Michel Carré

Faust

Charles Gounod, Faust

Opéra, Lille, 15 maggio 2025

★★★★☆

(video streaming)

Il Faust che non ti aspetti: Il diavolo da opéra-comique

Nel Faust andato in scena al Théâtre Lyrique di Parigi nel marzo 1859 – e non già nel polpettone di gran lusso che siamo abituati a riconoscere come quintessenza del grand opéra francese, con cori da stadio e marce trionfali, con balletti per frotte di ballerine e scene finali degne di un kolossal hollywoodiano – nel Faust primigenio dunque, Méphistophélès non possedeva né il celebre brindisi del “Veau d’or” (quel pezzo irresistibile che pare scritto per far saltare dalle poltrone anche il più compassato dei melomani provinciali), né il sabba forsennato della Notte di Valpurga, con le sue orchestrazioni sulfuree che ancora oggi fanno l’occhiolino al cinema espressionista. Nulla di tutto ciò. Il diavolo, poverino, partiva svantaggiato.

L’opera, amatissima da un secolo e mezzo, nasceva infatti sotto un segno ben diverso: quello più leggero, più maliziosamente quotidiano dell’opéra-comique, con dialoghi parlati e ariette disseminate con garbo, quasi da salotto borghese. Un’altra creatura, insomma, quasi una sorella minore, smarrita nei corridoi della storia musicale e presto sepolta sotto le edizioni successive, gonfiate di ogni possibile orpello per conquistare i grandi teatri internazionali.

Si era a lungo creduto che il Faust fosse un monolite: il Faust e basta. Ma la realtà, come sempre, è più intrigante: gestazione lunga, travagliata, con revisioni continue, aggiustamenti per compiacere questo o quell’interprete, adattamenti per il gusto del pubblico. Un patchwork che oggi chiamiamo tradizione. E invece la prima versione, dimenticata e polverosa, è stata riesumata grazie alla pazienza certosina del Palazzetto Bru Zane, instancabile officina di riscoperte ottocentesche. Nel 2018, bicentenario di Gounod, si è potuto ascoltare il Faust originario nell’edizione critica di Paul Prévost per Bärenreiter in un’edizione discografica: un lavoro filologico, certo, ma con l’ambizione di restituire vita, non solo archeologia. Ora la ripresa dell’Opéra de Lille, in coproduzione con l’Opéra-Comique e Bru Zane, fornisce la prova concreta, con tanto di pubblico in carne e ossa.

E qui iniziano i colpi di scena: mancano i numeri che tutti conoscono! Sparita l’aria di Valentin «Avant de quitter ces lieux», scritta solo nel 1864 per coccolare il baritono inglese Charles Santley. Assente il coro dei soldati al ritorno dalla battaglia, che in seguito avrebbe fornito quella pennellata patriottica e virile tanto cara ai direttori con bacchetta marziale, spostata dopo la morte di Valentin la scena in chiesa. In compenso, dialoghi a profusione, che approfondiscono Wagner e la corpulenta Dame Marthe, tutrice di Marguerite, resa più tridimensionale, più amara. E poi pezzi “nuovi”: un terzetto d’apertura con Faust, Siebel e Wagner e un duetto fraterno fra Valentin e Marguerite, tenero saluto prima della guerra. Scene domestiche, intime, piccole, che spostano il peso dall’epica al quotidiano.

Langrée, il direttore, non si è limitato a eseguire la partitura filologica come da manuale: ha inserito sostituzioni, varianti, riscoperte. Fuori la “Chanson du scarabée”, dentro la “Chanson du nombre treize”, rimasta incompiuta ma citata in seguito nel coro delle streghe. E, sorpresa delle sorprese, dopo l’ineffabile «Salut, demeure chaste et pure», Faust finalmente canta una cabaletta dimenticata: «Et toi, malheureux Faust… C’est l’enfer qui t’envoie», cassata ai tempi perché il tenore l’aveva rifiutata. Pagina rispuntata in un mercatino delle pulci e pubblicata nel 2020: la filologia che diventa feuilleton.

La regia di Denis Podalydès è sobria, intelligente, essenziale, niente colossi scenografici. Éric Ruf costruisce una piattaforma girevole, nuda, con pochi elementi maneggiati da due servitori in bombetta, usciti da una cave di esistenzialisti della Parigi 1950 o da un quadro di Magritte. Una corona di lampadine cala o si inclina, un simbolismo minimo, ma efficace. I costumi di Christian Lacroix – l’haute couture che flirta con il Secondo Impero – riportano l’azione all’epoca della composizione, senza leziosità da cartolina e con efficacia: nella notte di Walpurga le streghe si liberano dei loro cenci neri dando vita a un’orgia di colori nel palazzo delle regine del passato.

E poi la danza: Julie Dariosecq ed Elsa Tagawa trasformano il valzer del primo atto in un cabaret di Montmartre, mentre la Notte di Valpurga sembra un’incisione di Toulouse-Lautrec, con gambe in aria e colori da Moulin Rouge. Una lettura che non tradisce il libretto, se non in un dettaglio che però fa discutere: il figlio illegittimo di Marguerite, altro che neonato! È un ragazzino di sette anni in carne ed ossa. Lo vediamo soffocato dall’abbraccio materno ed è lui, non Marguerite, a ricevere alla fine l’aureola di luce.

Sul fronte canoro, ensemble di livello. Julien Dran ha eleganza da vendere oltre che potenza sonora, talora un po’ teso, dimostra però grande sicurezza nella impegnativa cabaletta che segue la nota aria. Vannina Santoni è una Marguerite, commovente, una gioielleria scintillante di trilli, un vibrato ampio ma ben gestito e ottima attrice. Lionel Lhote scolpisce un Valentin rude, quasi violento, lontano dall’eroe cavalleresco delle versioni più tarde. Il soprano Juliette Mey offre un Siebel sensibile e luminoso, Marie Lenormand diverte come Marthe, e Anas Séguin sfrutta l’espansione di Wagner, qui insolitamente rilevante.

E Méphistophélès? Jérôme Boutillier, baritono, non basso: niente abissi tonali, ma un demone ironico, sarcastico, cinico, panciuto e in bombetta, pipa in bocca, ringmaster da circo felliniano. Non le melodie più celebri, ma carisma da vendere. Un diavolo che non spaventa: seduce, sogghigna, ammicca. Langrée dirige il Coro e l’Orchestra dell’Opéra de Lille con vitalità trascinante: legni pungenti, sezioni compatte, equilibrio di colori.

E dunque? Questo Faust originario, riportato in vita, non è un esercizio da filologi in giacca di velluto, ma un’opera viva, teatrale, attualissima. Non più il kolossal spettacolare che ingigantisce cori e marce, ma un tessuto drammatico intimo, nervoso, domestico. Un Faust che parla di rapporti umani, di fragilità borghesi, di piccole tragedie che precedono le grandi catastrofi.

Les pêcheurs de perles

Georges Bizet, Les pêcheurs de perles (I pescatori di perle)

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 16 settembre 2025

★★★☆☆

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Dal grande schermo al palcoscenico: il naufragio lirico di Wenders

Overshadowed by Carmen, Bizet’s Les pêcheurs de perles remains a fragile yet enchanting work, rich in melodic beauty and youthful inspiration. The Maggio Musicale Fiorentino revived Wim Wenders’s cinematic 2017 staging, visually clumsy despite Jérémie Rhorer’s refined conducting. Vocally, Javier Camarena’s luminous Nadir and Lucas Meachem’s intense Zurga triumphed, proving Bizet’s early gift for unforgettable, emotionally charged melody.

Les pêcheurs de perles, opera giovanile di Bizet del 1863, resta un lavoro fragile ma affascinante: melodie ispirate e un lirismo già maturo compensano un libretto ingenuo e una drammaturgia incerta. La produzione del Maggio Fiorentino firmata da Wim Wenders delude sul piano visivo, ma la direzione di Jérémie Rhorer e le voci, soprattutto quella luminosa di Javier Camarena, salvano la serata.

Schiacciata dal peso ingombrante di Carmen, la sorella maggiore che ha monopolizzato la gloria e i cartelloni, l’opera Les pêcheurs de perles di Georges Bizet ha vissuto un destino anomalo: amata e insieme dimenticata, una creatura fragile che, dopo un inizio controverso, è scivolata presto nell’ombra, soprattutto al di fuori della Francia. Eppure, a distanza di oltre un secolo e mezzo, la sua freschezza melodica e l’incanto delle sue atmosfere rivelano il segno di un talento precoce, quello di un compositore che a ventiquattro anni aveva già la capacità di scolpire emozioni musicali indelebili, anche se non ancora la mano drammaturgica che avrebbe reso immortale la sua ultima opera.

Nel 1863 Bizet aveva ventiquattro anni quando mise in musica la vicenda di due amici, Nadir e Zurga, innamorati della stessa donna, Leïla, sacerdotessa consacrata al voto di castità. Un intreccio fragile, retto su un libretto ingenuo e in parte artificioso, ma illuminato da lampi melodici straordinari. Se l’architettura drammatica appare incerta, la musica ha la grazia di un canto che non teme il tempo: l’aria di Nadir «Je crois entendre encore», con il suo legato sospeso e quasi diafano, resta una delle più difficili e affascinanti pagine per tenore; la romanza di Leïla «Comme autrefois dans la nuit sombre» vibra di malinconia e nostalgia; il monologo di Zurga nel terzo atto rivela una sorprendente introspezione psicologica. E poi, naturalmente, c’è il duetto «Au fond du temple saint», vero cuore emotivo dell’opera, con quel “thème de la déesse” che ritorna come un’ossessione: non un Leitmotiv wagneriano, ma piuttosto un’“idée fixe” berlioziana, una melodia che si imprime nella memoria e struttura la drammaturgia musicale. È grazie a questo che Les pêcheurs de perles, pur con le sue fragilità, continua a conquistare il pubblico.

L’ambientazione di questa vicenda doveva inizialmente essere il Messico, ma i librettisti la spostarono senza troppi scrupoli a Ceylon, l’attuale Sri Lanka. Bizet, però, non tentò mai di imitare suoni o stili orientali: il suo “esotismo” non è archeologico, ma poetico. È piuttosto un gioco di colori melodici, una musicalità avvolgente che anticipa certe pagine di Puccini per intensità e languore. Il direttore Jérémie Rhorer, nel programma di sala, ha giustamente osservato come in quest’opera giovanile emerga un impulso lirico dominante, che sovrasta la dimensione narrativa. Bizet sembra più interessato a dipingere i sentimenti che a raccontare la trama.

L’ultima tappa di questo percorso interpretativo è la produzione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, la ripresa dello spettacolo presentato nel 2017 alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino. Allora Daniel Barenboim aveva voluto al suo fianco Wim Wenders, il grande regista tedesco, cineasta delle solitudini e dei paesaggi interiori. Per Wenders l’opera era stata una sorta di destino: nel 1978, a San Francisco, in un bar frequentato da artisti in crisi, aveva ascoltato dal jukebox proprio l’aria di Nadir, e ne era rimasto folgorato. Quando Barenboim gli propose di collaborare, il regista non ebbe dubbi: il titolo giusto era Les pêcheurs de perles. La storia, in fondo, sembrava parlare la lingua del suo cinema: due uomini uniti e divisi dall’amore per una donna, un’amicizia lacerata, un paesaggio ai confini del mondo. Tuttavia, il passaggio dal set cinematografico al palcoscenico non si rivelò così naturale. Wenders aveva già sfiorato l’opera in passato: nel 2013 avrebbe dovuto firmare un Ring per Bayreuth, ma il progetto naufragò per ragioni finanziarie. Con Bizet, dunque, si trattava della sua prima e, al momento, unica esperienza. E i risultati non sono stati memorabili.

Il regista ha cercato di “modernizzare” il racconto, liberandolo dalle ingenuità del libretto. Ma, paradossalmente, è caduto in un altro tipo di ingenuità: quella di voler tradurre il linguaggio operistico in immagini cinematografiche. Lo spettacolo fiorentino si apre come un film, con i titoli di testa proiettati su un velino semitrasparente. Si vedono gigantesche onde digitali, lune tropicali dietro le chiome delle palme, primi piani dei protagonisti in un flash back. Tutto ciò che il libretto dice viene illustrato in video, con un didascalismo che impoverisce la suggestione. Dove l’opera evoca, il cinema mostra: e in questo cortocircuito l’incanto si spegne. Un certo tono amatoriale si ritrova poi nei gesti stereotipati dei protagonisti e nel trattamento della massa corale.

Il palcoscenico resta sempre vuoto, un piano inclinato a suggerire astrattamente una spiaggia.  L’immaginario visivo di Wenders, fatto di inquadrature pittoriche e spazi sospesi, qui non trova traduzione. I colori strumentali luminosi qui non si ritrovano nella scena sempre buia, in quella della notte con il cielo stellato realizzato in maniera imbarazzante con fili di lucine, con lo scoglio su cui prega Leïla una specie di scala che appena si intravvede nel buio o nella scena del supplizio con i soliti fumi. Brutti e inverosimili i costumi di Montserrat Casanova che per non concedere nulla all’esotismo puntano sul monocromatismo di pesanti palandrane le meno adatte a un’isola tropicale. Anche le parrucche non giovano alla definizione dei personaggi, con Camarena che sposta in continuazione le chiome nere che gli ricadono sul viso.

Se la regia non convince, la parte musicale salva la serata. Sul podio Jérémie Rhorer offre una lettura equilibrata, attenta ai colori e alle dinamiche, capace di dare respiro tanto ai momenti lirici quanto a quelli drammatici. L’orchestra del Maggio risponde con precisione e brillantezza, confermando la sua versatilità. Tra i cantanti spicca Javier Camarena, Nadir dalla voce luminosa, capace di superare le impervie tessiture e di affrontare anche i passaggi in falsetto con eleganza e controllo. Il pubblico gli ha tributato applausi calorosi, conquistato dalla raffinatezza della sua emissione. Accanto a lui, Lucas Meachem disegna uno Zurga di rara intensità: potente, tormentato, attraversato da passioni contrastanti – amicizia, gelosia, amore, vendetta – che l’interprete rende con magnetica espressività e stupefacente proiezione vocale. Il soprano armeno Hasmik Torosyan dà vita a una Leïla delicata e sensibile, nonostante un timbro un po’ metallico che toglie morbidezza alla linea vocale. Solido anche il basso Huigang Liu come Nourabad. Il coro, pur preciso e ben preparato, non ha trovato in Bizet la scrittura più efficace. È forse questo il settore in cui il giovane compositore, pur figlio del Grand-Opéra, mostra la maggiore inesperienza: cori spesso statici, poco differenziati, che non hanno la forza teatrale di un Meyerbeer o di un Verdi.

Alla fine, la serata fiorentina ha confermato una verità: Les pêcheurs de perles non è un capolavoro perfetto, ma è un’opera che merita di essere riscoperta. Ha la grazia dell’inesperienza, la freschezza di un talento che ancora cerca la sua via, ma che già possiede un dono raro: la melodia che resta nella memoria, che commuove e accende l’immaginazione. Bizet morirà a soli 37 anni, e Carmen resterà la sua eredità definitiva, ma senza i Pêcheurs non ci sarebbe stata la stessa Carmen: è qui che il giovane Georges ha imparato a trasformare l’aria e il duetto in ritratti psicologici, a dare voce ai turbamenti dell’anima.

L’esperimento di Wenders, pur deludente, ha comunque avuto il merito di riportare quest’opera sotto i riflettori. Anche quando il teatro non trova una regia memorabile, la musica di Bizet ha la forza di superare le difficoltà. Il pubblico fiorentino, che ha riempito la sala del Maggio, lo ha dimostrato con applausi generosi e convinti.

Hamlet

foto © Daniele Ratti e Mattia Gaido

Ambroise Thomas, Hamlet

Torino, Teatro Regio, 13 maggio 2025

★★★★☆

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Amleto tenore. E che tenore!


Hamlet di Ambroise Thomas torna al Regio nella versione originale per tenore, con John Osborn intenso protagonista. Direzione elegante di Jérémie Rhorer, che valorizza la trasparenza e la ricchezza timbrica dell’orchestrazione. Splendide Clémentine Margaine e Sara Blanch. Regia di Jacopo Spirei, visionaria e coerente. Successo travolgente per uno degli spettacoli migliori della stagione.

Il maggior interesse per questo Hamlet, a parte la rarità di esecuzione, per lo meno qui in Italia, sta nel fatto che il personaggio del titolo non è un baritono, come si è sempre ascoltato, bensì un tenore. 

Infatti, la sera del 9 marzo 1868 all’Opéra Le Peletier, Hamlet fu il baritono Jean-Baptiste Faure, ma il compositore Ambroise Thomas aveva concepito il ruolo del protagonista per tenore, come dimostra la partitura originale scoperta recentemente, ma poi non avendo trovato un tenore che fosse all’altezza di quanto richiedeva, aveva preferito adattare la parte per uno dei più rinomati baritoni dell’epoca e da allora si sono succedute voci gravi per intonare «Être ou non être». Dopo i recenti Sir Simon Keenlyside, Stéphane Degout e Ludovic Tézier, a interpretare il triste principe di Danimarca sulle tavole del Regio sale il tenore americano John Osborn, ammirato dal pubblico torinese ne La fille du régiment esattamente due anni fa. Ma oltre alla curiosità del cambio di registro del protagonista, quello che si rivela è uno spettacolo imperdibile per la direzione orchestrale, l’eccellenza dei cantanti e la travolgente messa in scena, un insieme che fa di questo il migliore spettacolo della stagione fino a oggi.

«Il y a deux espèces de musique: la bonne e la mauvaise. Et puis, il y a la musique d’Ambroise Thomas» (Ci sono due tipi di musiche: la buona e la cattiva. E poi c’è quella di Thomas) è la tagliente battuta di un Emmanuel Chabrier geloso della popolarità presso il pubblico borghese della musica facile e melodiosa del rivale, però ci fu anche la sincera ammirazione di un compositore certo non accomodante come Berlioz. D’altronde Thomas collezionò i maggiori riconoscimenti della sua epoca: Prix de Rome nel 1832, Chevalier de la Légion d’honneur nel 1845, elezione all’Académie des Beaux-Arts nel 1851, professore di composizione al Conservatoire de Musique nel 1856 e poi direttore nel 1871 e infine la Grand-Croix nel 1891, in occasione della millesima rappresentazione della Mignon, l’altra sua opera che ha superato il giudizio del tempo, e anche questa come Hamlet di nobili origini letterarie, il Goethe de Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister.

Dopo la trionfale prima del 1868, l’opéra lyrique di Thomas, naturale evoluzione del genere grand-opéra su temi letterari invece che storici o religiosi, conquistò sempre più i palcoscenici dei teatri mondiali grazie al favore accordatagli da voci mitiche. Un relativo abbandono si ebbe a partire dagli anni ’20, ma dagli anni ’80 del secolo scorso – rimarrà celebre la registrazione con Richard Bonynge, Sherill Milnes e Joan Sutherland del 1984 – ne avviene la riscoperta e da allora innumerevoli sono le riproposte. L’ultima volta di Hamlet a Torino fu nel 2001 con un giovane Tézier nel ruolo eponimo e la Ophélie di Annick Massis, la concertazione e la regia furono dei fratelli Joel, rispettivamente Emmanuel e Nicolas. Per la prima volta l’opera veniva rappresentata in forma scenica in francese nel nostro paese, dove comunemente veniva utilizzata la versione in italiano di Achille de Lauzières.

A parte il suo fascinoso melodizzare – qui il tema del duetto «Doute de la lumière, | doute du soleil e du jour» diventa il rapinoso motivo ricorrente in tutta l’opera – è l’orchestrazione di Hamlet a sorprendere, specialmente nel reparto dei fiati: nel breve preludio che vuole evocare la mente del tormentato principe, bellissimo è l’intervento del corno mentre in quello che precede la scena notturna sugli spalti di Elsinore è il trombone a dipin­gere efficacemente l’atmosfera. Saranno ancora i fiati i protagonisti del­la musica della pantomima, i tromboni al­l’inizio del terz’atto e il clarinetto al quarto. Per non parlare del corno inglese nell’aria di Ofelia o dell’assolo di sassofono che introduce la recita dei guitti, la prima volta che lo strumento, inventato pochi anni prima, è usato in un’opera lirica. Per non parlare dei momenti di gloria delle trombe nelle tante fanfare che introducono le scene di corte.

Grande esperto del repertorio francese sia classico che contemporaneo, Jérémie Rhorer sa mettere in luce le qualità della partitura esaltandone la trasparenza, ma senza rinunciare al taglio drammatico della tragedia scespiriana qui reinterpretata da un francese dell’Ottocento che del Bardo conosceva al più poche opere in traduzioni spesso discutibili. Rhorer ci restituisce il gusto di un’epoca con grande eleganza e una concertazione attenta che evidenzia gli strumentisti del Regio impegnativi in numerosi assoli o in pieni orchestrali dalla sonorità sontuosa e brillante. Alcuni tagli – il coro dei commedianti nel terzo e dei contadini nel quarto – concentra le ragioni del dramma, rende più fruibili le quattro ore di musica e contrastanti i colori dei quadri, ora tragici ora puro divertissement. 

Umbratile, introverso, il carattere di Amleto è stato indissolubilmente legato al timbro di baritono, ma con il registro tenorile il personaggio acquista una maggiore fragilità assieme però a una dimensione di baldanza eroica adatta al brindisi «Ô vin, dissipe la tristesse». Il ruolo non richiede gli acuti spinti in cui eccelle il tenore americano, che qui si può concentrare su un bel suono misto, mezze voci delicate, un fraseggio da manuale e declamati dove ogni parola ha il suo significato espressivo. Specialista del repertorio francese, Osborne sfoggia anche un’ottima dizione. Esaltante è il duetto con la madre, qui Clémentine Margaine, un mezzosoprano di grande temperamento ed eccezionale proiezione vocale con cui delinea il complesso personaggio di Gertrude. Altro pilastro di eccellenza della serata è l’Ophélie di Sara Blanch, che nella attesa e celeberrima scena della pazzia non si trasforma in macchinetta di puri virtuosismi vocali, ma pur eseguendo alla perfezione le agilità richieste mantiene la drammaticità della scena che così non diventa un elemento di discontinuità nel racconto, anche grazie alle scelte registiche di cui parleremo. Riccardo Zanellato è un Claudius corretto ma un po’ incolore, di lusso invece il Laërte di Julien Henric, parte troppo breve per godere del timbro luminoso e della eleganza del tenore lionese. Breve ma decisiva anche quella dello Spettro del re morto, affidata alla voce declinante ma sempre molto personale e qui particolarmente efficace di Alastair Miles. Alexander Marev (Marcellus), Tomislac Lavoie (Horatio), Nicolò Donini (Polonius), Janusz Nosek (Primo becchino) del Regio Ensemble e Maciej Kwasnilowski (secondo becchino) completano il glorioso cast messo insieme per questa produzione. Non ultimo è da segnalare l’esemplare lavoro fatto dal coro, istruito da Ulisse Trabacchin, qui in una delle sue prove migliori.

Il regista Jacopo Spirei legge Hamlet senza cercare di trasformarla nella tragedia di Shakespeare, accettando cioè gli aspetti romantici dati al lavoro dai suoi autori, il che non vuol dire trascurare il carattere tragico della vicenda e gli aspetti psicologici dei suoi personaggi. È un viaggio nella mente del principe danese, quasi sempre in scena, fin dal preludio dove osserva tristemente il cadavere del padre in un obitorio délabré. Subito dopo il sipario si alza sulla sala principale della reggia di Elsinore, elegante ma sontuosa, che lo scenografo Gary McCann adibisce a scena unica grazie a sipari che scendono a definire nuovi spazi. Ma non ci sono gli spalti del castello battuti dal vento: l’apparizione dello spettro avviene con il padre che gioca a palla in un campo di fiori con Hamlet e Ophélie bambini in un tramonto infuocato, questo a sottolineare che quello che vediamo è quanto passa nella mente del giovane principe.

Nella scena della rappresentazione dei guitti, mascheroni da sfilata di carnevale entrano in scena per rappresentare i tre personaggi della pantomima, mentre bianchi veli avviluppano Ophélie nel momento del suicidio. Una schiera di comparse vestite di nero si presentano a sipario aperto con in mano un libro, forse di quella filosofia di Orazio che non vede che «There are more things in heaven and earth», figure che continueranno a frequentare la scena assieme a fanciulle vestite di bianco, quasi a compensare la mancanza del tradizionale balletto. Una sottile vena di humour nero pervade la lettura di Spirei, evidente nella scena del cimitero del quinto atto, qui l’obitorio visto all’inizio, con cinici becchini affacendati attorno a innumerevoli cadaveri, anche quello di Ophélie che ricomparirà nel finale, dove Hamlet trafitto dalla spada si fa guidare dalla mano del padre per uccidere Claudius per poi salire su un cavallo a dondolo, simbolo della sua infanzia in qualche modo negata, per essere incoronato da una corte inorridita. 

Con gli acconci costumi di Giada Masi (dove Ophélie con la gonna di tulle porta anfibi maschili…) e le accorte luci di Fiammetta Baldiserri, Spirei mette in scena uno spettacolo di grande impatto visivo e grandemente apprezzato dal pubblico giovanile della recita a loro dedicata. Un pubblico attentissimo, partecipe, entusiasta e anche competente, che ha coperto di applausi scroscianti gli interpreti di Hamlet, Ophélie e Gertrude e il direttore. Un pubblico a cui manca solo la puntualità per essere perfetto.

 

Les contes d’Hoffmann

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Londra, Royal Opera Covent Garden, 15 gennaio 2025

★★★★☆

(diretta streaming)

Il viaggio della memoria di Michieletto arriva a Londra

Un’operazione di rebranding a tutti gli effetti quella effettuata dal maggior teatro inglese che ha cambiato nome e logo, con tanto di grafica aggiornata: la Royal Opera House diventa dunque Royal Ballet & Opera, un’operazione di marketing per attirare nuovi spettatori grazie al balletto le cui star sono molto seguite sui social e attirano i giovani, elemento fondamentale per il ricambio generazionale del pubblico. Ma anche nuovi sponsor nei settori della moda e del lusso. Ora tutte le ricerche di roh.org sono automaticamente reindirizzate su rbo.org. Poco cambia sulla programmazione, che ha sempre visto il balletto fare la parte del leone nei cartelloni del teatro al Covent Garden.

Coprodotto con Venezia, Lione e Sydney, sono ora in scena Les contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach nell’allestimento di Damiano Michieletto visto alla Fenice all’inaugurazione della sua stagione lirica 2023-24. Qui c’è modo di ascoltare un cast del tutto diverso – a parte Alex Esposito che si rivela come sempre stupefacente nella parte demoniaca declinata nei personaggi di Lindorf, Coppélius, Docteur Miracle, Dappertutto e qui anche Stella… – e la direzione di Antonello Manacorda, impedito allora a Venezia da problemi di salute e sostituito da Frédéric Chaslin. Rispetto alla concertazione greve e routinière del francese, quella di Manacorda brilla per trasparenza, senso del colore strumentale e senso teatrale. La versione scelta è quasi completa e si basa sugli studi più aggiornati, con quasi un’ora di musica in più rispetto a Venezia, con pagine che si ascoltano raramente. Con i due intervalli lo spettacolo arriva alle quattro ore che scorrono veloci per la qualità degli interpreti e la festa per gli occhi offerta dal regista. 

Dopo aver detto tutto il bene possibile di Alex Esposito, della sua stupefacente presenza scenica e del suo ricchissimo strumento sonoro, si rimane sull’eccellenza per lo Hoffmann di Juan Diego Flórez dalla voce freschissima, gli acuti smaglianti, il fraseggio elegante e la perfetta dizione. Le doti attoriali sono quelle che sono, la gestualità è limitata e di maniera, ma il personaggio riesce comunque ben delineato nel suo passaggio dall’adolescenza del primo amore sui banchi di scuola, all’amore sofferto della maturità a quello disincantato e cinico successivo. Le tre fasi sono centrate sulle tre figure femminili qui interpretate da tre diverse cantanti. Non del tutto convincente l’Olympia di Olga Pudova, tecnicamente impeccabile nei picchiettati e nella acrobatica coloratura, ma dal timbro troppo scuro e dall’eccesso di vibrato. La parte di Antonia sembra scritta per Permettere a Ermonela Jaho di esprimere con l’intensità che le riconosciamo la sofferta parte della giovane morente. Perfettamente in parte nel suo sensuale outfit in lamé dorato, la Giulietta di Marina Costa-Jackson soffre di una certa asprezza di espressione. Corrette, ma non molto di più, la Musa di Christine Rice (anche voce della madre di Antonia) e il Nicklausse di Julie Boulianne. Christophe Montagne caratterizza con ironia le parti di Andrès e del maestro di ballo Cochenille. Efficace lo Spalanzani di Vincent Ordonneau, commovente ma con solo un filo di voce il Crespel di Alastair Miles.

La seconda visione dell’allestimento permette di apprezzare ancora più la regia di Michieletto, ripresa da Eleonora Gravagnola, che centra in pieno il caustico spirito hoffmaniano magnificamente reso dal suo miracoloso team: Paolo Fantin per le scene (geniali i buchi del soffitto e il tableau vivant del secondo atto con le ballerine), Alessandro Carletti per le luci (fantasiosamente non naturalistiche), Carla Teti per i costumi (le fate verdi come l’assenzio, la fée verte, del primo atto e l’atmosfera Eyes Wide Shut del terzo). A questi si aggiungono le argute coreografie di Chiara Vecchi, gli irriverenti diavoletti con copricapezzoli di brillantini rossi, i ballerini con le teste di topo.

Nel finale felliniano tutti i personaggi si uniscono nel celebrare il genio dell’arte ed è un momento di grande intensità emotiva. Michieletto ci ha abituati ad aspettarcelo alla fine dei suoi spettacoli.

Les contes d’Hoffmann

foto © SF/Monika Ritterhaus

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 21 agosto 2024

★★

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Estetica della bruttezza

Nell’intervista riportata sul programma di sala Mariame Clément afferma che la vicenda narrata ne Les contes d’Hoffmann «è paradossale».

«È l’Opera, mia cara!» verrebbe da risponderle. L’opera è per definizione paradossale, assurda: degli artisti che fingono di essere altri personaggi e che esprimono i propri pensieri cantando su un palcoscenico lontano dal mondo reale e illuminato dalla luce artificiale! E che cosa fa la regista francese per risolvere il “problema”? Costruisce sulla “astrusa” vicenda una drammaturgia, firmata da Christian Arseni, ancora meno convincente, dove il poeta Hoffmann è un regista fallito a causa dell’abuso di alcol e stupefacenti e le tre storie che racconta sono altrettante riprese di film. Un’idea non solo non nuova, ma la stessa che l’anno scorso aveva fatto del Falstaff di Christoph Marthaler lo spettacolo più brutto del festival – e anche la produzione di questa “opéra fantastique” di Jacques Offenbach si candida a essere lo spettacolo più brutto prodotto dal Festival di Salisburgo di quest’anno, ma probabilmente anche della stagione finora trascorsa.

Nel Prologo, all’apertura di sipario sullo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus, ai piedi di squallidi muri grigi vediamo un barbone che dorme sotto un carrello di supermercato pieno di bottiglie e pellicole – quelle dei suoi fallimentari film – mentre nella buca dell’orchestra il coro canta «Glou! Glou! Glou! Je suis le vin! | Glou! Glou! Glou! Je suis la bière!». Da un bidone dell’immondizia – vabbè, nell’originale era una botte – esce la Musa che si cambia in Nicklausse. Entrano comparse in costumi di varie epoche e la taverna di Mastro Luther diventa la caffetteria della scalcinata produzione cinematografica. Il senzatetto si alza e inizia senza molta logica la “chanson e scène” di Kleinzach mentre i suoi ricordi amorosi diventano spezzoni di pellicole esaminate con curiosità dagli avventori che si sistemano sulla destra – tanto c’è spazio sul palcoscenico – per assistere alla proiezione (?) di quello che vediamo rappresentato sulla sinistra, ossia l’atto di Olympia. Qui non è una bambola meccanica ma l’attricetta di un filmaccio di fantascienza, la quale si atteggia a Jane Fonda in Barbarella, tra continue e interminabili gag. Non migliorano la triste esibizione della sua “chanson d’Olympia” i volgari costumi anni ’60 di Julia Hansen, che firma pure la scenografia.

Anche Antonia è un’attrice di un film, questo sembra di fantasmi, in costumi ottocenteschi, ma la ragazza qui non muore di consunzione, fugge con un altro regista mentre è Hoffmann a stramazzare per terra colpito da un infarto dovuto anche alle droghe di cui continua fare abuso. Diverso è il caso di Giulietta, la cortigiana veneziana, di cui non è chiara la situazione. Ovviamente di Venezia e dei suoi canali qui non c’è traccia: gli squallidi muri grigi ruotano e mostrano delle scaffalature di legno altrettanto brutte e costellate di tubi al neon azzurrini. Che la barcarola cantata al tavolaccio della solita cantina sfogliando dei copioni non susciti nessun applauso non sorprende, come non sorprende che le più belle e commoventi pagine dell’ultimo capolavoro di Offenbach non causino la minima emozione, eseguite come sono in mezzo al traffico di operatori, inservienti, segretarie di produzione, comparse, con Hoffmann che finge di dare istruzioni in continuazione, senza quasi interessarsi alle sue “amate”. L’operazione di de-emozionalizzazione della Clément non si sa a che cosa voglia mirare. Certo non a farci apprezzare le divine musiche del Mozart degli Champs-Élysées.

Lo squallore visivo deve aver contaminato anche la spenta concertazione di Marc Minkowski che riesce ad ottenere dai Wiener Philharmoniker solo un’esecuzione a livello di minimo sindacale. Immeritati sono comunque i buu a lui indirizzati alla fine della rappresentazione. In parte saranno dovuti alla versione scelta da Minkowski: come si sa Offenbach ci ha lasciato il suo canto del cigno senza una versione che si possa definire definitiva. Come per le leggi della fisica, nessuna è definitiva fino a che non ne viene scoperta una nuova, ma nel ginepraio di versioni più o meno diverse si è affermata quella di Michael Kaye e Jean-Christophe Keck (2009), la più vicina alle intenzioni dell’autore. Rispetto alla consueta Choudens, ancora imperversante soprattutto nei teatri italici, è il terzo atto quello più diverso dal solito e probabilmente è questo che ha spiazzato qualcuno del pubblico.

Non molto meglio vanno le cose sul piano dei cantanti. L’affidare le tre parti femminili di Olympia, Antonia e Giulietta (qui quattro: anche Stella) alla stessa interprete è un atto rischioso che funziona (ma anche così con risultati non sempre eccelsi) solo quando si ha un’interprete di eccezione e pensare di farlo con Kathryn Lewek è per lo meno azzardato: il soprano americano sarebbe convincente come Antonia se la regia non cercasse di renderle la vita più difficile, ma come Olympia la sua performance, pur priva di falle, è la più noiosa tra quelle che abbia mai ascoltato. Infine, come Giulietta manca della seduzione del personaggio qui reso incomprensibile dalla regia che non la aiuta certo in una presenza scenica che non è la sua dote migliore. Christian van Horn è l’esempio di come il regista possa esaltare o sminuire un personaggio: nel suo recente Don Chisciotte nella spettacolo di Michieletto il basso-baritono americano aveva raggiunto un’interpretazione eccelsa, nella quadruplice parte di Lindorf/Coppélius/Miracle/Dapertutto non lascia traccia nella memoria pur con gli stessi mezzi vocali. La Musa/Nicklausse di Kate Lindsey è spesso coperta dall’orchestra e quando non lo è la voce del soprano di Richmond, spesso in ruoli en travesti, soffre di un eccesso di caratterizzazione e di una dizione non proprio irreprensibile. Anche con lei la regia non fa un buon servizio. Negli altri ruoli non si distinguono per particolari doti Marc Mauillon (Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinaccio), Michael Lorentz (Spoalanzani) e Jérôme Varnier (Crespel/Luther). Bene invece nel suo breve e intenso cammeo della madre di Antonia il mezzosoprano Géraldine Chauvet. Resta infine Benjamin Bernheim, che supera tutti per eleganza, stile, dizione, fraseggio e controllo dei fiati. Certo la voce nell’immensità della Großes Festspielhaus un po’ si perde, ma avercene di Hoffmann come lui.

Alla fine, a parte gli sparuti buu per il direttore, applausi per tutti. In questi casi quello che determina il buon esito di uno spettacolo a Salisburgo è quello che chiamo “effetto 465”, dove 465 è il prezzo in euro di una poltrona di platea e chi li ha sborsati fa di tutto per farsi piacere quello che ha visto.

Les contes d’Hoffmann

foto © Michele Crosera

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Venezia,  Teatro La Fenice, 24 novembre 2023

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

L’ultimo Offenbach a Venezia, trent’anni dopo e con lo stesso direttore

Sono così tante le possibili versioni di Les contes d’Hoffmann, che ogni nuova produzione è un caso a sé. Morto prima di riuscire a completarlo, Jacques Offenbach ha lasciato il suo ultimo capolavoro incompiuto e schiere di musicologi hanno tentato di ricostruirlo dandone ognuno una versione differente e talora contrastante con le altre.

C’era quindi molta curiosità per l’atteso spettacolo veneziano inizialmente affidato a quel raffinato concertatore che è Antonello Manacorda, ma purtroppo il direttore torinese ha dovuto rinunciare per un’indisposizione e al suo posto è subentrato all’ultimo momento colui che aveva diretto pochi mesi fa lo stesso titolo alla Scala, ossia Frédéric Chaslin. Il direttore francese ha salvato la situazione – c’era il rischio che l’inaugurazione della stagione saltasse – e gliene siamo tutti grati, ma ha ovviamente riproposto quanto aveva fatto allora e non è stato neppure questa volta esaltante: una direzione di routine, generica e senza grandi sottigliezze. Proprio quello che si era ascoltato a Milano. Aveva diretto l’opera a Venezia già nel 1994 e quella fu la sua prima volta, questa, ha egli stesso dichiarato, è la 732esima! Chaslin si professa un profondo conoscitore dell’opera in tutte le sue versioni e sta provando a realizzarne una propria. La sua è una versione spuria – un misto delle Choudens e Oeser – e con numerosi tagli: rispetto all’edizione “originale” di oltre quattro ore, qui ci sono 2 ore e 35 minuti di musica ripartita in una prima parte di 1h10′ (prologo e atto primo), una seconda di 50 minuti (atto secondo) e una terza di 35 minuti (atto terzo ed epilogo). In questa edizione il finale è drammaturgicamente ancora meno convincente e il personaggio di Giulietta poco definito. 

Quasi contemporaneamente alla Opéra Royal de Wallonie-Liège, che li ha messi in scena con Stefano Poda, e in attesa del ritorno della produzione di Robert Carsen all’Opéra di Parigi fra qualche giorno, nella città lagunare l’allestimento de Les contes d’Hoffmann è affidato al veneziano Damiano Michieletto, che affronta con la sua decisa personalità questa opéra fantastique. Nella sua lettura il poeta Hoffmann è un vecchietto «parcheggiato in una locanda» che incomincia a raccontare dei fantasmi del suo passato, di tre avventure amorose vissute con tre donne diverse in tre diverse città: a Parigi, Olympia; a Monaco, Antonia; a Venezia, Giulietta. Tutte e tre le figure si fondono con quella della cantante Stella in scena per il Don Giovanni in quel momento a Norimberga, dove avviene l’azione del presente.

Olympia rappresenta la prima infatuazione, quella sui banchi di scuola, ed infatti Michieletto ambienta l’episodio della bambola meccanica in una scuola – come aveva fatto nel suo Flauto magico – dove Spalanzani è il maestro e Cochenille il bidello. Il valzer in cui Hoffmann, giovinetto in braghe corte, viene trascinato è una lezione di ginnastica con i cerchi e l’esibizione della bambola meccanica avviene su una danza di numeri e simboli matematici che si staccano dalla lavagna per poi piovere dal soffitto. Il mondo surreale si fonde qui con lo sguardo nostalgico sull’amore adolescenziale.

Anche il secondo atto è ambientato in una scuola, di danza. Antonia infatti per Michieletto non è una cantante, bensì una ballerina costretta a letto – come nella sua Cendrillon a Berlino o nella Rusalka di Christof Loy. Nonostante il tema drammatico, questo quadro diventa vivace per la presenza di piccole ballerine in tutù che irridono Frantz, un caricaturale maître de ballet. Forte è il contrasto tra umorismo e patetismo con la morte di Antonia istigata a danzare dal diabolico Docteur Miracle. Hoffmann qui è un giovanotto nella sua seconda fase della vita, innamorato più dell’idea di amore che della povera fanciulla.

Ritroviamo Hoffmann uomo maturo e senza illusioni nel terzo atto, beffato dalla bella Giulietta che lo imprigiona dietro uno specchio dopo che è stato marcato con una X sul petto dalla maschera del dottore della peste, unico riferimento visibile alla città di Venezia che ospita la vicenda. Nell’epilogo ritornano tutti i personaggi, che un po’ fellinianamente concludono la vicenda: gli spiriti del vino e della birra, i tre diavoli in paillettes, Nicklausse spiritello vittoriano con le alucce iridescenti, le tre donne amate. Nel suo abito da gran sera, boa di struzzo e parrucca rosso fuoco, la diva Stella si scopre non essere altro che il bieco rappresentante del male nella sua ultima incarnazione dopo Lindorf, Coppélius, Miracle, Dapertutto.

La morale del libretto – meglio affidarsi all’arte che alla fuggevolezza dei sentimenti amorosi – è affermata con beffarda ironia in questo spettacolo  che Michieletto ha ideato assieme al suo solito valido team, ossia Paolo Fantin per le sempre sorprendenti scenografie, qui un ambiente in cui si aprono aperture rettangolari, i «buchi di memoria di Hoffmann», da cui si calano oggetti o scende la luce sempre mirabilmente ricreata da Alessandro Carletti. Assieme  ai magnifici costumi di Carla Teti e alle ironiche coreografie di Chiara Vecchi, tutti concorrono alla creazione di uno spettacolo di grande bellezza visuale che cresce di atto in atto fino all’intenso epilogo finale. 

Se Jessica Pratt è stata l’unica interprete dei tre personaggi femminili nella produzione australiana ora ripresa (lo spettacolo è coprodotto da Sydney, Londra e Lione), qui ci sono tre cantanti, molto differenti per personalità e vocalità. Rocío Pérez ha spigliate agilità, timbro luminoso ed è un’Olympia meno meccanica del solito, più simpaticamente umana. Di Carmela Remigio si ammira la partecipazione emotiva al personaggio di Antonia, un po’ meno la vocalità dalla linea discontinua, non migliorata dalla lingua francese, e dai suoni fissi. La parte di Giulietta, qui ridotta, è affidata all’eleganza di Véronique Gens. Paola Gardina è un’ironica Musa con borsone alla Mary Poppins mentre di Giuseppina Bridelli si ammirano l’espressività e la sicura vocalità come Nicklausse. Già Faust due volte a Venezia ed entrambe con Chaslin, Iván Ayón Rivas debutta nella parte eponima delineando un Hoffmann coinvolgente, dal timbro luminoso e dallo squillo poderoso. Anche scenicamente risulta più convincente del solito. Le quattro diverse identità del cattivo trovano in Alex Esposito interprete di eccezione per la proiezione vocale impressionante, il timbro ricco di armonici,  l’articolazione da manuale della frase e la dizione perfetta. A queste si aggiungono le doti da autentico istrione della scena. Indubbiamente i ruoli diabolici si addicono al baritono bergamasco che ha a suo attivo i personaggi di Méphistophélès de  La damnation de Faust di Berlioz e del Faust di Gounod per non dire del Mefistofele di Boito. Anche Didier Pieri copre quattro parti – Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinaccio – particolarmente gustosa è quella del maître de ballet Frantz. François Piolino è lo stralunato Spalanzani, Christian Collia è Nathanaël, Yoann Dubruque veste adeguatamente i panni di Hermann e Schlémil, un po’ sbiadito Francesco Milanese come Luther e Crespel. Federica Giansanti è La voce della madre di Antonia, qui anche lei ballerina. Buona prova la dà il coro istruito da Alfonso Caiani.

Pubblico molto caloroso e prodigo di applausi per tutti gli artisti coinvolti e per il Presidente della Repubblica che con la sua illustre presenza ha anche contribuito ad allontanare il rischio dello sciopero previsto. Meglio di così non si poteva sperare.

Hamlet

Ambroise Thomas, Hamlet

Parigi, Opéra Bastille, 14 marzo 2023

★★★★☆

(video streaming)

Amleto al manicomio? Non una novità

Tre anni dopo la prima parigina del Macbeth di Verdi, un altro compositore ottocentesco si misurava con un’opera del Bardo, conosciuto allora soprattutto attraverso adattamenti: quello di Hamlet, il lavoro di Thomas del 1868, era infatti di Alexandre Dumas padre che aveva eliminato alcune scene, tra le quali quella iniziale delle sentinelle sulle mura del castello, aveva aggiunto una scena d’amore tra Amleto e Ofelia, e aveva fatto riapparire nel finale il fantasma del re assassinato per fargli dire: «Vis pour ton peuple, Hamlet! C’est Dieu qui te fait Roi!».

I librettisti Barbier e Carré, dal canto loro, avevano ridotto i personaggi e incentrato l’attenzione sui quattro principali (Hamlet, Ophélie, Claudius, Gertrude), concedendo largo spazio alla storia d’amore tra i primi due. Concepito inizialmente in quattro atti, su richiesta dell’Opéra di Parigi Hamlet fu diluito in cinque, con l’aggiunta del ballo inserito prima della scena della follia di Ophélie. Nella versione per Londra del 1969 un nuovo finale prevedeva la morte del protagonista, ma non fu sufficiente a mitigare le critiche degli inglesi, come quella su The Pall Mall Gazette del 1890: «No one but a barbarian or a Frenchman would have dared to make such a lamentable burlesque of so tragic a theme as Hamlet» (Nessuno, se non un barbaro o un francese, avrebbe osato fare di un tema così tragico come quello dell’Amleto una così deplorevole parodia».

Il lavoro di Thomas conobbe grande successo fino agli anni ’30 del secolo scorso, per poi scomparire dalle scene. Un frequente ritorno del titolo è invece avvenuto dagli anni ’80 con pregevoli recenti produzioni al Grand Théâtre di Ginevra nel 2003 con Simon Keenlyside e Nathalie Dessay; al Met (2010), ancora Keenlyside e Marlis Petersen e una grande Jennifer Larmore; An der Wien e poi La Monnaie (2013) con Stéphane Degout e la intrigante messa in scena di Olivier Py e l’Opéra Comique (2108), ancora con Degout e Sabine Devieilhe. Ora alla Bastille il titolo viene riproposto in una ricca produzione che vede sul podio Pierre Dumoussaud, un cast importante e una discussa regia.

Con Hamlet di Thomas, Krzysztof Warlikowski firma uno dei suoi più complessi e ambiziosi allestimenti, 22 anni dopo la sua lettura del dramma di Shakespeare al festival di Avignon del 2001 – ma lo spettacolo era stato creato a Varsavia nel 1999. Inizialmente la sua messa in scena può risultare fastidiosamente spiazzante, addirittura indisponente, poi però il suo indubbio istinto prevale in scene di grande teatralità. L’abbondanza di allusioni sia teatrali che cinematografiche e la loro realizzazione un po’ confusa possono disturbare la leggibilità dello spettacolo, però restituiscono l’essenza di un rapporto con la realtà e la memoria disturbato da allucinazioni e sensi di colpa che inducono a un’azione impotente, com’è quello del principe danese.

L’ambientazione costruita dalla scenografa Małgorzata Szczęśniak è quella di una casa di riposo o centro psichiatrico – non un’idea originale ma plausibile dato il numero di disturbati mentali in scena. All’alzarsi del sipario vediamo un Hamlet signore di mezza età e Gertrude una vecchia sulla sedia a rotelle mentre alla televisione trasmettono Les Dames du Bois de Boulogne, il film di Robert Bresson del 1945. Due i livelli temporali: il primo e l’ultimo atto si svolgono nel presente della vicenda, gli altri tre atti formano un unico lungo flashback che ci mostra i traumi del protagonista vent’anni prima, ed ecco infatti i costumi virare verso gli anni ’20. Hamlet qui è un adulto mal cresciuto che gioca con una macchinina radiocomandata e sembra piuttosto disturbato, fuma in continuazione e ha vari tic. È evidente che non ha superato la morte del padre e meno ancora il secondo matrimonio della madre, verso la quale dimostra un forte complesso edipico. Nel primo atto il Re, Laërte e Ophélie (o il suo fantasma?) sono dei visitatori. Quando compare lo spettro del padre è vestito come un clown bianco, chiaramente un frutto della realtà distorta di Hamlet, così come lo sarà il ballo del quarto atto, assieme alla morte di Ophélie, due dei momenti migliori dello spettacolo. Nel quinto atto Hamlet ha acquisito lo status di fantasma del padre, lo stesso costume da clown, ma nero. E si capisce finalmente perché la folla era in lutto nel primo atto: era per il funerale di Ophélie!

Per un beffardo caso di contrappasso, un cantante che un anno fa aveva stigmatizzato le regie “moderne”, si trova ora a lavorare con uno dei registi più iconoclasti del nostro tempo! È il caso infatti di Ludovic Tézier che in un’intervista aveva detto di preferire le regie “tradizionali”, ma non sembra abbia avuto difficoltà a lavorare con Krzysztof Warlikowski: dal punto di vista attoriale la sua è un’interpretazione pienamente convinta della lettura non proprio ortodossa del regista polacco con cui recupera l’aspetto psicologicamente complesso di una figura semplificata dai librettisti. I colori e le intenzioni espressive sotto tutti presenti in una vocalità in stato di grazia che ha scatenato le ovazioni del pubblico parigino. Ovazioni che sono state estese anche alla Ophélie di Lisette Oropesa, di cui sono state ammirate sia la purezza d’emissione sia le precise agilità nella scena della pazzia. Grande performance anche quelle di Eve-Maud Hubeaux, una Gertrude torturata, John Teitgen (Claudius) e Julien Behr (Laërte). Clive Bayley, l’espressionista Fantasma del Re, e Frédéric Caton (Horatio) sono tra gli altri efficaci interpreti. Lodevole sopra ogni misura il coro, istruito da Alessandro di Stefano, a cui è chiesto di travestirsi, ballare, muoversi e recitare – cosa impensabile da pretendere dai cori nostrani. A capo dell’orchestra del teatro, il giovane Pierre Dumoussaud, che ha sostituito il previsto Thomas Hengelbrock, ha rivelato mature doti mettendo in luce le qualità di questa partitura che a distanza di tempo conquista sempre più il favore dei pubblici.

 

Les contes d’Hoffmann

   

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Milano, Teatro alla Scala, 24 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Offenbach alla Scala penalizzato dal budget?

Il lancio de LaScalaTv per la trasmissione in streaming a pagamento degli spettacoli del teatro milanese è stato l’occasione non solo per testare la piattaforma, che risulta di semplice utilizzo e con immagini e suoni di buona qualità, ma anche per assistere, a distanza di qualche settimana dalla prima, a uno spettacolo la cui produzione ha destato polemiche tra gli addetti ai lavori e gli appassionati. Oltre ai soliti dissensi rivolti alla regia, ma questo è ormai inevitabile, fischi sono stati rivolti alla concertazione del direttore.

La prima contestazione che si è rivolta a Frédéric Chaslin è quella della scelta della versione. Les contes d’Hoffmann infatti sono stati lasciati incompiuti nella strumentazione e nella certezza della forma conclusiva. L’ultimo capolavoro di Offenbach fu presentato con i dialoghi parlati all’Opéra-Comique il 10 febbraio 1881, quattro mesi dopo la morte del compositore, con l’orchestrazione completata da Ernest Guiraud. Per la successiva rappresentazione viennese lo stesso Guiraud trasformò i dialoghi in recitativi cantati, così come aveva fatto per la Carmen di Bizet. Da allora si sono susseguiti innumerevoli versioni, quasi una per ogni editore che abbia pubblicato la partitura. Limitandoci alle principali, oggi a nostra disposizione ne abbiamo essenzialmente quattro, indicate con i nomi dei rispettivi autori: (I) Choudens (quattro edizioni tra il 1881 e il 1887), in cinque atti e con numeri non presenti nel manoscritto; (II) Oeser (1976), in tre atti con un prologo e un epilogo; (III) Kaye (1992), basata sul libretto originale; (IV) Keck (2003), in cinque atti. Per le minime differenze tra le versioni III e IV queste vengono spesso indicate come un’unica versione, la Kaye-Keck (2009).

Ignorando deliberatamente quest’ultima versione, ad oggi la più attendibile e vicina all’originale, il direttore francese ha proposto una sua propria versione basata sulla vecchia Choudens, con i recitativi cantati, ma con tagli, talora senza senso, e inserti, spuri, dalla Oeser. Vuoi per pigrizia, vuoi per ragioni di economia – anche se non è pensabile che un teatro come La Scala voglia risparmiare sul prezzo di un’edizione – quella presentata è una versione arbitraria che non tiene conto di quanto si è scoperto in questi ultimi cinquant’anni.

La seconda e più decisa contestazione rivolta a Chaslin è la sua lettura della partitura. Del direttore francese tutto si può dire, ma di certo che non conosca l’opera, avendola diretta centinaia di volte. D’accordo che questo non garantisce sulla qualità di un’esecuzione, ma sicuramente la sua non è una lettura improvvisata. Le recensioni negative sono andate un po’ a rimorchio della inappellabile stroncatura pubblicata su FB l’indomani della prima da Elvio Giudici, che ha dedicato all’opera di Offenbach e alle sue tante versioni ben 66 pagine nel suo volume sull’Ottocento de L’Opera. Storia, teatro, regia. In queste recensioni si è letto che la direzione è stata «greve, piatta, morchiosa, blumbea, lenta», ma contemporaneamente anche «esuberante, frastornante, superficiale, esteriore»! Comunque censurabile. Di certo quella di Chaslin è una concertazione che si prende alcune libertà nei tempi, o troppo lenti o troppo veloci, manca di raffinatezza e trasparenza, ma è comunque attenta alle pagine liriche e ricrea efficacemente il carattere ibrido di questo lavoro, qui più grand opéra che opéra-comique, con un ironico tocco di cabaret quando Nicklausse sussurra al microfono le parole di «Ô rêve de joie et d’amour» o quando Hoffmann e Lindorf si allacciano in un tango, ma qui c’è lo zampino del regista, ovviamente.

La messa in scena è stata infatti l’altro elemento di discussione. Livermore non rinuncia qui agli amati trucchi di magia – una candela che fluttua sulle prime file di platea, una pianta in vaso che fiorisce, una macchina da scrivere che prende fuoco, un tavolino volante, specchi magici, botole – e ad altri congegni: un nastro trasportatore su cui entrano da sinistra a destra i personaggi, ombrelli da “funerale sotto la pioggia”, pistole (tante pistole), teli che cadono dall’alto o fluttuano o coprono gli spettatori della platea, come se fossero immersi nella laguna, durante la Barcarola. E soprattutto le lanterne cinesi del torinese Controluce Teatro d’Ombre, che hanno preso il posto delle meraviglie digitali della altrettanto torinese D Wok, probabilmente per risparmiare sul budget o forse perché più adatte, vista la loro tecnica di vecchio stampo, alla scelta adottata da Livermore di trasformare la sulfurea e inquietante vicenda in uno spettacolo di varietà in bianco e nero all’Olympia di Parigi! Scelta comprensibilissima seppure non totalmente condivisibile. 

A confronto dei sempre elegantissimi costumi di Gianluca Falaschi, le scenografie di Giò Forma hanno qui un minimalismo insolito per gli standard degli spettacoli di Livermore alla Scala: la statua di un angelo – che ricorda quella del Castel sant’Angelo nell’ultimo atto di una Tosca di tradizione – dentro cui canta la Musa; un bar per la taverna del prologo; cataste di manichini bianchi per il quadro di Olympia; un pianoforte per la casa di Crespel; due altalene, un accenno di gondola e tanti veli per il quadro veneziano. Ma il regista non rinuncia a riempire la scena di particolari, spesso non necessari se non fuorvianti in una vicenda già di per sé tutt’altro che lineare: un nano, il doppio di Hoffmann alla fine in una bara, mimi, ballerini, figuranti in nero. Eccellente come sempre invece la recitazione degli interpreti e la caratterizzazione di certe parti. Tutto si può dire di Livermore, ma non certo che manchi di senso del teatro.

Nella parte del poeta Hoffmann il tenore Virttorio Grigolo – un cantante che non lavora più nei teatri d’opera della maggior parte del mondo anglosassone dal 2019 a seguito di un’accusa di comportamento inappropriato durante uno spettacolo in Giappone – è stato il trionfatore della serata: voce limpida, fresca, ottima pronuncia e dalla sorprendente proiezione, la sua è stata una interpretazione di incontenibile ed esaltante energia, a partire dalla ballata di Kleinzack, con le sue gustosissime onomatopee, alla appassionata e languida «Ah, sa figure était charmante» del quadro di Olympia. È stato affiancato da una eccellente Marina Viotti (Musa/Nicklausse) e da una memorabile Eleonora Buratto (Antonia) di sontuosa presenza vocale e bel fraseggio. Diversamente apprezzati gli altri due idoli femminili: Federica Guida è un’Olympia poco “automa”, infatti il regista la presenta come una donna insicura e vittima del padre, che dà un tono drammatico alle sue agilità che quindi mancano di quella qualità astratta che ci si aspetta dalla bambola meccanica; Francesca di Sauro invece non convince del tutto come Giulietta, vuoi per la scarsa sensualità, nella voce non certo nella figura, vuoi perché privata delle sue pagine più belle, ma qui la colpa è del direttore. Pur corretto e come sempre ben timbrato, a Luca Pisaroni, nella quadruplice parte diabolica di Lindorf/Coppélius/Miracle/Dapertutto, manca il tono luciferino che abbiamo trovato in altri interpreti e la differenziazione dei personaggi. Quattro parti anche per François Piolino (Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinacchio) che il regista traveste da fantesca un po’ isterica e sempre col piumino della polvere in mano. Ottimo attore, quando canta però fa sue le parole di Frantz: «Dame! on n’a pas tout en partage: je chante pitoyablement»… Gloriosi cammei sono stati quelli di Alfonso Antoniozzi (Luther/Crespel) e di Yann Beuron (Spalanzani/Nathanaèl), l’uno consumato animale di palcoscenico, l’altro indimenticabile interprete delle opéra-bouffe di Offenbach.

Questa volta il glorioso coro del teatro non si dimostra inappuntabile essendo spesso in ritardo rispetto all’orchestra. Osservando poi l’età media dei coristi viene da pensare ai cori d’oltralpe, formati da giovani che si dimostrano più attenti alle richieste dei direttori e ricettivi alle esigenze sceniche. Questo è un problema generale di tutti cori italiani dovuto alla mancanza di quel serbatoio di cori amatoriali che invece all’estero forniscono nuova linfa ai cori dei teatri più blasonati.

Faust

Charles Gounod, Faust

★★★☆☆

Venise, Teatro la Fenice, 30 avril 2022

 Qui la versione italiana

Faust à Venise : le diable s’habille… en plumes !

Le destin de Faust à la Fenice est très particulier : l’opéra était présent lors de la première véritable saison du théâtre après sa fermeture suite au déclenchement de la deuxième guerre d’indépendance italienne en 1859 : réouvert le 31 octobre 1866, quelques mois plus tard, l’opéra de Gounod figurait parmi les six opéras au programme. Ce fut ensuite le titre inaugural de la réouverture de la Fenice en 1920, après les événements de la Grande Guerre qui avaient maintenu le théâtre fermé depuis 1914. La même chose s’est produite, cent ans plus tard, en juillet 2021, après la fermeture due à la pandémie. À l’époque, le public était dans les loges et l’action se déroulait en partie dans les stalles, avec un effet spatial inhabituel et surprenant qui combinait le besoin de distanciation avec un choix dramaturgique efficace qui exploitait brillamment cette situation inhabituelle…

la suite sur premiereloge-opera.com

Faust

Charles Gounod, Faust

★★★☆☆

Venezia, Teatro la Fenice, 30 aprile 2022

bandiera francese.jpg Ici la version française

Il diavolo veste le piume di Lola-Lola

È un particolare destino quello che lega il Faust con il teatro veneziano. Era presente nella prima vera stagione del teatro dopo la chiusura seguita allo scoppio della Seconda Guerra d’Indipendenza Italiana nel 1859: riaperta il 31 ottobre 1866, pochi mesi dopo tra le sei opere in programma figurava appunto l’opera di Gounod. Fu poi il titolo inaugurale per la riapertura nel 1920, dopo gli eventi bellici della Grande Guerra che avevano tenuto chiuso il teatro dal 1914. Lo stesso è avvenuto, cento anni dopo, nel luglio 2021, dopo la chiusura per pandemia. Allora il pubblico era solo nei palchi e l’azione si svolgeva in parte in platea con un inedito e sorprendente effetto spaziale che coniugava le esigenze di distanziamento con una efficace scelta drammaturgica che sfruttava genialmente l’inusuale situazione.

Ora, con il medesimo cast di un anno fa, Joan Anton Rechi ripropone l’opera in una produzione totalmente diversa, sia a livello visivo che concettuale e, diciamolo subito, questa volta è meno convincente. Il risultato ottenuto sembra confermare il fatto che è quando ci sono forti vincoli che allora la creatività viene esaltata.

Nel nuovo approccio di Rechi il tema dell’eterna giovinezza è diventato il punto focale dell’intera vicenda, assieme al cinema inteso come fonte di illusione. «La nostra idea», dice il regista, «nasce da una scena del film Intervista di Federico Fellini, nella quale un’Anita Ekberg e un Marcello Mastroianni già avanti con gli anni contemplano le immagini della loro famosa scena alla Fontana di Trevi nella Dolce vita e nei loro volti si può scorgere la nostalgia per la gioventù perduta. E questo a maggior ragione essendo stati miti del cinema e avendo a disposizione immagini che glielo ricordano costantemente». E così inizia l’allestimento di Rechi, con un malandato Faust che da una sedia a rotelle sembra contemplare i suoi passati splendori da stella del cinema. Con il patto col Diavolo la scena si trasforma in un set cinematografico e Mefistofele diventa Fellini, il regista che crea quel mondo di fantasia in cui Faust ha la possibilità di assaporare i piaceri che non aveva conosciuto in giovinezza.

Questa è l’idea di fondo del regista, ma la distanza tra intenzioni e realizzazione qui è grande: manca totalmente la magia del cinema – forse ci voleva Davide Livermore… – e lo spunto iniziale si ripete senza offrire un significato alternativo a un’opera permeata totalmente dall’elemento religioso, elemento che connotava invece la lettura di un anno fa, e che è difficilmente estirpabile dall’opera di Gounod. L’ambientazione ai nostri giorni rende poi ancora più incongrui certi aspetti del libretto che hanno significato solo se calati nell’epoca della composizione o affrontati in maniera più convinta.

L’avvicendarsi delle varie scene è risolto dallo scenografo Sebastian Ellrich con la solita piattaforma rotante e una brutta struttura a varie sezioni, con scale e passerelle, finte rovine e un grande telo su cui si aspetta inutilmente fino all’ultimo che qualcosa di cinematografico venga proiettato. Invece, nulla. Personaggi vagamente felliniani negli sgargianti costumi di Gabriela Salaverri popolano la scena e spingono in tondo le parti del praticabile. Non aiutano a rendere più suggestiva la visione né le luci di Alberto Rodríguez Vega che variano monotonamente dal bianco al rosso né i torpidi movimenti delle masse corali. Margherite e Marthe sono sartine, la casa di Marguerite è un camerino, il giardino un divano disegnato sulla forma delle labbra rossa su cui si sdraia il Dr. Frank-N-Furter del Rocky Horror Picture Show, la chiesa una croce al neon. La vicenda dei soldati tornati dal fronte è anch’essa una scena di film girata in diretta, la notte di Valpurga una datata scena di seduzione del recalcitrante Faust da parte delle vamp del cinema: abbiamo quindi Cleopatra, ma anche Barbarella, la principessa Leia di Star Wars (!), la Marilyn inguainata di raso di Gentlemen Prefer Blondes, la Sally di Cabaret e così via. Per non farsi mancare nulla il regista traveste Méphistophélès stesso da Lola Lola di Der blaue Engel – o come Helmut Berger ne La caduta degli dèi. Come trasgressione siamo a un livello piuttosto basso. Ma è con la scena del valzer che assistiamo a una delle più tristi mai realizzate, con quattro smandrappate ballerine di cancan, una scena che visivamente smorza l’impulso travolgente fornito all’orchestra dal direttore Frédéric Chaslin che dà una lettura trascinante della partitura pigiando forse un po’ troppo forte sul pedale del volume esaltato dall’acustica del teatro.

Il cast è quello dell’altra volta e si confermano le impressioni ricevute allora. Nella parte eponima ritroviamo dunque Iván Ayón Rivas e il suo tono spavaldo, la luminosità e la sostanza degli acuti, assieme a una certa latitanza nell’introspezione psicologica del personaggio e nell’eleganza del fraseggio. Carmela Remigio che non ha la brillantezza del canto che dovrebbe definire il personaggio di Marguerite, soprattutto nella prima parte. È infatti nelle scene più drammatiche che si ritrova il temperamento del soprano abruzzese e la sua resa migliore. Ma i suoni fissi sono sempre lì in agguato e un certo modo manierato nell’articolare le frasi non ne fa la Marguerite ideale. Una conferma anche per il sensibile Valentin di Armando Noguera, timbro chiaro e strana emissione nel registro basso, ma bella presenza scenica. Importuna l’idea del regista di farlo resuscitare dopo la sua lunga straziante fine per minacciare ancora di più la povera sorella come se non fosse bastato quello che le ha vomitato addosso in punto di morte. Ottima anche questa volta la prova di Paola Gardina, trepidante Siebel. Il coro istruito da Alfonso Caiani ha dato il meglio di sé nonostante le mascherine che ovattano le voci e impastano la dizione.

E poi c’è Alex Esposito e qui non si sa più cosa inventarsi per l’emozione di trovare un Méphistophélès che non si pensava potesse migliorare. Eppure, ci si stupisce ogni volta per la straordinaria presenza scenica sempre al di qua di una possibile gigioneria, anzi l’eleganza e la padronanza scenica sono ancora più raffinate. L’espressione e la dizione francese sono da manuale, la voce piena e sonora si flette in mille sfumature e ogni parola riceve il giusto accento senza che il discorso perda di musicalità. A lui il pubblico ha tributato meritatissime ovazioni da stadio. Era l’ultima recita. Ora i suoi impegni lo porteranno di nuovo agli amati Rossini e Donizetti, ma non si può affermare che quello sia il suo repertorio di elezione: «Egli fa tutto ben quello ch’ei fa», come direbbe Susanna, ma questa volta senza alcuna ironia.