Mese: novembre 2024

Bent

Martin Sherman, Ben

Regia di Mauro Avogadro

Torino, Teatro Baretti, 27 novembre 2024

Amore nel Lager

Bent aveva fatto grande scalpore quando era stato presentato nel 1979 a Londra al Royal Court Theatre: allora quasi non c’era consapevolezza della persecuzione nazista degli omosessuali. Il titolo si riferisce infatti alla parola usata in alcuni paesi europei per indicare gli omosessuali, il nostro “invertito”.

Si tratta infatti della storia di personaggi maschili nella Berlino degli anni ’30. Max è in contrasto con la sua ricca famiglia a causa della sua omosessualità. Una sera, con grande risentimento del suo compagno Rudy, porta a casa un affascinante membro della Sturmabteilung, Wolf. È la “notte dei lunghi coltelli” e il mattino seguente Wolf viene scoperto e ucciso dalle SS nell’appartamento di Max e Rudy. I due sono costretti a fuggire da casa ma trovati in una tendopoli nella foresta vengono arrestati dalla Gestapo e costretti a salire su un treno diretto al campo di concentramento di Dachau.

Sul treno Rudy viene picchiato a sangue dalle guardie, mentre Max cerca di ignorare le sue urla. Un altro prigioniero sul treno, che indossa una toppa a triangolo rosa, spiega a Max il sistema delle toppe durante l’Olocausto. Un ufficiale fa riportare Rudy da Max e lo costringe a picchiarlo fino alla morte. Max viene preso dalle guardie e dice di essere ebreo e non omosessuale, perché ritiene che le sue possibilità di sopravvivenza nel campo saranno migliori. In seguito Max confessa allo stesso prigioniero del treno che le guardie lo hanno costretto ad avere rapporti sessuali con il corpo di una ragazzina morta per “dimostrare” che non era omosessuale. Il prigioniero rivela di chiamarsi Horst.

Nel campo, Max fa amicizia con Horst, che gli mostra la dignità nel riconoscere ciò che si è. I due si innamorano e diventano amanti attraverso la loro immaginazione e le loro parole. Dopo che Horst viene ucciso dalle guardie del campo, Max indossa la giacca di Horst con il triangolo rosa e si suicida lanciandosi contro il filo spinato elettrificato.

Dato il successo, la pièce si trasferì nel West End dove la parte di Max fu interpretata da Ian McKellen, mentre a Broadway quello stesso anno Max fu Richard Geere. Ian McKellen nel 1997 fu lo zio Freddie nell’adattamento cinematografico diretto da Sean Mathias. Lo spettacolo che inaugura la stagione del Teatro Baretti con la regia di Mauro Avogadro e la traduzione di Marco Mattolini prende in considerazione soltanto l’ultima parte della storia, quella nel Lager, con tre personaggi. La scena di Arcangelo Piccirillo è nuda, solo mucchi di pietre e come quarta parete un reticolato di fili spinato che separa gli attori dal pubblico. Sul palcoscenico due uomini cercano di salvare una dignità perduta, un’identità nascosta tentando un’intesa e una solidarietà difficili, ma arrivando fino al trasporto erotico e all’amore.

Diplomati all’Istituto Nazionale Dramma Antico di Siracusa, i giovani attori adottano una recitazione asciutta che esalta la tragicità della vicenda. Dario Battaglia è un Max che fugge i sentimenti per salvarsi portandosi dentro il tremendo passato che non conosciamo, solo alcuni accenni allo zio e al ballerino Rudy si riferiscono alla vicenda trascorsa. Inizialmente più distaccato, poi sempre più travolto dai sentimenti è il personaggio di Horst di Marcello Gravina, anche lui misurato ma intenso nella recitazione. Fa eccezione la figura del mellifluo capitano SS di Gabriele Rametta che sotto l’uniforme a un certo punto mostra un travestimento femminile decisamente incongruo ma che evidenzia l’assurdità tragica della situazione e rimanda alla Berlino di Cabaret. Un unico lampo di colore in una scena dominata dai grigi. Le luci di Alberto Giolitti e le musiche di Gioacchino Balistreri forniscono il giusto tocco a uno spettacolo applaudito da un pubblico visibilmente commosso.

Le nozze di Figaro

foto @ Mattia Gaido

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

Torino, Teatro Regio, 23 novembre 2024

★★★★☆

Inaugurazione in controtendenza del Regio Torinese

Nel 1775 il geniale inventore Abraham-Louis Breguet apriva a Parigi la sua manifattura di orologi. Nello stesso periodo Pierre Jacquet-Droz e figli costruivano delle bambole che, sotto abiti preziosi, celavano complicati e ingegnosi meccanismi per riprodurre i movimenti di uno scrivano, di un disegnatore e di una suonatrice di clavicembalo. Automi che oggi si possono ammirare al museo di Neuchâtel. Nella seconda metà del Settecento è evidente una vera e propria infatuazione per i congegni meccanici precisi e complessi.

Un congegno altrettanto infallibile è quello del teatro di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais – figlio lui stesso di un orologiaio – e in particolare de La folle journée, ou Le mariage de Figaro, che Lorenzo da Ponte tradusse in libretto dopo che la commedia, andata in scena a Parigi dopo innumerevoli ritardi e divieti, a Vienna era stata censurata. È dunque un testo di scottante attualità quello che Mozart mette in musica nel 1786 e anche se ridimensionano gli elementi di critica sociale presenti nell’originale francese, Da Ponte e Mozart inseriscono momenti in cui è evidente lo scontro tra classi: «Se vuol ballare, signor contino» è un esplicito dileggio, sulle note sarcastiche di un minuetto, di Figaro nei confronti del personaggio di casta superiore.

Il fatto che dietro Le nozze di Figaro ci siano tre tra i maggiori genii di teatro di tutti i tempi non poteva che rendere questo un capolavoro assoluto, il vertice massimo nel genere buffo settecentesco. Un titolo frequentemente inserito nei cartelloni dei teatri italiani, che però per la inaugurazione della loro stagione, dopo l’indigestione pucciniana, preferiscono puntare su Verdi – come fanno infatti quest’anno il Teatro alla Scala (La forza del destino), La Fenice (Otello), l’Opera di Roma (Simon Boccanegra), il Maggio Musicale Fiorentino (La traviata), il Regio di Parma (Giovanna d’Arco) – non il Regio di Torino però, che non solo preferisce Mozart, ma ne affida l’esecuzione a un direttore giovane e poco conosciuto, Leonardo Sini. Nato a Sassari 34 anni fa e con una carriera già consolidata, Sini affronta la partitura con passo spedito e trascina gli eventi in una corsa dal ritmo incalzante. Buono l’equilibrio tra buca e palcoscenico con solo un piccolo scollamento tra orchestra e cantanti nel terzo atto che verrà sicuramente risolto nelle repliche. Il tono brillante dell’orchestra si ritrova nel colore ispanico di alcune pagine come il fandango con le castagnette suonate dai ballerini nella coreografia di Nuria Castejon. Sono salve però le oasi liriche, quando sui personaggi scende per un momento una nebbia malinconica o nel finale quando il perdono della Contessa, dopo le traversie incontrate nel corso della folle journée, sembra elargito a tutta quanta l’umanità.

Il cast è abbastanza omogeneo senza punte di particolare eccellenza. Il Figaro di Giorgio Caoduro si fa ammirare sia nei recitativi sia nei momenti più cantabili, dove l’eleganza del fraseggio predomina sulla vivacità del personaggio che risulta delineato con sobrietà. Lo stesso si può dire per il Conte di Vito Priante, dalla recitazione asciutta e dalla espressione vocale precisa e nobile. Una sostituzione dell’ultimo momento è quella di Monica Conesa con Ruzan Mantashyan che acquista il portamento sontuoso della Contessa ma vocalmente il soprano armeno delude in parte per un legato non impeccabile nelle sue grandi arie e acuti non limpidissimi. Meglio lo stile della Susanna di Giulia Semenzato che, se non la sensualità del personaggio, regala delle belle variazioni. Delizioso il Cherubino di Josè Maria Lo Monaco, mezzosoprano catanese dal bel timbro e dai rapinosi passaggi a mezza voce. Ben definiti sono la Marcellina di Chiara Tirotta, il Bartolo di Andrea Concetti e il Basilio di Juan José Medina, allievo del Regio Ensemble. Un eccesso di caratterizzazione quello del Don Curzio di Cristiano Olivieri a cui la regia impone una balbuzie da avanspettacolo. Scenicamente più sviluppata del solito è la parte del giardiniere Antonio, qui il sostanzioso Janusz Nosek del Regio Ensemble. Magico come sempre il momento di Barbarina affidata a un’altra allieva del Regio Ensemble, l’incantevole Albina Tonkikh. Affidabile come sempre il coro istruito da Ulisse Trabacchin, dal quale si staccano le vivaci contadine di Eugenia Braynova e Daniela Valdenassi.

Di Emilio Sagi, direttore che ha spesso frequentato il genere spagnolo per eccellenza, ossia la zarzuela, ricordo il suo vivacissimo Barbiere di Siviglia rossiniano, dove alla fine i due innamorati volavano via in mongolfiera. Ora ne Le nozze di Figaro il Conte e Rosina sono scesi da tempo dalla mongolfiera, sono più maturi, in parte disillusi, soprattutto la ragazza diventata Contessa, che deve fare i conti con l’età e con le intemperanze del marito. Nella sua lettura Sagi stempera i motivi di critica sociale per esaltare invece l’aspetto ludico ed erotico da commedia di equivoci e intrighi amorosi. Il regista, che è stato Direttore Artistico del Teatro de la Zarzuela e poi del Teatro Real di Madrid (ed è da qui che arriva questa produzione de Le nozze) sottolinea l’elemento “Siviglia” nel suo allestimento: non solo le sue architetture tipiche nelle scenografie di Daniel Bianco e nei costumi di Renata Schussheim, ma anche il sole della città andalusa, che inonda il patio del palazzo del Conte, in cui avvengono le controscene in secondo piano, o che risveglia la Contessa quando Susanna scosta le tende delle due grandi finestre. A questo proposito, nella sua accurata regia Sagi si lascia andare a qualche errore drammaturgico: non è infatti pensabile che la Contessa appena risvegliata intoni «Porgi, amor, qualche ristoro al mio duolo, a’ miei sospir» come prima cosa. Altro errore nel primo atto, proprio all’inizio, quando Figaro misura non la stanza bensì il letto già posizionato in un ambiente di per sé vastissimo. Non un errore ma un momento che poteva essere meglio rappresentato quello della tirata di Figaro contro le donne: il testo di Da Ponte compensa l’attenuata carica sociale con una misoginia tipica del suo tempo ma che suona fastidiosa alle nostre orecchie. Non dico eliminarla in omaggio a un imperversante atteggiamento politically correct, ma c’era modo di “virgolettarlo” senza renderlo ancora più palese con Figaro al proscenio e le luci accese in sala.

Un sipario dipinto a drappi rossi bordati d’oro separa e mostra in trasparenza i diversi quadri dell’opera. Le scenografie vagamente strehleriane nelle dimensioni e nei colori sono illuminate dalle belle luci di Eduardo Bravo mentre particolarmente riuscito è l’allestimento del terzo atto, con il salone scandito da archi e colonne, e del patio del finale, ricco di vasi, piante, fiori e una fontana. Un suggestivo panorama notturno su cui si alza una grande luna piena. Attento è il gioco registico, ma sempre sobrio e affidato alle competenze attoriali degli interpreti.

Molto felice l’esito della serata con applausi intensi e prolungati soprattutto per Susanna, Cherubino e il direttore. Con questo spettacolo, dopo il felice progetto delle tre Manon, parte ufficialmente la stagione del Regio, intitolata “La meglio gioventù”, come il film di Giordana, dedicata ai diversi aspetti della gioventù che fanno da fil rouge nella scelta dei titoli. Infatti dopo la parentesi ballettistica, di prammatica nel periodo natalizio, il cartellone riprenderà a fine gennaio con L’elisir d’amore, un’altra vicenda di amori giovanili.

The Critic

Charles Villiers Stanford, The Critic

Wexford, O’Reilly Theatre, 19 ottobre 2024

★★★

(diretta streaming)

No, non è Gilbert & Sullivan

Il terzo titolo di “Teatro nel teatro”, il tema scelto dal festival di Wexford quest’anno, dopo Le maschere e Le convenienze ed inconvenienze teatrali, è The Critic or The Opera Rehearsed di Charles Villiers Stanford. Opera basata su The Critic: or, a Tragedy Rehearsed scritta da Richard Brinsley Sheridan nel 1779, una farsa sulle convenzioni della recitazione e della produzione teatrale, a sua volta tratto da The Rehearsal, satira messa in scena per la prima volta il 7 dicembre 1671 e pubblicata anonima nel 1672, ma opera di George Villiers, II duca di Buckingham, e altri, che metteva in burla John Dryden e il teatro sentenzioso e troppo ambizioso della Restaurazione. Se il testo di Sheridan metteva in burla il teatro tragico, quello di Stanford ironizza sul teatro in musica.

Il libretto di L. Cairns James è fedele al testo originale e il lavoro fu ben accolto allo Shaftesbury Theatre di Londra nel 1916 dove andò in scena la prima volta. È la penultima delle nove opere composte da Stanford, autore anche di sette sinfonie, undici concerti, lavori da camera,  corali e da chiesa. Sebbene gran parte della musica di Stanford sia trascurata nelle sale da concerto, ne è invece disponibile su disco una quantità considerevole. Ottima occasione questa di ricordarlo a cent’anni dalla sua scomparsa.

Atto I. La vicenda  si svolge sul palcoscenico di un teatro, dove si stanno facendo le prove di una nuova opera, The Spanish Armada. Il compositore Dangle e il librettista e impresario Puff hanno invitato il critico Sneer. Il signor Puff si lancia in una discussione sulla sua professione, sul teatro e sui molti meriti del nuovo lavoro. Durante le prove, Puff, Sneer e Dangle interromperanno i lavori per commentare l’opera. Le prove iniziano e ci trasportano nel regno della regina Elisabetta I. Al forte di Tilbury, Sir Walter Raleigh e il governatore del forte, Sir Christopher Hatton, discutono della minaccia di un’invasione spagnola. Hanno catturato lo stravagante Don Ferolo Whiskerandos, figlio dell’ammiraglio nemico, e lo hanno imprigionato. Entra la figlia del governatore, Tilburina, e scopriamo che si è innamorata di Don Ferolo.
Atto II. Un sub plot, che non ha nulla a che vedere con la vicenda principale, riguarda un certo figlio presumibilmente orfano, anche lui incarcerato, che riacquista libertà e genitori creduti perduti oltre che una pletora di parenti. Si torna subito alla vicenda principale con le nipoti di Hatton e di Raleigh, entrambe innamorate di Don Ferolo,  che intendono vendicarsi della sua infedeltà. Un capitano di mare inglese uccide in duello Don Ferolo (in una scena che richiede molte prove) e Tilburina impazzisce per il dolore. Un’incongrua mascherata che celebra la vittoria sull’Armada spagnola della regina Elisabetta I che arriva in scena. L’opera si conclude con il signor Puff che deve decidere se domani si dovranno fare altre prove.

In quello che possiamo definire il prologo veniamo a conoscenza dei personaggi di Mr. Puff (termine che può significare molte cose: sbuffo, montatura ma anche checca), Mr. Dangle (il verbo penzolare) e Mr. Sneer (sogghigno), ruoli parlati. La presa in giro dell’opera ha uno dei suoi momenti migliori nella preghiera al potente Marte affinché «sanctify whatever means they use to gain them» con tanto di concertato. Lo stile eclettico di Stanford si fa burla delle convinzioni operistiche, tramite un’opulenta orchestra sinfonica, citazioni beethoveniane e wagneriane, un’esilarante scena verdiana “muta” e l’immancabile scena di pazzia del soprano. Ma è il linguaggio, prolisso e ampolloso, il bersaglio del suo lavoro.

Il direttore Ciarán McAuley, alla guida dell’orchestra dispiega divertito la brillante partitura mentre dal punto di vista visivo il regista Conor Hanratty, convinto che «l’opera è pensata per essere eseguita come dovrebbe essere il pezzo originale in tutta serietà e qualsiasi tentativo di trattarla in modo farsesco non farebbe che rovinare l’umorismo», con lo scenografo John Comiskey e tre italiani, Massimo Carlotto per i costumi, per le luci Daniele Naldi assistito da Paolo Bonapace, ambienta l’opera nel mondo settecentesco di Sheridan, che a sua volta raffigura l’Inghilterra teatrale elisabettiana. Molte sono le strizzatine d’occhio autoreferenziali, ma in certi momenti si aspetta che lo spettacolo viri verso un Gilbert & Sullivan.

Cast omogeneo e senza particolari punte di eccellenza quello messo in campo. Tra i molti citiamo almeno tra i ruoli cantati quelli di Dane Suarez (Don Whiskerando), Tony Brennan (Lord Burleigh), Rory Dunne (Governor/Lord Justice), Gyula Nagy (Beefeater/Earl of Leicester), Ben McAteer (Sir Walter Raleigh) e Oliver Johnston (Sir Christopher Hatton), Andrew Henley (Il figlio) e Ava Dodd (Tilburina). Vivace e preciso il coro del teatro.

Platée

 

Jean-Philippe Rameau, Platée

Wormsley, Garsington Opera Pavilion, 8 giugno 2024

★★★★☆

(video streaming)

«La ruse innocente»

Paul Agnew, l’indimenticabile interprete della rana Platée nella storica produzione di Charles Minkowski e Laurent Pelly del 2000, lo vediamo ora sul podio dirigere il titolo di Rameau per la Garsington Opera, il primo titolo del barocco francese messo in scena nel teatro immerso nel verde della campagna inglese. Agnew l’aveva già diretta nella produzione di Robert Carsen per sostituire William Christie indisposto e la sua lettura sembra aver fatto tesoro di quei maestri: i colori sono scintillanti, i ritmi frizzanti, gustosi gli effetti di imitazione dei versi degli animali, le danze chiaramente stilizzate. The English Concert, orchestra in residenza alla Garsington Opera, dimostra di non aver nulla da invidiare a orchestre più blasonate, così come il coro del teatro, formato da giovani che si rivelano anche eccellenti attori. Tutti forniscono il loro contributo alla resa di uno spettacolo ben costruito sull’“innocente stratagemma”, ossia quello di invitare Giunone a un finto matrimonio di Giove con la creatura più brutta, che si rivela essere la ninfa delle paludi, così che la gelosa moglie del Tonante si possa ricredere sulla sua fedeltà – per questa volta almeno…

Non è certo una novità l’ambientazione di un’opera in uno studio televisivo, ma qui la messa in scena della crudele burla ai danni della povera ninfa giustifica ampiamente la trovata. Siamo dunque nello studio 3 della Olympus Tv dove si gira un reality show dove Giove è un bellimbusto narcisista e fatuo, le Naiadi bellezze al bagno, i produttori (Thespis e Satiro) sempre affannati e Platée in completo pinne-cuffia-costume anni ’50 rigorosamente verdi. Su uno schermo la computer grafica mostra cieli nuvolosi e il dio su pacchiani carri dorati. La regia di Louisa Muller lascia pochi momenti vuoti e la vivacità della sua messa in scena fa concorrenza a quella della musica con gustose gag, come quella degli invitati che si avventano sulla torta di nozze o il concorso di bellezza. 

Le danze di cui Rameau infarcisce la sua comédie lyrique sono eseguite nello stile break dance e hip hop ed è stupefacente come i ritmi puntuti e saltellanti vi si adattino perfettamente, merito anche dei ballerini istruiti da Rebecca Howell, Movement Director (coreografa non va bene?). L’aspetto visivo di scene e costumi è curato da Christopher Oram mentre i video sono un lavoro della Illuminos, i fratelli Matt e Rob Vale che da anni si occupano di proiezioni visive.

Il risultato complessivo non sarebbe del tutto convincente senza la partecipazione divertita e divertente degli interpreti, primi fra tutti il Satiro/Citerione di Henry Waddington e il Thespis/Mercurio di Robert Murray, coppia in perfetta sintonia. La ninfa lacustre ha la voce e il fisico del tenore Samuel Boden mentre come Giove Ossian Huskinson sfoggia il suo bel timbro di basso-baritono. Nel reparto femminile si ammirano la Clarine di Holly Teague nell’aria «Soleil, fuis de ces lieux» e la Folie di Mireille Asselin.

La registrazione video dello spettacolo è disponibile sulla piattaforma OperaVision.

 

Don Pasquale

 
foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Don Pasquale

Bergamo, Teatro Donizetti, 17 novembre 2024

★★★☆☆

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Un Don Pasquale in stile cafonal al Donizetti Opera

In rete è disponibile il video della produzione del 2022 del Don Pasquale dell’Opéra di Digione che, con interpreti diversi, completa la decima edizione del festival Donizetti Opera. Giusto per farsi un’idea dell’allestimento di Amélie Niermeyer di cui ricordo una terribile Leonore della Staatsoper di Vienna e una Lucia di Lammermoor in chiave femminista alla Staatsoper, questa volta di Amburgo, anch’essa abbastanza sgradevole. 

Per quest’altra incursione nel mondo donizettiano, la regista tedesca trascura le letture fortemente ideologiche che hanno caratterizzato le altre sue produzioni, per puntare tutto sull’umorismo, un umorismo greve, tedesco, che trasforma la malinconica commedia in un reality in stile cafonal. L’impianto scenico di Maria-Alice Bahra ricorda quello disegnato da Pizzi per La pietra di paragone del Rossini Opera Festival 2002, qui una villa molto più borghese dove invece della piscina c’è una piccola vasca, forse idromassaggio, non si sa, dalla platea non si vede, dove tutti quanti inciampano. La costruzione è montata sulla solita piattaforma girevole per farci vedere anche il retro della villetta dov’è con parcheggiata una Panda rossa. Molti i vasi di piante curate amorevolmente dal proprietario che si dedica alla ginnastica per rimediare ai guasti dell’età. La storia narrata dalla Niermeyer è quella prevista, senza stravolgimenti, ma ambientata negli anni ’70 del secolo scorso, quelli più esasperati nei modi e negli abiti, qui disegnati dalla stessa Bahra, con predominio di canottiere e infradito o outfit luccicanti. Teatralmente inesistente la scena in cui Norina disfa la casa del vecchio per trasformarla a suo gusto: qui nulla di tutto questo, l’arredamento moderno del titolare rimane tale e quale e c’è soltanto un gran movimento di scatoloni con i microfoni e gli altoparlanti per il party che segue.

Tre domestici si prendono cura del padrone e del nipote fannullone e squattrinato, talmente poco appetibile che neanche Norina lo vorrà più: infatti nel finale la ragazza invece che con lo spasimante fugge da casa sola con la sua amata vetturetta dentro la quale fino a quel momento ha vissuto. Sceglie insomma la libertà in povertà invece di una sicurezza borghese. Capisco le istanze femministe, ma è quello che dice l’opera? E tutta quella buriana per poi tornare a dormire in macchina? 

I domestici che nel libretto nel terz’atto commentano l’«interminabile andirivieni» di parrucchieri, “scuffiare”, gioiellieri, pellicciaie, sarte in una casa dove «si spende e spande, v’è da scialar», qui sono una turba di sciamannati che saranno invitati a un party. Che poi la “romanesca” di Ernesto sia accompagnata da un terzetto di Mariachi e che a un certo punto entri in scena un elefantino rosa che passa davanti al sipario non stupisce più di tanto.

Detto dell’allestimento, l’interesse dell’operazione sta nella parte musicale, in quanto l’edizione proposta è quella critica curata da Roger Parker e Gabriele Dotto che fanno riferimento alla prima versione del gennaio 1843 – solitamente viene presentata la seconda versione della ripresa nel maggio dello stesso anno – integrando i molti tagli di tradizione non solo nei recitativi ma anche in certi numeri musicali. Il duetto tra basso e baritono nel terzo atto è quello ripristinato dalla prima versione e viene qui eseguito per la prima volta in tempi moderni.

I valzer di cui è ricca la partitura e i ritmi a tratti frenetici sono affrontati con slancio garibaldino da Iván López-Reynoso, giovane direttore messicano che nell’intento di trovare la giusta misura tra allegria e tristezza sembra far pendere maggiormente il piatto della bilancia del divertimento, anche per star dietro a quanto avviene in scena. Il lato amaro della commedia si trova nella musica del cantabile «È finita, Don Pasquale» dopo lo schiaffo della ragazza e nel momento lirico della serenata di Ernesto dove López-Reynoso riesce a costruire un’atmosfera di grande malinconia. L’Orchestra Donizetti Opera risponde con convinzione così come il Coro dell’Accademia Teatro alla Scala preparato da Salvo Sgrò.

Il Don Pasquale della prima parigina poteva contare sui maggiori cantanti della sua epoca: Luigi Lablache interpretava il personaggio del titolo, Giulia Grisi Norina, Antonio Tamburi il dottor Malatesta e Giovanni Matteo de Candia Ernesto. Qui a Bergamo la metà dei quattro interpreti principali sono allievi della Bottega Donizetti e si dimostrano non solo all’altezza della situazione, ma quasi più convincenti degli interpreti titolati. È il caso di Giulia Mazzola, spigliata e di simpatica presenza scenica, voce importante, ben proiettata e timbrata, che delinea una Norina vivace e intraprendente, in contrasto col carattere più dimesso di Ernesto, qui un Javier Camarena non nella sua serata migliore: anche se non annunciato, è evidente che lo stato di salute del tenore messicano, un beniamino del festival bergamasco, non è ottimale, ferma restando la qualità del timbro e lo stile elegante, la voce è appannata, la linea musicale non sempre fluida, alcuni acuti non risultano emessi bene. Nel ruolo del titolo ritorna Roberto de Candia, ruolo che il baritono pugliese ha già frequentato nel passato, così come quello di Falstaff, l’altro grande vecchio gabbato nei suoi tardivi risvegli amorosi. Il personaggio ne esce sbalzato con precisione, con una recitazione da grande attore comico e un canto dal fraseggio elegante. Anche Dario Sogos è un allievo della Bottega che ricrea un Dottor Malatesta di grande sapore e bella presenza vocale. Molto divertente si dimostra il Notaro di Fulvio Valenti.

Buon successo di pubblico e applausi insistiti per la giovane Mazzola, visibilmente commossa davanti a tanto calore.

Zoraida di Granata

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Zoraida di Granata

Bergamo, Teatro Sociale, 16 novembre 2024

★★★

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#donizetti200: Zoraida di Granata, la sua prima opera seria

Schiacciata tra due capolavori della maturità quali il Roberto Devereux e il Don Pasquale, al festival Donizetti Opera la Zoraida di Granata mostra le sue acerbe qualità di primo dramma serio del compositore bergamasco: una storia del 1480 a ridosso della caduta della dominazione araba con la città di Granada lacerata dalla rivalità tra il clan degli abenceragi e quello degli zegri, vicenda già messa in musica da Giuseppe Nicolini (Abenamet e Zoraide, 1805), Luigi Cherubini (Les Abencerages ou L’Étendard de Grenade, 1807) e Gaetano Rossi (Zoraida, 1816).

Dopo il Cesare in Egitto di Giovanni Pacini (gennaio 1821), la stagione di carnevale del teatro Argentina avrebbe dovuto continuare con il nuovo dramma di Donizetti, ma a meno di due settimane dal debutto il compositore fu costretto a eliminare dei numeri e adattare la parte di Abenamet a un “musico”, cioè a un contralto en travesti, poiché durante le prove il tenore Amerigo Sbigoli era morto facendosi scoppiare un vaso sanguigno in gola – si dice per aver cercato di superare il tenore rivale Donzelli (Almuzir) in un acuto. Non essendoci un sostituto, la parte di Abenamet dovette essere drasticamente ridotta e adattata al poco noto contralto Adelaide Mazzanti. Anche se in ritardo, il 28 gennaio 1822 l’opera fu finalmente presentata e accolta trionfalmente diventando il primo grande successo del giovane musicista e opera di svolta per il Donizetti “serio”.

Nella ripresa del gennaio del 1824, Donizetti rivide la partitura ampliando il ruolo di Abenamet per mettere in mostra la bravura del contralto protagonista, Rosamunda Pisaroni-Carrara. Anche il libretto di Bartolomeo Merelli fu sottoposto a una drastica revisione da Jacopo Ferretti ed è questa la versione che, esattamente duecento anni dopo, viene presentata come la novità del Donizetti Opera, uno spettacolo che si era visto l’anno scorso a Wexford, ma lì nella prima edizione e con la voce di tenore. La seconda versione cambia metà dei dodici numeri previsti (1), ma è soprattutto nel finale dell’opera che differisce di più, essendo affidato ad Abenamet invece che a Zoraida, con una lunga scena drammaturgicamente più valida: qui il fatto di lasciare regnare un re usurpatore, che si è dimostrato per di più infame nelle azioni, è meno inammissibile di quanto avvenisse nello sbrigativo finale originale. Anche musicalmente l’opera termina in maniera più soddisfacente con quel rondò di Abenamet dal carattere smaccatamente rossiniano. Zoraide di Granata non porta solo il segno dell’influenza di Mayr: sullo stile compositivo di Donizetti ci sono i segni evidentissimi dell’emulazione da parte del giovane compositore dello stile del pesarese, tanto che la Zoraida sembra pronta per il Rossini Opera Festival…

La tradizionale successione recitativo-aria-cabaletta è alla base della struttura dell’opera che contiene momenti musicali salienti in una sapiente successione di arie solistiche e pezzi d’insieme che crescono di intensità man mano che la posta in gioco diventa sempre più alta. Come nel Fidelio beethoveniano il secondo atto si apre con un uomo in catene che ricorda l’amore fedele della sua donna che viene poi a salvarlo. E c’è pure lo squillo di tromba che risolve la situazione all’ultimo momento!

Coprodotto con il Wexford Festival Opera, lo spettacolo viene adattato agli spazi del Sociale di Bergamo e l’Orchestra Gli Originali con i suoi strumenti d’epoca si dimostra ideale per le esigue dimensioni del teatro nella parte alta della città. Qualche imperfezione nei fiati non compromette la resa della compagine orchestrale il cui violino di spalla Enrico Casazza si fa ammirare nell’obbligato dell’aria del giardino di Zoraida così come Ugo Mahieux al fortepiano nell’accompagnamento dei recitativi. La direzione di Alberto Zanardi, assistente di Riccardo Frizza, assicura l’equilibrio tra buca e voci e una saggia scelta di tempi e volumi sonori. 

Rivelatosi ne L’ange de Nisida, il coreano Konu Kim era presente anche a Wexford e di lui non si può se non rimarcare la buona impressione in un ruolo di baritenore tutt’altro che facile. Permangono perplessità sulla dizione e su un eccessivo sfoggio dei generosi mezzi vocali non adatti all’acustica del piccolo Sociale. Non prorompente ma perfetta per queste dimensioni e piacevolissima è invece la voce di Cecilia Molinari, una performance la sua di cui si apprezzano presenza scenica, espressività, eleganza e la tecnica impiegata nelle agilità richieste dalla parte dell’Abenamet qui en travesti. Lo stesso si può dire per la Zoraida di Zuzana Marková la cui dizione ci fa dimenticare che si tratti di una cantante ceca seppure trapiantata in Italia. Tre allievi della Bottega Donizetti completano felicemente il cast: Tuty Hernández come Almanzor, Lilla Takács la chiava spagnola Ines e soprattutto Valerio Morelli, sonoro Alí. Preciso sia scenicamente che vocalmente il coro tutto al maschile dell’Accademia della Scala istruito da Salvo Sgrò.

La regia di Bruno Ravella è sobria e coerente e l’allestimento efficace e convincente. La guerra è d’attualità oltre che nella realtà anche nella Zoraida e il regista ha buon gioco a trasportare le vicende dalla Spagna del 1480 all’epoca della Guerra dei Balcani, collocando l’azione in un luogo che richiama la Biblioteca di Sarajevo devastata dalla guerra e qui ricreata dallo scenografo Gary McCann nel suo stile moresco. Il pregevole gioco luci di Daniele Naldi aggiunge un tocco ulteriormente drammatico. Di McCann sono anche i costumi: un rigido doppio petto per il tiranno Almuzir, mimetiche militari per gli uomini, un abitino azzurro e uno bianco per la protagonista. Sono gli anni Novanta, ma potrebbe trattarsi della contemporaneità, di un luogo che unisce il passato, la cultura e il tempo presente, con la figura della protagonista che cerca di tenere insieme qualcosa che sta crollando. La lettura di Ravella mette in luce l’inutilità della guerra: l’opera si conclude con una nota positiva, ma si capisce che molto è andato perduto.

Successo cordiale e applausi per tutta la compagnia. Chissà se questa proposta di Bergamo farà entrare Zoraida di Granata nei cartelloni degli altri teatri.

(1) Qui lo schema delle due versioni.

Roberto Devereux

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Roberto Devereux

Bergamo, Teatro Donizetti, 15 novembre 2024

★★★

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Tra letto e trono

Che si consideri una trilogia oppure no – ci sarebbe anche l’Elisabetta al castello di Kenilworth ma è un melodramma a lieto fine – quello dedicato alle regine Tudor costituisce un unicum nel corpus della settantina di melodrammi scritti dal compositore bergamasco. Roberto Devereux (1837) è comunque l’ultimo della serie iniziata con Anna Bolena nel 1830 e proseguita con Maria Stuarda nel 1835.

Come succederà nel Don Pasquale, anche Roberto Devereux è un’opera sulla l’inesorabilità del tempo: a dispetto del titolo, protagonista principale qui è Elisabetta, la regina che nel 1601, anno della morte del conte di Essex, aveva 67 anni. Sopravviverà ancora due anni prima di lasciare il trono a Giacomo I, come recitano gli ultimi due versi del libretto del Cammarano: «Non regno… non vivo… Escite… Lo voglio… | Dell’anglica terra sia Giacomo il re». Il senso della caducità degli uomini e delle cose è evidente nella storia della regina che ci viene mostrata vecchia e stanca nell’ultimo suo ciclo di vita a combattere inutilmente contro una rivale bella e giovane – quasi come la Marschallin del Rosenkavalier, che però non fa tagliare la testa al suo Octavian… 

Con la tradizionale ripartizione tra le quattro voci di soprano, mezzosoprano, tenore e baritono, la vicenda si avviluppa sulla passione senile della monarca per un 34enne innamorato invece della moglie del suo miglior amico. Il potere di sovrana e la vulnerabilità come donna formano un conflitto fonte di continui contrasti emotivi che fanno del personaggio della regina un banco di prova e di esibizione per le grandi personalità della lirica. Leila Gencer, Beverly Sills, Montserrat Caballé, Edita Gruberová, Mariella Devia: ognuna di loro ha fatto di Elisabetta il proprio rôle fétiche. 

Jessica Pratt ritorna al Donizetti Opera, arrivato alla decima edizione, dopo aver lasciato la sua personale impronta nella Rosmonda d’Inghilterra e ne Il castello di Kenilworth, rispettivamente nel 2016 e nel 2018. Definita da qualcuno l’Elektra del belcanto, Roberto Devereux dà agio alla prima donna di mostrare un temperamento scenico – l’analogo operistico della Bette Davis cinematografica! – e una tecnica vocale piegata a tutte le esigenze virtuosistiche del belcanto italiano. Il soprano australiano, al debutto nella parte, si dimostra sicuramente all’altezza esibendo una linea di canto dispiegata su un’ampia gamma. La Pratt in questa fase della sua carriera ha sviluppato una sfumatura di colore che ben si adatta a un ruolo scritto per un soprano d’agilità ma anche drammatico: il registro mediano è di grande proiezione e solidità, i legati e i filati sono sostenuti da fiati controllatissimi, i pianissimi eterei. Agli estremi della gamma non tutto funziona alla perfezione: le note gravi non sono il forte della cantante, qualche acuto non è di purezza cristallina e le variazioni sono caute, ma convincente è la definizione del personaggio nella sua tormentata umanità.

Nel Devereux Roberto, il conte di Essex, si dimostra estremamente improvvido, gestendo al peggio la relazione con le due donne – ma come si fa a regalare alla seconda l’anello avuto dalla prima o farsi scoprire con la sciarpa avuta dall’altra? – e ricambiando l’amicizia dell’unico che crede alla sua innocenza insidiandogli la moglie. Eppure, il tenore John Osborn riesce nel miracolo di renderci simpatico il personaggio non tanto per il suo particolare timbro, ma vestendo la sua presenza di note rese con sensibilità ed eleganza che raggiungono il culmine dell’empatia emotiva al terzo atto nella scena IV del carcere, «Io ti dirò, fra gli ultimi | singhiozzi, in braccio a morte», e in quella seguente «Bagnato il sen di lagrime, | tinto del sangue mio», qui però guastata da una pessima trovata registica di cui parleremo.

Il personaggio di Sara trova una validissima interprete nel mezzosoprano Raffaella Lupinacci impegnata in una tessitura molto alta che dopo la “belliniana” aria di sortita «All’afflitto è dolce il pianto…» affronta con sicurezza pagine via via più drammatiche, fino al violento duetto col marito, il duca di Nottingham, ruolo nobile in tutti i sensi a cui Simone Piazzola presta la sua bella voce e l’elegante espressività.

C’è un quinto personaggio nel Devereux: è lo Stato, rappresentato da Lord Cecil, da Sir Gualtiero Raleigh e dal coro, i quali fanno di tutto per sbarazzarsi dell’ambizioso Conte che minaccia il loro status quo. Il timbro luminoso di David Astorga dà insolito rilievo alla parte di Cecil, mentre per Raleigh è stato scelto un allievo della Bottega Donizetti, il giovane basso-baritono Ignas Melnikas. Ancora un basso, Fulvio Valenti, dà voce a Un famigliare di Nottingham e a Un cavaliere. Intonato e preciso si dimostra il coro dell’Accademia del Teatro alla Scala istruito da Salvo Sgrò.

Il bresciano Riccardo Frizza è figura di riferimento per il Donizetti Opera, è il suo Direttore Musicale e qui ha diretto innumerevoli titoli. La sua scelta è per l’edizione originale del Devereux, quella napoletana del 20 ottobre 1837, senza la sinfonia che cita l’inno inglese God Save the Queen – da pochi mesi sul trono d’Inghilterra era salita Victoria – aggiunta per la presentazione a Parigi del 27 dicembre 1838. Qualche differenza è anche nel duetto tra Elisabetta e Roberto, in questa prima versione più breve. La partitura del Devereux ha la raffinatezza dei lavori francesi che seguiranno, con una più attenta scelta degli strumenti per cui ne viene fuori un colore scuro che è proprio di quest’opera e che Frizza sottolinea fin dalle prime note che introducono il dramma in media res. Senza mai eccedere negli effetti, l’orchestra riesce a comunicare quel senso di dramma che rende questo un lavoro particolare, più moderno e a suo modo lontano dal modello di melodramma tradizionale del suo tempo.

La regia di Stephen Langridge è ricca di buone intenzioni quanto di cadute di gusto che rendono lo spettacolo complessivamente poco convincente. L’ambientazione utilizza una scenografia minimalista e costumi, entrambi disegnati da Katie Davenport, che suggeriscono l’epoca storica. Due praticabili semoventi formano le tribune dei Lordi (così nel libretto) o le pareti del castello dei duchi di Nottingham. Unici due pezzi d’arredamento sono un letto e un trono, entrambi rossi, rappresentanti simbolicamente l’intreccio di conflitti personali e di potere. Il tutto è incorniciato in un rettangolo luminoso la cui luce diventa abbagliante nei momenti clou dell’opera, praticamente tutte le arie. Un effetto gratuito e fastidioso, mentre puramente decorativo è l’espediente di proiettare i testi delle poesie di Essex, nella loro grafia originale, sulle pareti. Nella sua lettura il regista inglese introduce alcuni elementi disturbanti quali un burattino in scala reale di una Elisabetta scheletro, che a un certo punto si unisce sessualmente con un giovane alter-ego di Essex, e l’infantile “gioco dell’impiccato” mentre Roberto affronta l’aria più bella dell’opera, una caduta di gusto del tutto incomprensibile. Come poco comprensibile sia far apparire incinta Sara. Di chi poi? Boh.

Questi particolari non hanno impedito comunque allo spettacolo di suscitare gli entusiastici applausi del pubblico convinto dalle interpretazione dei cantanti e dalla direzione orchestrale.

Lingotto Musica

 

foto © Mattia Gaido

Darius Milhaud, La création du monde op. 81a
Ouverture
Le chaos avant la création
La naissance de la flore et de la faune
La naissance de l’homme et de la femme
Le désir
Le printemps ou l’apaisement

Camille Saint-Saëns, Concerto per pianoforte e orchestra n° 2 in sol minore op. 22
Andante sostenuto
Allegro scherzando
Presto

George Gershwin, Variations on “I Got Rhythm” per pianoforte e orchestra

Leonard Bernstein, Fancy Free, musiche per il balletto
Big Stuff. Prologue
Opening Dance
Scene at the Bar
Pas de Deux
The Competition Scene
Waltz Variations
Danzon Variations
Galop Variations and Finale

Chamber Orchestra of Europe, Sir Antonio Pappano direttore, Bertrand Chamayou pianoforte

Torino, Auditorium Giovanni Agnelli, 12 novembre 2024

Jazz e danza con Pappano

Era il 1985 quando negli stabilimenti Ansaldo di Milano, Renzo Piano costruiva uno “spazio musicale” – un grande parallelepipedo di legno – per l’esecuzione della versione definitiva del Prometeo di Luigi Nono. Quella sarebbe stata la prova per un progetto assai più ambizioso: due anni prima Piano si era aggiudicato l’incarico per la riqualificazione della fabbrica del Lingotto in un polo multifunzionale e il progetto prevedeva al suo interno un grande auditorium, poi intitolato a Giovanni Agnelli.

Quella sala è la sede di una stagione musicale che ogni anno ospita le orchestre, le bacchette e i solisti più rinomati del panorama internazionale. Come avviene questa volta con Sir Antonio Pappano …

(il seguito su Le Salon Musical)

Das Rheingold

foto © Brescia e Amisano

Richard Wagner, Das Rheingold (L’oro del Reno)

Milano, Teatro alla Scala, 3 novembre 2024 (diretta streaming)

Milano, Teatro alla Scala, 10 novembre 2024

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Delude il Wagner kitsch fantasy di McVicar

Ben pochi enti lirici al mondo possono permettersi l’allestimento di un Ring, il più ambizioso progetto mai ideato per il teatro in musica: oltre quindici ore, quattro lunghe serate, scenografie importanti, un’orchestra immane, cast sterminati (1). Insomma, un’impresa costosissima. Alla Monnaie di Bruxelles sono andate in scena le prime due parti della produzione di Romeo Castellucci e poi il teatro – per lo meno questa è la spiegazione ufficiale – ha scoperto di non avere le risorse per continuare il ciclo, che sarà completato da Pierre Audi. 

A Berlino si sono conclusi da poco due cicli ora disponibili su DVD: la produzione di Dmitrij Černjakov alla Staatsoper e quella di Stefan Herheim alla Deutsche Oper. Quest’anno, a parte Bayreuth, si cimentano con la tetralogia wagneriana la Royal Opera House di Londra, dove Barrie Kosky porta avanti il suo Ring iniziato l’anno scorso, Andreas Homoki il suo a Zurigo e a Parigi il 29 gennaio partirà quello di Calixto Bieito. Alla Bayerische Staatsoper di Monaco quello di Tobias Kratzer ha inaugurato la nuova stagione il 27 ottobre, il giorno prima di questo ciclo milanese, affidato a Sir David McVicar, che ritorna alla Scala dopo la sua bellissima Calisto di tre anni fa. Il regista di Glasgow aveva allestito la sua ultima Tetralogia all’Opéra National du Rhin diciotto anni fa. 

McVicar viene solitamente elogiato sia dai tradizionalisti che dai “modernisti” poiché dà ai tradizionalisti quello che vogliono, un’azione narrativa chiara che segue da vicino il libretto con un’ambientazione e costumi dell’epoca della vicenda, e ai modernisti regala una regia non banale con un’attenta cura attoriale per i cantanti. Questa volta sembra aver scontentato entrambi: certo lineare è la sua narrazione, ma con l’immissione di simboli talora astrusi che non sono piaciuti al pubblico, mentre la messa in scena sembra riportare indietro il tempo a cinquant’anni fa, prima della versione Boulez/Chéreau del 1976, quell’imprescindibile spartiacque tra un prima e un dopo nella regia lirica.

Ambientata in un non-tempo arcaico, la scenografia, firmata dal regista stesso e da Hannah Postlethwaite, si basa su pochi elementi altamente simbolici, primo fra tutti quello delle mani che vediamo sul fondo del fiume mentre fanno da supporto alle evoluzioni delle figlie del Reno. Mani monumentali che ricordano quelle gigantesche viste a Bregenz nella Carmen di Holten e nel Rigoletto di Stölzl. Nella seconda scena il mondo degli dèi gira attorno a una scala che non conduce da nessuna parte, simile a un monumento funebre, sulla solita piattaforma rotante, mentre il Nibelheim contiene un teschio costruito con l’oro estratto dai nani minatori. Altre mani, che hanno faticato per costruire il Walhall, sono quelle fuori misura dei giganti, mentre la mano rapace di Alberich si staglia dipinta all’interno di un cerchio nell’immagine proiettata sul sipario. Simbolo meno evidente è la presenza delle braccia roteanti che trasformano Loge in una vogueing dea Kalì. Inquietante è poi il giovane nudo che impersonifica (!) l’oro del Reno, violato da Alberich per poi comparire alla fine dell’opera tutto sanguinolento.

Nella lettura di McVicar il mito delle leggende nordiche si trasforma in un universo fantasy piuttosto kitsch nei costumi di Emma Kingsbury, che mette le gonne a tutti gli dèi e tende ad allargare a dismisura le forme di chi li indossa, con effetti (in)volontariamente ridicoli nel caso di Froh, una via di mezzo tra una rana che sta per scoppiare e una allegra comare di Windsor taglia XXXL. Anche sulla regia attoriale questa volta il regista scozzese manca il segno affidandosi quasi esclusivamente alle capacità dei singoli e alla presenza di servi muti/ballerini che riempiono i meravigliosi interludi orchestrali con insulsi movimenti davanti al sipario o accompagnano personaggi altrimenti impediti nei movimenti come i giganti. Essenziale in uno spettacolo come questo è il ruolo delle luci, qui ben realizzate da David Finn. Banali invece i video di Katy Tucker: prima del colpo di Donner – che tra l’altra vibra il suo martellone sulla scalinata appena terminata! – si vedono dei nuvoloni subito seguiti da delle luci boreali per l’arcobaleno. Delle coreografie di Gareth Mole mi sono già espresso.

Originariamente questa tetralogia avrebbe dovuto essere diretta da Christian Thielemann, il quale però ha dato forfait ed è stato prontamente rimpiazzato non da uno ma da due direttori. Le sei recite sono dunque equamente suddivise tra Simone Young, che si è cimentata con l’intero Ring a Vienna, e Alexander Soddy, che invece l’ha diretto a Mannheim e che ora debutta per la prima volta alla Scala. Nella diretta streaming sul portale de LaScalaTv del 3 novembre è la direttrice australiana a tenere ben salde le redini dell’orchestra del teatro con un’esecuzione narrativamente continua, senza magie ma precisa, con un calibrato rapporto tra buca e palcoscenico e attenzione ai cantanti. Per le ultime tre recite è invece subentrato Alexander Soddy, acclamato interprete wagneriano e assistente a suo tempo della Young. Il 41enne direttore inglese non ne ha stravolto l’impianto interpretativo ma in più ha aggiunto la sua grande personalità con una lettura drammatica ma non enfatica, sfumata ma trasparente. Fin dal suono dell’iniziale impercettibile mi bemolle intonato nel buio totale – che fastidio però la luce dei nuovi schermi sugli schienali! – si capisce subito che sarà una serata speciale con l’orchestra in stato di grazia, dove si percepisce un’attenzione particolare al colore strumentale con una chiara identificazione dei vari Leitmotive che si inseriscono con fluidità nella narrazione. Ecco quindi il liquido e serpeggiante tema delle figlie del Reno, quello sfavillante dell’oro, quello sinistramente insinuante del Nibelungo e così via per tutta la serata fino al trionfale finale che fa ben sperare per il prosieguo musicale del ciclo.

La seconda visione, questa volta dal vivo, conferma le impressioni ricevute dal video streaming riguardo al cast impiegato, quasi tutto formato da specialisti wagneriani. Michael Volle è stato e rimane un grande Wotan pur con qualche stanchezza risolta con un fraseggio saldamente scolpito. Qui però i suoi interventi sono relativamente brevi, non riesco a nascondere qualche apprensione per le lunghissime frasi della prossima Walküre. Indubitabile è l’imponente presenza scenica, e non mi riferisco all’ingombrante costume, mentre già precisamente delineato nei suoi elementi contradditori è il personaggio. Alberich è il suo principale antagonista in questa prima parte e il baritono islandese Ólafur Sigurdarson ne è valido interprete anche se il timbro è un po’ troppo chiaro e la scena della maledizione manca della tragicità riscontrata altrove, ma qui la colpa è della regia che non sfrutta al meglio questo momento drammatico.

Il timbro sgradevole e la linea di canto frammentata del Loge di Norbert Ernst procurano all’interprete impietosi buu da parte del pubblico che probabilmente vuole esprimere il dissenso per la resa caricaturale della sua parte, ma anche qui la colpa non è del povero cantante che fa le spese di una scelta registica non compresa. Okka von der Damerau e Olga Bezsmertna danno voce a Fricka e Freia, la prima con bella intensità espressiva e la seconda con timbro fresco e luminoso. Esemplare è il Mime di Wolfgang Ablinger-Sperrhacke, il miglior attore in scena, veterano della parte cantata con efficacia in innumerevoli produzioni. I due giganti Fasolt e Fafner, su trampoli e sormontati da mascheroni, trovano nelle voci di Jongmin Park e Ain Anger la giusta autorevolezza, soprattutto il primo più umano e dolente nella sua infatuazione per Freia mentre il secondo ha espressione più rude e scomposta. Magnifici i fratelli Donner e Froh, rispettivamente Andrè Schuen dal timbro sontuoso e Siyabonga Maqungo dal bel tono lirico e luminoso. Vocalmente inappuntabili e distinte per personalità vocale le tre voci delle figlie del Reno: Andrea Carroll (Woglinde), Svetlina Stoyanova (Wellgunde) e Virginie Verrez (Flosshilde). 

Mentre attendo con grande anticipazione il Rheingold di Bieito, la Walküre di Kosky e mi dispiace non poter vedere il seguito del Ring di Castellucci, da questo di McVicar confesso di non aspettarmi molto. È un peccato da parte di un regista sempre molto ammirato. Verrà la pena invece per la resa musicale, se saranno confermati gli stessi concertatori.

(1) Nel ‘900 il record è stato superato da Karlheinz Stockhausen con il suo Licht: sette “giornate” per 30 ore di musica!

Le convenienze ed inconvenienze teatrali

 

Gaetano Donizetti, Le convenienze ed inconvenienze teatrali

Wexford, O’Reilly Theatre, 20 ottobre 2024

★★★☆☆

A Wexford il metateatro di Donizetti

Il Festival di Wexford, dedicato quest’anno dal suo direttore Rosetta Cucchi al tema del metateatro, continua con uno dei lavori più spassosi del repertorio lirico, Le convenienze ed inconvenienze teatrali di Gaetano Donizetti, che nella sua versione in due tempi, rimaneggiamento dell’atto unico originale del 1827, venne presentata quattro anni dopo al Teatro della Canobbiana a Milano.

Titolo che in tempi recenti ha conosciuto una nuova fortuna – indimenticabile il geniale spettacolo di Laurent Pelly visto a Lione – viene spesso presentato adattando i testi alla contemporaneità e con musiche di altri autori, tanto da farlo diventare quasi un moderno pastiche. Qui all’O’Reilly Theatre, oltre alla prevista parodia della “canzone del salice” dall’Otello rossiniano, si ascoltano la romanza di Ernesto dal Don Pasquale di Donizetti come aria di commiato del tenore tedesco e la scintillante aria di Cunegonde «Glitter and be gay» dal Candide di Leonard Bernstein.

Prima donna virtuosisticamente votata al bel canto (qui stranamente chiamata Daria Garbinati invece che Corilla Scortichini) è Sharleen Joynt, soprano dal timbro squillante e dalle facili agilità risolte con tecnica ed eleganza. Meno talentuosa è la seconda donna (Luigia Castragatti invece che Scannagalli) di Paola Lecci, mentre efficaci per presenza scenica e richieste vocali si dimostrano il Procolo di Giuseppe Toia, il compositore Biscroma Strappaviscere di Matteo Loi, il particolarmente apprezzabile Guglielmo Antolstoinoff di Alberto Robert, il librettista (qui Cesare invece di Prospero Salsapariglia) di William Kyle e il primo musico (qui Pippetto) di Hannah Bennett. Dizione problematica quella di Philip Kalmanovitch (Impresario) e di Henry Grant Kerswell (Direttore del teatro).

Ma il vero protagonista è ovviamente Paolo Bordogna nei panni consumati di Mamma Agata di cui non si può ripetere che quello già scritto: «Non è facile trovare un baritono che sappia ballare sulle punte, ma in Italia l’abbiamo e Bordogna potrebbe essere scritturato da Les Ballets Trockadero de Montecarlo dopo la sua performance in questo allestimento dell’opera di Donizetti dove oltre a gorgheggiare nella rossiniana “Canzone del salice” […] si cimenta con consumata tecnica in un pas de quatre classico. La Mamm’Agata di Paolo Bordogna è stata definita altrove un paradossale incrocio tra Joan Crawford e Bette Midler in un istrionismo senza pari nel campo del teatro d’opera. La sua non è una caricatura volgare di un uomo in abiti femminili: Bordogna è una madama napoletana i cui gesti sono del tutto femminili, non effeminati, e si accompagnano a una mimica del volto dalle infinite sfumature, a un canto sempre sostenuto e a una parola sempre perfettamente articolata».

Brillante la direzione musicale di Danila Grassi così come la relativamente sobria regia di Orpha Phelan e gli appropriati scenari e costumi di Madeleine Boyd. Ironici e ben eseguiti i movimenti coreografici ideati da Amy Share Kissiov. La registrazione dello spettacolo è disponibile su OperaVision.