Mese: giugno 2022

Stagione Sinfonica RAI

foto © PiùLuce/OSN Rai

Leonard Bernstein, West Side Story. Symphonic Dances

Nino Rota, La strada. Suite per orchestra

John Williams, Star Wars Suite

John Axelrod direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 15 giugno 2022

L’eterno fascino della musica per film

Se è certo che i maggiori musicisti italiani dell’Ottocento hanno scritto per il teatro d’opera, per il Novecento si può dire che siano quelli che l’hanno fatto per il cinema i più originali e popolari: Nino Rota (1911-1979), Ennio Morricone (1928-2020), Nicola Piovani (nato nel 1946).

Di Rota l’anno scorso John Axelrod aveva proposto i ballabili de Il gattopardo di Visconti, ora il direttore americano ritorna per il secondo appuntamento del ciclo “Il ballo all’Opera e al Cinema” dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, questa volta dedicato al cinema, con le musiche de La strada di Fellini, il film che nel 1954 aveva imposto il regista romagnolo all’attenzione internazionale. Fu una pellicola molto discussa a quei tempi perché gli italiani non avevano amato rispecchiarsi in quel polveroso e sgangherato carrozzone di guitti itineranti che il film aveva messo pietosamente in luce. Le musiche erano state però uno degli elementi per cui il film aveva fatto breccia, se non nelle coscienze, nei cuori degli spettatori: il tema struggente di Gelsomina, suonato dal violino del sempre eccellente Alessandro Milani e poi ripreso nel finale dalla tromba solista di Marco Braito, si confronta col tema di Zampanò dal Sacre stravinskiano e intonato con brutalità da ottoni e percussioni. La dimensione sinfonica delle musiche, che verrà ulteriormente ampliata per il balletto per Carla Fracci dieci anni dopo, qui mette in evidenza la straordinaria originalità del compositore e Nino Rota diventerà il musicista di riferimento per molti dei film di Fellini e dei maggiori registi italiani.

Nella prima parte del concerto, John Axelrod ha riproposto la suite di musiche da West Side Story di Leonard Bernstein, un lavoro di frequente ascolto nelle sale da concerto perché permette di mettere in evidenza le qualità timbriche di una grande orchestra. Il maestro texano ha sollecitato al massimo la partecipazione e lo slancio ritmico degli strumentisti che hanno risposto con una resa sfolgorante di queste pagine che all’impressionante volume sonoro del tutti alternano momenti più lirici affidati ai singoli strumenti, come la viola e il violoncello per la sognante Somewhere.

Gran finale con le musiche di Guerre Stellari in cui l’autore John Williams dimostra la sua grande maestria compositiva, qui in una delle saghe più amate dal pubblico: a furor di popolo alla trilogia originale (episodi IV-VI, 1977-83) si è aggiunta quella del prequel (I-III, 1999-2005) e del sequel (VII-IX, 2015-1019) ai quali Williams ha apposto il suo inconfondibile marchio. Ma non c’è quasi smash hit di hollywood che non porti la sua firma: Williams ha affiancato registi come Hitchcock, Spielberg, Lucas, Donner e a novant’anni suonati sta lavorando alle partiture del quinto Indiana Jones e della miniserie Obi-Wan Kenobi, ennesima reincarnazione della saga di Guerre Stellari. Alle prime note della “Marcia Imperiale” c’è mancato poco che il pubblico non saltasse in piedi urlando, contagiato dall’entusiasmo di Axelrod che è poi apparso con il casco di Darth Vader e ha diretto l’orchestra con una spada laser…

Grande gioia vedere finalmente l’Auditorium Toscanini gremito fino alla galleria in una serata che prevedeva in città altri due appuntamenti sold out: Cesare Cremonini allo Stadio Olimpico e Milton Nascimento alle OGR per Torino Jazz Festival. Quando ci sono valide proposte anche i torinesi escono di casa.

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La Gioconda

 

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

Milan, Teatro alla Scala, 11 juin 2022

 Qui la versione italiana

La Gioconda, retour à la Scala après 25 ans d’absence

Il avait disparu de la Scala depuis 25 ans, pourtant l’opéra de Ponchielli n’est pas une rareté dans le temple de l’opéra milanais. Si l’on regarde les dates des représentations, après la première du 8 avril 1876, La Gioconda a été reprise 15 fois jusqu’en 1952 (la fameuse production avec Callas) ; on note ensuite une absence de 45 ans jusqu’en 1996, avec Abbado : il est donc clair que la fortune de l’œuvre appartient à une période très spécifique qui ne s’est pas prolongée jusqu’à nos jours, même si cet  « opéra mélodramatique  » a encore de nombreux admirateurs…

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Ariadne auf Naxos

Foto © Michele Monasta – Maggio Musicale Fiorentino

Richard Strauss, Ariadne auf Naxos

★★★★☆

Florence, Teatro della Pergola, 10 juin 2022

 Qui la versione italiana

À Florence, une très agréable Ariadne auf Pergola

Il est bien connu que la première version de l’opéra de Strauss, un divertissement inspiré du Bourgeois gentilhomme de Molière réadapté par Hofmannsthal en deux actes et mis en scène par Max Reinhardt, a été présentée au théâtre de la Cour de Stuttgart le 25 octobre 1912 lors d’une représentation de six heures.

Après des reprises à Zurich, Prague et Munich, la version que nous connaissons aujourd’hui a été montée au théâtre de la Cour de Vienne en octobre 1916, la pièce de Molière étant remplacée par un prologue de style conversation musicale où le discours du majordome se mêle au chant. Cela explique le caractère presque « expérimental » de cette œuvre, qui reprend le thème de la méta-théâtralité (si cher au XVIIIe siècle, et même au-delà), c’est-à-dire une parodie du monde du théâtre…

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Intervista a Carlo Vistoli

foto © Nicola Allegri

(Ici la version française)

Torino, 10 giugno 2022

Renato Verga – Dall’ottobre 2012, da quando cioè hai debuttato a Cesena come la Sorceress di Dido and Æneas di Purcell, sono trascorsi poco più di nove anni. Ora Carlo Vistoli è tra i più richiesti cantanti nel repertorio barocco, e non solo. Lavora con i più prestigiosi direttori e registi del momento, colleziona recital e ha al suo attivo numerose incisioni discografiche. Come è successo?
Carlo Vistoli – Il tutto comincia da ben prima. La musica è stata sempre una mia grande passione, fin da quando ero piccolo. I miei genitori mi compravano delle musicassette prima e dei cd poi dedicati ai grandi compositori: un’introduzione, diciamo, alla cosiddetta musica “classica”. Tuttavia, non sono nato e cresciuto in un ambiente dove si coltivasse veramente un interesse per questo genere di musica: nessuno dei miei genitori, né dei miei parenti, è musicista. Mio padre aveva qualche qualche disco e ascoltandolo ho incominciato ad appassionarmi. E poi, appunto, chiedevo che mi comprassero queste registrazioni che uscivano in edicola, e devo dire che mi hanno davvero aperto un mondo. Il primo approccio è stato dunque da ascoltatore. Successivamente ho iniziato a studiare chitarra classica e anche pianoforte, sempre a Lugo. Quindi, verso i vent’anni, è arrivato lo studio del canto, prima con un tenore di Lugo che purtroppo è venuto a mancare prematuramente due anni fa, Fabrizio Facchini, poi, per un breve periodo, con Michele Andalò, un controtenore che è stato allievo di William Matteuzzi e infine con Matteuzzi stesso, con cui ho rifondato la mia tecnica. A queste lezioni private ho affiancato anche un corso di specializzazione con Sonia Prina al Conservatorio di Ferrara. È quindi una decina di anni fa che ho realizzato che questo poteva essere veramente il mio lavoro, che potevo vivere di questo sogno che tenevo nel cassetto fin da quando ero piccolo. Tutto è successo attraverso lo studio e l’impegno, che continuano tuttora, nonostante non sia più studente. O meglio, per me si è sempre “studenti” (inteso come participio presente), se il proprio obiettivo è un costante miglioramento. Personalmente, ho sempre cercato di puntare a nuovi traguardi, considerando che ogni arrivo è allo stesso tempo un nuovo punto di partenza. Nella pratica, durante i primi anni, ho partecipato a vari concorsi e sostenuto audizioni: c’è chi ha creduto in me e mi ha offerto delle possibilità, poi, come si suol dire, una cosa tira l’altra, e se si fa bene, poi dopo si viene richiamati e così si continua. A pensarci a posteriori, il bello è che mi è capitato, e mi capita ancora oggi, di lavorare con quelli che erano allora i miei miti, soprattutto per quanto riguarda il Barocco, genere che ho scoperto tramite le registrazioni, tra gli altri, di William Christie e di John Eliot Gardiner.

Caldara, Dafne (Apollo), Venezia 2015, regista Bepi Morassi (foto © Daniele Grillo)

RV – Dopo i tuoi studi universitari a Bologna – a proposito, sono stati utili per la tua professione? – l’incontro con William Matteuzzi quando avevi vent’anni è forse stato quello decisivo per indirizzare la tua carriera? E quello con Sonia Prina?
CV – Studiare musicologia è stato certamente importante, anche se in realtà non sono arrivato alla laurea, per vari motivi ma soprattuto perché poi ho cominciato a lavorare piuttosto assiduamente – ma laurearmi è nei miei progetti, appena ne avrò il tempo. Questi studi, ad ogni modo, credo mi siano stati d’aiuto, occupandomi principalmente del repertorio barocco, dove spesso si ha a che fare direttamente con le fonti. Quando si parla di “barocco” si intende un periodo molto ampio, di quasi duecento anni, con tanti stili diversi e con differenti pratiche esecutive, che occorre aver studiato e conoscere. Inoltre, mi capita spesso di trascrivere dei manoscritti. Tuttavia, in realtà, quello che conta è quanto avviene sul palcoscenico con i direttori, i maestri preparatori, i registi, e anche i colleghi: facendo produzioni importanti, sono venuto in contatto con alcuni cantanti che ammiravo già da ascoltatore e che ora posso osservare da vicino, ai quali posso chiedere consigli. Ogni incontro è utile in questo mestiere e più esperienze si fanno, meglio è. Io, poi, devo molto ai miei due maestri: Matteuzzi, che, oltre alla tecnica all’italiana del legato e del canto sul fiato mi ha insegnato l’importanza della parola e della prosodia, e Prina, che mi ha dato dritte importantissime sullo stile e su come rendere vivi e pulsanti, più vicini al pubblico, quei personaggi del melodramma barocco che di primo acchito possono parere bidimensionali, ma che una sapiente unione di musica e parole rende più sfaccettati e completi. Sonia ha un grandissimo istinto teatrale e comunicativo e il suo è stato un insegnamento prezioso.

Händel, Agrippina (Ottone), Brisbane 2016, regista Laurence Dale (foto © Darren Thomas)

RV – Quando hai scoperto che la tua voce sarebbe stata quella di controtenore, o meglio di contraltista, vista la tessitura medio-grave in cui preferisci esprimerti, e il sontuoso timbro che possiedi?
CV – Con il mio primo maestro, Fabrizio Facchini, avevo esplorato la mia voce da tenore, ma sentivo che c’era un tetto oltre il quale andavo con fatica. Mi risultava più comodo il falsetto, anche se allora era ancora del tutto incolto, e la mia passione del tempo (quando cioè avevo vent’anni) per il repertorio barocco mi aveva portato a scoprire controtenori come David Daniels, Bejun Mehta – con cui avrò l’onore di cantare ne L’incoronazione di Poppea tra qualche mese all’Opera di Stato di Berlino –, Andreas Scholl, Philippe Jaroussky, Lawrence Zazzo, Max Emanuel Cenčić, Christophe Dumaux e altri che mi avevano impressionato per i loro virtuosismi. Per curiosità, avendo come riferimento queste voci, avevo chiesto al mio insegnante di provare qualche aria, ma è stato prima con Andalò, lui stesso un controtenore, e poi in particolare con Matteuzzi che ho iniziato a esplorare seriamente questa vocalità. Una vocalità che ho costruito nota per nota, partendo dalla parte centrale, in su: avevo infatti un registro basso già abbastanza sviluppato, così come quello acuto, ma meno il centro. Con pazienza, semitono dopo semitono, ho unito questi registri, specializzandomi nel repertorio grave della mia tessitura, quello che gli anglosassoni chiamano “male alto”. Ho una predilezione per una vocalità brunita, calda, avvolgente, carnosa, con un colore maschile ben evidente. Nei ruoli eroici scritti all’epoca per castrati una delle caratteristiche spesso richieste era quella di saper passare con agio da note “di petto” (chiamiamole così, per convenzione), gravi e scure, agli acuti: questo è un aspetto fondamentale con cui un controtenore deve confrontarsi nel suo studio. Ultimamente sto affrontando anche ruoli più acuti, ma mi spingo al massimo a qualche ruolo mezzosopranile, rimanendo la mia comfort zone quella contraltile. Insomma, nelle cadenze ci si può sbizzarrire e salire all’acuto, ma la parte del cantabile, dove si fanno i colori, il legato, dove veramente ci si esprime, per me rimane quella del contralto.

  

Cavalli, Erismena (Idraspe), Aix-en-Provence 2017, regista Jean Bellorini (foto © Pascal Gély)

RV – Si può dire che con una voce come la tua si percepisce chiaramente l’evoluzione che la vocalità in questo registro ha subito: dalle prime voci stimbrate e flebili del passato che facevano largo uso del falsetto, alla voce piena e timbrata tua e di alcuni tuoi colleghi. Si può dire che non ci sia più l’emulazione della voce femminile nei controtenori di oggi?
CV – Qualche anno fa uscì una mia intervista con un titolo che riportava, – virgolettata, quindi come se l’avessi pronunciata io –, la frase «Canto come una donna per emozionare tutti», ma fu un evidente arbitrio del titolista, perché mai mi sognerei di dirlo: per quanto speri davvero di emozionare chi mi ascolta, non c’è mai stata l’intenzione di emulare la voce femminile. Dai lontani pionieri di questa vocalità, come Russell Oberlin, ma soprattutto Alfred Deller, le cui registrazioni specialmente nel repertorio inglese sono per me ancor oggi delle gemme di bellezza (tra l’altro, per lui è stato scritto il ruolo di Oberon nel Midsummer Night’s Dream di Britten, anche se, in realtà, non aveva una voce davvero “operistica”), tanta acqua è passata sotto i ponti, e oggi la voce di controtenore possiede di sicuro una maggior proiezione, una maggior capacità di sostenere fiati più lunghi, colorature complesse, e il suono, credo, si è fatto più rotondo, più corposo. Ma senza figure come Deller e Oberlin, oggi non potremmo esserci noi. I controtenori sono sempre più utilizzati in spazi teatrali ampi e con orchestre a volte nemmeno così ridotte, e queste esigenze hanno fatto sì che la voce si sia, come dire, “liricizzata”. Sono queste necessità teatrali ad aver portato a un’evoluzione stilistica e soprattutto tecnica della voce. A volte è comunque richiesto che questa tendenza venga ridotta, per esempio nel repertorio sacro: prendiamo Bach, in cui è necessario ridurre il vibrato, essere più strumentali – anche se in maniera diversa da come un altro compositore come Vivaldi richiede alla voce di avvicinarsi alle peculiarità degli strumenti. Ma per tornare alla questione circa l’emulazione della voce femminile, posso dire che negli ultimi tempi noto un crescente interesse per la vocalità dei sopranisti, forse anche in sintonia con il progredire del concetto di fluidità dei generi: c’è un gusto di tendenza, insomma, per un avvicinamento, quasi un confondersi, tra voce di uomo e voce di donna. Per quanto mi riguarda, però, preferisco che in un controtenore (etichetta generica che comprende contraltisti e sopranisti: questo bisogna farlo presente) la componente maschile rimanga quella prevalente, nel timbro e negli accenti.

Monteverdi, L’incoronazione di Poppea (Ottone), Salisburgo 2018, regista Jan Lauwers (foto © Vanden Abeele)

RV – Come cambia il personaggio se invece di un mezzosoprano/contralto o di un tenore c’è un controtenore? Sto ovviamente pensando al caso dell’Orfeo ed Euridice di Gluck nelle sue diverse versioni.
CV – Le tre versioni differiscono nella scrittura vocale e anche, seppur in minor parte, in quella strutturale, dei numeri musicali, nonostante l’ossatura rimanga la stessa. Ognuna ha la sua ragion d’essere. La prima versione, quella di Vienna del 1762, fu scritta per un contralto castrato, Gaetano Guadagni, che cantò anche per Händel, ma a Parma, cinque anni dopo, fu un soprano castrato, Giuseppe Millico, mentre a Parigi nel 1774 fu un haute-contre. E non parliamo della versione di Berlioz di quasi un secolo dopo per mezzosoprano. Nel caso della versione originale, Gluck voleva sfrondare l’opera degli orpelli barocchi, secondo le intenzioni della riforma sua e di Calzabigi, mirando a un’espressione più diretta del testo poetico e dell’intreccio,. Al giorno d’oggi, l’impatto che si vuole avere in scena ha acquistato un’importanza fondamentale. Per quanto mi riguarda, ho fatto due produzioni di Orfeo ed Euridice, una con Carsen a Roma nel 2019 e una con Michieletto quest’anno a Berlino, e in entrambi i casi c’è stata una volontà di realismo, di verisimiglianza scenica che solo con un Orfeo maschile si è potuta ottenere. Ma non solo: l’effetto di una voce acuta maschile è ben diverso da quello di una voce grave femminile, a livello acustico e di percezione. C’è poi una questione di gusto personale – è vero –, tra chi preferisce un Orfeo donna e chi un Orfeo uomo (scena o non scena), ma qui si entra nel campo del soggettivo, e ognuno è libero di avere la sua opinione.

Hasse, Artaserse (Artabano), Sydney 2018, regista Chas Rader-Shieber (foto © Brett Boardman)

RV – Sei tra i non molti controtenori che conti l’Italia eppure, soprattutto in questo repertorio italiano al 99% e in cui la dizione è della massima importanza, gli italiani non dovrebbero essere quelli più avvantaggiati? Sono le solite ragioni più o meno nascoste del maschilismo italico a far snobbare i controtenori, come alcuni direttori ancora oggi fanno, preferendo cantanti femminili en travesti? Che cosa vorresti dire a loro?
CV – Contralti, mezzosoprani e controtenori possono e devono convivere pacificamente (o almeno, ci si prova… scherzo!), anche se ci sono alcuni ruoli che vedo più adatti a essere cantati da un uomo, invece che da una donna. Ultimamente, la presenza dei controtenori, anche italiani, nei nostri teatri è aumentata e credo che, in generale, non ci sia più un pregiudizio nei nostri confronti nei grandi teatri: la Scala, l’Opera di Roma, il Maggio Musicale Fiorentino, la Fenice, solo per citarne alcuni, si sono aperti a questo tipo di vocalità e contemporaneamente sempre più spesso propongono titoli barocchi. È in Francia dove ho lavorato di più, un paese che amo molto e in cui sono sempre felice di tornare, ma in caso di sovrapposizioni di impegni, a parità di importanza, dovendo fare una scelta, ho sempre un occhio di riguardo per il mio paese. Un madrelingua italiano è certo privilegiato, non solo per una questione di dizione, o – per citare un aspetto molto pratico – per la praticità nell’imparare (a memoria) la parte. In particolare, cantare nella propria lingua è un vantaggio soprattutto nel repertorio seicentesco dove, ancora più che nei repertori più tardi, il testo viene ancor prima della musica e conoscere la prosodia e le inflessioni della lingua è veramente importante. Quindi, per quanto riguarda il Seicento, essere madrelingua, sì, credo faccia la differenza. Al tempo stesso, ci sono tanti cantanti stranieri che cantano egregiamente in italiano, così come il contrario: noi italiani che cantiamo (spero bene, nel mio caso) in un’altra lingua. A me, per esempio, piace molto cantare in inglese (e non è affatto facile, se lo si vuole fare davvero bene), così come in tedesco, mentre purtroppo ho molte poche occasioni di cantare in francese perché il repertorio a me adatto non lo permette. Quando canto in una lingua che non è mia, mi sforzo veramente di rendere al meglio tutte le sfumature del testo, ma per forza di cose non potrà mai essere come nella propria madrelingua. Nel Seicento, con Monteverdi, Cavalli & co., i libretti sono talmente belli, di livelli poetici talmente alti, che saper cogliere anche le minime inflessioni del testo è essenziale per renderle poi al meglio nel canto.

Gluck, Orfeo ed Euridice (Orfeo), Roma 2019, regista Robert Carsen (foto © Fabrizio Sansoni)

RV – Monteverdi, Cavalli, Händel, Vivaldi: un repertorio stupendo e ricchissimo di capolavori che però in Italia non è poi così popolare. Solo un quinto delle produzioni in cui hai cantato sono state fatte in Italia, con la Francia il paese che forse frequenti di più. Cambieranno mai le cose da questo punto di vista nel nostro paese che dell’opera conosce e vuole ascoltare quasi soltanto il melodramma ottocentesco?
CV – Il recente grande successo de La Calisto alla Scala fa ben sperare: non era per nulla scontato per un autore come Cavalli, che comincia a essere proposto con una certa regolarità nei teatri europei, ma tuttora non è così rappresentato come Monteverdi. Se l’opera barocca viene messa in scena con allestimenti di livello, grandi registi e direttori di prestigio, il pubblico apprezza. Nei teatri provincia, con le dovute eccezioni, questo repertorio tarda invece ad affermarsi a causa della tradizione e dell’attaccamento popolare al melodramma ottocentesco e al repertorio verista. Ma qualcosa pian piano sta cambiando. Oltretutto, l’immenso repertorio barocco ha ancora molti tesori da far scoprire. Occorre solo un po’ più di coraggio per allineare il nostro paese a quanto avviene all’estero, ma mi pare che, anche se lentamente, ciò stia avvenendo.

Stradella, Il trespolo tutore (Nino), Genova 2020, registi Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi (foto © Stefano Pischiutta)

RV – Al di fuori del repertorio barocco hai cantato anche in un’opera contemporanea, l’Ospite in Luci mie traditrici di Salvatore Sciarrino alla Fenice – mentre a Bologna tre anni prima ci fu un mezzosoprano… Dopo Britten sembra che anche i compositori contemporanei abbiano scoperto questo registro vocale.
CV – È vero: il repertorio contemporaneo è molto attento alla voce di controtenore. Ricordo con grande piacere la produzione veneziana di Luci mie traditrici, un’opera che è ormai diventata quasi di repertorio, a più di vent’anni dalla sua composizione, con molte diverse edizioni nel corso degli anni. La scrittura delle voci di Sciarrino è molto idiomatica e vi si avverte il suo interesse per la musica del Cinque-Seicento, in questo caso di Gesualdo – alla cui travagliata storia personale è tra l’altro ispirata la trama –, ma anche di Stradella (si veda Ti vedo, ti sento, mi perdo – un altro dei suoi titoli così evocatori –, scritto per La Scala). Un’altra interessante esperienza è stata quella con Adriano Guarnieri per una video-opera ispirata al Paradiso di Dante, (L’amor che move il sole e l’altre stelle), eseguita al Ravenna Festival, così come la cantata Hermann di Paolo Baioni. Ho cantato anche Arvo Pärt (Stabat Mater), assieme a Mario Brunello. Sono tutte musiche scritte nella nostra epoca, ma spesso con uno sguardo al passato. È stato bello e interessante lavorare finalmente con compositori viventi che, in alcuni casi, hanno scritto proprio per la mia voce. Parlare con gli autori, scambiare idee, conoscere il perché di scelte espressive e stili aiuta molto nella resa interpretativa. L’opera contemporanea, oggi, sta vivendo un periodo di grande fortuna, con importanti produzioni: Thomas Adès, George Benjamin, Brett Dean sono presenti nei maggiori teatri del mondo. E poi John Adams, Philip Glass, il quale ha scritto un’opera, Akhnaten, che ha come protagonista proprio un controtenore. Questa vocalità aveva suscitato interesse nei compositori del Novecento inizialmente per la sua novità, per le potenzialità che andavano oltre la categorizzazione delle voci canoniche. Britten ha usato questo registro nei personaggi di Oberon o di Apollo per esprimere il senso del magico, mentre per i compositori di oggi credo che possa essere considerata una voce come un’altra – di fatto, è diventata il settimo registro disponibile. La musica contemporanea ha ovviamente le sue difficoltà, soprattutto quando deve essere cantata in scena, a memoria, senza spartito (come per me è avvenuto per l’opera di Sciarrino), ma è molto gratificante ricevere l’immediato feedback del compositore.

Händel, Ariodante (Polinesso), Mosca 2021, regista David Alden (foto © Damir Yusupov)

RV – Alarcón, Antonini, Capuano, Christie, Gardiner, Haïm, Marcon, Montanari, Sardelli, Spinosi… Sembra la lista dei maggiori direttori del mondo e hai cantato con tutti loro. Chi ricordi con maggior piacere? Con chi hai dovuto discutere un po’ più del solito?
CV – Sono tutti grandissimi artisti con i quali mi sento onorato di aver lavorato. Ognuno ha le sue caratteristiche distintive e una delle qualità di un cantante deve essere quella di adattarsi alle richieste del direttore. È un lavoro di comunanza d’intenti, un incontro di idee: il bello è proporre le proprie, come per esempio le variazioni nei Da Capo (in cui mi diverto a sbizzarrirmi – ma d’altronde così facevano all’epoca). Se proprio dovessi scegliere un nome cui sono particolarmente affezionato forse sarebbe quello di William Christie, il primo grande direttore del barocco con cui ho lavorato assiduamente e che mi ha formato e dato preziosi consigli: con lui ho fatto molti concerti e un’opera in scena (L’incoronazione di Poppea a Salisburgo nel 2018: una delle esperienze musicali più belle che ricordi). Quale forza riesce tuttora a trasmettere, quale senso del teatro, anche in concerto! Per fortuna non ho mai avuto esperienze negative, o scontri con direttori. Finora è andato sempre tutto liscio, e spero di proseguire così.

Gluck, Orfeo ed Euridice (Orfeo), Berlino 2022, regista Damiano Michieletto (foto © Axel Hindebrand)

RV – Robert Carsen e Damiano Michieletto sono i registi con cui invece hai lavorato ultimamente: come è stata questa esperienza? Come ti sei trovato con questi due personaggi così diversi nel loro approccio al teatro?
CV – Anche prima di conoscerli personalmente, Carsen e Michieletto erano tra i miei registi preferiti e dal punto di visto lavorativo e umano mi sono trovato benissimo con entrambi. Gli spettacoli di Carsen ormai sono dei classici pur essendo lui in piena attività (per nostra fortuna!). Con Michieletto quest’anno ho addirittura tre produzioni: Orfeo ed Euridice a Berlino, Giulio Cesare in Egitto a Parigi e Montpellier e poi ci sarà Alcina a Firenze, una ripresa dello spettacolo di Salisburgo con Cecilia Bartoli. Le prime due erano nuove produzioni ed è stato esaltante veder nascere due regie di titoli così importanti. Sono spettacoli in cui è richiesto un grande impegno fisico: nell’Orfeo, in particolare, non esco mai di scena e sono coinvolto anche nei balletti, che (a differenza della versione di Carsen) non sono stati tagliati. Michieletto e Carsen sono entrambi molto attenti alla recitazione ed entrambi sono attorniati da team eccezionali nella creazione delle scenografie, dei costumi e delle luci. Mi pare che l’ultima fase artistica di Michieletto punti più che in passato sul simbolismo e proceda per sottrazione – ferma restando la cura che dedica all’azione scenica. All’asciuttezza e all’astrazione delle scene (le meravigliose e complesse visioni di Paolo Fantin) si unisce dunque un grande scavo del personaggio, che è chiamato a esprimersi non solo con la voce ma anche col corpo. Con Carsen ho avuto il piacere di riprendere l’ormai classica sua produzione di Orfeo ed Euridice a Roma, una delle mie più grandi emozioni, se non la più grande, vissute sul palco finora. Uno spettacolo essenziale per illustrare una storia “vera”, diretta, che racconta il dolore della perdita, ambientato in una landa desolata, popolata da persone “reali”, il tutto sfrondato da ogni aspetto mitologico. Con lui ho fatto anche Rappresentatione di Anima, et di Corpo di Cavalieri a Vienna, un oratorio seicentesco, ricco di simboli e allegorie, difficile da mettere in scena, ma Carsen ne ha fatto un capolavoro teatrale, riportandolo a una dimensione terrena, umana, che parla a noi uomini del XXI secolo. È stato un successo incredibile di pubblico. Stilare classifiche lascia sempre il tempo che trova, ma in questo caso mi sento di dire che, per me, Carsen è il più grande regista d’opera della nostra epoca.

Händel, Giulio Cesare (Tolomeo), Parigi 2022, regista Damiano Michieletto (foto © Vincent Pontet)

RV – Cavalli a Martina Franca (Xerse), Monteverdi a Berlino (L’incoronazione di Poppea) e Vivaldi ad Amsterdam (Giustino): questi sono tra i tuoi prossimi impegni. Nel tuo futuro ci saranno delle sorprese? C’è un ruolo che vorresti cantare ma che finora nessuno ti ha offerto?
CV – Il Xerse di Cavalli è un ruolo stupendo, molto impegnativo per via della lunghezza della parte (voglio ringraziare, tra l’altro, il mio compagno, Luigi, che mi ha aiutato a memorizzarlo, durante questi ultimi impegnativi mesi, mentre ero occupato in altre produzioni), con una tessitura perfetta per me. Tra l’altro, il compositore cremasco è tra i miei preferiti di sempre. Sono molto contento di farlo con Sardelli e Muscato per il primo anno della direzione artistica di Sebastian Schwarz del Festival della Valle d’Itria. L’anno prossimo canterò il ruolo titolo nell’Orlando Furioso di Vivaldi in concerto al Théâtre des Champs-Élysées con Jean-Christophe Spinosi e tornerò alla Komische Oper di Berlino per Semele di Händel con la regia di Barrie Kosky (altro regista che adoro e che ritengo tra i più grandi d’oggi). Tra i ruoli che vorrei cantare in scena ci sono senz’altro, tra quelli händeliani, Orlando, Rinaldo e Didymus (in Theodora, un ruolo scritto, tra l’altro, per Gaetano Guadagni), e poi Mozart – Farnace in Mitridate e Ascanio – e, perché no, Rossini! Ho già cantato La petite messe solennelle (era uno dei miei sogni nel cassetto, ed è stato il mio ultimo concerto prima del lockdown di marzo 2020), e mi piacerebbe cantare Tancredi. Chissà, vedremo! E quando sarò più agé ci saranno i ruoli di nutrice, ma per questi c’è ancora tempo…

Händel, Alcina (Ruggiero), Firenze 2022, regista Damiano Michieletto (foto © Michele Monasta)

La Gioconda

 

Amilcare Ponchielli, La Gioconda

★★★☆☆

Milano, Teatro alla Scala, 11 giugno 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

La Gioconda, melodramma melodrammatico

Mancava da 25 anni dalla Scala, ma non si può dire che l’opera di Ponchielli sia una rarità nel teatro milanese: se si guardano le date delle rappresentazioni però – dopo la prima dell’8 aprile 1876, La Gioconda fu ripresa altre 15 volte fino al 1952, quella con la Callas, poi un’assenza di 45 anni fino al 1996 con Abbado – è evidente che le fortune del lavoro appartengono a un periodo ben preciso, che non arriva ai giorni nostri nonostante questo «melodramma melodrammatico» abbia ancora molti estimatori.

I motivi perché La Gioconda, ispirata dal drammone Angelo, tyran de Padoue di Victor Hugo trasportato da Boito a Venezia, fosse tanto apprezzata allora ci sono tutti: vicende da feuilleton a tinte forti, quasi sadiche («bieca enormità dell’intrigo» la definiva Massimo Mila), coups de théâtre improbabili e personaggi scolpiti con la fiamma ossidrica. E poi una musica ben costruita, che sembra guardare al futuro – leggi il Verismo – ma è invece rivolta a un passato che in un certo qual modo rifaceva il grand opéra rivisto con le lenti del post-wagnerismo: le dimensioni in quattro atti, la presenza dei ballabili, i numerosi concertati e interventi corali richiamavano proprio quella stagione della musica francese dell’Ottocento i cui momenti d’oro si erano estinti negli anni ’50 con le ultime opere di Auber. Ma negli ultimi decenni del XIX secolo una nuova generazione di compositori francesi continuava a produrre opere in quel solco, parliamo di Massenet, Gounod, Saint-Saëns, Thomas, D’Indy, mentre in Italia musicisti come Gomes, Marchetti e appunto Ponchielli si collocavano anch’essi sull’evoluzione del grand opéra per arrivare a Verdi con quel sublime ossimoro con cui si può definire l’Aida: una grandiosa opera intimista.

Il gusto moderno fa fatica ad appassionarsi alle vicende narrate nei datati versi del giovane Arrigo Boito, che qui si firma per prudenza con l’anagramma Tobia Gorro, e ci vorrebbe un regista che volgesse quella assurda drammaturgia in parodia, o almeno ne facesse una lettura critica, come ha cercato di fare Olivier Py a Bruxelles tre anni fa. Ma ciò non succede con Davide Livermore, che alla Scala riserva sempre le sue letture più “moderate”.

Il regista torinese ricrea una Venezia lugubre e onirica, tra la Venise Céleste di Mœbius e il Casanova di Fellini, con i ponti, le scalette, i palazzi trasparenti disegnati da Giò Forma – anche se fin troppo realistico è invece il brigantino del secondo atto. La scena è infestata dai crudeli Pulcinelli del Tiepolo di Ca’ Rezzonico qui scherani del capo dell’inquisizione, dagli angeli della morte e dai genii del male calati dall’alto. Lugubri gondole, capitelli sospesi, bifore e colonnine in garza connotano la città lagunare. L’impianto ipertecnologico a cui ci aveva abituato Livermore è limitato alle proiezioni della D-Wok, qui poco più che decorative, con i profili delle chiese nella nebbia che sale dal mare, i soffitti a cassettone di palazzi grandiosi e una figura femminile che fluttua nell’acqua e che vuole forse accennare alla Cieca affogata nel canale. Meno curata del solito è anche apparsa la cura attoriale dei cantanti. Saioa Hernández è ritornata nella parte del titolo con cui aveva debuttato nei teatri emiliani quattro anni fa. Volume enorme, grande temperamento e tecnica impeccabile si alleano a un timbro particolarissimo che in questo repertorio è manna dal cielo per delineare il carattere del personaggio, tanto che il pubblico l’ha compensata con un diluvio di applausi al termine di «Suicidio!» e nei saluti finali. Anna Maria Chiuri, che in quella produzione era Laura Adorno, qui veste i panni della Cieca con efficace vocalità e buona presenza scenica, mentre Laura qui è Daniela Barcellona, interprete belcantista che in questo repertorio truculento ha fornito la bellezza del suono e la cura del fraseggio che le riconosciamo. Straordinariamente inciso è stato l’Alvise Badoèro di Erwin Schrott, che ha rinunciato a ogni gigioneria per concentrarsi sulla qualità della sua voce rendendo memorabile la sua scena e aria all’inizio del terzo atto. Altrettanto perfido ma non caricaturale il Barnaba di Roberto Frontali, risolto con grande mestiere dal baritono romano. L’indisposto Fabio Sartori è stato sostituito all’ultimo momento da Stefano La Colla le cui incertezze di intonazione, giustificate alla prima, sono continuate anche nella recita dell’11, ma il pubblico ha reagito pavlovianamente al suo acuto finale “col rinforzo” di «Cielo e mar» applaudendo una modesta prestazione caratterizzata da un volume ragguardevole ma pochezza di colori e di intenzioni. Fabrizio Beggi (Zuàne) e Francesco Pittari (Isèpo, Boito ama mettere gli accenti anche là dove non servono…) sono tra gli altri convincenti comprimari. Come sempre ottimo il coro istruito da Alberto Melazzi. Nella Danza delle Ore, prosaicamente coreografata da Frédéric Olivieri, si sono distinti gli allievi della scuola di ballo dell’Accademia del teatro.

Anche il pubblico, seppure formato in gran parte dai visitatori della Settimana del Design, ha compreso la scarsa qualità della direzione di Frédéric Chaslin: la sua è una concertazione senza nerbo con dinamiche improvvisate e assenza di colori strumentali. Eppure il fascino di una partitura come questa sta proprio nell’iridescenza dei toni orchestrali più che negli improvvisi slanci melodici che si estinguono prima di essere sviluppati. Purtroppo il direttore francese non sembra che l’abbia compreso.

 

Ariadne auf Naxos

Foto © Michele Monasta – Maggio Musicale Fiorentino
(le foto si riferiscono alla prima recita con Sara Blanch come Zerbinetta)

Richard Strauss, Ariadne auf Naxos

★★★★☆

Firenze, Teatro della Pergola, 10 giugno 2022

bandiera francese.jpg  Ici la version française

Una piacevolissima Ariadne auf Pergola

È noto che la prima versione di Ariadne auf Naxos, ossia quella di un divertissement al seguito de Il borghese gentiluomo riadattato da Hofmannsthal in due atti e messo in scena da Max Reinhardt, fu presentata al Teatro di Corte di Stoccarda il 25 ottobre 1912 in uno spettacolo che toccava le sei ore. Dopo le riprese di Zurigo, Praga e Monaco, nell’ottobre 1916 al Teatro di Corte di Vienna andò in scena la versione che conosciamo noi, ossia quella con la commedia di Molière sostituita da un prologo in stile di conversazione musicale dove al cantato si mescola il parlato del maggiordomo. Questo spiega la particolarità quasi “sperimentale” di questo lavoro che riprende il tema della metateatralità così caro al Settecento, e anche oltre, in cui si metteva in parodia l’ambiente del teatro e che aveva avuto illustri predecessori in Cimarosa (L’impresario in angustie), Martini (L’impresario delle Canarie), Gassmann (L’opera seria), Mozart (Der Schauspieldirektor), Salieri (Prima la musica poi le parole) fino ad arrivare a Donizetti (Le convenienze e inconvenienze teatrali). Strauss ritornerà a questo tema con la sua ultima opera, Capriccio.

Le città che hanno la fortuna di avere due teatri a disposizione per la lirica possono utilizzare quello più piccolo per le opere che hanno un organico minore, come ha sempre fatto Firenze, salvo un’eccezione nel 1977, con questa opera di Strauss, ora in scena nel bellissimo Teatro della Pergola dove avvenne la prima rappresentazione in Italia nella lingua originale tedesca nel 1959. Normalmente l’opera è infatti ospitata nelle sale grandi, come quella del Regio di Torino, che ne vide la prima italiana il 7 dicembre 1925 in lingua italiana, o della Scala nella produzione del 2019.

Nella sala settecentesca le dimensioni esaltano il suono che Daniele Gatti, il nuovo Direttore principale del Maggio, realizza con grande eleganza, varietà di colori e dinamiche che variano dal trasparente gioco cameristico del Prologo ai momenti più intensi della seconda parte fino all’esaltazione finale col tenore in unisono con l’orchestra in quel re bemolle che rimanda a quello analogo della conclusione del Götterdämmerung wagneriano. Nel mezzo si ammira il perfetto equilibrio tra buca e palcoscenico e la precisa concertazione, nonostante la sostituzione all’ultimo momento di alcuni interpreti. È il caso della Zerbinetta di Jessica Pratt che, scopertasi positiva al Covid, ha al momento dovuto rinunciare alle prime due recite: alla prima ha preso il suo posto Sara Blanch – e le cronache registrano il trionfo della cantante spagnola accorsa da Barcellona – mentre alla recita del 10 non minore successo ha ottenuto Gloria Rehm, soprano leggero arrivato dalla Germania dove ha cantato più volte la parte. Perfettamente integrata nella drammaturgia del regista Matthias Hartmann, che l’ha voluta particolarmente disinibita, non ha avuto alcuna incertezza nel confrontarsi con gli altri personaggi e ha fornito una prestazione vocale di tutto rispetto con una voce da soprano leggero perfettamente a suo agio nelle colorature e negli acuti che coronano il recitativo, aria e rondò della seconda parte, meritandosi gli applausi a scena aperta del pubblico fiorentino.

Analogo trionfo per Krassimira Stoyanova, già Primadonna/Arianna nella produzione scaligera, che conferma la sontuosità di un mezzo vocale piegato a esprimere con sobrietà le angustie prima e la beatitudine poi della donna abbandonata che invoca la morte ma poi si esalta nella salita all’Olimpo con  Bacco/Dioniso. Nella prima parte si era fatta notare per bellezza di timbro ed eleganza di emissione Michèle Losier, uno dei migliori Compositori mai ascoltati ultimamente. Bellissima sorpresa anche per l’americano AJ Glueckert (Tenore/Bacco), timbro luminosissimo, bella proiezione e consolidata tecnica che gli permette di superare gli scogli di un ruolo dalla impervia tessitura. Efficace come sempre è Markus Werba nella parte del Maestro di musica spesso frequentata e ottimi gli altri, tra cui il Maestro di ballo Antonio Garés, l’Ufficiale Davide Piva, il Parrucchiere Matteo Guerzé, il Lacchè Amin Ahangaran e il gruppo di maschere: l’Arlecchino di Liviu Holender, lo Scaramuccio di Luca Bernard, il Brighella del “tenore di grazia” Daniel Schliewa e il Truffaldino del baritono Daniele Macciantelli, anche lui valido sostituto dell’ultimo momento. Nel trio di ninfe con cui Strauss sembra abbia voluto riprendere con ironia le figlie del Reno o le Norne wagneriane, si sono notate per distinte qualità vocali la Najade di Maria Nazarova, la gentile Eco di Liubov Medvedeva e la Driade di Anna-Doris Capitelli, anche lei sostituta dell’ultima ora. Un disinvolto Alexander Pereira, ora sovrintendente del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, ha fatto suo, come è spesso accaduto, il ruolo parlato del Maggiordomo del ricco padrone di casa, un collezionista che sfoggia nel suo salotto opere d’arte moderna e storici pezzi di design.

Il regista Matthias Hartmann esalta la metateatralità del lavoro di Strauss abbattendo la “quarta parete”, quella che separa il pubblico dall’azione sul palcoscenico: mentre nel prologo assistiamo ai preparativi per la rappresentazione con un bel gioco di movimenti degli attori/interpreti, nella seconda parte noi pubblico siamo invitati ad assistere all’opera seria che è stata farcita con la commedia buffa per risparmiare tempo ed arrivare ai fuochi d’artificio in giardino, la “vera” attrazione della serata secondo i gusti del ricco padrone di casa. Qui i cantanti, spesso al proscenio, si rivolgono verso la platea e le interazioni tra i personaggi vengono di conseguenza ridotte, ferma restando la vivacità del quartetto di maschere. Nella scenografia di Volker Hintermeier il salotto del padrone di casa viene rivoluzionato per la rappresentazione: la Sfera di Pomodoro diventa una Luna appesa al soffitto, L’uomo che cammina di Giacometti serve per agganciarci un pezzo di scenario, il Concetto spaziale di Fontana sparisce per far spazio a un cielo stellato verso cui si dirigono i due protagonisti nel finale, mentre le palme dorate danno un tono glamour all’isola deserta di Arianna e la scritta NAXOS a caratteri luminosi conferma la geografia della vicenda. I costumi di Adriana Braga Peretzki sono un tripudio di cristalli Swarowski, paillette luccicanti e piume di struzzo e le maschere stilizzate ma iperdecorate connotano il lusso un po’ pacchiano del padrone di casa. Le luci di Valerio Tiberi danno il giusto tocco atmosferico.

Nel complesso si è trattato di uno spettacolo estremamente gradevole, con una parte musicale di eccellente livello che ha avuto il suo apice nella concertazione di Daniele Gatti. Si spera che questa produzione fiorentina prenda la strada di altri teatri, se lo merita ampiamente. E auguri agli interpreti che hanno dovuto finora rinunciare alle rappresentazioni a causa dello stramaledetto virus.

Nerone

 

Arrigo Boito, Nerone

★★★☆☆

Bregenz, Festspielhaus, 2 agosto 2021

(registrazione video)

No, non si sente la mancanza del quinto atto

Opera postuma di Arrigo Boito, Nerone è la sua seconda di cui abbia scritto sia il libretto sia la musica, la prima essendo il Mefistofele. Nel 1884 il compositore scriveva: «Per mia disgrazia ho studiato troppo la mia epoca (cioè l’epoca del mio argomento). […] Terminerò il Nerone o non lo terminerò, è certo che non lo abbandonerò mai per un altro lavoro e se non avrò la forza di finirlo non mi lagnerò per questo e passerò la mia vita, né triste né lieta, con quel sogno nel pensiero».

Tra il primo segnale del progetto, una lettera di Camillo Boito al fratello del febbraio 1862, e la morte del suo autore, giugno 1918, che lasciò l’opera incompleta nell’orchestrazione del quarto atto, trascorsero cinquantasei anni. «Un enorme arco di tempo, che probabilmente non ha eguali nella storia dell’opera e che la dice lunga sui problemi e sulle incertezze che caratterizzarono il Boito post-Mefistofele. In questi cinquantasei anni Boito mise a punto un’impressionante mole di materiale preparatorio (abbozzi musicali, appunti e iconografia su scene e costumi, schede su personaggi e situazioni drammatiche, taccuini di lessico e metrica e persino un intero trattato di armonia concepito ad hoc), utilizzando fra l’altro, in maniera capillare, un’amplissima bibliografia, che va dai più importanti storici latini (Tacito, Svetonio) fino agli studiosi del suo tempo (Renan, Mommsen). L’opera, progettata originariamente in cinque atti, fu ridotta a quattro negli anni Dieci, dopo la pubblicazione della tragedia in versi (1901), nella quale è presente anche il quinto atto. Al completamento dell’orchestrazione lavorarono Tommasini e Smareglia, sotto la supervisione di Toscanini, che fu anche il direttore della prima rappresentazione [1 maggio 1924]. Lo sfarzosissimo allestimento del Nerone, con le scene e i costumi disegnati da Lodovico Pogliaghi seguendo le minuziose indicazioni lasciate da Boito stesso, fu uno dei massimi esiti della scenotecnica scaligera del primo Novecento» (Susanna Franchi) e un enorme successo di critica e pubblico.

Atto primo. La via Appia. La vicenda vive soprattutto della contrapposizione tra il mondo pagano in disfacimento e il nascente mondo cristiano. Nerone, allontanatosi da Roma dopo il suo matricidio, cerca conforto nei riti di Simon Mago, ma viene atterrito e messo in fuga dall’apparizione dello spettro di Asteria. Simon Mago pensa di usare Asteria, che è follemente attratta da Nerone, contro lo stesso imperatore. Poco lontano, la preghiera della giovane Rubria viene interrotta dall’apostolo cristiano Fanuèl, che la esorta a confessare il peccato che la opprime. Il dialogo viene interrotto da Simone, che offre dell’oro a Fanuèl in cambio dei suoi miracoli, ricevendone invece una maledizione. Nerone ritorna e Tigellino gli annuncia che tutto il popolo romano sta sopraggiungendo per riportarlo in trionfo nell’Urbe.
Atto secondo. Nel tempio di Simon Mago. Per piegare Nerone alle sue ambizioni, dopo esser ricorso a vari stratagemmi Simon Mago gli fa comparire dinanzi Asteria in veste di dea; ma quando la giovane si china sull’imperatore per baciarlo, questi si accorge di avere fra le braccia una donna: nella sua furia inarrestabile devasta allora il tempio, scoprendo i trucchi di Simon Mago, che viene arrestato dai pretoriani e condannato a morire nel circo.
Atto terzo. I cristiani sono riuniti in preghiera sotto la guida di Fanuèl che riporta il discorso delle beatitudini, quando giunge Asteria, fuggita dalla fossa delle serpi in cui era stata fatta gettare da Nerone, per avvertirli che anch’essi sono stati condannati dall’imperatore. Simon Mago guida i soldati romani fino a loro; Fanuèl, arrestato, chiede ai confratelli di pregare mentre viene condotto via.
Atto quarto. Quadro primo: l’oppidum. Nel circo Massimo. Simon Mago viene avvertito dell’imminente incendio della città, appiccato per favorire la sua fuga; anche Nerone ne è a conoscenza, e anzi se ne allieta con Tigellino. Quando i cristiani vengono condotti a forza nell’arena, una vestale velata chiede pietà per loro, ma Nerone, fattole strappare il velo da Simone, riconosce Rubria, segnando così la sua condanna. Simon Mago, forzato a volare da Nerone, si schianta al suolo proprio mentre l’annuncio dell’incendio provoca un fuggi fuggi generale. Quadro secondo: nello spoliarium del Circo Massimo. Nel sotterraneo del circo, dove si depongono i morti, Fanuèl e Asteria cercano Rubria. La giovane, ormai in fin di vita, confessa finalmente a Fanuèl il suo peccato, quello di aver servito un falso dio come vestale e contemporaneamente gli svela il suo amore. Fanuèl le dà il perdono cristiano e la dichiara sua sposa; Rubria muore e Fanuèl fugge con Asteria dallo spoliarium in fiamme.

Prima di diventare un libretto d’opera, il Nerone fu un testo poetico che Boito diede alle stampe nel 1901, dopo la scomparsa di Verdi, con l’autorizzazione di Ricordi che ne aveva acquistato i diritti per la versione operistica. Ricordi aveva imposto però che la copertina e il formato della pubblicazione fossero diversi da quelli del libretto dell’opera. Nel testo pubblicato dai Fratelli Treves c’era un quinto atto – in cui Nerone subisce un crollo psichico mentre recita l’Oreste, con conseguente apparizione dello spettro di Agrippina, ritornando tematicamente alla scena iniziale del dramma in cui cerca di placare i mani e le furie della madre – che fu espunto nella versione musicale.

Si era presentata anche un’ipotesi, su idea di Giulio Ricordi all’indomani dell’Aida, che a musicare il libretto di Boito fosse Verdi, ma in una lettera del 1871 aveva già scritto: «Non posso oggi rispondervi sull’affare Nerone! Non ho un minuto da perdere. Gran progetto! voi dite! verissimo, ma è realizzabile? Vedremo!». In seguito Verdi scriverà di aver molto apprezzato il libretto: «Boito tornando da Parma si è fermato quì per circa 48 ore e m’ha letto il libretto del Nerone !! Non so se faccio bene a dirvelo, ma Egli non m’ha raccomandato il segreto e così ve ne parlo nella certezza che vi fara piacere il sentire che il Libretto è splendido. L’epoca è scolpita magistralmente e profondamente: cinque caratteri l’uno più bello dell’altro, Nerone malgrado le sue crudeltà non è odioso: un quarto atto commoventissimo; ed il tutto chiaro, netto, teatrale malgrado il massimo trambusto e movimento scenico. Non parlo dei versi che sapete come li sa far Boito; pure questi mi sembrano più belli di tutti quelli che ha fatto finora». (Lettera di Giuseppe Verdi a Giulio Ricordi, 25 maggio 1891). Non se ne farà nulla. Un Nerone, su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti tratto dal dramma omonimo di Pietro Cossa, lo scriverà Mascagni nel 1935.

Se nella seconda metà del secolo passato si contano importanti incisioni italiane del Nerone (Toscanini 1948, Capuana 1957, Gavazzeni 1975), più recentemente sono gli stranieri ad essersi interessate all’opera, come Eve Queler con l’Orchestra di Stato Ungherese (1983) per una registrazione Hungaroton, o Nikša Bareza per una esecuzione del 14 luglio 1989 nel Palazzo di Diocleziano di Spalato il cui video è disponibile su youtube. Ora c’è questa produzione dei Bregenzer Festspiele nel teatro al coperto di fianco alla Seebühne. Nella sua smodatezza e stravaganza, quest’opera è ideale per i festival che non devono conformarsi alle esigenze del repertorio quotidiano: arte per l’arte, per il piacere, per lo stupore che una cosa del genere sia possibile.

Quest’opera non vuole chiarezza: Boito con il suo libretto e con la sua musica fa una corsa sfrenata attraverso il simbolismo italiano, che vive di allusioni, misticismo e accenni enigmatici e il regista Olivier Tambosi fa di tutto per aumentare la confusione con la sua lettura da peplo horror. L’inizio sembra quello di un dramma passionale in cui le cose sono andate male e tutti, proprio tutti, hanno lo stesso abito per la costumista Gesine Völlm, ossia una vestaglia lorda di sangue, la stessa parrucca e un martello in mano, mentre Fanuèl porta una corona di spine e ha la figura del Nazareno, compreso il cuore ricamato sul petto. Nerone ha letto Freud e dopo aver portato a spasso per la scena il cadavere della madre da lui assassinata ne indossa il vestito verde. Anche il coro si esibisce in questo costume, forse un incubo dell’imperatore. Simon Mago indossa ali nere, i cristiani tuniche bianche, le cristiane sono monache. Lo scenografo Frank Philipp Schlössmann risolve il problema dei numerosi cambi di scena con una piattaforma rotante comprendente un triplice labirinto a incastro con colonne luminose che muovendosi rivelano nuovi scorci o fanno scomparire l’azione in una misteriosa oscurità grazie al gioco luci di Davy Cunnigham.

A capo dei Wiener Symphoniker Dirk Kaftan dipana la reboante partitura con fermezza e qualche taglio e ne mette in luce gli aspetti da colonna sonora hollywoodiana piena di reminiscenze verdiane, pucciniane e wagneriane. Le voci si adeguano al massiccio volume sonoro: qualcuno ci riesce meglio, come il tenore Rafael Rojas (Nerone) in gara con le esigenze della parte che nacque con Aureliano Pertile, altri hanno più difficoltà, come Svetlana Aksenova (Asteria) che ha timbro metallico e negli acuti tende a gridare. Qui comunque non si tratta di sfumature. Più sensibile è la Rubria di Alessandra Volpe mentre Lucio Gallo gigioneggia come Simon Mago e Brett Polegato è il rigoroso Fanuèl. I tanti interventi corali mettono in evidenza la versatilità del Coro Filarmonico di Praga. Comunque, dopo quattro atti non si sente la mancanza dell’incompiuto quinto.

Don Pasquale

Gaetano Donizetti, Don Pasquale

★★

Amburgo, Staatsoper, 29 maggio 2022

(video streaming)

Donizetti come lo vedono all’estero

Arte.tv festeggia il suo trentesimo compleanno con la messa in onda dalla Staatsoper di Amburgo della registrazione del Don Pasquale, un titolo donizettiano tra i più popolari all’estero. La produzione ha come direzione musicale quella di Matteo Beltrami mentre la messa in scena è di David Bösch.

Alla guida della Philharmonisches Staatsorchester Hamburg il maestro concertatore tiene tempi frizzanti, le raffinatezze strumentali della partitura hanno il giusto rilievo, ma l’orchestra copre talora le voci, soprattutto nei concertati, i momenti lirici mancano di una certa magia e in generale la lettura di Beltrami si adatta alla mano greve del regista. Ambrogio Maestri torna in una parte che ha frequentato spesso e si vede nell’immedesimazione del personaggio del titolo che ricrea con grande gusto. Vocalmente conferma le doti espressive che gli riconosciamo ma ricorre talora al parlato. Gli fa da spalla un buon Malatesta, il baritono Kartal Karagedik, di ottima dizione. Assieme i due trasformano in un numero da avanspettacolo davanti al sipario il duetto del terzo atto, però il sillabato veloce è quasi incomprensibile – tanto siamo in Germania… – ma vale comunque un bis con relativo cronometro per misurarne il record di velocità. Triste il confronto con la Danielle de Niese di anni fa: la sua è una Norina scenicamente spigliata come sempre, ma la voce ha perso di leggerezza, le agilità sono un po’ pasticciate e gli acuti urlati. Il tenore sudafricano Levy Sekgapane è un Ernesto dalla vocalità generosa anche se acerba, non aiutato dalla regia nella ricerca di una maggiore sensibilità espressiva del personaggio.

Appollaiato sui suoi soldi come Paperon de’ Paperoni, la cospicua mole di Ambrogio Maestri ci appare dentro una enorme cassaforte montata sulla solita pedana girevole nella scenografia di Patrick Bannwart. Lo sportello aperto serve da schermo per le numerose proiezioni, in genere immagini degli invadenti telefoni cellulari in scena. Nel secondo tempo il mucchio di banconote è notevolmente diminuito per le spese della sposina, ma non sono diminuite le gag con cui il regista infarcisce la terz’ultima opera di Donizetti riducendola a una farsa da commedia dell’arte delle più scontate, definita “dramma buffo” nel libretto. Ma è quello che il pubblico tedesco si aspetta e non bisogna deluderlo: la straziante aria di Ernesto «Cercherò lontana terra» qui è una canzonetta strimpellata alla chitarra e il duo «Tornami a dir che m’ami» finisce col lancio per aria delle mutande di Norina. Che poi nello happy ending finale salti fuori una pizza è del tutto prevedibile nella regia di David Bösch, ma un piatto di spaghetti mangiati con le mani sarebbe stato probabilmente ancora più applaudito.

Così fan tutte

Wolfgang Amadeus Mozart, Così fan tutte

Venezia, Teatro la Fenice, 16 febbraio 2012

★★★★★

(registrazione video)

Cinismo e sensualità

Sarà l’ambientazione napoletana a dare al Così fan tutte questo gusto per metà sensuale e per metà cinico? La presenza di questi due elementi ha fatto sì che il Romanticismo l’abbia rifiutata e la terza opera di Mozart su libretto di Da Ponte è rimasta lontana dalle scene per quasi tutto l’Ottocento e, quando messa in scena, con un testo diverso! «Equivoci critici di portata devastante» li definisce il Giudici. Altrove se ne è parlato abbondantemente.

Riscoperta abbastanza tardi ma totalmente “riabilitata” dal Dent (Mozart’s Operas, 1913), questa ambigua opera sfida con la sua modernità anche la nostra contemporaneità. E Damiano Michieletto non si fa scappare questa occasione con la sua produzione veneziana che completa in bellezza la sua trilogia mozartiana dopo il Don Giovanni del 2010 e Le nozze di Figaro del 2011. Una lettura molto amara che culmina in un finale straziante con quattro vite distrutte: il gioco è stato fin troppo crudele. Nessuno ne è rimasto indenne.

Siamo nella hall di un moderno hotel, luogo del viaggio e delle occasioni di scambio. Davanti al bancone del concierge Ferrando e Guglielmo scommettono sulla fedeltà delle rispettive fidanzate con un Don Alfonso laido che ci proverà con tutte. Mentre Dorabella fa il check-in, Fiordiligi sfoglia “Men’s Health” estasiandosi per i bicipiti e gli addominali dei modelli fotografati sulle pagine patinate della rivista: non è esattamente la miniatura del fidanzato… La scena degli addii si svolge al bar dell’hotel: i due giovani appaiono vestiti nelle eleganti divise bianche della marina e “partono” con valigie piene di carta di giornale. Ci spostiamo poi nella stanza delle due ragazze, dove Despina annusa i costosi profumi delle due clienti invece del cioccolatte. I nuovi pretendenti “turchi o valacchi” hanno sì i mustacchi, ma qui sono due figli dei fiori un po’ trucidi che hanno bisogno delle parole scritte da Don Alfonso per far colpo sulle due ragazze.

L’attentissima drammaturgia di Michieletto esalta la teatralità del lavoro e asseconda le qualità attoriali degli interpreti con una perfetta direzione attoriale. Irresistibili sono i terzetti delle ragazze con la cameriera, o quelli maschili. L’impianto scenico è realistico e perfettamente funzionale: la struttura rotante dilagherà poi in molte produzioni, ma qui è ancora del tutto giustificata e dà fluidità all’azione cambiando l’atmosfera dei tre ambienti disegnati con grande gusto da Paolo Fantin e sapientemente illuminati da Fabio Barettin. Gli appropriati costumi di Carla Teti accentuano il tono pacchiano e anni ’70 di quelli dei tre uomini evidenziando ancor più quelli eleganti delle donne, sì anche Despina a un certo punto compare in un outfit nero da sera.

Distribuzione di grande qualità per il reparto femminile: convincente e fresca Josè Maria Lo Monaco, Dorabella, la bruna e «larga di coscienza», timbro piacevole e una certa sensualità di fondo che non guastano per la definizione del personaggio;  ritornando ancora una volta felicemente nella parte della bionda e più ritrosa Fiordiligi, è la figura avvenente di Maria Bengtsson, magnifica voce, stile impeccabile, intonazione e fraseggio ineccepibili, ha il suo momento magico e più intensamente espressivo in «Per pietà, ben mio, perdona», con pianissimi e legati di sogno; spigliatissima la Despina di Caterina Di Tonno, vocalmente pregevole, espressiva e sempre musicale. Meno eccelso il reparto maschile: Guglielmo scenicamente convincente ma vocalmente un po’ stentoreo è quello di Markus Werba mentre Marlin Miller (Ferrando) inizia in maniera un po’ scialba, poi il personaggio prende più corpo e si apprezzano la vocalità elegante e i preziosi passaggi lirici del tenore americano. Modesto invece il Don Alfonso di Andrea Concetti monocorde e di incerta intonazione.

Superba la concertazione di Antonello Manacorda: il suo Mozart è agile ma non lezioso, corposo ma mai pesante. Attento alle voci che accompagna in modo magistrale e ai concertati di cui questo lavoro è particolarmente ricco, il maestro ha fatto sì che nel complesso questa sia la più riuscita delle tre produzioni veneziane.

Dienstag aus Licht

Karlheinz Stockhausen, Dienstag aus Licht

★★★★

Parigi, Philharmonie, 24 ottobre 2020

(video streaming)

La seconda giornata della eptalogia di Stockhausen

Impresa ciclopica se non quasi utopica quella dell’Ensemble le Balcon e del suo direttore Maxime Pascal:  montare l’integrale del ciclo di opere di Karlheinz Stockhausen.

Dopo Samstag (Sabato)messa in scena nel 2019, è la volta di Dienstag (Martedì), la quarta per data di composizione delle sette parti di cui è composto Licht: Die sieben Tage der Woche (Luce: i sette giorni della settimana) (1). Nel 2018 c’era stata Donnerstag (Giovedì) all’Opéra Comique, Freitag (Venerdì) sarà a Parigi nell’autunno del 2022, Montag (Lunedì) è prevista per il 2023, Mittwoch (Mercoledì) nel 2024. La pandemia da Covid ha rallentato l’impresa, ma Sonntag (Domenica) nel 2025 completerà il ciclo. Nessun altro teatro o festival ha accolto questa sfida. Chapeau a Le Balcon.

Formata da “Dienstags-Gruß” (Saluto del martedì, scritto nel 1987-88) e due atti, il primo “Jahreslauf” (La corsa degli anni, 1977-91), il secondo “Invasion-Explosion mit Abschied” (Invasione-esplosione e addio, 1990-91), Dienstag è il giorno del conflitto tra Michael e Luzifer ed è associato al pianeta Marte, al colore rosso, all’elemento terra e al senso del gusto. Lo spettacolo è in coproduzione col Festival d’Automne di Parigi, la Philharmonie di Parigi e la Stockhausen-Stiftung für Musik.

Per 17 esecutori (3 voci, 10 strumentisti solistici, quattro danzatori-mimi), attori, coro, orchestra moderna, sintetizzatore, nastro magnetico, “Jahreslauf” è stata la prima parte dell’intero ciclo di Licht ad essere composta. Originariamente scritta come pezzo indipendente per un ensemble gagaku, Stockhausen la terminò a Kyoto nell’autunno del 1977 e fu eseguita per la prima volta dall’Imperial Gagaku Ensemble al Tokyo National Theatre il 31 ottobre. Mentre lavorava a questo pezzo in Giappone gli venne l’idea di comporre un ciclo di sette opere, tutte basate su un’unica formula musicale a più livelli. Nella primavera del 1991 Stockhausen aggiunse una cornice narrativa per Michael (l’arcangelo) e Luzifer.

“Dienstags-Gruß” è stato commissionato dall’Università di Colonia per la celebrazione del 600° anniversario della sua fondazione nel 1388. È stato eseguito per la prima volta con il titolo Willkommen mit Friedensgruß (Benvenuto con saluto di pace) il 4 novembre 1988 alla Kölner Philharmonie. Il secondo atto, “Invasion”, era stato originariamente commissionato dall’Ensemble InterContemporain da Michel Guy, direttore del Festival d’Automne, in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese nel 1989. Tuttavia, l’amministrazione dell’ensemble rifiutò di eseguirlo dopo essere stata informata dei requisiti. Di conseguenza, la partitura è stata elaborata nel 1990 e parte della musica elettronica costituisce il Klavierstück XV di Stockhausen. La partitura è dedicata al figlio del compositore, Simon Stockhausen, che ha eseguito la prima al Museum Ludwig di Colonia il 5 ottobre 1992. Originalmente commissionata dalla Scala, la prevista prima nel teatro milanese fu cancellata per problemi di tagli alle sovvenzioni statali e Dienstag fu presentata nella sua interezza il 28 maggio 1993 all’Opera di Lipsia.

“Dienstags-Gruß”. Una fanfara di benvenuto da parte di un coro di trombe e tromboni con sintetizzatori è seguita da un Saluto di pace in cui un coro di Michael, composto da soprani e tenori, si oppone a un coro di Luzifer, composto da contralti e bassi provenienti dai lati opposti della sala, in una disputa musicale. Un soprano (Eva) interviene quattro volte nel tentativo di mediare, apparendo prima alla destra del pubblico, poi in fondo, e una terza volta a sinistra, prima di uscire finalmente sul palco di fronte dove rimane, cantando per entrambi i gruppi fino alla fine, quando entrambe le parti concordano: «Vogliamo la pace, la libertà», ma con una differenza residua, «in/senza Dio!».
Atto primo: “Der Jahreslauf”. Il primo atto è rappresentato come un balletto, accompagnato da un tenore, un basso, attori-cantanti, un’orchestra moderna, un nastro e un tecnico del suono. Luzifer sfida Michael a una gara, una corsa degli anni. Lui, Luzifer, cercherà di fermare il flusso del tempo, mentre Michael cercherà di farlo ripartire. Quattro ballerini personificano gli anni, i decenni, i secoli e i millenni, mentre quattro gruppi di musicisti suonano musica in quattro livelli temporali corrispondenti. Luzifer ferma la corsa per quattro volte con le tentazioni, e ogni volta Michael trova incitamenti per farla ripartire. Prima tentazione. Una campana di nave e i passi di marcia di tre personaggi che entrano sono seguiti da un annuncio di voci maschili che offrono fiori ai corridori, che si fermano. Primo incitamento. I bambini entrano di corsa, battendo le mani, e una voce femminile esorta il pubblico ad applaudire i corridori che riprendono. Seconda tentazione. Un cuoco con spezie squisite. Secondo incitamento. Un leone ruggisce e i corridori tornano rapidamente al loro giro. Terza tentazione. Un’automobile entra in scena suonando quattro vecchi clackson. I corridori si fermano a guardare. Terzo incitamento. Una ragazza entra in scena per annunciare un premio in denaro per il vincitore della corsa, ilche sprona i corridori. L’auto si allontana di corsa. Quarta tentazione. Un lento e sensuale blues in stile night-club è seguito da una voce maschile che annuncia l’ingresso di una figura femminile nuda. Quarto incitamento. Un forte temporale rompe l’incantesimo e i corridori continuano. Con ironia, Luzifer si congratula con Michael per la vittoria della gara, ma lo avverte di prepararsi a una lotta molto più dura.
Atto secondo: “Invasion-Explosion mit Abschied”. La musica elettronica a otto canali (chiamata Oktophonie quando viene eseguita separatamente) viene proiettata dai vertici di un cubo che circonda il pubblico per tutto il secondo atto. L’atto è diviso in tre grandi sezioni, che insieme contengono undici scene, anche se si svolgono ininterrottamente senza interruzioni. Il palcoscenico è costituito da un precipizio roccioso, ricoperto di rampicanti, muschio, arbusti e cespugli. Sul davanti c’è una sporgenza rocciosa rialzata, che degrada verso il suolo a sinistra e a destra. Sta calando la notte e il cielo è coperto. “Erste Luftabwehr” (Prima difesa aerea). In alto, dalle retrovie, si avvicina un suono cupo e profondo, presto affiancato da una musica più brillante. Profonde bombe sonore esplodono a intervalli periodici. I proiettori spuntano dalle fessure della parete rocciosa e scrutano il cielo. Gli ugelli dei cannoni a forma di tromba sono appena visibili nel precipizio. Mentre appare il suono accordale delle squadriglie di volo ad alta quota, salve di missili antiaerei sparano verso il cielo. Per tre volte gli aerei argentati scendono in picchiata verso il basso e si schiantano sulla sporgenza della roccia. La parete rocciosa si apre a destra. Una figura oscura scivola fuori, si avvicina a uno dei velivoli abbattuti ed estrae lentamente un corpo umano in miniatura che si contorce. Dopo averlo sorretto sotto il bagliore dei riflettori, la figura scompare di nuovo attraverso la porta rocciosa, che si richiude. “Erste Invasion”. Mentre le bombe sonore continuano a esplodere, si sentono i segnali di trombe e tromboni in avvicinamento. Le truppe di Luzifer, in tenuta da battaglia nera e rossa, invadono la sala, inseguite dai trombettieri di Michael, vestiti di azzurro e rosso. Mentre i combattenti si muovono avanti e indietro, le truppe di Luzifer riescono a rimuovere parte del camuffamento dal precipizio, rivelando una parete cromata del bunker. Il combattimento si sposta a destra, le detonazioni dei bassi cessano, la contraerea musicale tace e il malinconico segmento di Mittwoch della formula di Eva si diffonde nello spazio come musica ottofonica. “Zweite Luftabwehr” (Seconda difesa aerea). Ancora una volta i proiettori trovano un bersaglio nel cielo e un sibilo si sprigiona dalla parete cromata e colpisce il bersaglio. Riprende un sommesso rombo e una giovane voce dallo spazio conta, lentamente e raucamente, da uno a sette. “Zweite Invasion” (Seconda invasione). Mentre la difesa aerea continua, i trombettieri di Michael (ora vestiti con uniformi cromate bluastre) entrano da destra, indietreggiando di fronte all’assalto delle truppe di tromboni di Luzifer (che indossano armamenti cromati neri scintillanti). La lotta si intensifica e si concentra sul basamento del bunker. Nonostante l’accanita resistenza delle forze di Michael, le truppe di Luzifer si arrampicano sul bunker e iniziano a fare a pezzi la parete cromata, utilizzando saldatori laser. Dietro le lastre cromate si rivela una parete di cristallo di rocca. “Verwundung” (Ferita). Un urlo penetrante squarcia il tumulto e i suoni del combattimento cessano bruscamente. I combattenti si allontanano a destra e a sinistra. Un trombettiere giace alla base del bunker, gravemente ferito. Pietà. Uno dei trombettieri di Michael è stato ferito a morte. Eva appare e si siede, cullando il trombettista morente in grembo in una posa che ricorda la rappresentazione di Cristo in grembo a sua madre nella Pietà. L’anima del trombettista esce dal suo corpo e si erge, molto alta, dietro Eva e suona un flicorno da un quarto di tono in duetto con lei. “Dritte Invasion” (Terza invasione). Lo scoppio di un razzo che sale dalla parete di cristallo verso il cielo spaventa Eve e fa evaporare la forma eterea dietro di lei. Due scorte portano il corpo del trombettiere nel bunker, seguite da Eva, mentre i riflettori scrutano il cielo. Un gruppo d’assalto di Luzifer insegue un gruppo di partigiani di Michael verso il bunker. Esplosione. Mentre una rapida successione di razzi abbatte una macchina volante dopo l’altra, le truppe di Luzifer raggiungono il bunker di cristallo che attaccano con fiamme ossidriche ed esplosivi. Una successione di tre grandi esplosioni riduce progressivamente il bunker in frammenti, mentre i combattenti scompaiono. “Jenseits” (L’aldilà). Mentre la polvere di cristallo polverizzato, simile a neve, si disperde, dall’apertura del bunker risuonano calmi accordi ronzanti. All’interno, diventa visibile un mondo di vetro immerso nella luce bianca, in mezzo al quale un nastro trasportatore di vetro trasporta lentamente soldatini d’argento e di vetro, aeroplani, carri armati e navi da guerra, contrassegnati in gruppi da punti o strisce colorate. A sinistra sono seduti degli esseri di vetro bluastri con voci maschili acute; di fronte a loro, a destra, ci sono creature simili con voci scure. Tutti fissano i giocattoli di guerra che passano e, a intervalli, tirano verso di loro uno o più giocattoli usando rastrelli di vetro da croupier, facendoli cadere su un nastro trasportatore inferiore che si muove in direzione opposta. Nel frattempo, gli orologi della borsa valori conteggiano le vincite e le perdite, mentre il ronzio si trasforma in canto. “Synthi-Fou”. Alle parole «cancella la sofferenza in tutta l’eternità», entrano infermieri con la croce rossa di vetro e alcuni uomini alzano le braccia sopra la testa, agitandole avanti e indietro. Le donne si posizionano dietro e sopra gli uomini di vetro seduti e tengono i polpastrelli di una o entrambe le mani. I suonatori di guerra vengono arrestati dall’ingresso di un colorato musicista dal naso lungo che indossa orecchie da elefante verdi ed enormi occhiali da sole. È circondato da tastiere e altoparlanti multipli e suona un assolo ‘fouturistico’, assolutamente felice. I giocatori di guerra abbandonano la loro attività e cantano gli accordi che accompagnano Synthi-Fou. Sebbene la loro lingua sia incomprensibile, è chiaro che sono divertiti. “Abschied” (Addio). Mentre Synthi-Fou è in estasi, i giocattoli trascurati cadono dal nastro trasportatore e i confini della stanza si trasformano in specchi che riflettono, invertono, mescolano e trasformano gli esseri, che si allontanano con movimenti di danza stilizzati, lasciando Synthi-Fou da solo alla fine.

Azzurro (Michael) e rosso (Luzifer) sono i colori che connotano le due fazioni in lotta negli spazi della Philharmonie di Parigi in gran parte occupati dalla mastodontica compagine di cori, fanfare e orchestra. La corsa degli anni vede quattro ballerini muoversi a velocità diverse: veloce quello degli anni, più lento quello dei decenni e così via. Con i loro passi lasciano una traccia di sangue che forma le cifre del 2020. La corsa si conclude a ritmo frenetico e con il premio ai quattro corridori. La complesssa scenografia del diversissimo atto secondo è risolta con la videografica di Nieto: una muraglia rocciosa imprendibile, raggi laser, aerei che sorvolano la sala proiettati sul soffitto e sui muri per poi schiantarsi contro la muraglia. Carri armati, cannoni, aerei scorrono come giocattoli su un nastro trasportatore per cadere su un altro nastro che si muove in senso contrario e alla fine sono rastrellati come fiche da un croupier di vetro. La musica qui ha una grande fisicità, e non solo per il volume sonoro: gli ottoni sono gli strumenti di elezione e sempre presenti con effetti quasi organici – singhiozzi, sospiri, respiri. Non tutto è preso sul serio dal regista Damien Bigourdan in questo spazio sonoro, fortunatamente, e la grandiosità della musica, a momenti apocalittica, contrasta talora amabilmente con le ironiche gag messe in scena. Surreale ma a suo modo molto poetico è il duetto tra la Madonna/Eva e il suonatore di flicorno alle sue spalle. Il finale psichedelico con Sarah Kim al sintetizzatore ricorda il viaggio di Dave in 2001: A Space Odissey, il film di kubrick uscito pochi anni prima della composizione di Dienstag. Estraneo a una tradizionale forma narrativa, il lavoro di Stockhausen si sviluppa secondo una ritualità di suoni, immagini surreali e movimenti in uno spettacolo grandioso che ha ben poco dell’opera lirica che conosciamo, ma che è altrettanto coinvolgente, quasi ipnotizzante.

Ripreso con efficace taglio cinematografico, lo spettacolo ha la efficace direzione scenica di Damien Bigourdan, come s’è detto, i costumi di Pascale Lavandier e le luci di Catherine Verheyde. Maxime Pascal si sobbarca la fatica della direzione musicale di questa complessa partitura ed è affiancato da Richard Wilberforce nella grandiosa ouverture, la più polifonica. Tre sono i personaggi principali di questa giornata e tra gli interpreti ritroviamo il Luzifer di Samstag, il magnifico basso Damien Pass tutto in nero mentre Michael è il tenore Hubert Mayer vestito di bianco. Due le interpreti di Eva. la prima (“Gruß”) Élise Chauvin, la seconda (“Pietà”) Lea Trommenschlager. Encomiabile l’impegno dell’orchestra, degli strumentisti solistici e dei cori nel creare un modello di spettacolo inedito, a tratti sconcertante, ma perfettamente realizzato.

(1) Licht è formato da sette opere. Qui sono elencate per titolo, ordine di composizione, luogo e data della prima rappresentazione, colore, elemento, pianeta e senso a cui ognuna è abbinata:
Montag (III) Milano 7 maggio 1988, verde-grigio, acqua, Luna, olfatto
Dienstag (IV) Lipsia 28 maggio 1993, rosso, terra, Marte, gusto
Mittwoch (VI) Birmingham 22 agosto 2012, giallo, aria, Mercurio, vista
Donnerstag (I) Milano 15 marzo 1981, blu, etere, Giove, udito
Freitag (V) Lipsia 12 settembre 1996, arancio, fuoco, Venere, tatto
Samstag (II) Milano 25 maggio 1984, nero, trasformazione, Saturno, pensiero
Sonntag (VII) Colonia 9 aprile 2011, oro, luce, Sole, intuizione