronti di Gualtiero. Questi, sempre più convinto della virtù di Griselda, la sottopone a un’ultima prova: le annuncia che non sarà più pastorella né serva, ma potrà vivere da nobildonna se accetterà di sposare Ottone. A quell’ultima umiliazione Griselda chiede di essere messa a morte, piuttosto che sposare un uomo diverso da quello che ama. A quel punto Gualtiero richiama a sé i membri della corte, mostrando loro come Griselda, pur essendo di umili natali, abbia dimostrato l’onestà e la virtù di una vera regina: questo metterà finalmente a tacere tutti i malcontenti. Griselda torna a corte come sposa di Gualtiero, il quale le rivela che Costanza è in realtà la loro primogenita, da lui segretamente affidata a Corrado; inoltre questa potrà sposare Roberto, mentre Everardo sarà riconosciuto legittimo erede al trono.

A Martina è stata proposta – sempre in tema di ricerca e innovazione – una nuova edizione critica, curata dall’ensemble La Lira di Orfeo, fondato dal controtenore Raffaele Pe (in scena come Gualtiero) e dal già citato studioso Luca Della Libera. Non è un aspetto secondario. I lavori musicali del passato non si possono eseguire leggendo direttamente i manoscritti antichi, che spesso contengono versioni differenti dello stesso lavoro. Bisogna che qualcuno studi i documenti, li compari e li traduca per così dire nel linguaggio musicale di oggi, ricostruendone insieme la forma ritenuta più vicina alle intenzioni dell’autore. Tale in parole semplici è l’edizione critica, una mediazione indispensabile per restituire alla vita i testi antichi.

In questo caso, ci ha permesso di conoscere un piccolo capolavoro poco eseguito. A memoria d’uomo solo due storiche esecuzioni in forma di concerto nei primi anni Sessanta e un’importante produzione a Berlino nel 2000, diretta da René Jacobs, da cui è derivato un CD. La ricchezza musicale di Scarlatti si manifesta in arie struggenti come «Mi rivedi o selva ombrosa» di Griselda, atto secondo, o drammatiche, «Fama, cred’io Temeraria» di Gualtiero, atto terzo. Ma lo splendore melodico si accompagna qui – e non è scontato nell’opera barocca – a una solida struttura drammaturgica, sicuramente merito del libretto, che Scarlatti proietta sapientemente nella musica. Tutto ciò richiede interpreti adeguati, tenendo presente che all’epoca i ruoli erano quasi sempre affidati ai grandi castrati. Il soprano Carmela Remigio nel ruolo-titolo, veterana del Festival, fornisce una prova maiuscola, riflettendo nella voce (quasi) sempre limpida la delicata malinconia, il sacrificio d’amore del personaggio, in una chiave che potremmo persino definire pre-romantica. Peccato alcune rare incertezze d’intonazione, dovute forse al plen-air e alla citata brezza che certo non aiuta la corretta diffusione del suono. Anche di Raffaele Pe non si può dire che bene, voce tanto potente, anche nel registro di per sé innaturale del controtenore, quanto duttile nelle agilità. Molto curati anche i recitativi. Nelle rimanenti parti si sono fatti valere Francesca Ascioti (Ottone), Mariam Battistelli (Costanza), Krystian Adam (Corrado), Giuseppina Bridelli (Roberto) e Carlo Buonfrate (Everardo).

Sul podio de La Lira di Orfeo, il greco George Petrou, preciso ma non sempre convincente nel fraseggio barocco. Molto efficace la regia scabra di Rosetta Cucchi, ispirata alla condizione femminile nella Sicilia di primi ‘900. Notevoli le donne velate, che richiamano direttamente un maestro del surrealismo come René Magritte.

Il primo omicidio

Jules-Élie Delaunay, La mort d’Abel, 1856

Alessandro Scarlatti, Cain o Il primo omicidio

Montpellier, Opéra-Comédie, 6 marzo 2021

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Il primo cattivo

In seguito al decreto papale del 1698, che bandiva le rappresentazioni dai teatri di Roma, il genere dell’oratorio sacro faceva furore nei palazzi della nobiltà romana, mentre a Venezia non era così diffuso. Si spiega così l’invito del Cardinale Grimani al compositore siciliano Alessandro Scarlatti a soggiornare nella città lagunare dove due sue opere, il Mitridate Eupatore e Il trionfo della libertà, furono messe in scena al San Giovanni Grisostomo, teatro di proprietà dei Grimani. Parimenti era nato l’oratorio sacro in volgare Cain o Il primo omicidio su testo di Antonio Ottoboni, presentato nel gennaio 1707.

Parte prima. Dopo la cacciata dal paradiso, Adamo si incolpa della disgrazia della sua famiglia. Ha agito troppo ingenuamente per amore. Anche Eva soffre di sensi di colpa e accetta la punizione di Dio. Abele cerca di confortare i suoi genitori facendo riferimento alle sue offerte con le quali vuole placare Dio. Caino si sente provocato da questo, poiché dovrebbe essere suo diritto come primogenito offrire questi sacrifici. Abele chiede loro di risolvere la loro disputa. Entrambi dovrebbero fare i sacrifici, ma più efficace dei doni è un cuore contrito. Eva chiede ai due figli di mettere i loro doni sulla rispettiva pira e chiede a Dio di accettare i sacrifici. Quando lo fanno, la fiamma dell’olocausto di Abele si accende con forza, quella di Caino, invece, è «densa, caliginosa» (1). Profondamente deluso, Caino giura vendetta su suo fratello. Adamo ed Eva notano l’apparizione di Dio e li invitano ad ascoltare i suoi comandamenti in umiltà. Dopo un interludio solenne, la voce divina annuncia che il sacrificio di Abele è stato accettato e consiglia Abele di educare i suoi discendenti alla pietà. Eva e Adamo sottolineano queste parole: non vanno intese come consigli, ma come comandamenti. La voce di Lucifero invita Caino a far valere il suo diritto e a uccidere Abele. Caino si adegua e per raggiungere il suo obiettivo, finge amicizia con suo fratello. Caino lo invita insidiosamente a visitare i suoi campi. Abele chiede a suo fratello di aiutarlosu un sentiero pericoloso. Entrambi cantano la loro armonia fraterna.
Parte seconda. Caino e Abele si riposano presso un ruscello e si godono la natura. Quando Abele si addormenta, Caino coglie l’occasione e lo uccide. La voce di Dio affronta Caino e lo maledice. D’ora in poi sarà disprezzato da tutti gli uomini. Caino accetta la punizione, ma fa notare che non vivrà a lungo, perché qualcuno lo ucciderà presto e chiede a Dio una vita espiatoria o una morte rapida. Dio risponde che lo proteggerà dagli atti di violenza con un marchio sulla sua fronte. La vita stessa dovrebbe essere la sua punizione. Nella sua disperazione, Caino non sa più se vuole vivere o morire. Un interludio cupo annuncia l’apparizione di Lucifero, che incoraggia Caino e lo loda per la sua azione: il suo potere poteva eguagliare quello di Dio. Caino non risponde, accetta la sua colpa e dice addio ai suoi genitori. Eva e Adamo sentono che qualcosa non va. Si preoccupano dei loro figli. La voce di Abele li informa dell’atto di Caino e chiede loro di non piangere la sua morte, poiché il paradiso è certo per lui. Tuttavia, Eva piange i suoi due figli – quello scomparso e quello ucciso. Anche Adamo li piange entrambi. Uno era innocente, ma l’altro è anche suo figlio. Ciononostante, accetta ciò che è successo come volontà divina e come esempio di avvertimento per gli altri. Chiede a Dio più discendenti perché dal suo sangue nasca un giorno il Redentore. Dio gli promette questo e aggiunge che il suo amore non si perderà. Lui stesso, il disprezzato, diventerà il Redentore. Eva e Adamo guardano al futuro promesso.

La struttura musicale della prima parte evidenzia la regolare sequenza breve recitativo-aria, interrotta solo da pezzi strumentali che introducono gli interventi della voce divina e di Lucifero. Più libera la sequenza della seconda parte, quella della scena dell’omicidio.

Parte prima.
Introduzione. “Figli miseri figli”, recitativo. “Mi balena ancor sul ciglio”, aria (Adamo)
“Di Serpe ingannator perfida frode”, recitativo. “Caro sposo, prole amata”, aria (Eva)
“Genitori adorati”, recitativo. “Dalla mandra un puro agnello”, aria (Abel)
“Padre questa d’Abele forz’è che sia”, recitativo. “Della Terra i frutti primi”, aria (Caino)
“Figli cessin le gare”, recitativo. “Più dei doni il cor devoto”, aria (Adamo)
“Disposto o figli e grave il sacrificio”, recitativo. “Sommo Dio nel mio peccato”, aria (Eva)
“Miei Genitori, oh come dritta ascende”, recitativo. “Dio pietoso ogni mio armento”, duetto (Abel, Caino)
“Figli balena il Ciel d’alto splendore”, recitativo (Eva, Adamo)
Sinfonia. “Prima imagine mia, prima fattura”, recitativo. “L’olocausto del tuo Abele”, aria. “Ne’ tuoi figli, e nipoti”, recitativo (Voce di Dio)
“Udiste, udiste, o figli”, recitativo. “Aderite”, aria (Eva, Adamo)
Sinfonia. “Cain, che fai, che pensi?”, recitativo. “Poche lagrime dolenti”, aria (Lucifero)
“D’ucciderlo risolvo, il core affretta”, recitativo. “Mascheratevi o miei sdegni”, aria (Caino)
“Ecco il fratello, anzi il nemico”, recitativo. “La fraterna amica pace”, duetto. “Sempre l’amor fraterno è un ben sincero”, recitativo (Abel, Caino)
Parte seconda.
“Fermiam qui Abele il passo”, recitativo. “Perché mormora il ruscello”, aria (Caino)
“Ti risponde il ruscelletto”, aria. “Or se braman posar la fronda, e’l rio”, recitativo (Abel)
“Più non so trattener l’impeto interno”, recitativo (Abel, Caino). Sinfonia
“Caino dov’è il fratello? Abele dov’è?”, recitativo (Voce di Dio, Caino)
“Or di strage fraterna il suolo asperso”, recitativo. “Come mostro spaventevole”, aria (Voce di Dio)
“Signor se mi dai bando”, recitativo. “O preservami per mia pena”, aria (Caino)
“Vattene non temer; tu non morrai”, recitativo. “Vuò il castigo, non voglio la morte”, aria (Voce di Dio)
“O ch’io mora vivendo”, recitativo. “Bramo insieme, e morte, e vita”, aria (Caino)
“Codardo nell’ardire, e nel timore”, recitativo. “Nel poter il Nume imita”, aria (Voce di Lucifero)
“Oh consigli d’Inferno, onde soggiace”, recitativo. “Miei genitori, addio”, aria (Caino)
“Mio sposo al cor mi sento”, aria (Eva, Adamo)
“Miei genitori amati”, aria (Voce di Abel, Eva, Adamo)
“Non piangete il figlio ucciso”, aria (Voce di Abel)
“Ferma del figlio mio voce gradita”, recitativo. “Madre tenera et amante”, aria (Eva)
“Sin che spoglia mortale”, recitativo. “Padre misero, e dolente”, aria (Adamo)
“Spirto del figlio mio, questi son sensi”, recitativo (Eva, Adamo)
“Piango la prole esangue”, aria (Adamo)
“Adam prole tu chiedi, e prole avrai”, recitativo. “L’innocenza peccando perdeste”, aria (Voce di Dio)
“Udii Signor della Divina Idea”, recitativo. “Contenti”, duetto (Eva, Adamo)

Nella prima parte l’atmosfera pastorale del mondo di Adamo (tenore) ed Eva (soprano) contrasta con la caratterizzazione musicale dei due figli maschi: il candore giovanile dell’ingenuo pastore Abele (soprano) contro il tormentato Caino (contralto) spesso accompagnato dal suono del fagotto. Anche la seconda parte inizia con il tono pastorale, l’ineffabile aria di Caino «Perché mormora il ruscello» sembra far presagire il dramma che seguirà con il fratricidio i cui colpi omicidi sono rappresentati da una drammatica sinfonia. L’oratorio si conclude con un finale consolatore che include la voce di Abele dal cielo e l’annuncio sostenuto dall’organo da parte della voce di Dio (contralto) della futura nascita del Redentore dalla stirpe di Adamo. La voce più grave è riservata al tentatore per eccellenza, Lucifero (basso).

Sulle orme di René Jacobs, un altro controtenore si dedica alla direzione d’orchestra: anche Philippe Jaroussky sale sul podio di un gruppo da lui creato nel 2002, l’Ensemble Artaserse, per eseguire in forma concertistica il lavoro di Scarlatti che due anni fa era stato messo in scena a Parigi da Romeo Castellucci sotto la direzione di Jacobs, lo stesso che aveva fatto scoprire l’opera con la sua incisione del 1998. Jaroussky dirige con sobria eleganza lo smilzo organico strumentale – 8 violini, 2 viole, 2 violoncelli, contrabbasso, fagotto, tiorba, clavicembalo, organo positivo – che riesce tuttavia a esprimere con efficacia i colori e le espressioni continuamente cangianti del lavoro scarlattiano grazie anche agli eccellenti interpreti vocali.

Il brasiliano Bruno de Sá, un sopranista naturale, dà all’ingenuo pastore Abele una voce angelica perfettamente a suo agio nelle agilità e negli acuti abbaglianti. Gli risponde un altro controtenore, Christophe Dumaux (Caino), che fa tesoro per risultati espressivi del suo timbro particolare. Caratterizzato è anche l’aspetto da vilain, in t-shirt, sneakers e nera barba. Il soprano Sandrine Piau è una Eva di grande purezza nella linea musicale con legati e fiati magistrali. Espressivo Adamo è il tenore Krešimir Spičer, apprezzabile soprattutto nei recitativi, meno nelle agilità delle sue arie. Il baritono Yannis François è un Lucifero in completo nero lucido di coccodrillo ma dalla vocalità modesta. Meglio La voce di Dio del terzo controtenore, Paul-Antoine Bénos-Dijan.

La mise en espace al teatro di Montpellier, senza pubblico, prevede l’orchestra nella platea e i quattro interpreti principali sul palcoscenico. La voce di Dio proviene da un palco, così come quella di Lucifero, entrato dal fondo della sala investito da un faro di luce rossa. Ottima la ripresa televisiva con inquadrature suggestive.

Questa produzione verrà ripresa poco dopo a Salisburgo per il Festival di Pasqua con alcuni cambiamenti negli interpreti: Inga Kalna sostituirà la Piau, Filippo Mineccia Dumaux.

(1) È risaputo che l’agnello (di Abele) è più infiammabile dei frutti (di Caino)…

Idomeneo

Wolfgang Amadeus Mozart, Idomeneo

★★☆☆☆

Monaco, Prinzregententheater, 24 luglio 2021

(video streaming)

Migliorare Mozart?

240 anni dopo Idomeneo ritorna nel teatro in cui era nato nel gennaio 1781, ma quello che conclude il Festival dell’Opera di Monaco è una versione diversa dal solito: è infatti presunzione del direttore Constantinos Carydis e del regista Antú Romero Nunes che la drammaturgia di Mozart abbia bisogno di un aggiornamento, ecco dunque i recitativi decimati e nuove musiche introdotte.

I recitativi tagliati rendono talora incomprensibile la vicenda: ad esempio il primo coro dei prigionieri ai quali Idamante fa levare le catene, senza il recitativo che lo precede sembra il festante giubilo di sfaccendati con le mani in tasca tra i quali piroettano due ballerine. Ma c’è da dire che in mancanza di una vera regia tutti gli interventi del coro sono ugualmente statici e intercambiabili. Tagliati sono anche gli interventi solistici che li punteggiano. Per contro, come se la drammaturgia dell’Idomeneo ne avesse bisogno, vengono aggiunti pezzi estranei alla partitura: l’aria da concerto Ch’io mi scordi di te. Non temer, amato bene (scena con rondò) e la Fantasia in re per pianoforte.

L’elemento visivo della produzione si affida all’artista Phyllida Barlow, che per la prima volta porta in scena le sue sculture: strutture ferrose, formazioni rocciose, corrosi frutti della combinazione tra la tecnologia umana e la forza della natura – pezzi di una piattaforma petrolifera abbandonata, un molo arrugginito, resti di imbarcazioni spiaggiate nel letto dell’ex lago Aral, uno dei maggiori disastri ecologici degli anni decenni. Un ambiente post-catastrofe e un mare orribilmente inquinato è quanto ci suggerisce l’artista inglese con le sue enormi e pesanti strutture che una folla di figuranti sposta in continuazione.

Alla guida della Bayerische Staatsorchester la direzione di Constantinos Carydis risulta molto discontinua: a pagine che sarebbe eufemistico definire “trattenute” e a tempi “moderati” si alternano lancinanti scoppi sonori, nei timpani e negli ottoni soprattutto. Strumenti quali lo Hammerklavier, la chitarra barocca, l’organo positivo danno il colore o accompagnano i recitativi rimasti.

Matthew Polenzani, indimenticabile Don Ottavio, affronta la parte di Idomeneo, che non è proprio la stessa cosa. La voce è chiarissima ed esile fin quasi all’inconsistenza e anche le agilità di «Fuor del mare» non hanno la sicurezza necessaria. Come per tutti gli altri, la mancanza di chiare indicazioni sceniche rende il personaggio scialbo. Olga Kulchynska è una sensibile Ilia non sempre a suo agio nella tessitura. L’Idamante di Emily D’Angelo ha bella presenza ma la voce manca di colore. Hanna-Elisabeth Müller sarebbe una giusta Elettra se il timbro fosse un po’ meno metallico e l’espressione più controllata. Meglio l’Arbace di Martin Mitterrutzner, qui gratificato di tutte e due le arie, mentre Callum Thorpe presta la voce all’Oracolo e Caspar Singh si cala nolente nei panni del Gran sacerdote di Nettuno. Per tutti c’è il problema di una dizione non chiara che quasi non fa capire le parole: l’assenza di un interprete italiano si fa sentire molto.

La totale mancanza di una regia dei personaggi, che non fanno altro che passeggiare in lungo e in largo sul palcoscenico, viene “compensata” con gli interventi coreografici non memorabile di Dustin Klein dai movimenti che seguono fedelmente i suoni ma non aggiungono nulla alla drammaturgia.

L’ultima aria di Idomeneo è interrotta dopo i primi due versi «Torna la pace al core | torna lo spento ardore»: gli archi che inizialmente lo accompagnavano abbandonano la scena, lo lasciano solo e attacca subito il coro festoso e il balletto (qui coloratissimo) del finale: Polenzani seduto su una cassa con una lattina di birra in mano e sgranocchiando un panino li osserva perplesso – proprio come noi spettatori.

Pimpinone

William Hogart, Marriage A-la-Mode (“The Marriage Settlement”), 1743-1745

Georg Philipp Telemann, Pimpinone, ovvero Le nozze infelici

★★★★☆

Torino, Cortile dell’Arsenale, 24 luglio 2021

La “farsetta” di Herr Telemann

Uberto e Vespina si sono sposati, ma il matrimonio non è quello che sperava il vecchio: la giovane sposa si rivela capricciosa e indisciplinata. Potrebbe essere il sequel de La serva padrona con i nomi cambiati in Pimpinone e Vespetta se gli intermezzi di Telemann non fossero andati in scena nove anni prima di quelli pergolesiani, ma i personaggi sono caratteri talmente immortali che ha poco senso la cronologia esatta.

Un Pimpinone su libretto di Pietro Pariati era già stato intonato da Tomaso Albinoni nel 1708. Telemann ne aveva fatto tradurre i recitativi in tedesco da Johann Philipp Prætorius e con le arie e i duetti in italiano era nato il Pimpinone oder Die ungleiche Heirat, andato in scena il 31 ottobre 1724 al King’s Theatre di Londra come intermezzo al Tamerlano di Händel. Riproposto ad Amburgo l’anno successivo, divenne il maggior successo teatrale del prolifico compositore tedesco che noi oggi ricordiamo soprattutto per i pezzi sacri, la musica da camera e i concerti.

Intermezzo I. Vespetta, giovane e intraprendente cameriera, è in cerca di una nuova sistemazione. Si proclama onesta e priva di secondi fini: vorrebbe mettere da parte un po’ di soldi, ma intende guadagnarli con il sudore della propria fronte. Tuttavia quando ha la fortuna di imbattersi in Pimpinone – uno scapolo non nobile, ma ricco – non riesce a fare a meno di immaginare un altro modo per elevare la propria condizione. La giovane attira l’attenzione di Pimpinone mettendo in mostra la propria raffinata postura e il proprio incedere elegante e trova il modo di dirgli che non desidera altro che di poter servire un uomo come lui – educato, intelligente, gar- bato, bello e gentile. A Pimpinone gira la testa: si chiede se la ragazza non stia cercando di sedurlo, ma in effetti lui è ormai irrimediabilmente impaniato. Le propone un impiego come cameriera e Vespetta accetta. Mentre Pimpinone gongola per il colpo di fortuna, Vespetta ride alle sue spalle: tutto sta procedendo secondo i suoi piani.
Intermezzo II. Vespetta minaccia Pimpinone di lasciare il servizio: non riesce a tener dietro alle troppe cose che ha da fare; inoltre, dice, il padrone non sa gestire le spese di casa. Pimpinone, che per nulla al mondo vorrebbe perdere una governante così precisa e inappuntabile, le affida le chiavi della cassaforte e, per di più, le fa dono di un paio di splendidi orecchini, non nascondendo di essere invaghito di lei. Vespetta lo zittisce: è un’onesta cameriera, ma è giovane, è bella, ed è al servizio di un uomo non più giovane ma ancora prestante – quanto basta per suscitare pettegolezzi e un’umile domestica non può far nulla per fermare le calunnie. Pimpinone le propone dunque di mettere a tacere le malelingue sposandola. Vespetta protesta che in lei non c’è calcolo o malizia: infatti non è interessata ai passatempi tipici delle signore benestanti – i balli in maschera, il gioco delle carte, l’opera, le visite di società. Pimpinone, entusiasta per questa professione di sobrietà, dichiara che a quelle condizioni Vespetta potrà essere la sua cara sposa: ma Vespetta ribatte che, priva com’è di una dote, non potrà che continuare a essere la sua cameriera, così Pimpinone le offre una generosa dote, a una condizione: non dovrà fare o ricevere visite. Vespetta accetta senza esitazioni. Ancora una volta Pimpinone si compiace per la propria buona sorte, mentre Vespetta si fa beffe della sua dabbenaggine.
Intermezzo III. Vespetta si sta preparando a uscire in gran pompa. Pimpinone, seccatissimo, osserva che, come minimo, ha il diritto di sapere dove stia andando. La ragazza risponde che si reca a far visita alla propria madrina e l’uomo, furente, la accusa di voler spettegolare su di lui con le altre donne. Le chiede perlomeno di rincasare presto, al che Vespetta replica indispettita che ciò di cui va in cerca – i ricevimenti, l’opera, il gioco delle carte – lo si può trovare solo la sera tardi. esasperato, Pimpinone le ricorda di aver promesso che avrebbe evitato le visite di società, ma Vespetta lo liquida ribattendo di aver preso quell’impegno quando era la sua cameriera: ora è sua moglie e lui deve chiudere il becco se lei vuol fare come le altre signore rispettabili che parlano francese, partecipano ai balli, e indossano abiti eleganti! Pimpinone minaccia di bastonarla per ricondurla alla ragione, ma Vespetta non si fa certo intimidire e al culmine di un acceso battibecco lo avverte: se ne andrà con la propria dote, se lui non la lascerà libera di fare ciò che vuole. Pimpinone. Un po’ per amore, un po’ per paura della collera della moglie si vede costretto, ancora una volta, a far buon viso a cattivo gioco.

Riportati all’italiano, gl’intermezzi del Pimpinone arrivano ora nel cortile dell’Arsenale per la stagione estiva del Regio torinese, una settimana dopo quelli di Pergolesi. Gli esecutori sono gli stessi e medesimi sono anche i creatori della parte visiva. Il regista Mariano Bauduin e la scenografa Claudia Boasso propongono un ambiente simile, solo più ingombro. I costumi di Laura Viglione e le attente luci di Andrea Anfossi ricreano l’originale ambientazione settecentesca, la più congrua alla proposizione della vicenda, che aveva interessato anche William Hogarth nel suo ciclo di sei dipinti Marriage A-la-Mode del 1743-45.

Il confronto con gli intermezzi pergolesiani è inevitabile: quelli di Telemann hanno un maggior numero di pezzi musicali – 7 arie (le cinque del libretto di Pariati più due di Prætorius ) e 4 duetti (due in italiano e due in tedesco) rispetto alle cinque arie e ai due duetti de La serva padrona (senza contare il duetto finale tratto dal Flaminio). Telemann non ha la miracolosa semplicità melodica di Pergolesi, le sue arie sono musicalmente più complesse, tripartite e con da capo, e hanno più colorature nella linea vocale. Per arrivare a una serata che arrivi almeno a un’ora, qui a Torino la parte musicale  è stata rimpolpata con l’ouverture e due arie della Beggar’s Opera (1728 ) di John Gay e Johann Christoph Pepusch. La prima è una pomposa introduzione, un po’ troppo ingombrante per lo smilzo svolgimento musicale che segue, le seconde, nella libera traduzione di Bauduin, sono collocate alla conclusione della prima e della seconda parte e affidate a un mimo/attore, ma qui non hanno avuto il magico effetto dell’aria napoletana nello spettacolo precedente.

L’arguto libretto del Pariati delinea con molta efficacia lo strategico piano della furba servetta che prima si propone come cameriera modello («Chi mi vuol? Son cameriera. | Fo di tutto. Pian. M’intendo | di quel tutto che conviene»); poi mette in atto la questione morale per farsi sposare («Mormora il mondo, e ciarla. […] Ogn’un vuol dir, quando vuol dir del male. | L’onor mio troppo vale»); infine incanta il vecchio già rimbambito con la sua finta ingenuità («Pimpinone: Non vo’ concier. Vespetta: Io lo depongo or ora. P: Sul balcon… V: Mai non ebbi un tal diletto. P: Cene, teatri, e balli… V: Io non li bramo. P: Giochi e veglie… V: Il mio genio è solitario. P: Libri amorosi… V: Io leggerò il lunario. P: Maschera… V: Non so dir cos’ella sia») proprio come farà la Norina donizettiana 135 anni dopo: «Don Pasquale: Volea dir ch’alla sera la signora amerà la compagnia. Norina: Niente affatto. Al convento si stava sempre sole. D: Qualche volta al teatro? N: Non so che cosa sia, né saper bramo. D: Sentimenti ch’io lodo. Ma il tempo, uopo è passarlo in qualche modo. N: Cucire, ricamar, far la calzetta, badare alla cucina: il tempo passa presto». Rispetto al Don Pasquale di Donizetti, ma anche rispetto all’Uberto di Pergolesi, qui manca un po’ l’elemento patetico e tenero nei confronti del vecchio innamorato: Pimpinone è più maschera della Commedia dell’Arte che personaggio per cui intenerirsi.

La “dispotica cameriera” dell’altro titolo alternativo (Die herrschsüchtige Cammer-Mädgen) del Pimpinone è dunque la stessa Vespina ascoltata in Pergolesi la settimana scorsa, Francesca di Sauro, qui alle prese con una parte maggiormente articolata e vocalmente impegnativa, più sopranile: le prime due arie solistiche del primo intermezzo, un arioso e un’aria nel secondo, un’altra aria nel terzo, sono quasi tutte infarcite di agilità affrontate e risolte con agio e gusto dal mezzosoprano.

Se la parte del leone ce l’ha Vespetta, quella di Pimpinone – un’aria solistica per ogni intermezzo – permette comunque a Marco Filippo Romano di dimostrare le sue magistrali doti mattatoriali, che si tratti di «Ella mi vuol confondere» con cui il personaggio dopo le due sfrontate arie femminili dimostra la sua debolezza e confusione, o quella in cui rivela la sua sbandata senile, «Guarda un poco in questi occhi di foco | ed in lor vedrai, mio tesoro, | che sei del Pimpinon la Pimpinina». Ma è nel terzo intermezzo che Romano dà fuoco alle sue cartucce di entertainer quando, cambiando il registro della voce e usando il falsetto, imita due diverse voci femminili che commentano la situazione, e qui abbiamo dunque tre diversi personaggi resi dallo stesso interprete: «So quel che si dice, e quel che si fa. | Strissima; strissima. Come si sta? | Bene. E poi subito. Quel mio marito | è pur stravagante, è pure indiscreto. Pretende che in casa io sia tutto il dì. | E l’altra risponde: «Gran bestia ch’egli è, | prendete, comare, l’esempio da me. | Voleva anche il mio. Ma l’ho ben chiarito | di far a mio modo trovato ho ’l segreto | s’ei dice: no, no, io dico: sì, sì». Un bell’esempio di teatro nel teatro che il regista porta in scena con la costruzione di un improvvisato teatrino di burattini per il duetto finale.

L’orchestra del Teatro Regio si impegna nel ricreare le sonorità settecentesche di una partitura che ha maggior spessore di quella pergolesiana e meglio sopporta la lettura non sempre trasparentissima di Giulio Laguzzi. L’accompagnamento dei recitativi è efficacemente realizzato da Carlo Caputo al clavicembalo.

Con abilità e senso del teatro l’attore Pietro Pignatelli si trasforma in una serie di personaggi muti – il cicisbeo, il notaio, la comare… – e nel mendicante cantastorie, personaggio inventato dal regista per invitare il pubblico prima dello spettacolo: «Tutto nel mondo è sogno. E non vi azzardate a me scetà…. E lasciateci sognare, e se vi fa piacere, sognate insieme a noi questa farsetta che qui vi “sogniamo”».

Sulla scia del successo del loro Pimpinone Prætorius e Telemann scrissero un seguito dal titolo Die amours der Vespetta oder der Galan in der Kiste (Gli amori di Vespetta, ovvero Il galante in affari) la cui musica è però andata persa.

Peccato, avremmo avuto il terzo capitolo della storia.

La serva padrona

Jean-Étienne Liotard, La belle chocolatière, 1743

Giovanni Battista Pergolesi, La serva padrona

Torino, Cortile dell’Arsenale, 17 luglio 2021

★★★★☆

Pergolesi insaporisce la stagione estiva del Regio

C’è un teatro in Italia che ha passato un momento ancora più difficile degli altri: oltre ai devastanti effetti della pandemia che conosciamo, il Regio ha visto un commissariamento straordinario per cercare di risolvere la sua difficile crisi finanziaria e ora che le sale aprono al pubblico, seppure con cautela, quella torinese deve chiudere per improrogabili lavori di adeguamento e rinnovamento del suo impianto scenico.

Si vorrebbe citare la proverbiale caparbietà subalpina – se non fosse che la commissaria che fa le veci di sovrintendente e il direttore artistico provengono una dal sud Italia e l’altro dalla Germania del nord… – nel fatto che pur in questa condizione si riesca a mettere assieme una miracolosa stagione estiva per non privare il pubblico torinese del teatro dal vivo e degli stimoli culturali, come recita il titolo della rassegna: «Regio Opera Festival. A difesa della Cultura».

Lo splendido cortile del Palazzo dell’Arsenale è messo generosamente a disposizione dal Comando per la Formazione e Scuola di Applicazione dell’Esercito e la prestigiosa location diventa la sede per le rappresentazioni all’aperto. Tra i titoli scelti, necessariamente popolari e di richiamo per un pubblico che si vorrebbe il più vasto possibile, Sebastian Schwarz è riuscito a inserire due chicche settecentesche di grande interesse: la prima, più nota, è La serva padrona di Pergolesi, la seconda, molto meno nota, è il Pimpinone nella intonazione di Georg Philipp Telemann – due “intermezzi”.

Se l’opera barocca secentesca conteneva sia l’elemento serio sia quello comico – si pensi ai lavori di Cavalli o all’ultimo Monteverdi – il gusto del Settecento preferisce invece separare i due momenti e quello comico è relegato tra il primo e il secondo atto e tra il secondo e il terzo delle opere serie. Nascono così gli intermezzi, generalmente in due parti, per alleviare la tensione del dramma e tenere occupato negli intervalli il rumoroso pubblico che affolla i teatri dell’epoca. Il genere è caratterizzato da una coppia di cantanti-attori, assenza o quasi di scenografia, talora addirittura davanti al sipario, come si farà due secoli dopo negli intermezzi comici del teatro di varietà nostrano. Se all’inizio i personaggi parodiavano quelli della storia principale, dal 1725 cominciano a sviluppare una vicenda del tutto autonoma facendo diventare l’intermezzo una breve opera comica a sé stante.

Pochissimi intermezzi sono arrivati a noi: non erano considerati degni di essere inseriti nella partitura dell’opera seria e quindi sono andati persi. Non La serva padrona di Giovanni Battista Pergolesi, che non solo divenne l’archetipo del genere, ma farà furore quando alcuni anni dopo verrà portata in Francia dove innescherà l’accesa querelle des bouffons. Nel 1752 era infatti successo che il lavoro di Pergolesi fosse allestito contemporaneamente all’Acis et Galatée, la “pastorale eroïque” di Jean-Baptiste Lully del 1686, suscitando le polemiche tra due avverse fazioni: quella del “coin du roi” a sostegno della supremazia della musica francese, e quella del “coin de la reine” a sostegno invece della musica italiana, ammirata per la piacevolezza e semplicità dell’invenzione melodica in contrapposizione alla complessità e artificiosità della musica di Lully. Rameau e Rousseau furono tra le maggiori figure a schierarsi nelle rispettive opposte fazioni. Solo l’intervento di Louis XV nel 1754 mise fine alla interminabile serie di libelli e lettere polemiche, mettendo tout court al bando dai teatri francesi i bouffons italiani.

La serva padrona era nata come intermezzo in due parti per i tre atti de Il prigionier superbo dello stesso Pergolesi, presentato al San Bartolomeo di Napoli il 28 agosto 1733. La vicenda è quella eterna e intramontabile del vecchio e ricco padrone innamorato della servetta giovane. Uberto, il protagonista maschile, è sulla scia dei vari Pantaleone, Balanzone, Don Pomponio, Don Corbolone ecc. che l’avevano preceduto e del Don Pasquale donizettiano che lo seguirà un secolo dopo. E lo stesso è per Serpina, la protagonista femminile, e delle sue alter-ego Vespetta, Vespina, Serpilla ecc. e della futura Serpetta mozartiana (La finta giardiniera), la serva furba che sfrutta arguzia e sex appeal per diventare moglie del vecchio e quindi padrona.

Il libretto di Gennaro Antonio (Gennarantonio) Federico, lo stesso autore de La Salustia (la prima opera seria di Pergolesi) e de Lo frate ‘nnamorato, ebbe come modello l’omonima commedia di Pier Jacopo Nelli che, sfoltita delle situazioni da Commedia dell’Arte, diventò lo snello testo in cui la caratterizzazione psicologica trovava un efficace risultato grazie alla  musica di Pergolesi.

Musica che viene proposta dall’orchestra del teatro sotto la direzione di Giulio Laguzzi e l’accompagnamento al cembalo di Carlo Caputo. Lontano dalla secchezza di suono e dalla frenesia ritmica a cui ci hanno abituato certe esecuzioni “storicamente informate”, il maestro concertatore fornisce qui una lettura complessivamente corretta sui cui equilibri sonori non è agevole fornire un fondato giudizio data l’acustica non ottimale del cortile all’aperto e l’utilizzo della amplificazione. Più agevole quello sugli interpreti in scena, cantanti/attori di grande esperienza. Su Marco Filippo Romano si va sul sicuro: è forse il miglior baritono buffo che abbiamo ora in Italia e il suo Uberto ha pochi rivali per musicalità, pienezza vocale, limpidezza di fraseggio e un’intelligente vis comica che non si affida alle gag ma alle situazioni drammaturgiche per esprimere quell’umorismo che è la quint’essenza degli intermezzi dell’opera italiana. Un umorismo qui venato di tenerezza nel recitativo che precede l’aria «Son imbrogliato io già» quando parla tra sé e sé ammettendo che «per altro io penserei… ma… ella è serva… ma… il primo non saresti…» e già si capisce che capitolerà. Anche Serpina trova in Francesca di Sauro un’interprete validissima. Lontano dal ruolo di soubrettina dalla voce petulante, il mezzosoprano sfodera un timbro piacevole, una voce di grande proiezione e una verve irresistibile. Nel passaggio dalla frizzante e punzecchiante aria «Stizzoso, mio stizzoso» a quella astuta e venata di finta malinconia «A Serpina penserete» con gli a parte rivolti al pubblico «Ei mi par che già pian piano | s’incomincia a intenerir», la cantante napoletana costruisce con molta efficacia il suo personaggio. Pregevoli sono per entrambi gli interpreti i da capo con sapide e stilisticamente giuste variazioni. Anche il ruolo muto di Vespone viene ben messo in evidenza dall’attore Pietro Pignatelli con movenze e maschera da commedia dell’arte, il quale però alla fine dell’Intermezzo I la maschera se la toglie e intona con nostalgia un’antica canzone popolare napoletana strumentata per l’occasione. Una sorpresa molto gradevole che sottolinea l’atmosfera napoletana di questa Serva padrona servita in un italiano impeccabile.

Con l’attenta e sobria regia di Mariano Bauduin, lo spettacolo si avvale della semplice scenografia di Claudia Boasso: uno schermo traforato, che rappresenta lo schema prospettico della sala di un teatro all’italiana col boccascena e le fughe di palchi, e un fondale dipinto con un interno rococò, qui della palazzina di Stupinigi – giusto omaggio alla città. I costumi settecenteschi come al solito perfetti ed eleganti di Laura Viglione e il suggestivo gioco luci di Andrea Anfossi completano l’aspetto visivo di uno spettacolo che è stato molto gradito dal folto pubblico accorso.

La settimana prossima si raddoppia con un altro intermezzo: il Pimpinone di Telemann, con i medesimi interpreti.

Pastorelle en musique

Georg Philipp Telemann, Pastorelle en musique

★★★☆☆

Potsdam, Sansouci Schlosstheater, 19 giugno 2021

(diretta streaming)

Amori di pastori

È partita l’estate degli spettacoli nei teatrini storici: se siete a Potsdam per i Musikfestspiele – che festeggiano quest’anno i trent’anni – e la serata oltre alla cena al fresco comprende anche uno spettacolo, dalla rappresentazione allo Schlosstheater di Sansouci non vi aspettate certo un qualcosa di diverso da quello che vi viene debitamente fornito: orchestra che segue una prassi esecutiva storicamente informata (ma non troppo…), quinte e fondali dipinti, personaggi che si atteggiano come statuine di biscuit, passettini, inchini, gesti stereotipati, movimenti tesi a formare graziosi gruppetti in costumi settecenteschi, guance col carminio, labbra rosse, ghirlande di fiori, gonne che dondolano con le braccia… Così è infatti per l’allestimento di questa rarità di Georg Philipp Telemann.

Pastorelle en musique oder Musicalisches Hirten-Spiel è una serenata in un atto del prolifico compositore che ammiriamo soprattutto per le sue Passioni, le Cantate, le composizioni cameristiche, le Suites per orchestra e i Concerti, piuttosto che per le sue opere teatrali, trentadue e di vario genere: Singspiel, Nachspiel, intermezzo, serenata, opéra comique, musicalisches Drama.

Vedovo in giovane età alla morte per complicanze da parto della moglie Amalie Louise Juliane Eberlin dopo la nascita nel 1711 della prima figlia, Telemann affrontava un tema, quello dei sentimenti primaverili, eternamente giovane: «Praticare il dolce amore come vogliamo è il nostro scopo e piacevole gioco» cantano i pastori della Pastorelle. Come il titolo, anche il testo, dello stesso compositore, è franco-tedesco.

I ragazzi Damon e Amyntas sono innamorati, ma non è facile per loro: si trovano di fronte a un gruppo di pastorelle ribelli incitate a canti di libertà da Caliste e Iris, gli oggetti dei loro sentimenti. Non si parla di “amore libero”: piuttosto, le ragazze hanno paura di arrendersi a Cupido, perché allora la loro libertà può finire molto rapidamente. Caliste rimprovera il maschio Damon con suono di tromba e fuoco di colorature. D’altra parte l’aria di Amyntas non manca di avere un effetto su Iris. Quando poi si chiede: «Devo amare?», l’orchestra dipinge vividamente il suo vacillamento tra sì e no, e anche qui un basso molto attivo rivela il movimento interiore: ma le figure danzanti e cadenti dei violini lasciano già presagire quale sarà la decisione. L’amico comune di Damon e Amyntas, Knirfix, pensa di essere l’unico rappresentante di buon senso tra tutti i pastori pazzi. Non è innamorato, dopo tutto, e non è nemmeno sicuro che il sesso sia meglio del cibo. Gli uomini, pensa, non dovrebbero essere dei piagnucoloni davanti alle ragazze per avere successo, e le ragazze non dovrebbero essere così esigenti perché il coniuge perfetto comunque non esiste. Abituato di solito a usare l’idioma francese per guadagnare punti con le demoiselles attraverso la galanteria mondana, lamenta la sua sfortuna alle stelle in tedesco e respinge burberamente il canzonatore. Per lui è ormai chiaro: «Se deve sempre nevicare quando sono libero, beh, me ne starò alla larga!». Naturalmente, questa non è un’opzione valida per Damon e Amyntas. Quest’ultimo annuncia il suo ritorno trionfale con trombe giubilanti: Iris ha detto sì! Così può facilmente offrire una consolazione a Damon, ora di nuovo credibilmente disperato in francese. Ma non tutto è ancora finito, perché Caliste ha una nuova palpitazione, come ammette a sé stessa in un’incantevole aria con oboe obbligato, e si mette a dormire con una sinfonia di flauti. Forse dopo sarà più calma e più saggia. Quando Damon appare insieme a tutto il coro dei pastori Caliste si sveglia e nulla è chiaro, ma Damon ricorre all’arma più affilata dell’amante: il ricatto emotivo. Ai suoi piedi, vuole morire qui e ora se lei non cede alla sua corte. Iris e Amyntas aumentano ancora di più la pressione dipingendo la propria felicità amorosa accompagnata da archi esuberanti. Caliste è già commossa, però: «Dare via il proprio cuore per sempre è davvero da prendere in considerazione». Ha ragione, ma cosa potrebbe mai seguire la festosa intrada con i corni se non un doppio matrimonio? Per cui Knirfix manda senza mezzi termini le due coppie a letto. Per il lieto fine ritorna la musette dell’inizio, questa volta guidata dagli sposi.

Il fatto che questo gioiello musicale – per quanto ne sappiamo è la prima opera completa di Telemann – sia arrivato fino a noi è un colpo di fortuna ed è stato riscoperto due volte, indipendentemente l’uno dall’altro, da uno studente di musica ucraino e da un musicologo tedesco. Ci vogliono degli specialisti per scoprire ciò che questo lavoro ha da offrire.

Che Telemann potesse essere considerato già all’epoca un appassionato conoscitore della musica francese, questo si sapeva. Si è scoperto che ha attinto a un modello di Molière e Lully per la Pastorelle: un interludio del Divertissement Royal Les Amants magnifiques in cui il Re Sole stesso ha danzato sul palco per l’ultima volta. Telemann ha adattato l’originale in modo molto creativo riprendendo anche direttamente alcuni versi. Probabilmente è il primo compositore tedesco ad aver messo in musica Molière.

Dopo l’ouverture, un vero e proprio concerto con il suono festoso di una tromba, Damon, come capo del coro dei pastori, delinea immediatamente il tono francese galante che rimarrà il suo marchio di fabbrica, rusticamente fondato com’è dal basso bordone della musette, la variante francese della cornamusa, che non è presente qui come strumento, ma che con il suo suono indispensabile per il sentimento rococò del pastore ha prestato il suo nome a un intero genere musicale. Questa musette proviene da una musica teatrale francese come anche le altre arie di Damon (alle quali il poeta-compositore poliglotta ha aggiunto la propria traduzione) che hanno come fonte una raccolta di canzoni stampata a Parigi nel 1713. Telemann ha così regalato al suo pubblico dei successi attuali, freschi di Francia! Lì, però, l’Italia era musicalmente presente all’epoca e così, oltre a un’aria originale francese e malinconica come «Vos rigueurs, mon enfant», con «Règne, Amour, sur mon âme» si sente anche un’aria cantata nello stile italianizzante.

La Pastorelle è stata messa in scena per la prima volta alla Komische Oper di Berlino nel 2004, la prima registrazione completa è stata pubblicata su CD nel 2005 e un’edizione-studio della partitura è disponibile dal 2014.

La produzione attuale è trasmessa dal vivo in streaming – che però ha sofferto di ogni problema: mancanza di sincronia tra immagini e suoni, bassa definizione, interruzioni, incertezze nella regia video – e permette di farsi una buona idea del lavoro musicale, affidato qui al Vocalconsort Berlin e all’Ensemble 1700 diretti da Dorothee Oberlinger, sovrintendente dei Musikfestspiele Potsdam. La sua lettura è brillante ed esalta i colori della partitura con tempi comodi e una scelta oculata dell’equilibrio tra strumenti e voci, qui affidate al soprano Lydia Teuscher, una sensibile Caliste; al soprano Marie Lys, vivace Iris; al controtenore Alois Mühlbacher, Amyntas; al baritono Florian Götz, Damon; al tenore Virgil Hartinger, Knirflix. Di livello decisamente superiore è il reparto femminile. Della “regia” di Nils Niemann s’è già detto. Gli spettatori vanno a dormire contenti di aver assistito a uno spettacolo filologico, come «si faceva allora» – anche se ci sarebbe molto da ridire.

Lo spettacolo si potrà vedere a luglio al Markgräfliches Opernhaus di Bayreuth e ad agosto alle Festwochen der Alten Musik di Innsbruck.