Novecento

Lady Macbeth del distretto di Mcensk

foto © Brescia e Amisano

Dmitrij Šostakovič, Lady Macbeth del distretto di Mcensk

Milano, Teatro alla Scala, 7 dicembre 2025

★★★★☆

(diretta televisiva)

Šostakovič e il coraggio di un’apertura fuori dal coro

Lady Macbeth del distretto di Mcensk inaugura la Scala con un trionfo: Chailly dirige con lucidità e passione la partitura scandalosa di Šostakovič, sostenuto da una Jakubiak intensa e drammatica. La regia di Barkhatov, ambientata in un ristorante staliniano anni ’50, evita lo scandalo ma non la forza tragica. Un’apertura coraggiosa e simbolica, tra arte e provocazione.

Era una prima attesa con un misto di curiosità e apprensione, quella della Scala: niente Verdi, niente Puccini — ma un russo. E che russo! Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, il genio ribelle del Novecento, torna al Piermarini con Lady Macbeth del distretto di Mcensk, la stessa che nel 1934 infiammò pubblico e critica quale espressione di una rivolta antiborghese: una donna agiata prende coscien­za della società zarista e con un servo uccide i suoi padroni.

Ma alla ripresa due anni dopo aveva suscitato l’ira di Stalin che abbandonò la sala durante una sua rappresentazione e in seguito proibì l’opera in quanto «inadatta al popolo sovietico […] caotica, apolitica […] atta a solleticare i gusti pervertiti del pubblico borghese con la sua musica agitata, urlante e nevrastenica». La scabrosità del soggetto turbava i principi su cui si fondava la società sovietica ipotizzata dal suo dittatore e da allora iniziò l’ostracismo della musica del compositore. Solo nel 1962 Šostakovič ne presentò un’edizione revisionata col titolo Katerina Izmailova – un titolo più indicato poiché la protagonista non ha l’iniziativa criminale del personaggio di Shakespeare – ma dopo la sua morte la versione più eseguita è quella originale. Cosa che avviene anche per l’apertura della stagione del tempio milanese della lirica.

E scandalosa, ancora oggi, Lady Macbeth del distretto di Mcensk lo è. Una donna di provincia, Ekaterina, soffocata dall’ozio e dalla noia, scopre nella passione l’unica via di fuga: ama, uccide, si ribella a una società patriarcale e bigotta. Šostakovič la dipinge con furia e compassione, trasformando il delitto in un urlo d’amore disperato. E pensare che Šostakovič aveva attenuato la brutalità della novella di Nikolaj Leskov, scritta nel 1865, che denunciava l’arretratezza e la barbarie di una Russia arcaica e contadina impregnata di religiosità superstiziosa. In musica la vicenda diventa invece un atto di rivolta individuale. Ekaterina è una protofemminista che paga con la rovina la propria libertà: il suo “peccato” è amare troppo.

Ma se la vicenda scandalizza, la musica non è da meno. I tromboni, con spudorata evidenza, sottolineano gli amplessi dei due amanti; valzerini deformati accompagnano momenti di sarcasmo crudele; colpi rabbiosi marcano le frustate inflitte all’amante. L’ironia è feroce, la sensualità mai compiacente. È un linguaggio orchestrale che aggredisce, disturba, ma anche commuove per la sua sincerità tragica.

E se non bastasse l’audacia della partitura, anche la regia prometteva scintille. A firmarla è un altro russo, Vasilij Barkhatov, già noto a Napoli per una Turandot turbolenta. Eppure lo scandalo non è arrivato: la serata si è conclusa tra ovazioni fragorose, trionfali per musica e regia.

Alla sua tredicesima inaugurazione di Sant’Ambrogio, Riccardo Chailly, direttore musicale dal 2015, aggiunge un altro tassello alla sua galleria di inaugurazioni — sette Verdi, tre Puccini, un Giordano e due russi, dopo il Boris Godunov di Musorgskij. Con Lady Macbeth del distretto di Mcensk, Chailly compie una scelta di coraggio e di coerenza: dirige un’opera provocatoria ma piena di dolente umanità, la sua bacchetta lima le asperità senza smussarne la potenza. Gli interludi orchestrali diventano momenti di puro lirismo, con archi luminosi che spalancano abissi di doloroso fatalismo. L’orchestra della Scala risponde con una lucidità tagliente: gli ottoni travolgono, le percussioni esplodono, gli archi gridano, ma nei rari momenti di quiete il suono si fa trasparente, sospeso, come se la violenza stessa generasse la nostalgia di un’altra vita.

C’è anche un gusto di humour nero, à la Šostakovič, che Chailly esalta con eleganza perfida: quando la bara di Boris viene salutata, i fiati — disposti sul mezzanino del ristorante — sembrano formare una banda dell’Esercito della Salvezza che invece di inni religiosi scatenano una furia sonora quasi blasfema. È un crescendo di disperazione che non concede tregua: la musica diventa ossessione, l’angoscia si fa claustrofobica, fino al finale glaciale, quando il coro intona il lamento dei deportati sulle cupe note degli archi gravi: «Eh, voi, steppe sconfinate… giorni e notti senza fine… i nostri pensieri sono tristi e i gendarmi senza cuore!».

Sul palcoscenico, Ekaterina trova in Sara Jakubiak una protagonista memorabile. Il soprano americano di origini polacche domina una parte vocalmente improba — salti d’ottava, puntature al si bemolle, presenza scenica ininterrotta — e disegna un personaggio lacerato tra desiderio e colpa, forza e fragilità. La sua Ekaterina non è una vittima né un mostro, ma una donna che arde d’amore e si consuma nella ricerca di libertà, consapevole che la sua emancipazione non può che finire in distruzione. Il pubblico la premia con applausi convinti, conquistato da un carisma che unisce sensualità e tragedia.

Accanto a lei, Alexander Roslavets dà a Boris Izmajlov — il suocero bigotto e lussurioso — un misto di brutalità e rotondità vocale; Najmiddin Maylyanov (Sergej) convince meno per proiezione, ma compensa con presenza fisica; Evgenij Akimov è l’inetto marito Zinovij, mentre Ekaterina Sannikova è una dolente Aksin’ja, vittima della violenza maschile. Elena Maximova (Sonetka) brilla per sensualità velenosa, e Oleg Budaratskij delinea un capo della polizia annoiato e grottesco. Spiccano le figure di contorno: Valerij Gilmanov, pope caricaturale e alcolico, che benedice il cadavere di Boris con un sermone da cabaret grottesco; Alexander Kravets, contadino ubriaco che canta all’ebrezza della vodka; e Goderedzi Janelidze, il vecchio forzato dell’ultimo atto, che intona con tono dolente la condizione senza scampo dei deportati. Eccellente come sempre il Coro del Teatro alla Scala, istruito da Alberto Malazzi, capace di precisione, forza e intensità teatrale e a suo agio nella lingua russa.

La regia di Vasilij Barkhatov sposta l’azione dal villaggio ottocentesco di Mcensk (a circa 280 chilometri a sud-ovest di Mosca) a un ristorante negli anni ’50 della capitale, nell’ultima fase dello stalinismo. Il suo dispositivo scenico — firmato da Zinovij Margolin — alterna la grande sala da pranzo a un retro di cucina al piano superiore e una cantina in basso. L’azione si svolge come un film noir: i protagonisti, interrogati dalla polizia, rivivono in playback i propri crimini. Un espediente cinematografico che smorza la carnalità della celebre scena d’amore: Katerina e Sergei, completamente vestiti, ricostruiscono la scena mimando i movimenti mentre gli agenti scattano foto. Lo scoglio del pornografico e del voyerismo è evitato rendendo la scena ancora più inquietante, quasi clinica.

Barkhatov dosa abilità tecnica e senso dello spettacolo. L’irruzione di un camion che sfonda la vetrata del ristorante segna il passaggio all’ultimo atto: la deportazione in Siberia. E qui il regista si prende una libertà rispetto al libretto: invece di annegare, le due donne si trasformano in torce umane perché Ekaterina appicca il fuoco a sé stessa e alla rivale. Una soluzione d’effetto, accolta con entusiasmo dal pubblico.

Dopo le provocazioni napoletane, il regista russo al suo debutto alla Scala sembra abbia scelto una via più misurata che non ha turbato neppure il loggione – vabbè, non era Verdi… Niente scandalo gratuito, ma un sottile discorso sul protofemminismo di Katerina, letta come vittima di un mondo chiuso e corrotto. Tuttavia, la regia non è priva di difetti: troppi personaggi in scena, troppe controscene che intasano lo spazio e attenuano il senso di isolamento e noia esistenziale della protagonista. Il ristorante déco, elegante e affollato, riduce l’asfissia che dovrebbe dominare la storia. È una regia intelligente, astuta, visivamente accattivante, ma più “furba” che rivelatrice: non aggiunge molto alla nostra comprensione di Šostakovič, ma accompagna con mestiere l’evento mondano per eccellenza.

Ma la scelta di Lady Macbeth del distretto di Mcensk come titolo d’apertura ha un valore che va oltre la cronaca. In un momento in cui l’opera tende a rassicurare più che a provocare, la Scala rivendica con forza il proprio ruolo di teatro d’arte e di pensiero. Portare in scena Šostakovič significa sfidare le convenzioni, ricordare che l’opera non nasce per decorare, ma per turbare, per scuotere la coscienza, per porre domande scomode. È un atto politico e culturale, un gesto di libertà. E in tempi in cui si parla — con toni inquietanti — di un possibile “codice degli spettacoli” con cui si vorrebbe limitare la rappresentazione di opere straniere, la serata assume un valore simbolico: se mai quella norma dovesse vedere la luce, questa Lady Macbeth potrebbe essere l’ultima inaugurazione scaligera affidata a un autore russo. Chissà che cosa avrebbe da dire a questo proposito l’attuale ministro della cultura presente nel palco reale.

Tosca

Giacomo Puccini, Tosca

Roma, Teatro dell’Opera, 1 novembre 2025

(diretta video)

Le impressioni di Orlando Perera che ha seguito la diretta televisiva

Tosca su Rai Tre: diretta alla romana

La Tosca di Puccini, opera tra le più rappresentate al mondo, ti cattura sempre, anche quando non è al meglio. Infatti sono arrivato alla fine, senza cambiare canale, del non memorabile allestimento proposto in diretta l’altra sera su RAI Tre, dal Teatro dell’Opera di Roma, dove il magnifico lavoro pucciniano esordì il 14 gennaio 1900. Mi sono intruppato così, mio malgrado, nell’oltre mezzo milione di spettatori che secondo Auditel, hanno mediamente seguito la diretta RAI dalle 21,10 alle 23,30: grande successo di ascolti, non c’è dubbio. Ma vorrei lo stesso proporre qualche umile riflessione.

Tosca è l’opera “romana” per eccellenza, per i tre luoghi storici dove è ambientata, la chiesa di Sant’Andrea della Valle su corso Vittorio, Palazzo Farnese dietro Campo de’ Fiori, Castel Sant’Angelo vicino San Pietro. Questo però, più che romano, è parso, con tutto il rispetto, un allestimento “romanesco” nel senso deteriore del termine, pensando a certa filmografia di Alberto Sordi. Una sgradevole sensazione complessiva d’impreparazione e sciatteria, di superficialità, che ha coinvolto ahimè i cantanti e direttore d’orchestra, invano impacchettati con furbizie registiche TV da épater le bourgeois. Intendiamoci, chi scrive ha lavorato per quattro decenni in RAI, e sa bene quanto possa essere spietata la diretta.

Ma proprio qui sta il punto: conoscendo bene, immagino, i responsabili RAI questi pericoli, perché non si sono parati le terga esigendo impegno massimo, prove severe, attenzione ai cantanti? Perché un bravo giovane regista come Alessandro Talevi, della cui amicizia mi onoro, è stato trascinato in questo pantano, in cui evidentemente non ha potuto imporsi più di tanto? Di opere in diretta sulla RAI ne abbiamo viste tante, a partire dalle tradizionali e impeccabili prime alla Scala (tanto per fare un esempio la Tosca di Livermore del 2019 che fece un record di ascolti), per non parlare del format di Andrea Andermann delle opere-film in diretta, “nei luoghi e nelle ore” del libretto, prodotte per la RAI: sempre Tosca da Roma nel 1992, Traviata da Parigi nel 2000, Rigoletto da Mantova nel 2010 e Cenerentola dalle dimore sabaude di Torino nel 2012. Tutte andate benissimo.

Dunque l’esperienza c’era. Il problema è che qui si è fatta un po’ di confusione tra teatro, dove si svolgeva tutta la rappresentazione, ed esterni di alleggerimento. Il regista televisivo Fabrizio Guttuso Alaimo ha alternato immagini dal vivo con quelle di scena e se, pensando alla Mondovisione, ci poteva stare mostrare Roma e i monumenti del libretto in diretta, non si è proprio capito quel finale ibrido a Castel Sant’Angelo, con immagini di Cavaradossi sugli spalti all’alba, ma con tante auto che si vedevano passare, ripreso da un drone, alternate (e sfalsate) a quelle della scena. Non so cosa abbiano visto in teatro, e come abbiano preso l’evidente ritardo di sincrono: se Alaimo voleva un effetto di straniamento c’è riuscito, purtroppo. Andiamo con ordine: scene e costumi erano quelli della prima assoluta, disegnati dall’illustratore liberty Adolf Hohenstein: i bozzetti forniti direttamente dall’archivio storico Ricordi sono stati ripresi da Carlo Savi e Anna Biagiotti, con le luci firmate da Vinicio Cheli.

Analoga operazione venne compiuta nel 2021 con Bohème al Regio di Torino. Riesumazione interessante, ma la nostra percezione visiva è radicalmente mutata, poco da fare. Forse è stata utile soprattutto per rivalutare, al netto di taluni eccessi, i vituperati scenografi e light-designers contemporanei. Francamente i colori opachi, gli ambienti canonici, i costumi da museo hanno certo il profumo del passato, ma non ci ispirano molti rimpianti e comunque non hanno potuto risolvere un allestimento all’insegna dell’improvvisazione. Le scene storiche avrebbero semmai richiesto un’altrettanto accurata filologia registica.

Invece i personaggi davano una sensazione di sperdimento, di aggirarsi tra quelle quinte d’antan, come capitati lì per caso. Il perché l’ha spiegato la stessa protagonista Eleonora Buratto, intervistata nel primo intervallo: incredibile ma vero, non hanno fatto una sola prova con le scene montate, e lei aveva fretta di andare a vedere com’erano gli spazi di Palazzo Farnese nel secondo atto, per sapere come e dove muoversi. Nel finale poi, prima di buttarsi da Castel Sant’Angelo, è andata visibilmente a controllare che sotto ci fossero i materassi! Un disagio ai limiti del grottesco, che non poteva non riflettersi sulla tenuta drammatica dello spettacolo, e anche sulle voci.

La brava Buratto, oggi tra le Tosca più gettonate a livello mondiale, ha confermato una linea di canto ampia e luminosa, e una sicura capacità di espansione drammatica nel registro acuto: il canonico «Vissi d’arte» è stato risolto dignitosamente. Ma è parso curioso il suo atteggiamento durante l’applauso di prammatica: di solito le grandi interpreti, dopo tanta espansione emotiva, rimangono raccolte, tornano lentamente alla realtà, anche se il pubblico si sbraccia. Qui invece la simpatica cantante mantovana si è profusa in larghi sorrisi a destra e a manca, continuando a fare di sì con la testa, sembrava quasi concordare un bis con il direttore, che poi non c’è stato. Insomma, scena abbastanza imbarazzante. Del resto, forse in teatro non se ne sono accorti, ma i primi piani della ripresa televisiva, spietata appunto, l’hanno spesso mostrata molto tesa, con gli occhi sbarrati come chi non sappia cosa succederà nei prossimi minuti. Inevitabile una caduta di tensione. Anche per questo forse non è riuscita a conferire il necessario carisma a quel mistero di carnalità e tragedia di cui Floria Tosca è intessuta, tanto nel libretto di Illica e Giacosa, quanto e soprattutto nella musica di Puccini. Tosca è un personaggio tutto sopra le righe, non si può cantare con voce “per bene”, non bastano la musicalità, il controllo accurato dell’emissione. Ci vuole un tocco di eccesso isterico che Buratto in questo caso non sembra aver trovato: forse appunto le mancava la giusta concentrazione? Diamole questo credito.

Più sicuro di sé il prestante tenore cileno, ma cresciuto in New Jersey, Jonathan Tetelman, appena 34enne e già affermato a livello internazionale, un Cavaradossi dal colore radioso e dallo squillo possente, con un gran mantice di fiato. Voce splendente, bel ganzo, non c’è dubbio, ma anche qui c’è un ma. Secondo noi Tetelman deve guardarsi da quello che potremmo chiamare l’“effetto Ken”, inteso come fidanzato di Barbie. Ottima presenza scenica, ma facciotta po’ inespressiva a dirla tutta, patinato ma di spessore attoriale non sempre adeguato. Il personaggio del pittore Mario Cavaradossi, idealista e libertario, presenta anch’esso i suoi problemi, in qualche modo opposti a quelli dell’amante inquieta: tanto quella è in preda alle passioni, tanto lui è a rischio di un buonismo inconcludente, può ricordare alla lontana il Don Ottavio dapontiano. Ci vuole dunque un interprete capace di sfumature sofferte, che gli diano spessore: Tetelman sembra invece più vicino a quello che una volta si chiamava tenore di forza e il suo «E lucevan le stelle» alla fine è più gladiatorio, strappa-applauso, che commovente.

Ma quello che ci ha deluso più di tutti è lo Scarpia del collaudatissimo Luca Salsi, che ha debuttato nel ruolo proprio all’opera di Roma nove anni fa, ottobre 2017 e che ricordiamo, tra le tante volte, in forma smagliante all’Arena di Verona nel 2023, nella Tosca della centesima stagione arenile, con la regia di Hugo de Ana. Qui purtroppo è parso anche lui poco concentrato, un po’ buttato via, come se questo Scarpia fosse per lui una pratica di routine. Figuriamoci. Il terzo protagonista di Tosca, al contrario degli altri due, è tutto d’un pezzo, il barone Vitellio Scarpia, crudele, libertino e corrotto capo della polizia borbonica, che deve soffocare la Repubblica Romana. Uno dei peggiori soggetti della storia del melodramma, persino a rischio caricatura, cui infatti Puccini dedica nel «Tre sbirri, una carrozza» del primo atto una delle pagine più complesse e musicalmente ardite di tutta la partitura, dove non è difficile cogliere dissonanze ed echi stravinskiani di folgorante modernità. Salsi lo canta senza esitazioni, ci mancherebbe, ma anche qui dando la sensazione della prassi, un lavoro da sbrigare, più che un impegno vocale e drammatico di prim’ordine. «Io sono un buono nella vita – spiega in un’intervista – ma poi mi calo nei personaggi da interpretare». Mah, gentile Salsi, dobbiamo dirle noi che non basta fare le facce da mangiafuoco per costruire un personaggio tanto scolpito? Diciamo che l’abitudine, e forse ancora una volta l’atmosfera raffazzonata dell’allestimento, non l’hanno aiutato.

A chiudere, purtroppo senza alleviare le perplessità, e non aggiungiamo altro per umana solidarietà, la direzione del povero Antonino Fogliani chiamato all’ultimo momento a sostituire Daniel Oren, “toscologo” di fama pluri-decennale, improvvisamente indisposto. Nulla ci leva dalla testa che questa indisposizione dell’ultima ora sia stato un diplomatico tirarsi fuori da un pastrocchio in cui non voleva – giustamente – mettere a repentaglio il proprio prestigio.

Che altro dire? Non vogliamo infierire anche sulla conduzione della diretta affidata a Cristiana Capotondi e Alessandro Preziosi. Della prima si è capito che non conosce assolutamente nulla di Tosca: intervistando Salsi nel primo intervallo gli ha fatto gli auguri per il secondo e terzo atto. Peccato che Scarpia venga notoriamente ucciso da Tosca alla fine del secondo atto e che quindi nel terzo non ci sia proprio. Più preparato Preziosi, un po’ a disagio anche lui nelle riprese esterne, ma tutto sommato ne è uscito bene. Non hanno aggiunto molto – e come potevano? – i cosiddetti vip intervistati dalla impacciata Capotondi: Federica Sciarelli, Noemi, Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, Luca Barbarossa, e via cinguettando. Ma alla fine perché accanirsi tanto? Sui social prevale l’entusiasmo, oh che bello, oh che bravi! Quei 549mila dell’Auditel, quello share al 3,3 per cento non troncano ogni discussione? Per quanto mi riguarda, no.

Il diario di uno scomparso / La voce umana

Leoš Janáček, Zápisník zmizelého (Il diario di uno scomparso)

Francis Poulenc, La voix humaine (La voce umana)

Roma, Teatro Nazionale, 24 ottobre 2025

★★★★★

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Due ritratti di solitudini

Paired with Poulenc’s La voix humaine, Janáček’s The Diary of One Who Disappeared returns in Rome’s Teatro Nazionale. Andrea Bernard’s elegant hotel-room staging mirrors emotional isolation. Tenor Matthias Koziorowski and Veronica Simeoni excel in Janáček’s tense, confessional score, while Catherine Antonacci brings vocal mastery to Poulenc’s monodrama. Pianist Donald Sulzen unites both works with expressive, orchestral richness.

Il diario di uno scomparso di Janáček, ispirato all’amore del compositore per la giovane Kamila Stösslová, racconta la passione e il tormento di Jan in una confessione musicale tra desiderio e colpa. Nello spettacolo romano accostato a La voix humaine di Poulenc, Matthias Koziorowski e Veronica Simeoni brillano in una messa in scena raffinata di Andrea Bernard. Caterina Antonacci e Donald Sulzen concludono con un intenso dialogo voce-pianoforte di rara profondità emotiva.

Per la sua brevità, il ciclo di ventidue poesie riunite sotto il titolo Il diario di uno scomparso di Josef Kalda, musicato da Leoš Janáček, è stato spesso abbinato a un altro lavoro quando viene rappresentato in teatro. Al Malibran di Venezia, nel 2015, era stato accoppiato con La voix humaine di Poulenc nella regia di Gianmaria Aliverta. Ora lo stesso dittico è proposto al Teatro Nazionale di Roma, la dépendance più raccolta del Teatro dell’Opera, a pochi passi dalla sala maggiore.

Nel 1917 Janáček, allora sessantatreenne, si era infatuato della venticinquenne Kamila Stösslová, i cui tratti somatici il compositore trasferì nella Zefka del Diario: «una bella gitana, che di cerbiatta ha il passo, nere le trecce sul petto e scuri gli occhi d’abisso». Lo spunto gli venne da alcuni articoli apparsi l’anno precedente su un giornale di Praga, dedicati alle ingenue poesie dialettali di un sempliciotto invaghito di una bella gitana. Il giovane, dopo la nascita del frutto del loro amore, era fuggito dal paese lasciando dietro di sé solo quei versi scarabocchiati su fogli rinvenuti per caso nella sua stanza – il diario di uno scomparso, appunto. La storia della seduzione è il filo di queste liriche, in cui si esprimono i tormenti di Jan – diminutivo di Janiček, alter ego di Janáček, come affermò il compositore stesso – un ragazzo introverso e con un rigido senso del peccato.

Janáček impiega un linguaggio tonale flessibile, costruito su cellule melodiche derivate dal parlato e accompagnate da una musica di straordinaria densità teatrale. Ne emerge una tensione costante tra desiderio e colpa, tra attrazione per l’alterità e sradicamento dal proprio mondo. Il diario di uno scomparso è così un viaggio verso la perdizione ma anche verso la libertà. A parte i brevi interventi della donna e delle tre voci femminili che cantano dietro la scena, si tratta praticamente di un monologo, narrato in prima persona come un flusso di coscienza musicale, una confessione ardente e modernissima, sospesa fra realismo e simbolismo, fra eros, morte e destino.

Nato come pezzo da camera per tenore, soprano, coro di tre soprani fuori scena e pianoforte, quindici anni dopo la morte di Janáček ne venne fatta una versione per orchestra da Ota Zítek e Václav Sedláček, collaboratori del compositore. Qui si rappresenta invece l’originale con il pianoforte di Donald Sulzen, membro del Munich Piano Trio, che non fa affatto rimpiangere la versione orchestrale apocrifa. Più che un accompagnamento, il suo strumento diventa un personaggio esso stesso, assumendo tratti orchestrali nelle dinamiche, nei volumi e nella chiarezza di ogni dettaglio.

Il tenore tedesco Matthias Koziorowski si districa magnificamente in una scrittura irta di difficoltà, delineando la goffaggine e l’allucinazione del giovane Jan con grande efficacia e sensibilità, alternando con abilità ai momenti di slancio passaggi più ariosi e lirici, dove incanta con mezze voci e colori. Una prova maiuscola.

Quasi ricordandosi delle sue tante Carmen, Veronica Simeoni, inguainata in un tubino rosso e pelliccia di volpe grigia (costumi di Elena Beccaro), entra in scena con tutta la sua carica sensuale per interpretare la gitana, qui una escort di lusso. Il timbro è perfetto, le frasi avvolgenti, ineccepibile la dizione in quella lingua improba che è il ceco – tanto che spesso si preferisce eseguire il Diario in tedesco. Dietro scena, «quasi impercettibilmente» scrive il compositore, fanno eco alle profferte della giovane le voci di Carolina Varela, Marika Spadafino e Michela Nardella.

L’elegantissima messa in scena è il punto di forza visivo dello spettacolo: per sottolineare la solitudine del personaggio, lo scenografo Alberto Beltrame e il regista Andrea Bernard costruiscono una moderna camera d’albergo quattro stelle di qualche città del Nord Europa – lo fanno supporre le luci soffuse di Marco Alba. La stanza diventa anche una sorta di scatola magica con scomparti segreti per svelare aspetti della vita del protagonista, che a un certo punto smonta due pannelli della boiserie per rivelare un’icona ortodossa della Vergine col Bambino. La regia è attentissima: i movimenti sono controllati e tutto ha un significato, anche il cameriere che bussa per errore per introdurre il carrello della cena o la musica troppo alta proveniente dalla stanza accanto – una canzone con la struggente voce di Édith Piaf. La stessa canzone che sta ascoltando la protagonista de La voix humaine nella seconda parte del dittico.

Un’altra stanza che differisce solo per alcuni dettagli cromatici – rosse ora sono le lenzuola del letto e le rose in un vaso – ma per il resto uguale. Il carrello della cena, che per sbaglio era stato portato nella camera accanto, è infatti destinato alla donna sola che aggrappata al telefono cerca di trattenere l’amato che l’ha lasciata. Dopo i versi del contadino moravo, qui abbiamo quelli di Jean Cocteau. Siamo quarant’anni dopo, ma anche in questo caso la musica – quella di Francis Poulenc – descrive una solitudine incolmabile, declinata al femminile anziché al maschile.

Caterina Antonacci ritorna a un personaggio che ha interpretato innumerevoli volte, l’ultima proprio al Costanzi nel 2017 diretta da Maxime Pascal in forma di concerto. L’artista riempie la scena vocalmente e fisicamente, esprimendo tutte le emozioni dell’amante tradita e passando dalla recitazione al canto con grande controllo del fiato. La proiezione è invidiabile, la tecnica magistrale, la dizione ineguagliabile.

Anche qui è Sulzen a stendere la tessitura musicale nella versione pianistica che Poulenc però non pubblicò mai ufficialmente in vita. Si tratta infatti di una riduzione realizzata a scopo di prova o di studio, non destinata all’esecuzione pubblica e forse curata da un collaboratore sotto la supervisione del compositore. Dopo la sua morte, nel 1963, la riduzione pianistica rimase inedita e non autorizzata per le esecuzioni pubbliche; solo nel 2013 la famiglia Poulenc, tramite gli eredi e l’editore Salabert, concesse il permesso per una registrazione ufficiale con Felicity Lott e Graham Johnson al pianoforte. Da allora la versione è di fatto “legittimata”. Questa lettura consente un rapporto più intimo tra voce e musica, più essenziale e trasparente, rende il testo più chiaro: tutte le sfumature, le pause, le interruzioni e le silenziose reazioni della donna al telefono emergono con maggiore evidenza. Qui il pianista non è accompagnatore, bensì “partner drammatico”.

Cosa ben evidente nel rapporto tra Sulzen e Antonacci e compresa dal pubblico che ahimè non ha esaurito i già minori posti della sala del Nazionale ma ha compensato col calore degli applausi per uno spettacolo di grande intelligenza ed eccelsa cura formale.

Wozzeck

Alban Berg, Wozzeck

Venezia, Teatro La Fenice, 23 ottobre 2025

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Alla Fenice un Wozzeck d’altri tempi

La Fenice chiude la stagione con Wozzeck nella traduzione italiana del 1942. Scelta che impoverisce il testo di Büchner e solleva dubbi in un clima politico che invoca la “tradizione italiana”. Durante la recita, il direttore Markus Stenz è colto da un malore nel terzo atto, costringendo alla sospensione dello spettacolo.

Con la polemica sul nuovo direttore musicale della Fenice, è passata quasi inosservata la ben più inquietante riforma dei teatri lirici, chiamati a «valorizzare le grandi opere della tradizione italiana». Tradotto: un ritorno all’autarchia e al nazionalpopolare. Ci si chiede allora se si voglia fare un passo ulteriore e resuscitare le vecchie traduzioni italiane dei libretti stranieri, come ai tempi dei dischi a 78 giri.

Non sarà certo stata questa l’intenzione dell’ex sovrintendente Fortunato Ortombina, che aveva ideato la stagione 2024-2025 della Fenice, chiusa ora con Wozzeck a un secolo esatto dalla prima berlinese. Ma il fatto è che il capolavoro di Alban Berg viene proposto nella traduzione italiana del 1942, la stessa con cui fu presentato in Italia in pieno regime fascista: una scelta francamente inspiegabile, fuori dal tempo e priva di giustificazioni convincenti.

Il risultato è un testo scolorito, dove la potenza tagliente di Büchner si smussa in una lingua anodina. L’ebreo diventa un orefice («Portate i vostri occhi all’orefice e fateli pulire»), la dura battuta di Margherita «Sie guckt sieben Paar lederne Hosen durch!» (trapassa con gli occhi sette pantaloni di pelle!) si riduce a un bonario «non ve lo fate chiedere due volte», e il lancinante «Wir arme Leut’!» – grido di dolore sociale ripetuto più volte, quasi slogan dell’opera – si affloscia nel generico «Poveri noi». Anche il Tamburmaggiore perde la sua virilità rozza e violenta: «Faremo un allevamento di tamburmaggiori» diventa un innocuo «Ti voglio regalare un figlio che mi assomigli».

Spariscono inoltre i tratti dialettali e popolari, sostituiti da un registro artificiosamente elevato («sì che lo son, già anche lo fui»), e non mancano veri e propri scivoloni che sfiorano l’assurdo: «Certa gente sta presso la porta e se ne accorge solo quando te la portan via coi piedi avanti!». Che cosa, la porta?

Sulla perdita dei suoni tedeschi, così intimamente legati alla struttura musicale di Berg, non vale nemmeno la pena insistere: da decenni è chiaro che l’opera si ascolta nella lingua originale, mentre il pubblico segue comodamente i sopratitoli. Tornare indietro significa negare un principio ormai elementare del teatro musicale moderno.

In altre circostanze ci sarebbe molto da dire su questa produzione, diretta da Markus Stenz e firmata da Valentino Villa, che ambienta la vicenda in un’Italia del dopoguerra intrisa di neorealismo. Ma il maestro, colto da un malore all’inizio del terzo atto, si è accasciato sul leggio. Anche se dopo è comparso di persona per assicurare che stava meglio, la recita è stata comunque sospesa e non sarebbe corretto giudicarne l’esecuzione e la performance dei cantanti.

Chi volesse comunque farsi un’idea dello spettacolo potrà farlo alla matinée di domenica 26 ottobre. E magari riflettere, uscendo dalla Fenice, su quanto fragile possa essere la linea che separa la memoria della tradizione dal suo malinconico ritorno.

Francesca da Rimini

foto @ Gaido Ratti

Riccardo Zandonai, Francesca da Rimini

Torino, Teatro Regio, 10 ottobre 2025

★★★★☆

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Il bello, il guercio e lo sciancato: la Francesca da Rimini 111 anni dopo al Regio di Torino

The 2025–26 season of Turin’s Teatro Regio opens with Zandonai’s Francesca da Rimini, marking Andrea Battistoni’s debut as music director. His lucid, vigorous conducting highlights the opera’s modernist richness while Andrea Bernard’s poetic staging reimagines Francesca as a self-aware woman choosing love as freedom. An elegant, powerful revival of a misunderstood masterpiece and an excellent cast, with Barno Ismatullaeva and Roberto Alagna giving intense performances.

Il Teatro Regio di Torino inaugura la stagione 2025-26 con Francesca da Rimini di Zandonai, affidata alla direzione di Andrea Battistoni, nuovo Direttore musicale. Dirige con energia e finezza una partitura modernista e visionaria. Raffinata la regia di Andrea Bernard, che restituisce Francesca come eroina consapevole. Ottimo il cast, con Barno Ismatullaeva e Roberto Alagna protagonisti intensi.

Con Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai si apre la stagione 2025-2026 del Teatro Regio di Torino, un’inaugurazione che segna anche l’inizio del mandato di Andrea Battistoni come nuovo Direttore musicale. Il giovane maestro veronese, che ha più volte dichiarato il proprio amore per il repertorio italiano tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, affronta uno dei titoli più emblematici di quel periodo: un’opera che, dopo decenni di oblio, sta vivendo una sorprendente rinascita grazie a produzioni di rilievo come quelle di Parigi (2011), Strasburgo e Milano (2018), Berlino (2021).

La vicenda dei due amanti danteschi, resa immortale dai versi del V canto dell’Inferno, ha ispirato musicisti di epoche diverse – da Paisiello a Mercadante, da Thomas a Rachmaninov – ma la versione di Zandonai, su libretto di Tito Ricordi tratto dalla tragedia dannunziana rappresentata da Eleonora Duse nel 1901, resta la più ambiziosa e complessa. Nel “poema di sangue e di lussuria” di Gabriele D’Annunzio, il librettista pota con decisione il testo originale ma conserva l’aura preziosa e arcaizzante dell’originale, disseminando la partitura di termini desueti, immagini opulente e cadenze in falso antico. In un italiano così screziato e ricercato, persino i sopratitoli in inglese diventano preziosi alleati per seguire il filo del racconto!

Quando l’opera debuttò al Regio di Torino nel 1914, l’Italia musicale stava cercando nuove direzioni. La stagione del verismo volgeva al tramonto, e Zandonai, pur figlio di quella tradizione, ne spezzava i confini per aprirsi a un linguaggio più modernista, intriso di suggestioni simboliste e impressioniste. La sua Francesca perde i tratti della vittima passionale alla Mascagni o alla Giordano e diventa una creatura più spirituale, quasi preraffaellita, sospesa tra sensualità e sogno, Non Santuzza, non Fedora, ma una figura alla Edward Burne-Jones o Dante Gabriele Rossetti. Nella partitura le influenze di Wagner e di Debussy si intrecciano con l’eredità melodica italiana: le frasi sospese, le modulazioni liquide, gli impasti timbrici rimandano più a Pelléas et Mélisande – anche qui una vicenda di cognati innamorati – che a Cavalleria rusticana. Francesca da Rimini, più che l’ultima opera verista, può dunque essere considerata la prima vera opera italiana moderna.

A raccogliere questa eredità, più di un secolo dopo, è Andrea Battistoni nel suo territorio ideale. La direzione è vigorosa e trasparente, mette in risalto la complessità di una partitura che alterna raffinatezze cameristiche a poderosi slanci sinfonici. Il maestro guida l’Orchestra del Teatro Regio in gran forma con gesto fluido e sicuro, disegnando architetture sonore di grande respiro e curando con meticolosa attenzione i passaggi dinamici. I momenti di maggiore impatto esplodono in tutta la loro potenza, ma senza mai sacrificare i dettagli. L’orchestra diventa così un personaggio a sé, protagonista di una narrazione musicale che amplifica e accompagna le emozioni dei personaggi. Il Coro, istruito da Ulisse Trabacchin, contribuisce con precisione e compattezza alla riuscita complessiva, offrendo una sonorità piena ma mai pesante, sempre nitida nell’articolazione del testo.

Il cast, scelto con intelligenza, sostiene con autorevolezza l’impianto musicale e teatrale. Barno Ismatullaeva è una Francesca di temperamento: voce ambrata, timbro pieno, acuti luminosi e una presenza scenica che unisce fierezza e fragilità. Come protagonista vive di contrasti, tra passione e colpa, desiderio e condanna: un ritratto intenso e umano. Al suo fianco, Roberto Alagna – nonostante una scrittura vocale impervia – presta al personaggio di Paolo, il fratello bello, la sua inconfondibile musicalità, il dono di un timbro ineguagliabile e il fascino della maturità scenica, trovando momenti di autentica commozione nel duetto finale. George Gagnidze è un Gianciotto, il fratello sciancato, solido e violento; Matteo Mezzaro porta in scena un Malatestino, il fratello guercio, insinuante e aggressivo; Devid Cecconi disegna con efficacia il crudele Ostasio.

Le quattro dame di Francesca – Valentina Mastrangelo (Biancofiore), Albina Tonkikh (Garsenda), Martina Myskohlid (Altichiara) e Sofia Koberidze (Donella) – formano un quartetto di voci armonioso e di grande finezza, quasi un coro greco che accompagna e riflette le emozioni della protagonista. Delicata e intensa la Samaritana di Valentina Boi, mentre Silvia Beltrami (Smaragdi), Enzo Peroni (Ser Toldo Berardengo) e Janusz Nosek (Giullare) completano con efficacia il cast, insieme ai comprimari Daniel Umbelino, Eduardo Martínez e Bekir Serbest.

Il cognome è lo stesso del regista che l’anno scorso qui a Torino aveva messo in scena il progetto delle 3 Manon, il francese Arnaud Bernard. Ma Andrea Bernard è italiano – di Bolzano, non distante quindi dalla Rovereto di Zandonai – ed è di vent’anni più giovane. Insignito del Premio Abbiati nel 2024, dopo i recenti successi di Tancredi e L’Ercole amante firma ora un allestimento di raffinata coerenza e forza poetica. Bernard affronta il monumentale testo dannunziano con una lettura lucida e sensibile, spogliandolo della patina decadente per restituirlo all’oggi. La sua Francesca non è un’eroina languida, ma una donna consapevole, che sceglie l’amore come atto di libertà, anche a costo della rovina.

L’ambientazione, ideata dallo scenografo Alberto Beltrame e sapientemente illuminata da Marco Alba, si concentra in uno spazio unico – la stanza di Francesca – che diventa di volta in volta rifugio, teatro interiore e metafora della memoria. Tutto è attraversato da una luce che sembra venire da dentro, dai ricordi della protagonista: all’inizio la vediamo seduta su una sedia da cinematografo osservare la vicenda dipanarsi dietro un velino, come lo schermo di un cinematografo. Solo più tardi la vediamo entrare nell’azione. I doppi di lei e della sorella Samaritana bambine in scena sono un vezzo prevedibile della regia moderna, ma qui più che giustificabili. I costumi di Elena Beccaro collocano i personaggi in un tempo sospeso, tra il medioevo evocato e la contemporaneità allusiva. Bernard costruisce un racconto visivo di grande eleganza, punteggiato da simboli e gesti minimi: Samaritana su sedia a rotelle allude alla sua morte tra il terzo e il quarto atto; le scarpette rosse deposte ai piedi del letto prima del finale dicono invece più di mille parole sulla consapevolezza del destino femminile. Il suo teatro è fatto di immagini interiori, di silenzi eloquenti, di figure che si muovono come in un sogno inquieto: una regia che accompagna la musica più che dominarla, respirandone il ritmo e la tensione.

L’esito complessivo è quello di una produzione di grande compattezza e suggestione, che riconcilia lo spettatore con un titolo spesso frainteso. Grazie alla concertazione ispirata di Battistoni e alla regia poetica di Bernard, Francesca da Rimini si rivela per ciò che davvero è: non un residuo del verismo, ma un ponte verso la modernità, un’opera che guarda avanti, capace di parlare ancora al nostro tempo con la forza di un mito eterno. Lo ha capito il folto pubblico che ha applaudito con convinzione e insistenza.

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Pelléas et Mélisande

Claude Debussy, Pelléas et Mélisande

Barcellona, Gran Teatre del Liceu, 29 giugno 2012

★★★★☆

(registrazione video)

L’enigma di Debussy: la visione luminosa di Robert Wilson

Claude Debussy compose un’unica opera, Pelléas et Mélisande, capolavoro enigmatico che dall’anno della sua prima rappresentazione, il 1902, continua a dividere e sedurre. Tratto dal dramma simbolista di Maurice Maeterlinck, il lavoro esige scenari naturali e spazi di corte – una fonte nel bosco, un pozzo in un parco, le sale e le segrete di un palazzo. Ambientazioni che, nel tempo, hanno messo in difficoltà i registi, costretti a misurarsi con un linguaggio teatrale che rifugge il realismo e con una musica impressionista che dissolve la tradizionale drammaturgia melodica. Non vi sono arie celebri da ricordare, né slanci melodici immediatamente riconoscibili: la partitura si nutre di sfumature, mezze tinte, pause cariche di ambiguità. Non sorprende, dunque, che all’inizio l’opera abbia incontrato scarsa fortuna. Eppure, a distanza di oltre un secolo, Pelléas si è consolidata nel repertorio dei maggiori teatri lirici, imponendosi come una delle esperienze più raffinate e complesse del Novecento.

Il Gran Teatre del Liceu di Barcellona, in coproduzione con l’Opéra National de Paris e il Festival di Salisburgo, ha recentemente offerto al suo pubblico una nuova occasione di incontro con questa opera singolare, affidandone la regia al visionario Robert Wilson. La scelta si è rivelata felice: lo stile inconfondibile dell’artista texano, maestro del teatro d’immagini, incontra la rarefazione debussyana e la esalta, trasformandola in esperienza sensoriale di ipnotica bellezza. Wilson rinuncia sin dall’inizio a qualsiasi parvenza di naturalismo. Nessuna fonte, nessun pozzo, nessuna chioma fluentemente sciolta: tutto è evocato, nulla è mostrato. La scena si riduce a uno spazio essenziale, quasi sempre vuoto, attraversato da fasci di luce che mutano di intensità e colore, dal bianco accecante al blu nelle sue infinite gradazioni. L’intero spettacolo si articola in un austero gioco cromatico dominato dal bianco, dal nero e dall’azzurro. L’assenza di oggetti scenici e la rarefazione dei segni drammaturgici spingono lo spettatore a leggere ogni dettaglio gestuale come simbolo.

A ciò si accompagna una precisa stilizzazione del movimento. I personaggi sembrano talvolta automi, talvolta danzatori di un balletto astratto; i loro gesti, calibrati con rigorosa lentezza, ricordano i fili invisibili di marionette. Non vi è quasi mai contatto fisico, e lo sguardo tra i protagonisti si evita sistematicamente. Così, nella scena iniziale, quando Golaud incontra Mélisande nel bosco, l’interazione si consuma senza che i due personaggi si guardino negli occhi: la distanza diventa cifra poetica, specchio di un mondo emotivo fatto di desideri inappagati e verità mai pronunciate. Il fulcro dell’allestimento resta la luce, che Wilson manovra con maestria assoluta, costruendo atmosfere di una suggestione quasi pittorica. Ogni cambio cromatico plasma lo spazio, trasforma la percezione del tempo, modula la tensione drammatica più di quanto non facciano le parole o gli oggetti. È un teatro che si nutre di immagini, che vive di allusioni, che lascia all’occhio e alla mente dello spettatore la responsabilità di colmare i vuoti. La sua visione riduce all’essenziale, ma proprio in questa spoliazione trova la sua forza: ogni gesto, ogni sguardo mancato, ogni variazione di luce diventa segno eloquente, rivelatore di significati nascosti. Lo spettatore si trova immerso in un universo sospeso, dove i confini tra realtà e sogno si dissolvono. È teatro simbolico allo stato puro, perfettamente accordato con la poetica debussyana.

La compagnia di canto si dimostra all’altezza della sfida. María Bayo, nei panni di Mélisande, offre un ritratto di fragile intensità. La sua voce, dolce e trasparente, sa rendere l’ambiguità di un personaggio enigmatico: vittima e insieme seduttrice, innocente e forse manipolatrice. Dal primo ingresso, giovane donna smarrita che porta addosso i segni di un passato oscuro, fino all’uscita finale, quando la morte la trasfigura in una sorta di figura luminosa, Bayo riesce a incarnare la misteriosa femminilità che Debussy e Maeterlinck hanno consegnato al mito. Accanto a lei, Jean-Sébastien Bou presta a Pelléas un timbro chiaro e una vocalità leggera, perfetta per il personaggio. È un amante che tace la parola “amore” fino alla fine, quasi a voler lasciare in sospeso l’essenza stessa della sua passione. Bou dà vita a un eroe discreto, dolente e sincero, reso credibile dalla naturalezza del canto e dalla nobiltà del fraseggio.

Laurent Naouri, interprete di Golaud, completa il triangolo con una presenza scenica imponente. La sua voce baritonale, scura e penetrante, restituisce tutta la violenza repressa e la disperazione del marito che, dopo aver sposato Mélisande, la vede sfuggirgli inesorabilmente verso Pelléas. Naouri costruisce un personaggio cupo, ossessionato, progressivamente consumato dalla gelosia. Tra i ruoli secondari spicca Olatz Saitua, che con il suo timbro brillante disegna un Yniold di vibrante freschezza, restituendo con sorprendente autenticità l’innocenza inquieta del fanciullo. Hilary Summers offre solidità al personaggio di Geneviève, madre dal profilo discreto ma fondamentale nel tessuto simbolico della vicenda. Più problematica l’interpretazione di John Tomlinson come Arkel: se l’autorità scenica non manca, la voce denuncia segni di fatica e incertezza. Alcune note instabili possono essere lette come corrispondenza con la vecchiaia del personaggio, ma la sensazione è che si tratti piuttosto dei limiti di un cantante ormai oltre l’apice della carriera. La sua vocalità, più adatta a Wagner o a repertori dal lungo respiro legato, sembra mal conciliarsi con la scrittura spezzata e rarefatta di Debussy.

A tenere insieme l’intero impianto musicale è la direzione di Michael Boder, che guida l’orchestra e il coro del Liceu con equilibrio e sensibilità. La partitura, tutta giocata su sfumature dinamiche e timbriche, trova in lui un interprete capace di esaltare le mezze tinte, i silenzi carichi di tensione, i passaggi quasi parlati che fanno di Pelléas un unicum nella storia del melodramma. Boder non cerca di imporre un pathos esteriore, ma lascia che la musica scorra con naturalezza, rispettando il respiro interno della narrazione.

Così il Liceu ha offerto non solo una ripresa di repertorio, ma un’esperienza estetica totale, capace di ricordare al pubblico che Pelléas et Mélisande non è semplicemente un’opera da ascoltare, bensì un viaggio nell’ombra e nella luce, nel mistero dell’inconscio, nella tensione inappagata tra desiderio e silenzio. Robert Wilson, con la sua arte visionaria, ha dato forma visibile a ciò che Debussy aveva inscritto nella musica: un’opera che non svela, ma allude; che non afferma, ma evoca. Ed è forse proprio in questa enigmaticità che risiede la sua forza immortale.

One Morning Turns into an Eternity

foto © Ruth Walz

Schönberg – Webern – Mahler

One Morning Turns into an Eternity

Salisburgo, Felsenreitschule, 10 agosto 2025

★★★★★

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Non concerto, non opera, ma un’ora di intensa emozione

Alla Felsenreitschule di Salisburgo Peter Sellars unisce Schönberg, Webern e Mahler in un percorso sull’angoscia e la fragilità umana. Erwartung di Schönberg, interpretato magistralmente da Aušrinė Stundytė, diventa preludio a Der Abschied di Mahler con Fleur Barron. Esa-Pekka Salonen guida i Wiener Philharmoniker in una serata di rara intensità emotiva e potenza visiva.

Un sacco nero con un cadavere viene gettato per terra sullo sterminato palcoscenico della Felsenreitschule di Salisburgo mentre le armonie vaganti di Erwartung di Arnold Schönberg introducono una donna arrivata “al limitare di un bosco” per incontrare l’amante di notte. La trentina di battute musicali di questa prima scena sottolineano il senso di tensione e di preoccupazione della donna. Un intermezzo molto breve porta alla seconda scena “al chiaro di Luna” in cui la donna avanza cautamente nella «via ampia» e nell’«oscurità profonda, tra folti alberi alti». Nella terza scena, “sentieri e campi”, «alte erbe, felci e grandi funghi gialli”» rendono allucinante il quadro sotto i lividi riflessi della Luna. Un interludio di poche battute basate su figure ostinate sfocia nella quarta scena, “il bosco profondo e scuro”, in cui la donna ha l’abito strappato, i capelli scomposti, macchie di sangue sul volto e sulle mani. La donna inciampa su un cadavere che scambia per un tronco. È quello dell’amante presso la casa della rivale. Esplosioni di gelosia si mescolano a ricordi e speranze in un clima di sogno disincantato e incompiuto. Solo alla fine la sua ansia si acqueta.

L’op. 17 fu composta in un periodo di profonda crisi per Schönberg: nell’estate del 1908 la moglie Mathilde Zemlinsky era fuggita col suo migliore amico, il pittore Richard Gerstl, che si uccise poi quando a novembre la donna ritornò dal marito. Erwartung verrà presentata al pubblico solo nel 1924. Qui costituisce la prima parte di uno spettacolo, messo in scena da Peter Sellars, che unisce tre rappresentanti della scuola viennese di inizio ‘900: oltre a Schönberg, Anton Webern, di cui si ascoltano i Cinque pezzi per orchestra op. 10 come interludio, e infine Gustav Mahler con “Der Abschied” (L’addio), l’ultimo pezzo di Das Lied von der Erde, un lavoro composto anch’esso nel 1908, un periodo tragico anche per Mahler, che dovette affrontare la perdita della figlia Putzi, la scoperta della sua malformazione cardiaca e l’addio all’Opera di Vienna.

Il regista americano cuce assieme queste musiche in una drammaturgia in cui l’uomo in entrambi i casi è vittima di un sistema autoritario. Nella scenografia di George Tsypin una recinzione di filo spinato delimita a sinistra uno spazio cosparso di massi mentre a destra si estende un “bosco” formato da nove cilindri metallici con sagome nere sulla superficie che ruotano nei momenti più drammatici.

Protagoniste di entrambi i lavori vocali sono due donne. Il soprano Aušrinė Stundytė è l’intensa interprete del monodramma di Schönberg. Con la sua straordinaria presenza scenica e la sopraffina tecnica espressiva esprime il testo, frammentato come uno stato di coscienza, di Marie Pappenheim, un testo che non racconta nulla ma che dice tutto sull’angoscia di una donna. Dopo il breve interludio con le musiche di Webern, nel lavoro di Mahler ascoltiamo il mezzosoprano Fleur Barron che rimpiazza il previsto contralto Wiebke Lehmkuhl che ha dovuto abbandonare la produzione per ragioni famigliari. Con il suo timbro caldo e un vibrato talora eccessivo, intona la lunga riflessione sulla natura, l’ebbrezza, la nostalgia, la fragilità della vita, il dolore della separazione e della morte. Qui si sente la sofferenza del pianeta e dei suoi esseri viventi: destino individuale quello di Erwartung, destino collettivo quello di Der Abschied dove tutto è minacciato e pronto a scomparire nel nulla, nell’indifferenza dell’eternità, con quell’«Ewig, ewig…» che si spegne nel silenzio.

Se le immagini che vediamo, illuminate dal coinvolgente gioco luci di James F. Ingalls, hanno una profonda suggestione, è la musica l’elemento più perturbante di questa strana operazione, non concerto, non opera. La direzione di Esa-Pekka Salonen alla testa dei Wiener Philharmoniker esalta le qualità delle tre diverse pagine: i suoni rabbrividenti del dramma di Schönberg, la bellezza dei pezzi di Webern mai ascoltati con tanta trasparenza, lo struggimento quasi insostenibile dell’Addio di Mahler. Un’esperienza sconvolgente che ha contaminato il pubblico che a fatica si è ripreso dall’emozione provata e solo dopo lunghi secondi è esploso in applausi entusiasti. Un’esperienza da portare dentro il cuore per molto tempo.

Trittico

Giacomo Puccini, Trittico

Parigi, Opéra Bastille, 16 maggio 2025

★★★★☆

Un Trittico permutato per la diva

Turandot e Lauretta: quale cantante ha mai avuto in repertorio due ruoli così diversi affrontati negli stessi anni? Asmik Grigorian, la cantante per la quale molte certezze vanno in frantumi.

È costruito su di lei il Trittico proveniente da Salisburgo (2022) e ora all’Opéra Bastille dove cambia l’ordine degli atti unici in relazione all’importanza del ruolo dell’interprete femminile: prima Gianni Schicchi con la giovane Lauretta; poi Il tabarro con il sofferto personaggio di Giorgetta; per concludere Suor Angelica, la parte più impegnativa e lunga dell’atto tutto al femminile. Si realizza così una forte curva emotiva che va dalla commedia alla tragedia passando per il dramma più cupo.

Nel debutto all’Opéra National, col suo timbro un po’ scuro, il suo stile di canto intenso, l’interiorizzazione della parte, i lunghi fiati e gli acuti sempre funzionali all’interpretazione, la Grigorian caratterizza in modo molto personale tutti e tre i ruoli dando a Lauretta una dimensionale meno ingenua e adolescenziale di quella a cui siamo abituati nel magico momento di «O mio babbino caro», di Giorgetta «È ben altro il mio sogno» non lo abbiamo mai sentito così struggente mentre in Suor Angelica accumula una tensione inarrestabile a partire da un «Senza mamma» tutto sul filo della voce. Un’interpretazione che scatena il crescente entusiasmo del pubblico e che termina in una standing ovation non rituale nel teatro parigino.

Efficace il cast. Misha Kiria è un Gianni Schicchi di sapida presenza scenica e un umorismo ben equilibrato tra commedia e farsa; pregevole, con acuti un po’ faticosi il Rinuccio di Alexei Neklyudov; come Zita si fa notare Enkelejda Shkoza che ritroveremo nelle altre due parti; tra i parenti lo Scott Wilde di Simone, autorevole rivela una dizione perfettibile, meglio Dean Power come Gherardo e Lavinia Bini come Nella. Nel Tabarro il Michele di Roman Burdenko punta al tono verista mentre Joshua Guerrero delinea un Luigi di bei mezzi vocali; quasi espressionistico il Tinca di Andrea Giovannini e dolente il Talpa di Scott Wilde in coppia con la sensibile Frugola di Enkelejda Shkoza che ritroviamo come Zelatrice in Suor Angelica. Due glorie del passato per la Badessa (Hanna Schwarz) e la Zia Principessa (Karita Mattila) che compensano con la presenza scenica mezzi vocali non proprio più freschi. Alla testa dell’orchestra del teatro Carlo Rizzi fornisce un’esecuzione trascinante in questo accumulo di tensione drammatica esaltando parimenti la stupefacente abilità orchestrale del Puccini più maturo.

Il regista tedesco Christopher Loy svolge la narrazione di sogni irrealizzati e di occultamento della morte: il cadavere di Buoso e i desideri testamentali in Gianni Schicchi; il figlioletto morto e il delitto nascosto sotto un mantello ne Il tabarro; il figlio, anche lui morto, di Suor Angelica e le sue speranze di ricongiungersi nell’aldilà. La scenografa Étienne Pluss e la costumista Barbara Drosihn ci trasportano negli anni ’50 con una scena fissa formata da una grande stanza spoglia con un letto al centro. Il tono da commedia all’italiana è dato dai parenti seduti a mangiare spaghetti o dei due giovani Rinuccio e Lauretta che alla fine, dopo che tutti i parenti se ne sono andati cercando di arraffare qualcosa, si ritrovano sotto il piumone sul letto. Per Suor Anglica quel poco suggerisce che ci troviamo in un convento anche se nemmeno un crocifisso adorna le pareti tetre, un minuscolo “giardino” di piante in vaso funge da orto e semplici tavoli da superfici di lavoro per le attività quotidiane delle suore. Solo ne Il tabarro lo spazio del palcoscenico è diviso tra la chiatta di Michele sul molo e una serie di mobili che indicano i sogni domestici della moglie Georgetta. Ed è proprio Il tabarro l’atto migliore della regia di Loy, essendo la sua lettura dello Schicchi troppo legato a un’immagine frusta e stereotipata dell’ambientazione italiana come s’era già scritto per la produzione di Salisburgo e poco convincente il finale di Suor Angelica che si cava gli occhi ma “vede” il figlio redivivo. Comunque, come in tutti i suoi spettacoli è la cura nell’interpretazione attotriale il punto di forza, e tutti quanti, trascinati da Asmik Grigorian sembrano voler dare il massimo a questo proposito.

West Side Story

Leonard Bernstein, West Side Story

Roma, Terme di Caracalla, 5 luglio 2025

★★★★☆

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La fine del sogno americano


Nel West Side Story di Michieletto alle Terme di Caracalla, l’America non è più terra di speranza ma scenario di disillusione. In una piscina vuota, emblema di un sogno infranto, Jets e Sharks incarnano un conflitto sterile. Regia lucida e amara, direzione intensa di Mariotti, interpreti efficaci. Spettacolo potente, ma penalizzato da una pessima amplificazione.

Allora, negli anni ’50, gli immigrati negli Stati Uniti si scazzottavano per le strade. Ora vengono prelevati e chiusi in gabbia a El Salvador. Da terra di speranza, l’America è diventata il lager dei derelitti.

Quando, mesi fa, fu concepita la nuova produzione di West Side Story gli U.S.A. erano diversi da quello che sono diventati oggi e lo spettacolo di Damiano Michieletto, pur in parte profetico, non è riuscito a star dietro alla corsa degli eventi che abbiamo vissuto a partire dalle elezioni di novembre in un paese che ha segnato i nostri gusti, i nostri desideri, che è stato un modello di vita nel Novecento, ma il cui sogno ora si è infranto in modo repentino.

Dopo Mass di tre anni fa il regista veneto torna a Bernstein in uno spettacolo all’aperto per l’estate romana, ma questa volta anche come direttore del festival. A contrasto con le terme di un impero crollato, qui Michieletto ricrea il West Side con una piscina. Però è abbandonata, in disuso, vuota, luogo simbolo di una innocenza perduta, di un’adolescenza disillusa. Questo posto desolato è uno scampolo di terra conquistato delle due bande rivali, i Jets e gli Sharks, che se ne contendono lo spazio per affermare la loro superiorità, di immigrati bianchi i primi, di immigrati portoricani i secondi.

Michieletto rinuncia a una lettura nostalgica e realistica della vicenda, dandone invece una spoglia e in parte simbolica: in scena vediamo un gonfiabile dorato a forma del logo del dollaro mentre grosse lettere luminose montate su rotelle formano parole come miracle o America, parole a cui però nessuno crede più. La fiaccola della Statua della Libertà giace a terra a pezzi, quella statua che oggi innumerevoli cartoonist americani disegnano disperata, piangente o con la valigia in mano per scappare da quella che una volta era la «Land of the free, home of the brave», come recitano i versi di The Star-Spangled Banner, l’inno nazionale U.S.A. Durante la sarcastica Gee, Officer Krupke Michieletto ci regala un numero “alla Kosky” quando il suddetto poliziotto entra in scena con una gran testa di cartapesta assieme alle sagome in cartone delle altre figure richiamate nella canzone. Il gusto amaro del sarcasmo sembra permeare anche il messaggio di pace e tolleranza di quest’opera alla luce di quanto avviene oggi, tingendolo di una certa mestizia.

Con lo sfondo delle grandiose rovine delle Terme di Caracalla illuminate da una luce color ambra, la scenografia di Paolo Fantin si staglia per i colori freddi della vasca, i fumi e il bellissimo gioco luci di Alessandro Carletti che dà spazialità alla scena unica in cui si individuano tre piani: quello del fondo della piscina, quello intermedio dei bordi e la piattaforma del trampolino, il balcone di Maria/Giulietta per l’incontro con Tony/Romeo.

I costumi di Carla Teti ricreano l’epoca – il musical di Bernstein, Laurents e Sondheim è del 1957 – , in bianco i Jets, coloratissimi i portoricani e le loro ragazze. Le coreografie di Sasha Riva e Simone Repele distinguono le due bande con movimenti più stilizzati per i Jets, sinuosi quelli dei portoricani, ma entrambi nervosi, spigolosi, ben diversi da quelli delle coreografie storiche di Robbins. In azione è il corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma che si confonde con i cantanti impegnati quindi non solo in passi di danza ma anche in momenti di recitazione con risultati più che accettabili per una compagnia italiana.

Del fitto cast ricordiamo il Tony di Marek Zukowski, la migliore voce maschile, con una sicura presenza scenica, bel timbro e ampia proiezione spiegata nell’immortale pagina di Maria e poi nel duetto Tonight. Sofia Caselli ha l’incantevole ingenuità del personaggio di Maria con una voce molto sottile ma ben intonata in I feel pretty, ma sa toccare la corda drammatica nel finale. Efficace il Bernardo di Sergio Giacomelli e soprattutto la Anita di Natascia Fonzetti, irresistibile nel delineare il suo personaggio a cui Bernstein dedica un’altra pagina memorabile, quella di America. L’altra canzone super popolare, quella di Somewhere, qui bisogna dire che è deludente, sia per la voce dell’interprete che la canta, sia per la coreografia un po’ banale.

Michele Mariotti alla testa di una vera orchestra sinfonica, quella del teatro, ci ricorda che Bernstein è stato uno dei massimi compositori del secolo scorso, grande creatore di melodie e fantastico strumentatore. Nella direzione di Mariotti lo si sente chiaramente: il Novecento sinfonico, le pagine irte di complesse poliritmie, il Jazz, e la musica latina in tutte le innumerevoli varietà stilistiche sono egualmente presenti. Peccato per la tutt’altro che eccelsa amplificazione sonora – signori dell’Opera di Roma, fatevi un viaggetto a Bregenz per vedere come si amplifica la musica all’aperto – e per l’unz-unz proveniente dalla Festa dell’Unità dall’altra parte della strada…

Grande successo di pubblico e insistenti applausi per gli artisti scatenati sulle note del Mambo! 

Andrea Chénier

foto © Mattia Gaido e Daniele Ratti

Umberto Giordano, Andrea Chénier

★★★☆☆

Torino, Teatro Regio, 22 giugno 2025

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Chénier come Assange…

«Fur tre mesi! | Ah no… tre secoli!», esclama Elvira ad Arturo ne I puritani. Anche ll regista Giancarlo del Monaco la pensa allo stesso modo per il suo Andrea Chénier ora sul palcoscenico del Teatro Regio di Torino a conclusione della stagione. Nella sua messa in scena tra il primo e il secondo quadro sono passati realmente alcuni secoli e dal Settecento un po’ stucchevole di nobili annoiati durante la Rivoluzione Francese, passiamo alla Parigi del Terrore, un mondo  dove regnano sospetto e violenza, che qui diventa una dittatura del secolo XX. Se ne poteva avere qualche avvisaglia sin dall’inizio: davanti a un sipario semitrasparente il servo Gérard, quello che ha letto Jean Jacques Rousseau e gli Enciclopedisti, intona il suo disprezzo verso i «protervi arroganti signori» tra due mucchi di detriti da cui spuntano copertoni d’auto e altri manufatti non proprio compatibili col secolo dei lumi. Nel finale del primo quadro la «nobil gavotta» è interrotta da parà armati di kalashnikov e nel secondo vediamo avviarsi al patibolo nobili in parrucche e crinoline, mentre tutto intorno siamo immersi in una grigia  atmosfera novecentesca. 

Il regista paragona il poeta Chénier a «Julian Assange di WikiLeaks: dice cose vere», ma anche se fosse così – e chi scrive fa fatica ad accettare l’azzardato paragone – questa chiave di lettura risulta non del tutto convincente e la scelta di ambientare il lavoro di Illica  e Giordano in epoche distanti secoli quando riferimenti puntuali del libretto rimandano a figure del XVIII secolo – Robespierre, sanculotti, ghigliottine… – mentre in scena vediamo camion, filo spinato, archivi da Gestapo, non sembra funzionale alla messa in scena dell’unicum di Giordano (Fedora e Siberia sono ben distanti nella scia della popolarità). Il regista e figlio del mitico tenore abbandona per un momento la vena descrittiva e lineare di tanti suoi spettacoli per avventurarsi in una visione distopica realizzata con le desolate scenografie di Daniel Bianco il quale dopo aver costruito le eleganti boiserie del Castello di Cloigny (quadro I) passa all’esterno di un penitenziario (quadro II) con i suoi alti muri, il filo spinato e le torrette di guardia, poi all’interno di una stazione di polizia con infiniti schedari (quadro III) e infine al campo di concentramento (quadro IV) dove si consuma il sacrificio dei due amanti uniti nella morte. I costumi di Jesus Ruiz e le luci di Vladi Spigarolo sono coerenti con la scelta registica che contrappone il frivolo Settecento al tetro e minaccioso Novecento, le vicende storiche al triangolo amoroso dei tre personaggi principali, le tensioni rivoluzionarie con il crollo delle speranze e le delusioni. La Rivoluzione Francese come «inizio di tutto: della Rivoluzione Russa, della Rivoluzione Cinese, del Nazismo, del Fascismo… Una rivoluzione è un’utopia e le utopie non funzionano mai, si ribellano contro il desiderio umano di un mondo migliore», scrive il regista.

La qualità della scrittura orchestrale di Giordano, sapiente e capace di raffinatezze (ricordiamo l’infatuazione di Mahler per la sua  Fedora), è messa in luce dalla direzione di Andrea Battistoni, l’attuale direttore musicale, che qui dimostra la sua predilezione per il repertorio veristico e gli autori della Giovane Scuola, ma nello stesso tempo anche i limiti di questa musica, scritta per il piacere fisico più che per elaborare la psicologia dei personaggi e accompagnarne l’evoluzione. L’orchestra di Giordano è spesso uno strumento enfatico per sottolineare, talora con eccessiva frequenza, e descrivere la vicenda, come una musica per film, trascinante ma epidermica e la direzione di Battistoni esalta questo aspetto con una conduzione orchestrale votata al Forte e con un certo squilibrio tra suono che proviene dalla buca e quello dalla scena – è il solito problema dell’acustica del teatro torinese, ma il direttore musicale dovrebbe tenerne conto – così che numerosi sono i momenti in cui gli strumenti coprono le voci.

Voci tutt’altro che deboli, per di più. Di Gregory Kunde smettiamo di sottolineare il miracolo del suo mezzo vocale pressoché ancora intatto: non è questa – per lo meno non solo questa – la meraviglia che scopriamo ogni volta che lo ascoltiamo. Il tenore americano nobilita ogni volta quanto canta e quello che spesso viene berciato a piena voce qui è porto con un’emissione di infinita eleganza e attenzione alla parola, dove non contano i volumi sonori, che comunque ci sono, ma le sfumature espressive che fanno di ogni sua performance il motivo forte per non mancare lo spettacolo. Come qui, dove il suo primo intervento, «Un dì all’azzurro spazio | guardai profondo», sembra il manifesto del suo credo artistico: mai enfatico o declamatorio, il suo Chénier resta sempre un poeta, eloquente ma con stile, squillante ma leggero, e con un fraseggio e una dizione da manuale. E senza denunciare stanchezza in questa  parte esigente che ancora nell’ultimo atto richiede al personaggio di intonare una pagina vocalmente impegnativa «Come un bel dì di maggio», la versione di Illica di «Comme un dernier rayon, comme un dernier zéphyr», composto dallo Chénier il 7 termidoro 1794, poco tempo prima di salire al patibolo su ordine di Robespierre, che verrà a sua volta ghigliottinato tre giorni dopo…

In questa produzione Gérard ha il carisma di Franco Vassallo, con la sua magnifica intonazione, solidità vocale e grande espressività. Il personaggio è delineato a tutto tondo, forse con un eccesso di caratterizzazione del regista nel terzo quadro quando il vecchio servo passato alla parte dei rivoluzionari si trasforma in un lubrico Scarpia nei confronti della Maddalena di Coigny, segretamente amata fin da quand’era «piccina”. Una Maria Agresta che da viziata ragazzina angustiata da corsetti e gonnelle si risveglia orfana e povera in una realtà tremenda. La toccante pagina «La mamma morta», che è l’analogo drammatico di «Vissi d’arte» nella Tosca, è cantata con intensità ma anche controllo emotivo.

Molti sono i personaggi di contorno efficacemente interpretati: la Bersi di Mara Gaudenzi, incongruamente vestita in un abito da sera di lamé, Riccardo Rados (Un “Incredibile”), Vincenzo Nizzardo (Mathieu), Adriano Gramigni (Roucher), Federica Giansanti (La Contessa di Coigny), Nicolò Ceriani (Fléville e Fouquier-Tinville), Daniel Umbelino (L’Abate), Tyler Zimmerman (Dumas) e Janusz Nosek (Schmidt), questi ultimi tre del Regio Ensemble. Nella figura della vecchia Madelon si ammira la capacità di Manuela Custer a ritagliarsi un pregevole cammeo, anche se qui la regia non è molto d’aiuto a evidenziare la breve ma straziante scena.

Purtroppo nello spettacolo del Regio la tensione drammatica si sfalda a causa della decisione di separare ognuno dei quattro quadri con un lungo intervallo, così che alle due ore di musica vengono aggiunti oltre un’ora e un quarto di intervalli – con l’assurdo di un quarto quadro che dura meno dell’intervallo che l’ha preceduto! Uno spettacolo che poteva finire dopo due ore e mezza manda invece a casa gli spettatori rimasti, con un terzo del pubblico che se ne è scappato nel frattempo, dopo quasi quattro ore.