Lorenzo Da Ponte

Così fan tutte

foto © Vito Lorusso

Wolfgang Amadeus Mozart, Così fan tutte

Milano, Teatro alla Scala, 6 novembre 2025

★★★★☆

(diretta televisiva)

Mozart ai tempi di Temptation Island

Alla Scala Robert Carsen trasforma Così fan tutte in un reality show contemporaneo, dove le coppie di amanti mettono alla prova la fedeltà sotto l’occhio delle telecamere. Tra scenografie pop, ironia e malinconia, l’allestimento riflette sull’amore come spettacolo mediatico. La direzione limpida di Soddy e un cast diseguale completano una lettura lucida e provocatoria, in cui la commedia settecentesca rivela tutta la sua modernissima verità.

Come ultimo titolo della stagione, e in attesa dello Šostakovič di Sant’Ambroeus, la Scala propone una novità di peso: per la prima volta Robert Carsen si confronta con Così fan tutte. Il regista canadese catapulta l’opera nel nostro tempo, quello ossessivo delle relazioni “sotto schermo”. Il palcoscenico diventa uno studio televisivo, con telecamere in vista, divani fucsia e posti per il pubblico: un microcosmo mediatico dove l’amore si misura in like e inquadrature.

Il titolo alternativo dell’opera, La scuola degli amanti, diventa il nome del format televisivo in cui due coppie — Ferrando e Dorabella, Guglielmo e Fiordiligi— si sottopongono alla prova della fedeltà orchestrata da Don Alfonso e Despina, non più filosofo e cameriera, ma conduttori di un reality crudele e scintillante. «Nel Così fan tutte abbiamo due coppie che accettano, consapevolmente o meno, di mettere alla prova il loro amore. Tutti partecipano a un esperimento in cui scoprono aspetti di sé e del proprio partner che ignoravano. E, come nei reality, non sanno né cosa accadrà né come reagiranno», spiega Carsen.

L’idea, di per sé, non è la scoperta dell’anno, ma il suo pregio sta nell’intelligenza con cui la visione contemporanea illumina il senso profondo dell’opera: il gioco delle apparenze, la fragilità dei sentimenti, la finzione della fedeltà. Eppure Carsen non rinuncia al divertimento. Il suo allestimento prende di mira il mondo dei format televisivi, fra confessionali che ricordano il Grande Fratello e ironie graffianti: come quando, sotto l’effetto del “tossico”, le immagini video di Renaud Rubiano diventano psichedeliche, o quando i giovani amanti si sfidano in guerre d’acqua a colpi di pistole giocattolo.

Un gigantesco ledwall domina la scena rotante disegnata da Carsen e Luis F. Carvalho (anche autore dei costumi), illuminata con cura maniacale da Peter van Praet e dallo stesso regista. Con le coreografie di Rebecca Howell per i marinaretti in partenza sulla portaerei, il tutto si veste di una lucida patina pop-glamour di grande eleganza. La lettura visiva è potente, provocatoria, ma talvolta rischia di soffocare la grazia musicale e la perfetta simmetria che Mozart e Da Ponte avevano intessuto con mano attenta.

Sotto la superficie luccicante, però, pulsa una malinconia sottile. Lo si avverte nei momenti in cui la musica prende il sopravvento: nel celebre terzetto «Soave sia il vento», ad esempio, il reality si spegne, le luci calano, la scena si svuota, e resta solo la purezza del canto. In quel silenzio sospeso, il “gioco” si capovolge in consapevolezza, la commedia si tinge di verità, e l’amore mostra il suo lato fragile. È forse questa l’intuizione più riuscita: un’opera buffa del Settecento che oggi suona come un esperimento sociologico, una riflessione sull’amore trasformato in spettacolo. Il messaggio è chiaro: la relazione e la fedeltà, oggi, sono performance sotto gli occhi di tutti. Così fan tutti, davvero.

Sul podio, Soddy dirige con gesto limpido e attenzione cameristica: trasparenza, leggerezza, e un senso costante di equilibrio tra la civetteria giocosa e la malinconia più tenera. Anche al fortepiano, il maestro cesella i recitativi con eleganza. Corretti come sempre gli interventi del coro diretto da Giorgio Martano.

Sulla carta il cast sembrava ideale, ma il risultato è diseguale. Elsa Dreisig è una Fiordiligi un po’ rigida nelle agilità di Come scoglio, ma convincente nelle arie più liriche. Più omogenea la Dorabella di Nina van Essen, mentre Sandrine Piau appare una Despina vocalmente troppo leggera per sostenere il gioco teatrale. Gerald Finley, interprete di classe, manca però di mordente come Don Alfonso; Luca Micheletti è un Guglielmo forse troppo baldanzoso, e Giovanni Sala (Ferrando) non sempre trova la fluidità necessaria in «Un’aura amorosa».

Nel Così messo in scena da Claus Guth e visto alla Scala nel 2014, al libretto di Da Ponte vennero tagliate molte parti. Lo stesso avviene anche questa volta, ma non infastidisce tanto la mancanza del duettino Ferrando e Guglielmo «Al fato dan legge» (n. 7) o dell’aria di Ferrando «Ah, lo veggio, quell’anima bella» (n. 24) — tagli tradizionali —, quanto l’eliminazione o il ridimensionamento di interi recitativi, come le battute tra Despina e Don Alfonso, con la celebre frase «A una fanciulla | un vecchio come lei non può far nulla», che chiariva il loro rapporto. Molti altri interventi di Despina vengono soppressi, forse per la scarsa caratterizzazione del personaggio.

Le nozze di Figaro

foto @ Mattia Gaido

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

Torino, Teatro Regio, 23 novembre 2024

★★★★☆

Inaugurazione in controtendenza del Regio Torinese

Nel 1775 il geniale inventore Abraham-Louis Breguet apriva a Parigi la sua manifattura di orologi. Nello stesso periodo Pierre Jacquet-Droz e figli costruivano delle bambole che, sotto abiti preziosi, celavano complicati e ingegnosi meccanismi per riprodurre i movimenti di uno scrivano, di un disegnatore e di una suonatrice di clavicembalo. Automi che oggi si possono ammirare al museo di Neuchâtel. Nella seconda metà del Settecento è evidente una vera e propria infatuazione per i congegni meccanici precisi e complessi.

Un congegno altrettanto infallibile è quello del teatro di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais – figlio lui stesso di un orologiaio – e in particolare de La folle journée, ou Le mariage de Figaro, che Lorenzo da Ponte tradusse in libretto dopo che la commedia, andata in scena a Parigi dopo innumerevoli ritardi e divieti, a Vienna era stata censurata. È dunque un testo di scottante attualità quello che Mozart mette in musica nel 1786 e anche se ridimensionano gli elementi di critica sociale presenti nell’originale francese, Da Ponte e Mozart inseriscono momenti in cui è evidente lo scontro tra classi: «Se vuol ballare, signor contino» è un esplicito dileggio, sulle note sarcastiche di un minuetto, di Figaro nei confronti del personaggio di casta superiore.

Il fatto che dietro Le nozze di Figaro ci siano tre tra i maggiori genii di teatro di tutti i tempi non poteva che rendere questo un capolavoro assoluto, il vertice massimo nel genere buffo settecentesco. Un titolo frequentemente inserito nei cartelloni dei teatri italiani, che però per la inaugurazione della loro stagione, dopo l’indigestione pucciniana, preferiscono puntare su Verdi – come fanno infatti quest’anno il Teatro alla Scala (La forza del destino), La Fenice (Otello), l’Opera di Roma (Simon Boccanegra), il Maggio Musicale Fiorentino (La traviata), il Regio di Parma (Giovanna d’Arco) – non il Regio di Torino però, che non solo preferisce Mozart, ma ne affida l’esecuzione a un direttore giovane e poco conosciuto, Leonardo Sini. Nato a Sassari 34 anni fa e con una carriera già consolidata, Sini affronta la partitura con passo spedito e trascina gli eventi in una corsa dal ritmo incalzante. Buono l’equilibrio tra buca e palcoscenico con solo un piccolo scollamento tra orchestra e cantanti nel terzo atto che verrà sicuramente risolto nelle repliche. Il tono brillante dell’orchestra si ritrova nel colore ispanico di alcune pagine come il fandango con le castagnette suonate dai ballerini nella coreografia di Nuria Castejon. Sono salve però le oasi liriche, quando sui personaggi scende per un momento una nebbia malinconica o nel finale quando il perdono della Contessa, dopo le traversie incontrate nel corso della folle journée, sembra elargito a tutta quanta l’umanità.

Il cast è abbastanza omogeneo senza punte di particolare eccellenza. Il Figaro di Giorgio Caoduro si fa ammirare sia nei recitativi sia nei momenti più cantabili, dove l’eleganza del fraseggio predomina sulla vivacità del personaggio che risulta delineato con sobrietà. Lo stesso si può dire per il Conte di Vito Priante, dalla recitazione asciutta e dalla espressione vocale precisa e nobile. Una sostituzione dell’ultimo momento è quella di Monica Conesa con Ruzan Mantashyan che acquista il portamento sontuoso della Contessa ma vocalmente il soprano armeno delude in parte per un legato non impeccabile nelle sue grandi arie e acuti non limpidissimi. Meglio lo stile della Susanna di Giulia Semenzato che, se non la sensualità del personaggio, regala delle belle variazioni. Delizioso il Cherubino di Josè Maria Lo Monaco, mezzosoprano catanese dal bel timbro e dai rapinosi passaggi a mezza voce. Ben definiti sono la Marcellina di Chiara Tirotta, il Bartolo di Andrea Concetti e il Basilio di Juan José Medina, allievo del Regio Ensemble. Un eccesso di caratterizzazione quello del Don Curzio di Cristiano Olivieri a cui la regia impone una balbuzie da avanspettacolo. Scenicamente più sviluppata del solito è la parte del giardiniere Antonio, qui il sostanzioso Janusz Nosek del Regio Ensemble. Magico come sempre il momento di Barbarina affidata a un’altra allieva del Regio Ensemble, l’incantevole Albina Tonkikh. Affidabile come sempre il coro istruito da Ulisse Trabacchin, dal quale si staccano le vivaci contadine di Eugenia Braynova e Daniela Valdenassi.

Di Emilio Sagi, direttore che ha spesso frequentato il genere spagnolo per eccellenza, ossia la zarzuela, ricordo il suo vivacissimo Barbiere di Siviglia rossiniano, dove alla fine i due innamorati volavano via in mongolfiera. Ora ne Le nozze di Figaro il Conte e Rosina sono scesi da tempo dalla mongolfiera, sono più maturi, in parte disillusi, soprattutto la ragazza diventata Contessa, che deve fare i conti con l’età e con le intemperanze del marito. Nella sua lettura Sagi stempera i motivi di critica sociale per esaltare invece l’aspetto ludico ed erotico da commedia di equivoci e intrighi amorosi. Il regista, che è stato Direttore Artistico del Teatro de la Zarzuela e poi del Teatro Real di Madrid (ed è da qui che arriva questa produzione de Le nozze) sottolinea l’elemento “Siviglia” nel suo allestimento: non solo le sue architetture tipiche nelle scenografie di Daniel Bianco e nei costumi di Renata Schussheim, ma anche il sole della città andalusa, che inonda il patio del palazzo del Conte, in cui avvengono le controscene in secondo piano, o che risveglia la Contessa quando Susanna scosta le tende delle due grandi finestre. A questo proposito, nella sua accurata regia Sagi si lascia andare a qualche errore drammaturgico: non è infatti pensabile che la Contessa appena risvegliata intoni «Porgi, amor, qualche ristoro al mio duolo, a’ miei sospir» come prima cosa. Altro errore nel primo atto, proprio all’inizio, quando Figaro misura non la stanza bensì il letto già posizionato in un ambiente di per sé vastissimo. Non un errore ma un momento che poteva essere meglio rappresentato quello della tirata di Figaro contro le donne: il testo di Da Ponte compensa l’attenuata carica sociale con una misoginia tipica del suo tempo ma che suona fastidiosa alle nostre orecchie. Non dico eliminarla in omaggio a un imperversante atteggiamento politically correct, ma c’era modo di “virgolettarlo” senza renderlo ancora più palese con Figaro al proscenio e le luci accese in sala.

Un sipario dipinto a drappi rossi bordati d’oro separa e mostra in trasparenza i diversi quadri dell’opera. Le scenografie vagamente strehleriane nelle dimensioni e nei colori sono illuminate dalle belle luci di Eduardo Bravo mentre particolarmente riuscito è l’allestimento del terzo atto, con il salone scandito da archi e colonne, e del patio del finale, ricco di vasi, piante, fiori e una fontana. Un suggestivo panorama notturno su cui si alza una grande luna piena. Attento è il gioco registico, ma sempre sobrio e affidato alle competenze attoriali degli interpreti.

Molto felice l’esito della serata con applausi intensi e prolungati soprattutto per Susanna, Cherubino e il direttore. Con questo spettacolo, dopo il felice progetto delle tre Manon, parte ufficialmente la stagione del Regio, intitolata “La meglio gioventù”, come il film di Giordana, dedicata ai diversi aspetti della gioventù che fanno da fil rouge nella scelta dei titoli. Infatti dopo la parentesi ballettistica, di prammatica nel periodo natalizio, il cartellone riprenderà a fine gennaio con L’elisir d’amore, un’altra vicenda di amori giovanili.

Don Giovanni

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevèchée, 14 luglio 2010

★★★☆☆

(video registrazione)

Ultimo tango a Aix

È Festen, il film del 1998 diretto da Thomas Vintenberg, a ispirare la lettura di Dmitrij Černjakov del Don Giovanni: la vicenda è privata di ogni valenza mitica e ambientata nella contemporaneità di una composita famiglia in cui il personaggio di Don Giovanni è il catalizzatore di forti reazioni tra i vari componenti – com’era in Teorema, il film di Pasolini. All’inizio li vediamo seduti a un tavolo, riuniti per qualche ricorrenza, in un elegante e austero salone biblioteca pieno di fiori.

Abbiamo dunque il capofamiglia, il Commendatore; la figlia Donna Anna; il suo attempato fidanzato Don Ottavio; Zerlina, la figlia di Donna Anna da un precedente matrimonio; lo sposo di Zerlina, Masetto; Donna Elvira, cugina di Donna Anna; Don Giovanni, marito di Donna Elvira; Leporello, il parente nullafacente che vive nella stessa casa. Rivedremo la stessa scena nel finale architettato ai danni di Don Giovanni. Il regista russo piega dunque la vicenda per una sua drammaturgia lontana dalle intenzioni degli autori ma che rivela la sua efficacia tale è l’abilità con cui viene realizzata e ancora una volta ci si stupisce di come il testo di Da Ponte e la musica di Mozart si adattino così bene alla rappresentazione delle problematiche delle relazioni contemporanee.

Nel suo cappottone di cachemire cammello, trasandato – tale e quale al Marlon Brando di Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, un altro riferimento cinematografico – il Don Giovanni di mezza età di Černjakov è un corpo estraneo alla famiglia, ma un modello per il giovane Leporello. Giovanni ha da tempo una relazione con Anna, ma ora è in crisi. La donna però non si arrende e rincorre supplicando l’uomo. L’arrivo del Commendatore complica le cose: nella collutazione muore sbattendo la testa contro un piano della libreria. Un sipario nero cade dall’alto e su questo si proietta la prima di tante didascalie che scandiscono il passare del tempo. Cinque giorni dopo siamo infatti nello stesso ambiente trasformato in camera ardente, con il ritratto del vecchio tra funebri corone di fiori. Anna in lutto si consola con l’alcol, ma è evidente che più che al padre morto pensa all’ex amante, come evidente è la natura del rapporto tra Elvira e Giovanni: una coppia aperta che inscena rituali in cui Elvira fa la parte della moglie che insegue inutilmente il marito con i suoi tradimenti, cinicamente elencati da Leporello, ma già ampiamente conosciuti da Elvira. La festa con cui Zerlina presenta il fidanzato tamarro agli amici è interrotta dall’arrivo di Giovanni e Leporello e qui inizia la farsa della seduzione: Giovanni è infatti il padre di Zerlina ma lei è l’unica a non saperlo ed è lei a provare un’insolita attrazione per lo “zio”. È Elvira che rivela il segreto all’orecchio della ragazza, che da quel momento rimane molto disturbata.

Adulterii, infedeltà, rancori, attrazioni incestuose: il peggio che può dare una famiglia è impietosamente messo in scena con lucida coerenza ed eccezionale abilità drammaturgica. Alla fine tutti si alleano contro Giovanni e inscenano un’ultima finta riunione famigliare utilizzando un attore sosia del Commendatore: Giovanni è ormai al delirio, si attacca alla bottiglia, è in preda di fitte al petto. Non muore, ma viene abbandonato da tutti, Zerlina addirittura gli sputa in faccia.

Così termina il “Don Giovanni di Dmitrij Černjakov con musiche di Mozart”. Un gran pezzo di teatro che dimostra la duttilità della musica e del libretto settecenteschi ad adattarsi alla psicologia di personaggi di oggi. 

Se l’aspetto visivo è l’elemento premiante di questa produzione, anche su quello sonoro si possono spendere parole di lode per la direzione nervosa di Louis Langrée alla testa dei Freiburger Barockorchester con i loro strumenti storicamente informati che si adattano perfettamente all’azione sul palcoscenico, così violenta e chiaroscurata. Bene anche gli interventi corali delle English Voices.

Premessa l’eccellenza attoriale degli interpreti, non tutti brillano per eccellenza vocale. Certo non Bo Skovhus, protagonista poco musicale, dalla linea di canto spezzata e costretto spesso al parlato, ma neanche il Don Ottavio poco consistente di Colin Balzer. Più convincenti il Leporello di Kyle Ketelsen, il Masetto di David Bižić e il Commendatore di Anatoli Kotscherga. Non male il cast femminile con la tesissima Donna Anna di Marlis Petersen, l’intensa Donna Elvira di Kristīne Opolais e la Zerlina di Kerstin Avemo.

Le perplessità del pubblico sono del tutto superate quando lo spettacolo viene ripreso tre anni dopo con la direzione di Mark Minkowski e interpreti nuovi, a parte Leporello e Commendatore. La produzione del 2010 è disponibile in DVD della BelAir.

Don Giovanni

foto © SF/Monika Ritterhaus

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 9 agosto 2024

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

La solitudine del Cavaliere

Il Don Giovanni di CC – non Chanel, ma Currentzis & Castellucci… – tre anni fa era stato lo spettacolo di punta del Festival di Salisburgo che riprendeva dopo la pandemia. Ora viene riproposto con gli stessi artefici, un cast in parte modificato e alcune variazioni nella messa in scena. 

La versione scelta da Teodor Currentzis è quella di Vienna senza il duetto Zerlina-Leporello del secondo atto, ma col finale di Praga. Tra i numeri mozartiani sono inserite altre musiche, particolarmente lunghe quelle che precedono la scena del cimitero. Dopo aver abbassato il diapason a 430 Hz, le scelte dinamiche del direttore greco-russo sono portate all’estremo, con recitativi molto “recitati” e lunghe pause, ma la loro dilatazione ha un corrispettivo con le dilatazioni visuali adottate dal regista. Le arie che seguono i recitativi hanno un attacco repentino e ricche sono le variazioni nelle riprese. Con le improvvisazioni di Maria Shabashova al fortepiano, Currentzis non fa che riattivare una pratica musicale del tempo di Mozart: quella di Currentzis è pura filologia da questo punto di vista – anche se spesso improvvisazioni e variazioni non sono esattamente in stile settecentesco. 

Anche Romeo Castellucci reintroduce nella pratica teatrale di oggi quella del Settecento, ridando senso teatrale a quella che è spesso la pratica museale di molte esecuzioni moderne. Come scrisse a suo tempo Dino Villatico, le sue messe in scena non sono mai un’illustrazione più o meno avvincente del dramma, ma una sorta di discorso parallelo o sotterraneo che commenta il testo rappresentato. Castellucci si prende la libertà di trasportare sulla scena un’interpretazione che riveli lati nascosti o poco indagati del testo. Il regista italiano è a Salisburgo per la seconda volta dopo la sua Salome del 2018 e affronta un lavoro di Mozart per la terza volta dopo Die Zauberflöte (Bruxelles, 2018) e il Requiem (Aix-en-Provence, 2019). Nel Don Giovanni la vicenda è talmente nota che nella sua lettura Castellucci – che cura come sempre tutti gli aspetti della parte visiva: regia, scenografie, costumi e luci – ne rovescia tutti i meccanismi narrativi grazie alla drammaturgia di Piersandra di Matteo. Qui la solitudine del cavaliere è assoluta, la sua serenata è un numero totalmente solipsistico e nel finale completa la sua autodistruzione, disperatamente cercata fino a quel momento, rimanendo solo e nudo, ricoperto di bianco al pari di una statua classica o come i gessi di Pompei in cui si trasformano anche gli altri personaggi. In questa visione del tutto pessimistica del “dramma giocoso” il regista privilegia il primo termine e nel finale «l’antichissima canzon», intonata dal coro in buca invece che dai personaggi in scena, diventa una cantata che conclude con solennità una tragedia. L’aspetto “giocoso” è affidato alle innumerevoli trovate che costellano lo spettacolo: i figli di Donna Elvira che terrorizzano Don Giovanni; la gag comica che segue il «Lasciar le donne» di Leporello; i sempre diversi outfit con cui si presenta Don Ottavio il cui carattere fatuo e svirilizzato viene evidenziato da travestimenti femminilizzanti al limite del ridicolo, ed eccolo quindi ammiraglio, con annesso modellino di nave radiocomandato e ventaglio di piume, Pierrot con barboncino, crociato etc. Nella sua ansia di stupire il regista riesce a stupire il pubblico quando durante “l’aria dello champagne” tutta l’orchestra viene sollevata in alto con effetto entusiasmante.

La scena fissa rappresenta l’interno di una chiesa che all’inizio, nel silenzio, viene completamente spogliata dei suoi arredi: i banchi, le tele, le statue, l’altare. Nel momento in cui il grande crocifisso viene calato dal muro attacca la musica dell’ouverture. Una capra che attraversa il palcoscenico e una donna nuda che si nasconde dietro i pilastri confermano che quello che rimane è uno spazio “sconsacrato”, non c’è dimensione spirituale in questo dramma tutto esistenziale. Nella sua prima apparizione Don Giovanni entra in scena minacciosamente con un martello in mano, ma non per il Commendatore – quello morrà di un attacco cardiaco – , il martello è per sottolineare la figura iconoclasta del Cavaliere. Ben presto scende un velatino e la garza rende le immagini sfocate, oniriche; tutto è in un bianco abbagliante, i particolari sono poco distinguibili, come avvolti in una nebbia. Leporello sarà l’unico a uscire fuori da questo velatino nel finale: libero dal padrone lo può osservare con distacco attraverso questo diaframma. Don Giovanni e Leporello sono uguali nei vestiti e nei movimenti, l’unica differenza essendo la catena che Leporello porta a mo’ di cintura, quella con la quale il padrone tiene “incatenato” il servo. Loro sono in bianco, Donna Elvira osa qualche colore negli abiti, Donna Anna è in nero, una figura tragica che porta con sé la maschera della tragedia, infatti, e incarna una delle furie («Come furia disperata | ti saprò precipitar») che la accompagnano. E sono furie in nero quelle che come le Baccanti fanno a pezzi il corpo del povero Masetto. Il «Vedrai carino» di Zerlina è infatti rivolto ai pezzi di un manichino, non al martoriato corpo dello sposo: la sessualità è deumanizzata e Don Giovanni sogna il «ristoro» che gli può procurare la bella alla finestra accarezzando una scala di alluminio. L’elemento femminile è presente con una folla di 150 cittadine salisburghesi di ogni età, genere e (dis)abilità, che creano una massa intimidatoria, come il coro giudicante della tragedia greca. Sono ancora i loro corpi, coperti di veli neri, a formare il cimitero del secondo atto. 

La messa in scena di Castellucci non è priva di simbolismi e autocitazioni: il pianoforte che cade dall’alto e si sfascia – ma ancora è possibile strimpellarci sopra le note del basso continuo – o la carrozza nera che perde una ruota quando Don Giovanni capisce che il suo gioco di seduzione con Zerlina viene messo in crisi da Donna Elvira, o il catalogo di Leporello che diventa non una ma due fotocopiatrici, la seconda calata dall’alto come il registratore Revox nel suo Moses und Aron. Altre sono più criptiche, come l’immondizia che riempie il palcoscenico nel finale primo con il vecchio barbuto in bikini a fiori.

Nel suo horror vacui per riempire lo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus, Castellucci affastella gag e oggetti in quantità talora eccessiva, ma nel complesso il suo è uno spettacolo altamente intrigante, anche se non col ritmo che ci aspettiamo dalla folle journée di un libertino. La prima parte è decisamente più riuscita della seconda e bellissimo l’ingresso dei giovani sposi Zerlina e Masetto con le infinite mele che rotolano sul palcoscenico e una di queste ritornerà sull’albero della tentazione. 

Currentzis nella sua concertazione si prende le solite libertà, ma mette in luce particolarità della partitura come i suoni quasi materici e sporchi di certi interventi dei fiati, la trasparenza degli archi e dei legni, l’impeto trascinante dei tempi vivaci, il tono sognante di quelli lenti. Il suo Mozart, come aveva dimostrato col Requiem eseguito a marzo a Torino, è sempre sorprendente e spesso illuminante.

Un Don Giovanni seducente ma interiorizzato è quello di Davide Luciano, lo stesso interprete della produzione originale, che dà prova di grande resistenza – è quasi sempre in scena – e sensibilità: il bel timbro caldo si piega a sottigliezze che raramente abbiamo ascoltato e la presenza scenica è sicura ma non strabordante. Tutti nuovi gli altri interpreti maschili, ma se il Commendatore di Dmitrij Ul’ianov è autorevole fisicamente e vocalmente, Kyle Ketelsen, cantante raffinato e intelligente che è stato il Don Giovanni di Barrie Kosky a Vienna nel 2021, qui è un Leporello un po’ sotto tono e vocalmente spesso coperto dall’orchestra. Anche il Masetto di Ruben Drole non brilla per particolari doti vocali col suo timbro spento. Troppo esangue e poco convinto del ruolo assegnatogli dal regista il Don Ottavio di Julian Prégardien, che risolve eccellentemente le difficoltà della sua prima aria, mentre nella seconda è meno convincente. 

Meglio il reparto femminile, dove Nadežda Pavlova, che tre anni fa aveva avuto qualche incertezza di intonazione, qui dimostra invece grande sicurezza nelle agilità vocali e nella impervia tessitura della parte di Donna Anna di cui privilegia comunque l’elemento belcantistico più che quello tragico, ma così trascina il pubblico che la acclama. Ritorna nella parte di Donna Elvira Federica Lombardi e qui sembra un po’ affaticata pur disegnando una Donna Elvira passionale e decisa, pur non sempre vocalmente controllata. Bene la vivace e luminosa Zerlina di Anna el-Khashem.

Alla fine standing ovation del pubblico. Nella città natale di Mozart non si ha il timore di mettere in scena i suoi capolavori interpretandoli e facendoli diventare uno spettacolo di oggi: choccante e da discutere – come sempre dovrebbe essere il teatro. Anche il teatro musicale.

Don Giovanni

foto © Andrea Ranzi

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Bologna, Comunale Nouveau, 26 maggio 2024

★★★★☆

Don Giovanni, burattinaio a spasso nei secoli

Forse è l’opera di Mozart che ha maggiormente stimolato i metteurs en scène più radicali: da quella “destrutturata” di Dmitrij Černjakov a Aix-en-Provence nel 2010 a quella ancora più recente di Romeo Castellucci a Salisburgo nel 2021, zeppa di simboli non sempre agevolmente decifrabili. 

Risulta quasi una sfida controcorrente quindi quella di mettere in scena in costumi settecenteschi il Don Giovanni da parte di Alessandro Talevi, che a Bologna l’anno scorso aveva ambientato Le nozze di Figaro in epoca moderna e che completerà qui la trilogia dapontiana con il Così fan tutte. Ma la sorpresa non è finita lì: quando, dopo le prime scene, entrano altri personaggi i costumi sono ottocenteschi e dopo ancora moderni!

«Se in quel primo capitolo della trilogia ho voluto dun­que svelare l’eternità delle passioni destinate a non tramontare nel tempo, in Don Giovanni ho deciso di sviluppare ancora di più questo concetto», dice il regista, «tenendo sempre presente che Don Giovanni è un archetipo e di conseguenza si può permettere il lusso di sedurre donne in qualsiasi secolo, attraversando il tempo e lo spazio». Ecco allora un portale passando attraverso il quale il seduttore può andare a spasso nel tempo per sedurre le sue belle. Se Donna Anna e Don Ottavio sono in severi abiti XIX secolo, Zerlina e Masetto vestono abiti cafonal contemporanei mentre lui, Don Giovanni, l’abito lo cambia a seconda dell’epoca. Il massimo si ha durante la festa in casa sua dove alla cacofonia delle tre orchestre in scena si aggiunge quella dei costumi (ideati da Stefania Scaraggi) e delle danze (coreografate da Danilo Rubeca): dietro la coppia in primo piano impegnata in un impeccabile minuetto un’altra coppia si muove sui passi di un tango e a destra gli altri invitati si dimenano in movenze rock. Nella cena finale le vittime di Don Giovanni, che abbiamo visto nei video di Marco Grassivaro dominarne la mente, entreranno dalle finestre, ognuna col suo costume, per condurre il dissoluto “non punito” là dove «c’è un mal peggior».

Ma una seconda forte idea domina la lettura di Talevi di questo “dramma giocoso”. Le relazioni personali in questa vicenda passano tutte solo e soltanto attraverso la figura del Cavaliere, è lui il mediatore unico con cui i vari personaggi si relazionano: Don Giovanni e il Commendatore; Don Giovanni e la coppia Donna Anna/Don Ottavio; Don Giovanni e Donna Elvira; Don Giovanni e la coppia Zerlina/Masetto; Don Giovanni e Leporello. Tra gli altri personaggi non ci sono rapporti particolari, certo a causa delle differenze sociali – di qua i nobili, di là i popolani – ma anche tra i nobili: Donna Anna e Don Ottavio vedono Donna Elvira non come una di loro, ma come una un po’ svitata arrivata dalla lontana Burgos. Insomma, Don Giovanni è il motore e la ragione d’essere degli altri personaggi che gravitano attorno a lui, è un burattinaio che muove e determina le azioni degli altri.

Ecco allora che il “portale del tempo” nel secondo atto si rimpicciolisce per diventare un teatro dei burattini in cui si affacciano in dimensioni ridotte gli altri personaggi. Un’idea non inedita – presente ad esempio nelle produzioni di Robert Carsen a Milano e di Chiara Muti a Torino – ma qui intelligentemente riproposta ed efficacemente realizzata, pur nelle limitazioni logistiche della succursale del Teatro Comunale chiuso per restauri e temporaneamente trasferito nella sala Comunale Nouveau della Fiera, una sala onestamente più adatta alle proiezioni cinematografiche. Un palcoscenico ridotto al minimo delle funzioni ha dettato le esigenze scenografiche che unitamente ai limiti di budget hanno costretto a utilizzare l’impianto scenico de Le nozze dello scorso anno, ossia un insieme di facciate montate su carrelli che formano i vari ambienti richiesti dalla vicenda, come l’esterno su cui si volge il duello col Commendatore o il cimitero dove da un loculo appare il viso dello stesso, defunto. Il tutto abilmente illuminato dalle luci di Teresa Nagel. La regia di Talevi è piena di piccoli sapidi particolari e gesti, sempre correlati alla musica però, con un gusto del teatro e una maestria nell’indirizzare verso una felice interpretazione attoriale e vivace presenza scenica i giovani interpreti che formano un cast omogeneo e di ottimo livello. 

Nella parte del protagonista scende in campo il basso argentino Nahuel di Pierro che dopo aver vestito i panni di Leporello ad Aix-en-Provence nel 2017 ora indossa quelli del padrone. Voce di bella proiezione e ricca di armonici, il suo è un Don Giovanni elegante e nobile, dal carattere un po’ cinico ma senza eccessi. Corretto, insomma, ma non memorabile. Timbro molto simile è quello di Davide Giangregorio, il Masetto della produzione di Livermore a Macerata, qui un Leporello di vivace presenza scenica e grande personalità. Per l’indisposizione di Ol’ga Peretjat’ko è subentrata con breve preavviso la Donna Anna del secondo cast, Valentina Varriale, che ha totalmente conquistato il pubblico con la sua sensibile interpretazione in una parte difficile che passa dai toni drammatici della prima scena al racconto ansimante «Era già alquanto | avanzata la notte» alle agilità della sua ultima aria solistica in risposta alle pressanti richieste dell’impaziente fidanzato, qui un René Barbera in stato di grazia che ha portato in scena uno dei migliori Don Ottavio per eleganza di stile e linea vocale. Molto brava anche Karen Gardeazabal, la Donna Anna di Macerata, tecnica impeccabile e bel fraseggio, ma forse un po’ più di temperamento nella sua Donna Elvira non avrebbe guastato. Efficace è la coppia dei giovani sposi, Zerlina una spumeggiante Eleonora Bellocci, Masetto un sanguigno Nicolò Donini. Il possente e autorevole Commendatore di Abramo Rosolen qualche brivido fra gli spettatori l’ha fatto scorrere.

Dalla stessa produzione de Le nozze di Figaro dell’anno scorso arriva Martijn Dendievel, giovane direttore belga che rifugge dai toni estremi e della partitura dà una lettura fedele, precisa e analitica, ma senza grandi trasporti e con tempi talora fin troppo dilatati – all’ultimo Muti, per intendersi – che trasformano l’Allegretto della serenata di Don Giovanni «Deh vieni alla finestra» in un estenuato Adagio. Qualche guizzo e qualche libertà in più, nelle riprese soprattutto, sarebbero stati graditi. 

Successo cordiale per tutti i fautori dello spettacolo con più insistenti applausi per il Don Ottavio di René Barbera e la Donna Anna di Valentina Varriale che nonostante l’avesse già cantata la sera prima non si è tirata indietro e ha generosamente salvato la recita.

Le nozze di Figaro

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

Vienna, Staatsoper, 17 marzo 2023

★★★★☆

(diretta streaming)

La folle journée di Barrie Kosky

Dopo il suo poco convincente Don Giovanni, Barrie Kosky ritorna al secondo capitolo della trilogia dapontiana alla Staatsoper viennese e il risultato è decisamente migliore: il carattere di situation comedy della pièce di Beaumarchais è più nelle corde del regista australiano del sulfureo «dramma giocoso» e qui infatti va esattamente a segno.

Questo è il terzo allestimento de Le nozze di Figaro da parte del regista e anche questa volta il titolo si conferma come  una perfetta opera buffa, una commedia umana di sublime fattura. Nella sua lettura non racconta un conflitto pre-rivoluzionario, la politica lascia il posto all’analisi di una rete di relazioni in cui è piuttosto il potere dell’erotismo a sconvolgere le gerarchie: la violenza domestica, le costrizioni e l’oppressione, la solitudine e l’abbandono, non sono estranei ai personaggi della casa del conte Almaviva. In abiti moderni (i favolosi anni ’70 ridisegnati da Victoria Behr), Kosky capisce che però il Settecento non può mancare: con i suoi boudoir, le alcove, i gabinetti, le stanze delle cameriere, i seggioloni, le tables habillées, le finestre che danno sul giardino, i padiglioni, la casa del Conte d’Almaviva se non un altro personaggio è comunque una presenza essenziale. La parete in boiserie in cui si inseriscono le porte che separano gli appartamenti dei nobili padroni dalle camere della servitù nel primo atto; la camera da letto della Contessa del secondo, insieme elegante e intima; il salone di ricevimento affrescato del terzo: tutto è impeccabilmente ricostruito dallo scenografo Rufus Didwiszus. Il giardino notturno del quarto atto è risolto invece à la Kosky: un doppio pavimento inclinato in cui si aprono botole da cui escono ed entrano i personaggi nel loro gioco a nascondino. Qui non contano più le differenze sociali: l’ambientazione astratta, con le piante dipinte sulla superficie in pendio, e la sua simbologia – le botole sono le insidie del gioco amoroso? – prende il posto del realismo della dimora rococò.

Il tutto fa da contenitore al mirabile gioco attoriale di interpreti giovani e spigliati. Nell’estetica del regista la presenza scenica è quasi più importante del saper cantare bene, il suo è vero teatro, non un concerto in costume. Fortunatamente qui le doti sceniche si accompagnano a buone doti canore, seppure in alcuni casi non pienamente mature. Il Conte ha un’indole impulsiva con tratti distruttivi e André Schuen dà a questo fratellino di Don Giovanni un carattere minacciosamente virile, un marchio di fuoco cattivo, ma è anche un ammaliatore con corde vocali avvolte in un velluto scuro che nella sua scena del terzo atto con recitativo e aria «Vedrò mentr’io sospiro» strappa gli applausi convinti del pubblico per l’aderenza al personaggio e l’autorità vocale. La Contessa di Hanna-Elisabeth Müller ha toni sontuosi e commoventi nella sua meravigliosa aria «Dove sono i bei momenti». Vivace come ci si aspetta è il Figaro di Peter Kellner e giustamente gender fluid il Cherubino di Patricia Nolz, presenza fisica e voce sexy. Il debutto nella parte di Susanna di Ying Fang è stato sfortunato: per un’infiammazione delle corde vocali ha mimato in scena ed è stata doppiata molto abilmente nell’intricato gioco di intrecci dei suoi interventi da Maria Nazarova nella buca orchestrale. A parte l’efficace Dottor Bartolo di Stefan Cerny e il comico Don Curzio di Andrea Giovannini alle prese con il suo spray per l’asma, il Don Basilio di Josh Lovell è troppo giovane e affetto da una pessima dizione e la Marcellina di Stephanie Houtzeel a tratti afona. Il direttore musicale Philippe Jordan sul podio dei Wiener Philharmoniker accompagna lui stesso i recitativi al fortepiano e modella i cambi di tempo e le dinamiche in modo ideale, dove tutto è trasparente e con i due finali pieni di colore e vivaci interventi strumentali.

I conclusione non si è trattato di una produzione memorabile, ma un esercizio di alto livello da parte di un metteur en scène che ha confermato anch ein questa occasione il suo straordinario senso del teatro.

Don Giovanni

Foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Torino, Teatro Regio, 24 novembre 2022

Sei marionette in cerca d’autore

Il teatro musicale di Mozart, e il Don Giovanni in particolare, vivono di un intrigante equilibrio tra apollineo e dionisiaco. Secondo la terminologia introdotta da Nietzsche a proposito della tragedia greca, lo spirito apollineo è ordine e armonia delle forme, la componente razionale; quello dionisiaco ebbrezza ed esaltazione, la componente irrazionale. Il personaggio del libertino Don Giovanni è la massima sintesi della forza vitale e dell’istinto al piacere costretti nelle maglie delle convenzioni della società, che così si salva però dall’autodistruzione.

Non c’è nulla di più adatto della musica per esprimere questa dicotomia e la musica del Don Giovanni, pur nella sua veste settecentesca, lascia trapelare momenti di inquietudine e baluginii infernali sotto la spinta di un affanno ritmico incessante e vitalistico. Di questo non c’è molto nella concertazione di Riccardo Muti, che per il secondo anno consecutivo torna al Regio di Torino per il Mozart dapontiano dopo il Così fan tutte del febbraio 2021. L’equilibrio qui pende verso lo spirito apollineo: i tempi sono dilatati, la tensione è attenuata, anche le dissonanze sembrano risolversi. La scelta interpretativa del Maestro è una distaccata contemplazione della vita e della morte e si deve cercare nelle ombre della sua lettura, rifinita come un marmo canoviano, i guizzi dell’iconoclastica figura di Don Giovanni. L’atmosfera non lascia posto alle pulsioni demoniache, il suono è sempre leggero, il lavoro dell’orchestra è perfettamente cesellato, i contrasti sono attenuati, il fraseggio morbido. Il vitalismo del personaggio eponimo si è perso un po’ per strada a favore di una visione meditata e profonda, più filosofica. Per contro i recitativi sono molto espressivi, addirittura fin troppo recitati, come anche l’impianto interpretativo e registico di Chiara Muti, la quale sembra voler ricreare, fuori tempo però, uno spettacolo strehleriano con molte idee, forse troppe anche loro.

Quella di base, non originalissima perché già presente in altre produzioni come ad esempio di Carsen, è l’idea che Don Giovanni sia il motore e la ragione d’essere degli altri personaggi che gravitano attorno a lui come pianeti attorno a una stella e che senza di lui non esistono. Qui l’assunto è ancora più forte: i sei personaggi – tre donne (due nobili e una del popolo: Donna Anna, Donna Elvira, Zerlina) e tre uomini (un nobile e due del popolo: Don Ottavio, Leporello, Masetto) – vivono di esclusivo riflesso del donnaiolo: si presentano con movenze da marionetta e solo dopo aver indossato i costumi che calano dall’alto assumono la loro umanità. Nel finale rimarranno nudi e come automi senza vita. Il cimitero del secondo atto è un deposito di burattini e tra questi c’è anche quello del Commendatore la cui testa si inclina, per rispondere all’invito a cena di Don Giovanni, perché manovrata da un filo.

Figura di empio nel Seicento, libertino settecentesco, inquieto romantico ottocentesco, moderno alfiere della libertà, Don Giovanni è un personaggio buono per tutti i tempi. Così anche i bei costumi di Tommaso Lagattolla: Donna Anna è abbigliata come una dama alla corte di Luigi XIV; Elvira una nobile della Belle Époque; Zerlina una giovane degli anni 1950 e durante l’aria del catalogo di Leporello le donne elencate appaiono in carne e ossa, «ombre del rimorso di Don Giovanni, o meglio quello che vanno cercando invano torturandosi senza pace», scrive nelle sue note di regia la figlia del Maestro, in costumi di tutte le possibili epoche, «a testimonianza della demoniaca longevità del loro carnefice».

Il tono dell’allestimento è tra l’onirico e il funereo e nella scenografia di Alessandro Camera teli dipinti di facciate architettoniche e di quinte teatrali sghembe formano un mondo in bianco e nero in rovina, percorso da crepe e botole che sembrano tombe. Si direbbe che la scena rappresenti sempre un cimitero, eccetto quando lo deve rappresentare davvero e allora, ruotando, il pendio mostra il triste deposito di burattini. I personaggi sono molto connotati individualmente: gelida è Donna Anna, al limite dell’isterico Donna Elvira, vispa e sensuale Zerlina, realistico e terreno Leporello, nobile e tutt’altro che fatuo Don Ottavio, fresco e sanguigno Masetto. Più complesso e sfuggente  il personaggio del Commendatore, quasi alter-ego di Don Giovanni, o meglio la sua parte “buona” che il libertino vuole far tacere. Il padre di Donna Anna è dunque quasi immateriale: non lascia il suo corpo riverso alla fine della scena prima, ma solo il mantello e nel finale è un’ombra, la sua voce arriva fuori scena, con il cantante nella buca dell’orchestra.

La produzione è stata funestata da impreviste indisposizioni degli interpreti e la sera del 24 novembre il Don Giovanni titolare, Luca Micheletti, è stato sostituito all’ultimissimo momento da Vito Priante che, conoscendo la parte, ha potuto venire in aiuto e ha fatto miracoli nell’adattarsi velocemente al non sempre immediato impianto registico. Sulla resa vocale, per quel che è lecito dire in un caso come questo, il baritono partenopeo ha confermato la sua innegabile professionalità. Ma il rischio che lo spettacolo saltasse è stato alto quando anche l’interprete di Don Ottavio si è ammalato, ma dobbiamo ringraziare la generosità di Giovanni Sala nel non essersi tirato indietro e di essere andato in scena in condizioni precarie pur di salvare la serata e gliene siamo molto grati. La sua performance è stata molto comprensibilmente sotto tono ma nel complesso accettabile. Chi ha avuto la fortuna di ascoltarlo in piena forma ne ha ammirato le qualità vocali e interpretative.

Jacquelyn Wagner ha delineato una nobile e algida Donna Anna dalla pura linea vocale. Non del tutto in parte è sembrata Mariangela Sicilia come Donna Elvira in un registro non del tutto adatto alla sua vocalità. Molto bene il Leporello di Alessandro Luongo e il Masetto di Leon Košavić. La Zerlina di Francesca di Sauro è all’inizio troppo forte, ma si riscatta pienamente nel delizioso «Batti, batti, o bel Masetto» mentre Riccardo Zanellato presta al Commendatore una voce insolitamente chiara nel registro grave. La versione scelta è, come sempre più spesso accade, quella di Praga con l’aggiunta irrinunciabile delle due stupende arie di Don Ottavio «Dalla sua pace» e di Donna Elvira «Mi tradì quell’alma ingrata» di Vienna.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo coerente in tutti i suoi aspetti, insolito in certi elementi, ma di certo non trascinante: l’esecuzione ideale per chi volesse studiare quest’opera senza lasciarsi distrarre da letture più coinvolgenti. Il pubblico, numerosissimo, ha decretato il trionfo di questa produzione ­– tutte le sei recite sono sold out – con applausi calorosi ed ovazioni per il Maestro Muti.

bozzetto della scenografia di Andrea Camera

Così fan tutte

Wolfgang Amadeus Mozart, Così fan tutte

Venezia, Teatro la Fenice, 16 febbraio 2012

★★★★★

(registrazione video)

Cinismo e sensualità

Sarà l’ambientazione napoletana a dare al Così fan tutte questo gusto per metà sensuale e per metà cinico? La presenza di questi due elementi ha fatto sì che il Romanticismo l’abbia rifiutata e la terza opera di Mozart su libretto di Da Ponte è rimasta lontana dalle scene per quasi tutto l’Ottocento e, quando messa in scena, con un testo diverso! «Equivoci critici di portata devastante» li definisce il Giudici. Altrove se ne è parlato abbondantemente.

Riscoperta abbastanza tardi ma totalmente “riabilitata” dal Dent (Mozart’s Operas, 1913), questa ambigua opera sfida con la sua modernità anche la nostra contemporaneità. E Damiano Michieletto non si fa scappare questa occasione con la sua produzione veneziana che completa in bellezza la sua trilogia mozartiana dopo il Don Giovanni del 2010 e Le nozze di Figaro del 2011. Una lettura molto amara che culmina in un finale straziante con quattro vite distrutte: il gioco è stato fin troppo crudele. Nessuno ne è rimasto indenne.

Siamo nella hall di un moderno hotel, luogo del viaggio e delle occasioni di scambio. Davanti al bancone del concierge Ferrando e Guglielmo scommettono sulla fedeltà delle rispettive fidanzate con un Don Alfonso laido che ci proverà con tutte. Mentre Dorabella fa il check-in, Fiordiligi sfoglia “Men’s Health” estasiandosi per i bicipiti e gli addominali dei modelli fotografati sulle pagine patinate della rivista: non è esattamente la miniatura del fidanzato… La scena degli addii si svolge al bar dell’hotel: i due giovani appaiono vestiti nelle eleganti divise bianche della marina e “partono” con valigie piene di carta di giornale. Ci spostiamo poi nella stanza delle due ragazze, dove Despina annusa i costosi profumi delle due clienti invece del cioccolatte. I nuovi pretendenti “turchi o valacchi” hanno sì i mustacchi, ma qui sono due figli dei fiori un po’ trucidi che hanno bisogno delle parole scritte da Don Alfonso per far colpo sulle due ragazze.

L’attentissima drammaturgia di Michieletto esalta la teatralità del lavoro e asseconda le qualità attoriali degli interpreti con una perfetta direzione attoriale. Irresistibili sono i terzetti delle ragazze con la cameriera, o quelli maschili. L’impianto scenico è realistico e perfettamente funzionale: la struttura rotante dilagherà poi in molte produzioni, ma qui è ancora del tutto giustificata e dà fluidità all’azione cambiando l’atmosfera dei tre ambienti disegnati con grande gusto da Paolo Fantin e sapientemente illuminati da Fabio Barettin. Gli appropriati costumi di Carla Teti accentuano il tono pacchiano e anni ’70 di quelli dei tre uomini evidenziando ancor più quelli eleganti delle donne, sì anche Despina a un certo punto compare in un outfit nero da sera.

Distribuzione di grande qualità per il reparto femminile: convincente e fresca Josè Maria Lo Monaco, Dorabella, la bruna e «larga di coscienza», timbro piacevole e una certa sensualità di fondo che non guastano per la definizione del personaggio;  ritornando ancora una volta felicemente nella parte della bionda e più ritrosa Fiordiligi, è la figura avvenente di Maria Bengtsson, magnifica voce, stile impeccabile, intonazione e fraseggio ineccepibili, ha il suo momento magico e più intensamente espressivo in «Per pietà, ben mio, perdona», con pianissimi e legati di sogno; spigliatissima la Despina di Caterina Di Tonno, vocalmente pregevole, espressiva e sempre musicale. Meno eccelso il reparto maschile: Guglielmo scenicamente convincente ma vocalmente un po’ stentoreo è quello di Markus Werba mentre Marlin Miller (Ferrando) inizia in maniera un po’ scialba, poi il personaggio prende più corpo e si apprezzano la vocalità elegante e i preziosi passaggi lirici del tenore americano. Modesto invece il Don Alfonso di Andrea Concetti monocorde e di incerta intonazione.

Superba la concertazione di Antonello Manacorda: il suo Mozart è agile ma non lezioso, corposo ma mai pesante. Attento alle voci che accompagna in modo magistrale e ai concertati di cui questo lavoro è particolarmente ricco, il maestro ha fatto sì che nel complesso questa sia la più riuscita delle tre produzioni veneziane.

La scuola de’ gelosi


Antonio Salieri, La scuola de’ gelosi

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 15 maggio 2022

Salieri ha fatto scuola

Senza tema di sbagliare si può dire che, a parte la ristretta cerchia degli eruditi, la figura di Antonio Salieri sia nota al grande pubblico, nel bene e nel male, solo grazie al film Amadeus in cui Shaffer (autore del testo) e Forman (regista) costruiscono un personaggio in gran parte di fantasia ma che ha la convincente presenza dell’attore F. Murray Abraham. Ma prima ancora, a dipingere il compositore di Legnago sotto una luce sinistra era stato Puškin con la sua pièce del 1830 Mozart e Salieri in cui la gelosia di Salieri per il giovane compositore di Salisburgo lo spinge ad avvelenarlo. La realtà storica è un’altra cosa e chissà se c’è stata veramente una rivalità tra i due musicisti, che arrivarono a comporre congiuntamente una cantata nel 1785, Per la ricuperata salute di Ofelia, su testo di Da Ponte, commissionata dal marito della cantante Nancy Storace.

Pochi mesi dopo aver inaugurato il nuovo Teatro alla Scala con Europa riconosciuta, il 28 dicembre 1778 al Teatro San Moisè di Venezia Antonio Salieri presenta la sua quindicesima opera: ambientata in Milano, è La scuola de’ gelosi, dramma giocoso su libretto di Caterino Mazzolà. Il cast è formato da interpreti che ritroveremo nelle future opere di Mozart – Nancy Storace (qui Contessa) sarà la prima Susanna delle Nozze, Francesco Benucci (Blasio) il primo Figaro, Francesco Bassani (Lumaca) il futuro Don Alfonso di Così, Michael O’Kelly (Conte) il primo Don Basilio – o che avevano già fatto parte di opere precedenti – Caterina Cavalieri (Ernestina) era stata Konstanze e Theresia Teyber (Carlotta) Blonde nel Singspiel Die Entführung aus dem Serail.

Quella del 1778 fu la prima di una lunga serie di versioni che hanno reso la vita difficile a chi ha voluto ricostruire l’edizione critica de La scuola de’ gelosi. Già una seconda versione fu messa in scena a Vienna il 22 aprile 1783 e qui la novità fu l’inserimento di alcune arie scritte da Lorenzo Da Ponte, il suo primo contributo all’opera buffa. Il librettista di Mozart scriverà poi per Salieri La scuola degli amanti, che il compositore però non completerà e diventerà il sottotitolo del Così fan tutte mozartiano, mentre nel 1795 scriverà La scuola dei maritati per Vicente Martín y Soler.

Atto I. È notte. Blasio, ricco commerciante, sveglia la cameriera Carlotta e il servitore Lumaca: credendosi tradito dalla moglie Ernestina, intende setacciare la casa alla ricerca di un intruso. I servitori sono esasperati e Carlotta osserva che nessun geloso è mai riuscito a impedire di essere tradito. Blasio vuol mettere Ernestina sotto chiave, perciò manda Lumaca a comperare un lucchetto: insegnerà al mondo come si custodisce una moglie. Ernestina è esacerbata dalla gelosia del marito e quando Carlotta le recapita un biglietto galante, si chiede se non dovrebbe alla fine cedere alle attenzioni di un altro uomo. Blasio, che le ha sorprese a confabulare, si impossessa del biglietto, ma ciò che gli è stato fatto prendere è solo un innocuo ritaglio di giornale. Il Conte, passeggiando nel giardino del suo palazzo, pensa alle donne: ognuna ha un’affascinante particolarità, e lui le desidera tutte. Quando la Contessa gli si avvicina, lamentando la sua indifferenza, la invita a cercare delle distrazioni e gli addita il Tenente, che si sta avvicinando; con il proprio atteggiamento, il Conte mette entrambi in imbarazzo. Il Tenente lo rimprovera: la Contessa meriterebbe il suo amore, ma il Conte non si sente più attratto dalla moglie e in cerca di avventure, tenterà l’impresa più difficile per un seduttore: conquistare la moglie di Blasio, il principe dei gelosi. Il Tenente compiange la Contessa: chi vuole essere amato, non dovrebbe mostrare il proprio amore. Blasio rincasa preoccupato: a seguito di una querela, deve affrontare un processo che sarà presieduto dal Conte. In quel momento si presenta proprio il Conte che rassicura Blasio: farà annullare la causa nei suoi confronti. Quando finalmente riesce a farlo allontanare, spiega a Ernestina di aver inscenato la querela per poterla incontrare. Blasio rientra con una scusa. Il Conte lo provoca, affermando che le mogli dei gelosi sono le prede più facili: non è possibile — riflette — non provare pietà per il dolore di una donna trascurata. Ma Blasio vuole custodire Ernestina proprio perché l’ama: nessuno riuscirà a entrare in casa sua. Partito Blasio, Ernestina si prepara per uscire; può farlo perché Lumaca le ha procurato un’altra chiave per il lucchetto: poiché Blasio la trascura, troverà il modo per farlo disperare. Al Conte, che si rifà vivo, propone di far visita insieme all’Ospedale dei Pazzi, per osservare che fine fanno i gelosi: i due si avviano insieme, ma Blasio rientra inaspettatamente, e dopo di lui si presenta la Contessa, con la scusa di prendere Carlotta, destinata a passare al suo servizio. Quando scopre che Ernestina è uscita in compagnia del Conte, si infuria: sopraffatta dallo sdegno, non sa come comportarsi. Presso il Manicomio degli Amanti Gelosi, Blasio si appresta a spiare Ernestina e il Conte. Sulle tracce del Conte giungono anche la Contessa e Carlotta: travestite da zingare, fingono di leggere la mano al Conte e a Ernestina, e hanno facile gioco a metterli in imbarazzo. Infine Blasio, fuori di sé, esce dal suo nascondiglio: ne segue un generale battibecco.
Atto II. Lumaca si presenta a casa del Conte e chiede a Carlotta se Blasio può essere ricevuto. Lumaca è attratto da Carlotta, ma sa che per averla dovrebbe sposarla; meglio pensarci bene: a giudicare dai padroni, l’amore può rendere infelici… Sopraggiunge Blasio, che si lamenta con il Conte dell’imbarazzante situazione in cui lo ha messo corteggiando Ernestina. Il Conte risponde mostrandogli la propria galleria d’arte, con i ritratti di Vulcano e Giunone, due innamorati gelosi che si sono resi ridicoli. Ne segue un litigio tra il Conte e la Contessa. Il Tenente ha un’idea: la Contessa e Blasio dovrebbero usare la stessa strategia del Conte, e fingere indifferenza per i consorti; si dovrebbe poi far venire Ernestina al palazzo e mostrarle il ritratto di una donna, insinuando che si tratti dell’amante di Blasio. Inizialmente esitante, Blasio mette in opera il piano e in effetti l’interesse di Ernestina si rivolge repentinamente al marito, presunto infedele. Ma quando Ernestina si allontana, Blasio è di nuovo vittima della gelosia. Il Tenente esorta Blasio e la Contessa a perseverare nel piano. Il Conte è perplesso per l’improvvisa indifferenza della moglie; quando Blasio si allontana, il Tenente insinua che abbia un amante e il Conte si preoccupa: solo le mogli dei mariti gelosi cedono facilmente. Il Tenente suggerisce poi alla Contessa di far credere al Conte di avere un amante. Perciò scrive un biglietto galante a lei indirizzato, da far cadere nelle mani del Conte. Quando questi si allontana con Ernestina, la Contessa medita sull’atteggiamento del marito: amareggiata, si augura che torni a desiderarla come un tempo. Presso una casa di campagna, Ernestina è in attesa del Conte, il quale, venuto in possesso del biglietto indirizzato alla Contessa, è adirato col Tenente. Il Conte ha invitato lì Ernestina col pretesto di sorprendere Blasio e la sua amante e Blasio, sempre attanagliato dalla gelosia, li ha seguiti, accompagnato da Lumaca. Nascosto, ascolta la loro conversazione e non riesce a trattenersi dal ripetere, come in un’eco, le loro parole, facendosi così sorprendere. Ma inopinatamente compaiono la Contessa e il Tenente, accompagnati da Carlotta. Travestiti da pastori, decantano le gioie delle scappatelle. Le due coppie di sposi si trovano faccia a faccia e tutti sono convinti di aver ragione di essere gelosi. È a questo punto che il Tenente risolve la situazione, rivelando che le due tresche — la propria con la Contessa e quella di Blasio con la donna del ritratto — sono fittizie. La vicenda si conclude, così, tra reciproche assoluzioni e rinnovate promesse di fedeltà.

L’opera di Salieri è sul solco del teatro settecentesco veneziano in cui venivano sviluppate situazioni comiche sul «lucido disincanto rispetto alla passione amorosa», scrive nel programma di sala Elena Biggi Parodi, massima esperta della musica di Salieri, che continua: «la licenziosità dell’opera barocca veneziana, densa di provocazioni sessuali, indicava al pubblico come gli impulsi erotici di cui ciascuno è preda siano illusori e passeggeri». Un atteggiamento cinico che si ritrova in molti punti del libretto. Ma La scuola de’ gelosi anticipa anche chiaramente la trilogia dapontiana o certo Rossini, con la Contessa che richiama la analoga Contessa delle Nozze, il Conte che è metà Almaviva metà Don Giovanni, Carlotta la Susanna ancora delle Nozze, il Tenente il Don Basilio sia delle Nozze sia de Le barbier de Séville di Beaumarchais. E anche in quest’ultima pièce troviamo sia lo scambio dei bigliettini sia la lezione di musica.

Possiamo verificare tutto ciò con lo spettacolo allestito dal Teatro Regio di Torino e proveniente dalla Kammeroper des Theaters an der Wien, una piccola sala di trecento posti. Previsto per la sede più adatta del Piccolo Regio, l’ex commissaria straordinaria ha voluto invece che fosse messo in scena nella sala principale così che questo gioiellino settecentesco deve vedersela con le inusitate dimensioni del teatro grande e lo scenografo Christof Cremer deve ridurre a circa un terzo della larghezza del palcoscenico il suo minuscolo ambiente. Ambiente genialmente ideato che permette i vari cambi di scena tramite una struttura rotante a puzzle messa in moto da un danzatore la cui presenza non sembra ulteriormente necessaria. L’iperdecorativismo della scena si riflette anche nei costumi di taglio contemporaneo disegnati dallo stesso Cremer mentre la regia di Jean Renshaw gestisce con fluidità l’andirivieni dei personaggi ma non può far molto con la loro psicologia schematizzata, anche se alcuni tocchi arguti insaporiscono la recitazione.

La musica di Salieri è molto ben costruita, con attenzione ai particolari colori degli strumenti e al trattamento delle voci, ma forma una specie di continuum ritmico che a lungo andare genera una certa monotonia, che la direzione corretta ma senza guizzi di Nikolas Nägele non tenta di alleviare. Molto interessanti sono le improvvisazioni al clavicembalo di Jeong Un Kim che qui accompagnano le esibizioni dell’invadente ballerino. E soprattutto resta la bellezza di certi numeri musicali magistralmente costruiti in cui la dicotomia recitativo-aria viene superata per realizzare delle vere e proprie scene complesse e di indubbia efficacia teatrale.

La compagnia di canto si è rivelata eterogenea, con punte di eccellenza per la Contessa di Elisa Verzier dal bel timbro omogeneo in tutti i registri. La sua prima aria «Gelosia, dispetto e sdegno | lacerando il cor mi vanno» arriva solo prima del finale primo, ma è sufficiente per delineare il suo carattere che ritroveremo in quello della Contessa mozartiana. Ancora più significativa l’aria del secondo atto «Ah, già sia de’ miei sospiri | sazio il fato e sazio il ciel», una delle quattro arie scritte da Da Ponte. L’altra interprete femminile degna di nota è Anna Marshania (Carlotta) che canta invece la prima aria in questa edizione: «Gelosia d’amore è figlia, | ma da quella l’odio nasce», che afferma la contraddizione del sentimento amoroso quando degenera in cieca gelosia. Il mezzosoprano austriaco si dimostra cantante e attrice di solida presenza. Adolfo Corrado (Lumaca) è il primo che vediamo in scena e da quel momento la sua simpatica presenza ci accompagnerà nei momenti più buffi della vicenda. «Che figura! … Com’è brutta! … Vado? … Sto? .. Cos’ho da far?»: nelle tenebre della notte scambia il padrone stesso per un intruso in una situazione che il libretto descrive con precisione quasi cinematografica: “Nell’entrare che fa nella porta, dove prima è entrato Blasio, urta con lui, che esce armato: gli ammorza il cerino e sbigottito ritorna indietro tremando in mezzo alla scena. Blasio pure tremante lascia cadersi le pistole di mano”. La grande proiezione della voce fa del basso-baritono un sicuro interprete che affronterà questa estate all’Arena di Verona la parte del Gran Sacerdote di Belo nel Nabucco verdiano. Un’altra voce grave è quella del russo-uzbeco Askàr Lahskin (Blasio) il «biadaiuolo, marito geloso», che si esprime soprattutto in recitativi e in pezzi di insieme, ma che nel secondo atto ha un bellissimo pezzo solistico, «Adagio… allor potrei… | È moglie, io son marito…», anche questa scritta da Da Ponte, una scena più che un’aria vera e propria, in cui il cantante esprime con efficacia l’inettitudine del suo personaggio. Meno efficaci risultano invece il Conte di Omar Mancini, voce chiara ma di poco spessore e interpretazione poco focalizzata, e la Ernestina di Carolina Lippo, voce esile e dalle agilità poco sostenute. Strana figura quella del Tenente «uomo di spirito» che Joan Folqué risolve con uno svagato tono lirico ironico e appropriato al personaggio che ha un momento importante nel primo atto, «Ah non siate ognor sì facili | donne belle a dare il cor», un’altra delle arie di Da Ponte.

Questa del Teatro Regio è una proposta molto interessante che ha divertito il pubblico torinese facendogli conoscere uno dei compositori di maggior successo del Settecento.

Don Giovanni

 

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

★★★☆☆

Vienne, Staatsoper, 6 décembre 2021

 Qui la versione italiana

(streaming en directe)

Don Giovanni à l’Opéra de Vienne : Ombres et lumières dans le Mozart de Kosky

La vidéo s’attarde sur les rangées de sièges et les loges désespérément vides de la Staatsoper Vienne où Don Giovanni est joué sans public à la suite d’une épidémie de Covid-19 en Autriche. Pourtant, il y a quelques mois à peine, les salles se remplissaient à nouveau d’un public masqué à l’intérieur, sans masque à l’extérieur…

Autre motif de déception, la scénographie qui nous est présentée au lever du rideau : Katrin Lea Tag a choisi une pente rocheuse de lave noire qui serait parfaitement adaptée à Die Walküre ou En attendant Godot. L’idée que ce décor, qu’il est difficile de qualifier d’ « agréable », sera unique  pendant toute la durée d’une représentation de trois heures a un effet décourageant. Et il sera unique, en effet, avec juste quelques petites variations : il deviendra le pré de Z la Fourmi pour la fête du chevalier…

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