Mese: luglio 2022

Austieg und Fall der Stadt Mahagonny

 

Kurt Weill, Ascesa e caduta della città Mahagonny

★★★★☆

Berlino, Komische Oper, 2 ottobre 2021

(registrazione video)

«Es gibt keine Wiederkehr»: Mahagonny, operetta senza speranza

Non sceglie la via facile Barrie Kosky per mettere in scena Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny. Nelle sue mani diventa un moderno morality play, come il secondo atto di Moses und Aron, l’opera incompiuta di Schönberg che veniva composta in quegli stessi anni, con gli ebrei nel deserto che costruiscono una città dove alcol e sesso sono a buon prezzo. Sono infatti un rabbino e un prete i compari della vedova Begbick che in una landa desolata fondano questa moderna versione di Sodoma e Gomorra. Le allusioni all’America del libretto di Brecht qui non hanno riscontro: in scena c’è uno spazio astratto, un cuneo definito dalla scenografia di Klaus Grünberg, le cui pareti sono inizialmente coperte da tende a rete che lasciano il posto a specchi trasformando il palcoscenico in una specie di caleidoscopio.

Kosky fa notare come Bach, Mozart e Mahler siano presenti nella partitura di quest’opera con grande orchestra e coro, un’opera che guarda al futuro per le invenzioni armoniche e dove i duetti di Jenny e Jim potrebbero stare alla pari con quelli di Wozzeck e Marie, con quelle frasi parallele senza mai un momento di contatto, a significare la solitudine irrimediabile dei personaggi. Ma è la parola che è sempre in primo piano con grande attenzione alle parole di Brecht. Ci mancherebbe, si potrebbe dire, ma quante volte il testo è stato solo funzionale alle melodie e ai temi canticchiabili qui ossessivamente ripetuti.

L’approccio del regista è del tutto opposto alla tradizione con cui è sempre rappresentato il teatro di Brecht/Weill, quella che Kosky chiama «park, bark and snark»: piazzati al centro della scena, canta tutto fortissimo e con tono sarcastico, con un certo disprezzo verso gli spettatori. Nel suo caso le immagini hanno una forza straordinaria, quasi terribile: la scena del sesso multiplo con Jenny è straziante proprio perché non vediamo nulla giacché avviene in una buca, come il combattimento di boxe. Nella prima parte i costumi sono i vestiti di tutti i giorni, nella seconda è come se Mahagonny diventasse Las Vegas, con tutti quanti in nero e lustrini, eccetto Jim, il quale attraversa una vera e propria passione: prima è giudicato da un tribunale corrotto, incarcerato, poi gli vengono cavati gli occhi e alla fine giustiziato, pugnalato da tutti quanti, ma non da Jenny. Il finale è spettrale: una scimmia-robot telecomandata, un Golem meccanico, attraversando la scena perde anche lui la lettera aleph delle tre (tav, mem, aleph) che formano la parola “verità” diventando così “morte”. Gli specchi riflettono il cadavere di Jimmy mentre le voci, invisibili e fuori scena, cantano l’ultimo corale.

A capo di una vera orchestra – non quella ridotta dell’Opera da tre soldi – nella sua lettura Ainārs Rubiķis evidenzia la modernità della partitura, un misto di opera seria, canzoni, musica da circo e oratorio, fino ai toni mahleriani del finale. Nadja Mchantaf, la Jenny che offre il sesso con candida innocenza, non ha la voce roca di Lotte Lenya, la prima interprete, ma esibisce al contrario una voce educata che esalta la fredda ingenuità del personaggio. Nessun personaggio è senza colpa in Mahagonny, ma di certo il trio dei fondatori è tra i peggiori moralmente. Ivan Turšić (Fatty) e Jens Larsen (Trinity Moses) non sono un esempio di bel canto e Nadine Weissmann, una spietata vedova Begbick, è spesso sfiatata ma scenicamente efficace. E poi c’è il Jim Mahoney di Allan Clayton, voce bellissima e luminosa in questo scuro inferno. Kosky ne fa il personaggio principale e l’ex corista inglese aggiunge un’altra grande performance alla sua bella carriera.


Příhody lišky Bystroušky (La piccola volpe astuta)

Leoš Janáček, Přihody lišky Bystroušky (La piccola volpe astuta)

★★★★★

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 16 luglio 2022

(live streaming)

Molto umana la volpe di Kosky

È subito spiazzante la messa in scena di Barrie Kosky della più fiabesca opera di Janáček: inizia infatti con i rintocchi di un funerale e vediamo una tomba e un gruppo di persone in lutto, figure nere che si ritirano. Il guardaboschi si rivolge verso il pubblico e inizia la meravigliosa musica de La piccola volpe astuta (1).

Da quella stessa buca usciranno gli animali e il ciclo della vita si compierà come è sempre avvenuto in natura. La buca rimarrà in scena, ma oltre che la tana degli animali diventerà la locanda e gli altri luoghi abitati dagli umani con una meravigliosa economia di mezzi teatrali. Su chi appartenga quella tomba ci viene in aiuto il regista: «la piccola volpe è il ricordo della figlia defunta, ciò significa che il guardaboschi non ha alcun legame erotico con la volpe», ma sono gli altri uomini a essere o essere stati innamorati: il maestro e il venditore ambulante della fantomatica Terynka, il parroco della ragazzina con le trecce d’oro della sua giovinezza. Che poi uno debba ascoltare uno dei duetti d’amore più appassionati svolgersi fra due volpi è un’impresa che poteva riuscire solo al vecchio Leoš, che a quasi settant’anni compose questa fiaba per anziani immalinconiti. Uno spunto, la fiaba, per mettere in scena sogni inappagati e delusioni, sentimenti molto umani, mentre il mondo animale è giocoso, disinibito, senza morale. E il parroco ripete stancamente  «Non des mulieri corpus tuum»…

Il fiabesco è tutto nella scenografia luccicante di Michael Levine dove la foresta è resa con tende di lamelle scintillanti, l’alcova amorosa delle due volpi con cascate di piume rosse, il pollaio una scena da cabaret con piume gialle. L’atmosfera di ogni ambiente viene genialmente ottenuta con semplici mezzi. Una vera e propria lezione di come si fa teatro. E poi ci sono i costumi di Victoria Behr, neri per gli uomini, colorati per gli animali ma senza riferimenti ferini. I personaggi sono tutti umani. «Zrovna jak člověk!» (Proprio come una creatura umana) confessa il guardacaccia ai suoi compari di bisboccia nel secondo atto parlando della volpe che passa da una forma all’altra: all’imbrunire appare nelle vesti d’una fanciulla (o sogna di esserlo, il libretto è tanto arguto quanto sfuggente a questo proposito) e all’alba riprende le forme animali. Ma è solo da animale che dice di sentirsi veramente bella e libera.

Oltre alla nostalgia, c’è anche tanto umorismo nello spettacolo di Kosky: la scena delle galline è irresistibile e si merita un applauso a scena aperta – che io sappia non è mai successo per un’opera di Janáček – quando appare uno stravagante pulcino nell’uovo. Oppure il finale del secondo atto, con la foresta che vibra di una moltitudine di accoppiamenti.

Robert Jindra, scoperto a Praga in questo stesso titolo, conferma l’ottima impressione avutane allora. La sua è una direzione nervosa, secca, ma che sa sublimarsi nel lirismo dei temi popolari o nelle preziosità degli interludi orchestrali. Dodici ottimi solisti si incaricano di dar voci agli innumerevoli personaggi in scena: Elena Tsallagova è una volpe vivace e sensuale, Angela Brower una fascinosa volpe maschio e il loro duetto d’amore una delizia. Wolfgang Koch mette a disposizione la sua esperienza wagneriana nel guardaboschi e ne viene fuori una figura da Hans Sachs della foresta. Lindsay Ammann (moglie/gufo), Jona Hacker (maestro/zanzara), Martin Snell (prete/tasso), Milan Siljanov (Harašta), Caspar Singh (Pásek); Mirjam Mesak (signora Pásek), Yajie Zhang (cane/picchio), Andrés Agudelo (gallo), Eliza Boom (gallina), sotto la guida di Kosky raggiungono efficaci risultati attoriali e tutti insieme formano uno spettacolo imperdibile. Anche questa volta Barrie ha fatto centro.

La registrazione video dello spettacolo è attualmente disponibile su youtube.

(1) Il titolo con cui quest’opera è conosciuta al di fuori del suo paese ricalca quello della versione tedesca, Das schlaue Füchslein, di quel Max Brod che tanto fece per la diffusione delle opere di Janáček. Nell’originale le cose sono un po’ più complicate. Il titolo ceco, Přihody lišky Bystroušky, vuol dire letteralmente ‘Le avventure della volpe Bystrouška’ e il nome della protagonista significa ‘Piccole-orecchie-aguzze’, avendo l’aggettivo bystrý i significati di aguzzo, acuto, arguto, svelto, astuto – da cui la scorciatoia di Brod. Oltre all’italiano, anche altre lingue si sono adattate a questa soluzione: The Cunning Little Vixen in inglese; La petite renarde rusée in francese; La zorrilla astuta in spagnolo; Het sluwe vosje in olandese; Лиса-Плутовка (Lisa-Plutovka, La volpe Furbacchiona) in russo.

Moïse et Pharaon

 

© Monika Rittershaus

Gioachino Rossini, Moïse et Pharaon

★★★★☆

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 12 luglio 2022

(video streaming)

Stavolta nel mar Rosso affoghiamo noi

Sono tali i cambiamenti della versione parigina che Moïse et Pharaon (1827) è considerato un’opera del tutto diversa dal Mosè in Egitto (1818) napoletano da cui deriva. (Qui si può analizzare la diversa struttura dei due lavori.) E non solo per il diverso libretto, la ripartizione in quattro atti invece che tre, il numero e l’ordine dei pezzi musicali, la presenza dei ballabili, ma perché lo spirito dell’opera è cambiato: da «oratorio, azione tragico-sacra» è diventato «melodramma sacro», non troppo distante dal modello del grand opéra, il genere che l’anno dopo avrebbe visto la nascita del primo esemplare con La muette de Portici di Daniel Auber e l’anno dopo ancora il Guillaume Tell dello stesso Rossini, genere che avrebbe dominato la scena lirica francese nei successivi cinquant’anni.

Terzo spettacolo lirico del Festival di Aix-en-Provence, il lavoro di Rossini viene messo in scena con grandi mezzi nel cortile dell’Archevêché. La regia di Tobias Kratzer ambienta la storia ai nostri giorni – ce ne rendiamo conto dopo un attimo di smarrimento all’apparizione di un Mosè tale e quale quello del film di DeMille The Ten Commandments (1956) – con il vasto palcoscenico diviso in due: a sinistra (côté jardin, come dicono i francesi) un campo profughi con la tenda dell’infermeria, a destra (côté cour) gli ambienti lussuosi e asettici dei potenti. Sul fondo è ricostruita la Fontana d’Espéluque, quella nella antica Place de l’Archevêché (ora Place des Martyrs de la Résistance), per rammentarci l’hic et nunc della vicenda. La scenografia di Rainer Sellmaier (suoi anche i costumi) è sapientemente illuminata dalle luci di Bernd Purkrabek.

I personaggi passano da un ambiente all’altro, da quello dei capitalisti occidentali (l’Egitto di Faraone del libretto) a quello dei rifugiati (gli ebrei nell’attesa sempre delusa di partire per la Terra Promessa) nei primi due atti. Poi nel terzo la scena viene unificata e la parte sinistra diventa il palcoscenico per il balletto, un’efficace coreografia di Jeroen Verbruggen, con il pubblico degli invitati destra. Su uno schermo vengono proiettate immagini di catastrofi naturali per illustrare le piaghe mandate dal dio di Mosè agli egiziani. Nel finale, su una grande tela vediamo il Mar Rosso dividersi con gli egiziani (ossia noi occidentali con i completi scuri, le scarpe a spillo, i tailleurs…) sommersi da quelle acque vendicatrici – il rimando alle immagini dei migranti che fanno la stessa fine nel mar Mediterraneo non è certo casuale. Poi la tela si alza un’ultima volta per rivelare una spiaggia con bagnanti pigramente allungati sulle sedie a sdraio, occhiali da sole, un cocktail in mano o il telefonino. Gli ebrei sono nel frattempo scesi con i loro gilet arancioni tra gli spettatori della platea, ma sulla scena una delle bagnanti scopre sulla sabbia il bastone di Mosè che prima guarda con curiosità, poi getta con orrore, come se avesse percepito qualcosa di strano. Non c’è traccia di soprannaturale nella lettura di Kratzer: gli interventi divini sono le calamità che ci stiamo costruendo noi stessi: siccità, incendi, alluvioni, carestie, guerre sono il frutto della nostra incosciente azione sul pianeta che ci ospita. Così, anche le tenebre (prima piaga del libretto, quinta della narrazione biblica) sono causate da un black out dell’energia elettrica.

La scelta di presentare Mosè come il Charlton Heston del film, con barba bianca, tunica rossa e bastone dei prodigi in mano, viene spiegata dal regista col fatto che non sappiamo mai se Mosè sia una sorta di messia che ha un filo diretto con Dio o se sia solamente qualcosa che gli uomini proiettano su di lui perché ogni società ha bisogno dei suoi modelli. Convincente o meno, la regia di Kratzer è a questo proposito molto precisa e la sua drammaturgia indubbiamente coerente.

Com’era da aspettarsi è la direzione di Michele Mariotti il punto forte dello spettacolo. La cura per ogni dettaglio della partitura non inficia la visione d’insieme di un’opera che di per sé ha una certa frammentarietà. L’orchestra dell’opera di Lione risponde con precisione e gusto del colore alla bacchetta di Mariotti che concerta da par suo le voci nei tanti ensemble di un’opera povera di arie solistiche. Nel reparto femminile Jeanine de Bique è una sensibile Anaï mentre Vasilisa Beržanskaia nella parte di Sinaïde conferma le eccezionali doti rivelate un anno fa a Pesaro e Géraldine Chauvet è una empatica Marie. L’inossidabile Michele Pertusi fa del suo Moïse una figura memorabile utilizzando gli inevitabili segni dell’età del suo mezzo vocale per delineare con espressività il personaggio e Mert Süngü si cala con agio nella parte di Eliézer. Adrian Sâmpetrean è un autorevole ma tormentato Pharaon mentre in Aménophis, alla prima di Parigi Adolphe Nourrit, Pene Pati mostra qualche diffcicoltà in un ruolo di grande impegno vocale. La voce misteriosa e quella di Osiride appartengono al bel timbro di Edwin Crossley-Mercer. Alessandro Luciano è il truce Aufide. È anche dell’opera di Lione il coro efficacemente impegnato in pagine che prefigurano il Nabucco verdiano.

 

Résurrection

Mahler, Sinfonia n° 2 in do minore Auferstehung (Risurrezione)

Aix-en-Provence, Stadium de Vitrolles, 13 luglio 2022

(video streaming)

Doppia risurrezione per Castellucci al Festival di Aix-en-Provence

Dopo il suo Requiem del 2019, Romeo Castellucci torna a mettere in scena una composizione musicale che non è destinata al teatro. Qui il regista utilizza la drammaturgia prevista da Mahler per la sua Sinfonia n° 2 Auferstehung (Risurrezione) con i suoi cinque movimenti che in un solenne arco dinamico vanno dai funerali dell’eroe alla sua risurrezione passando per i ricordi della vita terrestre e il mondo fatato del Wunderhorn.

C’è indubbiamente un rapporto di analogia metafisica tra il Requiem e Risurrezione, ma «nel caso della sinfonia di Mahler, il palcoscenico stabilisce un rapporto diretto con il luogo in cui l’opera viene eseguita e predispone a un rapporto intimo con la musica, anche di fronte alla carica eroica espressa soprattutto nel primo movimento», dice il regista, «questo permette di accogliere il flusso di emozioni che la musica genera in pieno volto, procedendo per gradi di sempre maggiore delicatezza, una graduale perdita di energia fino all’ascolto delle voci. Il loro potere acusmatico sarà quindi inteso come il ritorno delle voci dei morti».

Il nuovo lavoro di Romeo Castellucci assume un sapore tragicamente profetico: la Seconda Sinfonia di Mahler è messa in scena come “spettacolo” di apertura del Festival di Aix-en-Provence mentre è in corso l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo e il rimando alle fosse comuni di Mariupol, Bucha, Kramatorsk, Makariv (e chissà quante altre…) sembra inevitabile. Ma il lavoro è stato concepito due anni fa e nessuno avrebbe potuto immaginare allora, nemmeno da lontano, questa dolorosa sovrapposizione: «Nella realtà accadono cose così devastanti che hanno il potere di ridurre a illustrazioni ciò che è nato con altre intenzioni. Le immagini in scena mi sembrano ora difficili da sopportare nella loro involontaria esattezza. Il mondo dell’immaginazione incontra la violenza della realtà fino a sembrarne un’orribile copia. Ne sono consapevole e soffro di questa terribile coincidenza. Ma cosa fare di fronte all’irreparabile che il teatro rappresenta? Mi sembra essenziale farsi carico del dolore, nella sua forma più ossessionante, prodotto da questa sincronicità. Potrebbe diventare, ancora una volta, un’occasione per essere presenti e vivi davanti ai morti, per compiere un gesto collettivo di misericordia attraverso la musica. […] Certe aree della realtà sono visitate dalla finzione – la musica in questo caso – che dà loro un senso: la finzione ci dà la distanza necessaria dall’orrore, una distanza che produce pensiero».

È una risurrezione anche per la location che ospita il lavoro. È infatti negli spazi negletti dello Stadium de Vitrolles – una sala polivalente a una ventina di chilometri da Aix-en-Provence disegnata da Rudy Ricciotti nel 1994 e abbandonata appena quattro anni dopo – che Castellucci mette in scena la Sinfonia in do minore eseguita la prima volta da Mahler a Berlino il 13 dicembre 1895. Nell’intervento di Castellucci il cubo di cemento adagiato sul fianco di una collina de les Bouches-du-Rhône diventa un’installazione artistica con tonnellate di terra che coprono il pavimento lasciato libero dalla fossa orchestrale e dalla gradinata del pubblico. All’inizio, nel silenzio, un cavallo bianco, figura cara a Castellucci, si inoltra in questo spazio desolato, annusa la terra umida e viene recuperato da una ragazza che per caso, colpita da un fetore di morte, scopre un arto umano uscire dal terreno. Chiede un immediato intervento al telefono e poco dopo arrivano dei furgoni con il marchio UNHCR, l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, da cui sbarca un’equipe con mascherina e tuta bianca che incomincia a scavare portando alla luce una raccapricciante fossa comune.

Il lavoro di Castellucci non rende giustizia alla sete di spiritualità e trascendenza di Mahler, ma la riporta sulla terra, letteralmenteRésurrection si concretizza in una forma scenica mai illustrativa e di cruda intensità, dove il macabro invita a contemplare la morte e l’inesorabile fino a una durata insostenibile. Durante l’ora e venti minuti di esecuzione della sinfonia viene ossessivamente, ipnoticamente rappresentata la riesumazione dalla terra di decine di cadaveri che vengono poi adagiati con cura pietosa su teli bianchi. Durante il terzo tempo della sinfonia, lo Scherzo, trascrizione strumentale del Lied La predica ai pesci di Sant’Antonio da Padova, in doloroso contrasto con il movimento “In ruhig fließender Bewegung” (Con moto calmo e fluente) viene scoperto un grosso telo nero che cela altre decine di cadaveri: sembra che lo sforzo non finisca mai e qualche volontario si lascia andare allo sconforto. Le mani non bastano più e viene fatta arrivare anche una piccola scavatrice, mentre i teli bianchi su cui adagiare quei poveri resti umani coprono sempre più quella superficie di terra, fango e acqua putrida.

Quando il mezzosoprano intona Urlicht («L’uomo giace nella più grande angoscia, l’uomo giace nella più grande pena»), tutti si fermano: è il momento della riflessione, subito dopo però si deve riprendere il triste compito. Con le ultime note del quarto tempo il lavoro è terminato: i volontari nelle loro tute bianche sporche di fango contemplano in silenzio la distesa di corpi e poi incominciano a raccogliere le salme e a caricarle sui furgoni. Ma una volontaria riprende a scavare come per assicurarsi che non sia stato dimenticato qualcuno, sembra non potersi fermare e a fatica qualcuno riesce a convincerla. Si alza, fa per andarsene, ma rimasta sola si gira a contemplare un’ultima volta quella distesa mentre le trombe del giudizio risuonano fuori scena. Poi si toglie la tuta, l’adagia sul terreno, finalmente esce e il coro del quinto movimento attacca «Risorgerai, sì, risorgerai mia polvere dopo un breve riposo». Alla fine, su quella voragine vuota scende la notte assieme a una pioggia purificatrice.

Il tono macabro, oppressivo, soffocante della partitura è perfettamente evidenziato nella direzione di Esa-Pekka Salonen. Il suono è asciutto, anti-epico, i tempi dilatati, il respiro pesante, in linea con quello che si vede. Salonen rispetta i cinque minuti richiesti dal compositore tra il primo e il secondo movimento. Il tremolo degli archi introduce un’atmosfera da thriller, le eruzioni delle percussioni e degli ottoni sono l’occasione di vere e proprie scosse telluriche per risvegliare i morti. Dall’Orchestre de Paris emerge una tensione e una bellezza trascendenti in cui si alternano momenti di calma delicati e persino sorridenti in mezzo a quel tumulto violento, come quello con Marianne Crebassa che fa risuonare con trepidazione il suo Urlicht, poi affiancata dalla voce sontuosa di Golda Schultz. Il coro, diviso ai lati dell’orchestra, è diretto con sensibilità da Marc Korovitch.

Castellucci sorprende ancora una volta con questo gesto umile, puro. Il suo più che uno spettacolo è un’installazione: ci lascia ascoltare la musica e ci ricorda con forza quanto l’arte sia un’esperienza da vivere, non solo un’occasione per una serata di intrattenimento.

Molto curata è la ripresa video di Philippe Béziat, con dettagli e punti di vista originali, anche all’esterno dell’edificio col sole al tramonto. Durante il coro finale le telecamere riprendono lo stadio vuoto, un’arrugginita scala, le parti abbandonate e vandalizzate dell’edificio, le pareti con i graffiti. Poi rientrano per gli applausi finali. La registrazione video è attualmente disponibile su Arte.tv.

Biennale Arte di Venezia 2022

Hermann Nitsch, Schüttbild

Biennale Arte di Venezia (parte III, eventi collaterali)

Venezia, Zuecca Project, 14 luglio 2022

Il teatro cruento di Hermann Nitsch

Fra i tanti eventi collaterali della Biennale Arte di Venezia di quest’anno, uno dei più suggestivi bisogna andarlo a cercare alla Giudecca dove nei magazzini del sale di fianco alla fabbrica di Fortuny la “Zuecca project” presenta l’ultima e maggiore raccolta di opere del padre dell’action painting austriaca. Maggiore perché per la prima volta in Italia è esposto nella sua interezza l’opus magnum di Hermann Nitsch 20. malaktion, ventesima azione pittorica realizzata per la Wiener Secession del 1987. L’ultima perché Nitsch è mancato 83enne il 1° aprile 2022, poco prima dell’inaugurazione della mostra.

Enormi tele bianche con schizzi di colore nero coperti da altri schizzi di quello che potrebbe essere sangue ci immergono in un ambiente pittorico in cui possiamo comprendere, o almeno sperimentare, l’eccesso e il dramma della nostra esistenza attraverso la dinamica e la simbolica dell’opera. Nella sala parallela è stato creato un ambiente ancora più scioccante con un altare e delle tuniche bianche anche loro schizzate di rosso, le stesse che sono state utilizzate per dipingere le tele. Un progetto estremo, cruento, sanguinoso, tra teatro e performance, che vuole suscitare nello spettatore disgusto e ribrezzo, per poi guidarlo verso una totale catarsi e purificazione.

Rigoletto

Giuseppe Verdi, Rigoletto

★★★★☆

Milano, Teatro alla Scala, 20 giugno 2022

(video streaming)

Rigoletto è scandalosamente politico anche oggi

«Non toccatemi Verdi». Questo sembra essere il mantra del melomane che frequenta i teatri italiani. Ignaro di tutto quello che avviene al di fuori dei patri confini, se nel Rigoletto  non c’è la gobba, manca il Mincio e i costumi non sono quelli cinquecenteschi del dramma di Victor Hugo da cui deriva il libretto, allora si tratta di vera e propria lesa maestà nei confronti del compositore. Che poi questa lettura non avvenga per mano di un tedesco della Regietheater ma di uno dei più apprezzati registi italiani non conta: le contestazioni rivolte ai realizzatori della produzione alla fine della rappresentazione lo stanno a dimostrare – anche se come al solito questo succede solo alla prima e nelle repliche i bu spariscono.

Eppure Rigoletto è una delle opere più sconvolgenti di Verdi, quella per cui più ha dovuto combattere con la censura, un’opera che allora doveva essere un pugno nello stomaco per gli spettatori. Come dovebbe essere anche oggi. Il punto di partenza della lettura di Martone è la disparità sociale, del rapporto tra il potere e i deboli, reso molto chiaramente molto chiaramente dalla scenografia di Margherita Palli: da una parte il lusso, la droga, il sesso a pagamento nel loft del ricco; dall’altra il degrado dei tuguri dei miseri. Una semplice rotazione della grande scenografia ci porta in un mondo o nell’altro, due mondi che sono contigui: una porticina permette di passare dal loft ai sotterranei, così che Rigoletto possa fornire di cocaina le feste del padrone o che questi possa trastullarsi con la sorella di Sparafucile. E prima i suoi compagni di baldoriaavevano varcato la stessa porta per rapire Gilda. Dal primo piano ricco vengono gettati nei bassifondi i “rifiuti umani” quando non servono più, come le prostitute che dopo il lavoro sono ricacciate fra quelle luride mura e quando la porta rimane aperta permette di avere uno sguardo dal basso di quell’ambiente con i sofà bianchi e gli oggetti di design. Tutto quel bianco alla fine però si macchierà di sangue: con un finale a sorpresa, e non del tutto convincente in verità, gli emarginati si vendicano e uccidono il Duca e i suoi compagni come nel film Parasite di Bong Joon Ho. Una lotta di classe dal finale cruento e di gusto pulp che ha scatenato le rumorose contestazioni di parte degli spettatori.

Era ovvio che uno spettacolo come questo dividesse il pubblico, ma dalla critica sono pervenute quasi unanime lodi, con Angelo Foletto affermare che il Rigoletto di Martone non piace ai “prepotenti”: «succede che le prime della Scala siano ostaggio di pochi appassionati, si fa per dire, che con la prepotenza di scomposti ‘bu’ e ‘vergogna’, addirittura a sipario ancora aperto, decidono cosa l’autore avrebbe disapprovato condizionando il giudizio complessivo sullo spettacolo». Eppure era già nelle intenzioni di Verdi fare un’opera di denuncia sociale e Martone la rende soltanto più cruda e disturbante, più contemporanea – in una città le cui acque reflue sono piene di cocaina consumata non solo nei fine settimana ma tutti i giorni… Che poi questa lettura non sia neanche così originale a partire dal Rigoletto della Mafia di Little Italy di Jonathan Miller (ed era il 1982!) non è ovviamente alla portata del melomane medio (cit.). Lo spettacolo molto “teatrale” di Martone si distingue per la ricchezza di particolari che gettano luce su una drammaturgia di grande impatto e soprattutto per la intensa recitazione degli interpreti, prima fra tutti l’incantevole Gilda di Nadine Sierra nella sua tragica parabola da ragazza giovanilmente innamorata a donna che sceglie la morte essendo la sua prevedibile esistenza ancora peggiore. La tecnica sicura le permette di affrontare le agilità di «Caro nome» con facilità ed espressività, mentre la felice presenza scenica è ancora più convincente qui che non nella precedente vecchia produzione scaligera.

Arriva in scena e la voce riempie il teatro: Amartuvshin Enkhbat ritorna in una parte felicemente frequentata molte volte. Senza i cachinni di tradizione, la sua performance vocale ha una pulizia e un’autorevolezza che hanno pochi uguali, timbro pastoso e sonoro, proiezione mirabile e dizione scolpita sono le qualità della suainterpretazione. Migliorata è anche la resa attoriale e se non nella espressione del volto – ma questo è colpa delle regie televisive e dei loro spietati primi piani che ci hanno male abituati – il cantante riesce a dare una decisa caratterizzazione del personaggio anche senza la gobba, con un’andatura caracollante e nervosa che rispecchia la sua disturbata psicologia. Efficace il Duca di Piero Pretti, che tenta di dare spessore al personaggio senza esagerare nella spavalderia. Cupo più del solito il Monterone homeless di Fabrizio Beggi, meno cupo del solito invece lo Sparafucile di Gianluca Buratto. Marina Viotti è una convincente Maddalena.

Incomprensibilmente contestata anche la direzione di Michele Gamba che invece ha dato una lettura innovativa della partitura eliminando puntature di tradizione – ma il la bemolle alla fine di «Vendetta» è stato concesso – e scegliendo tempi adeguati. Si sa, la tradizione e Verdi non si toccano.

 

TEATRO TINA DE LORENZO

Teatro Tina de Lorenzo

Noto (1870)

320 posti

Nel 1855 la necessità di costruire un nuovo teatro si fece sentire nella cittadina siciliana e fu formato quindi un comitato di cittadini per raccogliere i fondi. Fu acquistata una abitazione (casa Salonia) nella piazza centrale e in seguito fu dato incarico all’ingegnere Francesco Sortino per disegnare il nuovo edificio. Alla sua morte nel 1863 la direzione dei lavori passò a Francesco Cassone. Nel 1864 la città di Noto s’impegno a continuare l’opera di costruzione, affidando i lavori alla ditta Ruiz di Siracusa. La costruzione tecnica e meccanica fu affidata ad alcuni cittadini di Noto sotto la guida di Fortunato Queriau, mentre la doratura del teatro fu eseguita dal pittore Santi Ferrara di Messina. La statua di arenaria, rappresentante l’allegoria della Musica, situata al centro del vestibolo del teatro è lavoro dello scultore Giuliano Palazzolo, che seguì un disegno per il Cassone; i due pittori Subba e di Stefano decorarono invece il palcoscenico.

Il Teatro Comunale fu intitolato al re Vittorio Emanuele II e inauguratoil 4 dicembre 1870. Da allora in poi, artisti famosi come Pierantonio Tasca e Eleanore Duse calcarono quel palcoscenico. Dal 2012 è stato intitolato a Tina de Lorenzo, attrice figlia del marchese Corrado Di Lorenzo (discendente dei marchesi di Castelluccio di Noto, famiglia nobile siciliana). Ha una capacità di 320 posti a sedere che include tre file di palchi, ed una galleria.

Turandot

Giacomo PucciniTurandot

Berlin, Staatsoper Unter den Linden, 8 juillet 2022

★★★☆☆

 Qui la versione italiana

À Berlin une Turandot-marionette

En 1972, Zubin Mehta a fait entrer un enregistrement historique de Turandot dans l’histoire de l’interprétation musicale. Le directeur indien est revenu plusieurs fois sur le dernier opéra de Puccini, comme dans l’édition située dans la Cité interdite mise en scène par Zhang Ymou (1998), puis en 2007 avec un autre metteur en scène chinois, Chen Kaige. À 86 ans, au Staatsoper de Berlin, il descend une fois de plus dans la fosse d’orchestre pour sa lecture du chef-d’œuvre inachevé et fait comprendre à quel point Turandot est une somme de la musique de son époque – Strauss, Stravinsky, Prokof’ev, Ravel… – mais avec le temps l’impact sonore, déjà remarquable à l’époque, dans sa direction a pris une opulence hollywoodienne…

la suite sur premiereloge-opera.com

Turandot

Giacomo PucciniTurandot

Berlino, Staatsoper Unter den Linden, 8 luglio 2022

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  Ici la version française

Turandot marionetta

Zubin Mehta nel 1972 consegnava alla storia dell’interpretazione musicale un’incisione di Turandot che sarebbe stata di riferimento. Il direttore indiano è ritornato poi più volte all’ultima opera di Puccini, come nell’edizione ambientata nella Città Proibita con la regia di Zhang Ymou (1998) e ancora nel 2007 con un altro regista cinese, Chen Kaige. A 86 anni alla Staatsoper di Berlino scende ancora una volta nella buca d’orchestra per la sua lettura del capolavoro incompiuto e fa capire come Turandot sia una summa della musica del suo tempo – Strauss, Stravinskij, Prokof’ev, Ravel… – ma col tempo l’impatto sonoro, già notevole allora, nella sua concertazione ha assunto una hollywoodiana opulenza, la ricerca di effetti coloristici è portata allo spasimo, lo smalto sonoro è abbagliante, ma manca la trasparenza di certe pagine lunari e rarefatte. Turandot è l’unica opera ad avere ben quattro finali musicalmente diversi: interrompere l’esecuzione dopo l’ultima nota scritta da Puccini, utilizzare il moderno finale di Berio, o i due di Alfano, di cui uno particolarmente magniloquente. Mehta sceglie proprio questo.

L’orchestra splende ma copre le voci e costringe il coro a livelli barbarici, una gara di decibel che però il pubblico berlinese dimostra di apprezzare assieme a quelli profusamente elargiti dai due protagonisti principali. Elena Pankratova, che sostituisce l’inizialmente prevista Anna Netrebko non più invitata dal teatro per le note ragioni – sarebbe stato curioso però avere la cantante russa in un’opera in cui uno stato autoritario opprime il suo popolo con la violenza e l’arbitrio e il boia si chiama Putin-Pao… – è una macchina per acuti taglienti come lame e dall’espressione gelida. Il tenore turco Murat Karahan (che si alterna nelle recite con Yusif Eyvazov) si inceppa con una dizione quasi incomprensibile fatta solo di consonanti e un suono offuscato nel registro medio. Il suo, come spesso succede, è un “Calaf degli acuti”, decisi e sicuri, ma in mezzo non c’è molto. Come da programma però il suo «Nessun dorma» riceve applausi a scena aperta. Non succede invece per Liù, non il ruolo più adatto alla voce di Ol’ga Peretjat’ko poiché non basta avere la linea di canto e le note giuste, Liù deve anche saper emozionare e il timbro metallico e la fredda espressione del soprano russo non lo fanno. Il vecchio Timur trova in René Pape un interprete efficace e vocalmente ancora autorevole, quello che non si può dire invece per l’Altoum di Siegfried Jerusalem, la cui età si avvicina a quella dell’imperatore cinese, ma è sembrato inopportuno marcare la insufficiente prestazione con segni di disapprovazione come ha fatto qualcuno. Dal gruppo dei tre ministri emerge con nettezza il baritono Gyula Orendt, Ping di lusso per il bel timbro e la vivacità espressiva.

Come lo Hoffmann dei Contes di Offenbach, anche Calaf qui si innamora di una bambola, o meglio di una marionetta che ha le fattezze della principessa Turandot. Non molto diversamente da quanto aveva fatto sul palcoscenico sull’acqua di Bregenz col Rigoletto, Philipp Stölz e la scenografa Franziska Harm costruiscono una enorme figura, manovrata con fili, che ingombra quasi tutta la scena, una figura che viene fatta segno di temuta venerazione da parte del popolo: non siamo nella Cina millenaria della favola di Gozzi, ma in una dittatura orientale dove tutti portano un’uniforme grigia.

Nell’opera Turandot canta solo a metà del secondo atto, fino a quel momento in scena c’è solo la gigantessa sotto la cui gonna si apre la camera delle torture. La mega marionetta ad ogni risposta esatta incomincia a decomporsi: prima perde la parrucca e poi si scopre chè è una maschera quella che copre il teschio ghignante di questa specie di Moloch, un feticcio religioso, una divinità a cui si fanno sacrifici umani. In realtà uno strumento di dominio e di oppressione del popolo. La marionetta/Turandot si trasforma poi in una terrificante aracnide a guardia di una montagna di teschi mentre la vera Turandot è prigioniera dentro le sbarre della crinolina della gonna e anche lei perde la parrucca presentando delle fattezze di cui è difficile pensare di innamorarsi – infatti Calaf continua a essere perdutamente infatuato dal viso imbiancato e dalla bocca a cuore della maschera, tanto che la principessa, non si sa se per la perdita dell’onore o per la ferita all’orgoglio di essere preferita a una pupazza, si avvelena e muore, questa volta tra le braccia del principe ignoto mosso infine a pietà.

L’aspetto surreale e simbolistico della storia è scelto da Stölzl come chiave di lettura di questa particolare opera pucciniana. Regista principalmente cinematografico, è alla dimensione dell’immagine che consegna questa storia e lo spettacolo infatti funziona molto bene dal punto di visto visivo, ma neanche lui riesce a dare un significato convincente e credibile alle figure in scena: «Calaf cade in una sorta di ossessione per lei, da lontano, come uno stalker che segue una star. Perché? Non lo sappiamo. È come un’ipnosi o una maledizione. Si potrebbe arrivare a dire che egli proietta nell’immagine della principessa una sorta di desiderio di morte. Non c’è altro modo per spiegare il fatto che stia affrontando questa prova, alla quale nessuno prima di lui è mai sopravvissuto» scrive il regista nell’intervista pubblicata sul programma di sala.

Anche noi pubblico restiamo senza una risposta.

Orfeo ed Euridice

 

foto © Iko Freese/drama-berlin.de

Christoph Willibald Gluck, Orfeo ed Euridice

Berlin, Komische Oper, 7 juillet 2022

★★★★☆

 Qui la versione italiana

Orfeo ed Euridice, l’histoire d’un couple

«Les origines du mythe sont très lointaines. Ce qui est déterminant pour moi, c’est sa composante “vie réelle” ; je me demande ce qui relie ces mythes à nos vies d’aujourd’hui. Je pense que c’est la raison pour laquelle cette histoire a été écrite : elle a été écrite pour partager des expériences de vie», écrit Damiano Michieletto…

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