Novecento

L’idiota

foto © SF/Bernd Uhlig

Mieczysław Weinberg, L’idiota 

Salisburgo, Felsenreitschule, 23 agosto 2024

(video streaming)

★★★★★

Dostoevskij a Salisburgo, #2

Le seconda incursione dostoevskiana del Festival di Salisburgo include il romanzo L’idiota. In fuga, incalzato dai debiti, tormentato dagli attacchi di epilessia, morbosamente attratto dal gioco: è in queste condizioni che Fëdor Dostoevskij scrive il suo grande capolavoro iniziato sul lago di Ginevra nel settembre del 1867, proseguito a Milano e terminato nel gennaio del 1869 a Firenze. Il suo romanzo “polifonico” è messo in musica e costituisce la settima e ultima opera di Mieczysław Weinberg, il compositore russo-polacco di cui si è conosciuto e apprezzato La passeggera, lavoro terminato nel 1968 ma messo in scena solo nel 2010.

Anche L’idiota, scritto da Weinberg nel 1986/1987, ha dovuto attendere il 9 maggio 2013 per vedere la prima assoluta, a Mannheim, diciassette anni dopo la morte dell’autore, diretto da Thomas Sanderling, amico del compositore. Il testo in quattro atti e dieci scene del musicologo e librettista Alexandr Medvedev, lo stesso de La passeggera, condensa abilmente le vicende del lungo e complesso romanzo in una narrazione dal taglio quasi cinematografico in cui le scene talora si sovrappongono.

Atto primo. Scena I. Incontro in treno. Di ritorno da un lungo soggiorno in un sanatorio in Svizzera, dove ha trascorso diversi anni a causa della sua salute cagionevole per curare le sue crisi epilettiche, il principe Myškin o “l’Idiota” come viene chiamato da alcuni, un giovane appartenente ad un’altolocata ma ormai decaduta famiglia nobile, sta per arrivare a San Pietroburgo dopo aver attraversato l’Europa in treno. Sul treno incontra Rogožin e Lebedev. Nonostante le differenze sociali e le storie di vita incomparabili, Myškin, e Rogožin stringono subito una sincera amicizia. Rogožin gli racconta del suo amore sfrenato per Nastas’ja Filippovna. Lebedev, un personaggio che apparirà più volte in quest’opera per introdurre o commentare gli sviluppi della storia, sostiene di conoscere tutti e offre i suoi servizi a Rogožin. Scena II. A casa degli Epančin. Il Principe non conosce nessuno a San Pietroburgo. Va a trovare la famiglia Epančin. La madre è una lontana parente che non ha mai incontrato. Lei e suo marito hanno tre figlie: Aleksandra, Adelaida e Aglaja. Il generale Epančin e Totskij discutono del loro progetto segreto. Totskij, un uomo di mezza età, ha cresciuto Nastas’ja, un’orfana che ha reso sua amante qualche anno fa. Ora vuole sposare una donna con una buona reputazione. Dal canto suo, Nastas’ja ha promesso di rendere pubblica la sua decisione la sera della sua festa di compleanno: accetterà di sposare Ganja Ivolgin, un giovane a cui Totskij ha dato una grossa somma di denaro per convincere la giovane donna. L’altro piano di Totskij è quello di sposare la figlia più giovane di Epančin, Aglaja. Con grande sorpresa di Epančin, quando Ganja gli mostra una fotografia di Nastas’ja, il principe non solo rimane affascinato dal suo viso, ma dice di conoscerla per nome grazie a un certo Rogožin incontrato sul treno. Il principe racconta poi alla signora Epančin e alle sue figlie del suo soggiorno in Svizzera e sottolinea l’importanza fondamentale per lui dei bambini e delle montagne. In cima alle montagne si trova la verità, dice. Gli Epančin sono tutti sorpresi e affascinati dalla personalità del giovane. Da parte sua, Rogožin, con l’aiuto di Lebedev, cerca di raccogliere più denaro possibile per convincere Nastas’ja, alla sua festa, a partire con lui e non con un altro.
Atto secondo. Scena III. A casa degli Ivolgin. Il Principe riflette sulla bontà e sul male. Si è trasferito dagli Ivolgin e cena con i coniugi, il figlio Ganja e la figlia Varya. Tutti attendono la decisione di Nastas’ja Filippovna, che Varya detesta a causa della sua reputazione e dei suoi rapporti poco chiari con gli uomini. Con grande sorpresa di tutti, Nastas’ja Filippovna visita casa Ivolgin senza essere invitata. Per la prima volta, il Principe si trova faccia a faccia con Nastas’ja Filippovna. È profondamente commosso. Arrivano Rogožin e i suoi usurai. Rogožin attacca Ganja. Assicura a Nastasya che raccoglierà una somma molto più grande del suo rivale. Indignato, il Principe interviene e chiede a Nastas’ja Filippovna se non si vergogna del suo comportamento e di aver accettato di essere trattata come una merce volgare. Colpita dalle parole del Principe, Nastas’ja Filippovna si avvicina alla madre di Ganja, le bacia la mano e se ne va. Scena IV.
Il giorno del Santo. A casa di Nastas’ja la festa è in pieno svolgimento. Tutti attendono l’annuncio della decisione di Nastas’ja. Anche se nessuno lo aspettava, né la padrona di casa né i suoi ospiti, appare il Principe. Dice a Nastas’ja che tutto ciò che la riguarda è perfetto. La donna è divertita da parole che non le sono mai state rivolte prima. Nastas’ja chiede al Principe se deve accettare di sposare Ganja. Lui risponde: «No». Nastas’ja dice agli ospiti che ora è una donna libera. Rogožin arriva con un’enorme somma di denaro. Scopre che l’uomo che gli impedisce di sposarla non è più Ganja, ma il Principe. Il Principe dice a Nastas’ja che la ama, che è una donna onesta che ha sofferto e che vuole prendersi cura di lei. C’è una nuova sorpresa per tutti: un documento che il Principe ha ricevuto e portato alla festa afferma di essere l’erede di una notevole fortuna. Nastas’ja ripete che nessuno le ha mai parlato come il Principe. Ma alla fine decide di lasciare la festa con Rogožin e di sposarlo. Dice che il Principe è così innocente che lei lo macchierebbe. Non vuole essere per lui quello che Totskij è stato per lei. Per lei, il Principe deve sposare Aglaja. Prima di partire con Rogožin, getta nel fuoco il denaro raccolto da Rogožin. Se ne vanno. Epančin dice al Principe che è una donna perduta. Lui risponde che deve essere salvata.
Atto terzo. Scena V. Dai Rogožin. Cinque mesi dopo. Veniamo a sapere che Nastas’ja e Rogožin dovevano sposarsi, ma poco prima della cerimonia lei fuggì dal Principe, chiedendogli di salvarla. Poi ha lasciato il Principe per tornare da Rogožin a San Pietroburgo. Per questo motivo il Principe si reca in visita a Rogožin. Il Principe vuole dirgli che questo futuro matrimonio sarebbe un disastro, sia per Nastas’ja che per lui, Rogožin. Gli dice che non è un suo rivale, perché lui, il Principe, ama Nastas’ja non per amore ma per pietà. Rogožin sostiene che entrambi amano la stessa donna, ma che lei lo odia e che è scomparsa da cinque giorni. Dichiara che la pietà del Principe per Nastas’ja è maggiore, ma peggiore, del suo amore per lei. Aggiunge che Nastas’ja è innamorata di lui ma che non lo sposerà perché non vuole rovinargli la vita. Su invito di Rogožin, i due uomini si scambiano le croci che portano al collo. Alla fine annuncia che si arrende, che Nastas’ja deve andare con il Principe, che è il suo destino. Una volta in strada, il Principe è sopraffatto dalla forza dell’amore di Rogožin per Nastas’ja. Dice che arriverà a capirla, che anche lui proverà pietà per lei. La compassione, dichiara, è la più potente delle leggi. Il Principe ha un attacco epilettico proprio quando Rogožin appare con un coltello. Di fronte al Principe a terra, Rogožin fugge. Scena VI. Il povero cavaliere. Il Principe è immerso in un sogno. Si sta riprendendo da una violenta crisi epilettica. Lebedev gli dice che Nastas’ja ha paura di Aglaja. A casa Epančin. Davanti ai genitori, alle sorelle e al principe, Aglaja canta il poema del povero cavaliere, che parla di un uomo e dell’ideale che persegue. Conclude con le lettere N. F. B., che stanno per Nastas’ja Filippovna Baraškova, una provocazione al Principe. Egli dice ad Aglaja che lei è la sua luce e la sua gioia, ma lei risponde che non lo sposerà mai. Il principe è confuso perché non le ha mai chiesto di sposarlo. Aglaja scoppia a ridere e porta il principe a un concerto. La signora Epančin parla delle sue tre figlie nubili e delle sue preoccupazioni per loro. Scena VII. Due incontri. Il Principe ha ricevuto una lettera da Aglaja che gli chiede di incontrarla per discutere di una questione che lo riguarda. Una volta insieme, lei gli dice innanzitutto che sta cercando un senso alla sua vita, che sogna di studiare. Il Principe le dice ancora che per lui lei è la luce. Questo provoca un violento rimprovero da parte di Aglaja, che rivela di sapere che il Principe ha vissuto in segreto con Nastas’ja per un mese intero. Il Principe reagisce dicendole che non ama Nastas’ja, ma che prova un’infinita pietà per lei. Aglaja allora gli dice che Nastas’ja le ha scritto, implorandola di sposare il Principe. Aggiunge che è sicura che il Principe sia l’unico uomo che Nastas’ja ama, ma che sposerà Rogožin e si ucciderà se lei, Aglaja e il Principe si sposeranno. Il Principe le dice che è pronto a dare la vita per salvare Nastas’ja, ma che non può più amarla. Aglaja minaccia di rivelare al padre l’esistenza di queste lettere e dice di essere pronta a far rinchiudere Nastas’ja. Il Principe è sconvolto. Si sente incapace di portare gioia al mondo. All’improvviso appare Nastas’ja. Si inginocchia davanti a lui, gli chiede se è felice e giura che il giorno dopo sparirà dalla sua vita. Rogožin appare e vuole sapere perché non ha risposto alla domanda di Nastas’ja. Il Principe risponde che no, non è felice.
Atto quarto. Scena VIII. La confessione di Lebedev. Gli Epančin discutono dei meriti di Aglaja che sposa il Principe. La signora Epančin si oppone fermamente. Davanti ai genitori e alle sorelle, Aglaja provoca il Principe e gli chiede quando finalmente le farà la proposta. Il Principe è sconcertato, le dice che lei è l’unica persona per cui prova amore. Lebedev rivela al Principe che Aglaja ha deciso di incontrare Nastas’ja. Il Principe è sconvolto e dichiara di aver intuito che il destino sarebbe intervenuto e che Nastas’ja sarebbe apparsa all’ultimo momento. Scena IX. I rivali. A casa di Rogožin. Le due coppie sono nella stessa stanza. Aglaja dice a Nastas’ja che le deve delle risposte alle sue lettere. Accusa violentemente Nastas’ja di egoismo e le proibisce di amare il Principe. Aglaja sostiene di sapere come dargli l’amore di cui la sua anima unica ha bisogno. Nastas’ja le risponde violentemente, dicendo che è gelosa e spaventata e le chiede di andarsene. Se non se ne va, Nastas’ja dichiara che chiederà immediatamente al Principe di lasciare Aglaja per sempre e dice a Rogožin che non ha più bisogno di lui. Il Principe è sconvolto. «È così infelice», dice di Nastas’ja. Aglaja se ne va, convinta che la sua relazione con il Principe non sia più possibile. Anche Rogožin se ne va. Nastas’ja e il Principe rimangono soli. Lebedev commenta ciò che accadrà in seguito. Il matrimonio previsto tra il Principe e Nastas’ja non ha avuto luogo. Poco prima della cerimonia, Nastas’ja scappò con Rogožin, che aveva notato tra la folla, gridando: «Salvami! Portatemi via! Dove vuoi tu!». Scena X. La riconciliazione. Il Principe vuole rivedere Rogožin. Si reca a casa sua. Non ha più visto Nastas’ja da quando ha abbandonato la cerimonia nuziale. Rogožin gli dice che Nastas’ja è a casa sua. Il Principe capisce cosa gli sta dicendo Rogožin: ha ucciso Nastas’ja. Il Principe viene poi a sapere che Rogožin l’ha uccisa usando lo stesso coltello che avrebbe usato per uccidere lui, il Principe Myškin. Rogožin e il Principe decidono di passare la notte accanto al corpo di Nastas’ja.

La presente produzione salisburghese de L’idiota è quella che potrebbe confermare il nome di Weinberg nella trilogia dei russi della seconda metà del Novecento, assieme a Prokof’ev e Šostakovič cioè. Lo fanno prevedere la qualità dello spettacolo affidato per la parte visiva a un altro polacco, Krzysztof Warlikowski che ambienta la vicenda nella Russia del passato presente. La scenografia della moglie Małgorzata Szczęśniak copre le arcate della Felsenreitschule con una lunghissima parete di legno in cui si inserisce uno schermo per la proiezione dei video di Kamil Polak e un ambiente aggettante chiuso, per le scene più intime. Pochi altri elementi occupano lo spazio immenso del palcoscenico che permette la compresenza di scene diverse. Concepito prima dell’invasione dell’Ucraina, lo spettacolo ha assunto un ulteriore significato, come scrive il regista: «Dostoevskij è una figura pericolosa. Non ha mai nascosto il suo lato antisemita, razzista, nazionalista, panslavo e, alla fine della sua vita, zarista. È la grande mente dietro l’immagine della Russia eterna, forte, dominante e oscura. Oscura e in conflitto con i valori dell’Europa occidentale. Sorprendenti sono le analogie con quanto sta accadendo dal 24 febbraio 2022, o più precisamente dall’occupazione di parte del Donbass e della Crimea nel 2014. Se il genio di Dostoevskij non fosse stato al servizio del nazionalismo, forse i russi non sarebbero diventati gli autori di tutto ciò che hanno commesso nel corso del XX secolo e di ciò che vediamo oggi in Ucraina». 

A contrasto di tutto ciò è la figura dell’“idiota”, che non ha nulla in comune con gli altri, che siano persone fondamentalmente oneste o irrimediabilmente malvagie. Candido, incorrotto, incapace di mentire, Myškin è convinto di poter cambiare le persone e salvare il mondo: «Non entro in gioco», scriverà a un certo punto sulla lavagna e dirà che la bellezza non è morta, è solo passata di moda. La sua diversità solitaria è la stessa del compositore, ebreo polacco perseguitato sia dal nazismo che dallo stalinismo, un uomo che a causa delle proprie vicissitudini ha ragionato sulle questioni esistenziali e filosofiche poste dal romanzo di Dostojevskij. «L’idiota è Cristo?» si chiede Warlikowski, e prima di lui molti altri. La risposta è positiva secondo il regista, che a un certo punto mostra il Principe dopo un attacco della sua malattia disteso come Il corpo di Cristo morto nella tomba nel realistico dipinto di Hans Holbein il Giovane del 1521. 

Nell’opera di Weinberg i cantanti non hanno a disposizione arie o ariosi, tutto è affidato a un canto declamato e di conversazione e alla qualità attoriali degli interpreti che sono adeguatamente guidati dal regista, com’è il caso del viscido e inquietante Lebedev, anche prestigiatore e onnipresente in scena, a cui il baritono ucraino Iurii Samoilov presta la sua sorprendente personalità. Personalità che non manca neppure a Ausrine Stundyte, una intensa Nastas’ja Filippovna, in cui il soprano lituano ha sviluppato un suo particolare stile espressivo perfettamente consonante con il personaggio di femme fatale, ma anche fragile donna che sarà uccisa dal suo uomo. Un vero tour de force è quello di Bogdan Volkov, tenore russo di bellissimo timbro e grande resistenza in quanto quasi sempre in scena nella sofferta parte del titolo. Il ruvido personaggio di Rogožin trova un efficace interprete nel baritono bielorusso Vladislav Sulimskij. Il basso inglese Clive Bayley e il mezzosoprano russo Margarita Nekrasova formano la coppia degli scafati Epančin, la cui figlia Aglaja deve al mezzosoprano australiano Xenia Puskarz Thomas le noti dolenti della “ballata del cavaliere povero”. Ben caratterizzato vocalmente e attorialmente il Ganja del tenore slovacco Pavol Breslik, mentre il tenore ucraino Alexander Kravets dà voce al surreale personaggio dell’arrotino, un’invenzione del librettista.

La musica di Weinberg ricorda quella del maestro Šostakovič, ma con una personalità distinta. Tonalità, atonalità, politonalità, complessità di ritmi, sono abilmente utilizzate dal compositore per costruire una partitura ricca di momenti teatralmente spiazzanti come l’assolo alla tastiera di Lebedev o le note dell’ambulanza nella musica che accompagna l’attacco epilettico del Principe, mentre le pagine più turgide stanno accanto a quelle più rarefatte per costruire una sicura tensione narrativa. Una paletta di colori e sensazioni messe in chiara evidenza e perfetto controllo dalla bacchetta della giovane lituana Mirga Gražinytė-Tyla alla guida dell’orchestra dei Wiener Phiharmoniker. Appropriati sono risultati gli interventi del coro maschile del Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor istruito da Pawel Markowicz. Il grande successo di pubblico fa sperare che lo spettacolo possa essere ripreso altrove. La registrazione video è disponibile su medicitv.

Il giocatore

foto © SF/Ruth Waltz

Sergej Prokof’ev, Il giocatore

Salisburgo, Felsenreitschule, 22 agosto 2024

★★★★☆

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Dostoevskij a Salisburgo, #1

Due le opere in programma quest’anno al Festival di Salisburgo tratte da Dostoevskij: L’idiota di Weinberg e Il giocatore di Prokof’ev, entrambe rappresentate nel particolare spazio della Felsenreitschule.

Opera scritta nel momento sbagliato e per un pubblico sbagliato, quella di Prokof’ev è entrata in repertorio solo due decenni dopo la morte del suo autore e non è mai stata messa in scena, lui vivente, nel suo paese. Scritta con ansia febbrile dal novembre 1915 al gennaio 1917 non può essere presentata a causa della Rivoluzione Russa e dell’arresto a marzo del direttore dei teatri imperiali. Dieci anni passano e Prokof’ev ne appronta una versione per essere messa in scena da Vsevolod Mejerchol’d al Teatro dell’Accademia di Stato di Mosca, ma la produzione viene cancellata. Il compositore accenta con riluttanza l’offerta del Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles e il 29 aprile 1929 vede finalmente la prima, anche se in lingua francese (1). Le critiche non furono positive e nessun altro teatro fu disposto a metterlo in cartellone. A parte una suite in cinque parti (Quattro ritratti e un finale da “Il giocatore” op. 49, 1931), l’opera fu ascoltata in Russia in forma orchestrale solo nel 1963, cinque anni dopo la morte di Prokof’ev, e nel 1975 finalmente messa in scena al MET di New York dal Bol’šoj Teatr, ma lo stesso MET ne montò una sua produzione solo nel 2001, lo stesso anno in cui fu data la prima volta a Mosca diretta da Gennadij Roždestvenskij. Ha ragione quindi il regista Peter Sellars a dire nel programma di sala della produzione salisburghese che «Stiamo ancora imparando ad ascoltare questo lavoro: ormai è sicuramente musica del nostro presente, ma forse per la nostra generazione incombe ancora come musica del futuro». 

Ed è Timur Zangiev, il giovane direttore che all’ultima Dama di picche della Scala aveva egregiamente sostituito Valerij Gergiev, allora allontanato dal teatro perché politicamente esposto col leader russo, a dare vita a questa partitura, una stilizzata musica da cartoni animati per sequenze comiche evocanti l’età d’oro della musica del teatro d’avanguardia, sferragliante ad imitazione della meccanicità, del roteare delle roulette, dei clicchettii delle palline. Un ritmo che incalza l’azione come nelle accelerate pellicole dei film muti. Con la sua concertazione puntuale e appassionata i Wiener Philharmoniker diventano una macchina che non perde un colpo, che avanza inesorabile alternando brevi oasi liriche a momenti di grande umorismo, con gli scintillanti colori che il sapiente gioco di luci di James F. Ingallis echeggia visivamente.

 

L’elemento visivo dello spettacolo congegnato da Peter Sellars è affidato al sempre geniale George Tsypin che trasforma lo spazio scenico della Felsenreitschule in una sala da gioco che più che la Roulettenburg della Germania del 1865 sembra un’allucinata Las Vegas di oggi, ma con roulette che alzandosi ed abbassandosi diventano una flotta di astronave aliene da videogame di un tempo. rutilanti di luci. Un ulteriore tocco straniante è dato dalle chiazze di muschio che coprono il pavimento, le arcate dello sfondo, ma anche le “astronavi”, rispecchiando il senso di tragica irrealtà in cui è immersa la vicenda: raramente la consonanza tra musica e aspetto visivo ha raggiunto un risultato così felice come in questo allestimento. Peter Sellars con la sua consumata abilità gestisce i cammini incrociati di un generale russo indebitato fino al collo, della vecchia straricca ma presto indigente per la frenesia del gioco, dell’ambiguo Marchese des Grieux, della spregiudicata M.lle Blanche, della figliastra Polina e del precettore Alexei Ivanovich. Tutti dominati dalla sete di denaro e dalla vanità, tanto da sacrificare affetti e amori. I personaggi sono persone di oggi, negli abiti contemporanei di Camille Assaf, e si muovono freneticamente sul vasto spazio del palcoscenico ma con fluidità e con gustosi effetti umoristici.

Affiatatissimo il cast: Peixin Chen è un Generale dalla voce autorevole, solo un pochino monotona; Sean Panikkar (Alexeij Ivanovič) riempie con facilità la strana sala con la grande proiezione del suo mezzo vocale; Asmik Grigorian ritorna nella parte di Polina dopo averla cantata nella produzione del marito al Teatro Nazionale Lituano e riesce a dare significato a un personaggio così complesso con la sua magnetica presenza scenica e il nervoso fraseggio; il Marchese di Juan Gatell è giustamente caratterizzato così come il Mr.Astley di Michael Arivony e il Barone Wurmerhelm di Ilia Kazakov, mentre Nicole Chirka delinea efficacemente l’arrivista Blanche. Menzione a parte per Violeta Urmana, che calamita l’attenzione fin dalla sua prima apparizione come la Babulenka che sperpera al tavolo da gioco il suo ricco patrimonio. Il palcoscenico si affolla all’inverosimile con l’arrivo dei tanti giocatori al quarto atto e qui la Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor preparata da Pawel Markowicz si dimostra perfettamente all’altezza della situazione nel frenetico bailamme degli interventi solistici.

Grande è il successo dello spettacolo con particolari ovazioni per Grigorian, Urmana, Panikker e il direttore Zangiev.

(1) Due anni fa l’opportunità di conoscere questa versione è stata data dal Festival di Martina Franca.

Madama Butterfly

Giacomo Puccini, Madama Butterfly

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 13 luglio 2024

(diretta streaming)

★★★★☆

Il Giappone lontano di Puccini

In inglese “to put your foot in” significa fare un errore imbarazzante. È quello che letteralmente fa Pinkerton fin dal primo momento quando sotto lo sguardo della costernata Suzuki che porta un vassoio di acqua ci mette dentro il piede pensando serva a lavarlo. Non sarà l’ultima gaffe che il goffo yankee compirà verso la cultura del paese che lo ospita in questa messa in scena di Andrea Breth della Madama Butterfly a Aix-en-Provence.

Autore non dei più frequentati in questo festival – bisogna arrivare al 2019 per trovare qui un titolo di Puccini, la Tosca “decostruita” di Christophe Honoré, anche allora con Daniele Rustioni sul podio – non poteva mancare nel centenario della sua scomparsa. La regista tedesca mette in scena la “tragedia giapponese” come un Kammerspiel ambientato nei tempi e nei luoghi dell’azione originale, ma con un forte accento sulla psicologia dei personaggi e sulle loro interazioni. Proprio per esaltare le singole personalità, il coro non è presente in scena, dove invece ci sono dei figuranti muti con maschere giapponesi molto espressive nella loro stilizzazione. Efficace la semplice scenografia di Raimund Orfeo Voigt che ricrea con pochi mezzi la casa “a soffietto” sviluppata in orizzontale e davanti alla quale su un tapis roulant scorrono lentamente certi personaggi come figure di un carillon. Con i costumi di Ursula Renzenbrink e le luci di Alexander Koppelmann la drammaturgia lineare e “tradizionale” lascia spazio alle voci, alla musica raffinatissima di Puccini e al geniale testo di quei due scapigliati Illica e Giacosa che giocano con somma arguzia e intelligenza con le parole, come con le terzine di rime baciate di Sharpless – fortunato-toccato-sbocciato, assai-mai-Butterfly, giudizio-sposalizio-precipizio, scede(!)-fede-crede – o con Pinkerton, che interrompe la sua aria «Dovunque al mondo il yankee vagabondo» per chiedere al console che cosa vuole bere, e così «sprezzando i rischi» fa rima con wisky (sic)!

La lentezza dei movimenti, la staticità della figura di Cio-Cio-San inginocchiata che si pettina come nelle incisioni giapponesi di donne alla toilette, l’utilizzo di mimi e delle maschere del teatro Nō, il volo delle gru, tutto tende a sottolineare la distanza tra i due mondi della vicenda, la stessa che separava Puccini dal Giappone della sua epoca e che Andrea Breth evidenzia utilizzando una visione di quel paese secondo le immagini che circolavano a fine secolo.

Il direttore musicale dell’opera di Lione Daniele Rustioni, sul podio dell’orchestra del teatro che è anche coproduttore dello spettacolo, fornisce una lettura sensibile ed accurata della partitura, esaltandone senza troppe smancerie i momenti lirici e realizzando con precisione i passaggi contrappuntistici. Il secondo e il terzo atto sono eseguiti di seguito: il coro a bocca chiusa si collega direttamente al preludio del terzo atto formando una pagina sinfonica di grande bellezza ed emotività. 

In uno dei suoi rôle fetiche più convincenti, Ermonela Jaho, che festeggia proprio durante questa produzione il suo 50° compleanno, incarna una Cio-Cio-San di sconvolgente intensità. Da giovane ragazza fremente di innocente trepidazione, a donna ferma nella sua convinzione del ritorno dell’amato, alla coerenza con cui affronta il suicidio, così come aveva fatto il padre, la Jaho esibisce sicura tecnica ma soprattutto trasmette una forte idea del personaggio, come quando canta «Un bel dì vedremo» in pianissimo, ma con un filo di voce di grande proiezione. Il tenore inglese Adam Smith non esibisce grandi mezzi vocali, ma riesce a rendere Pinkerton ingenuo e goffo, non arrogante e quindi meno odioso del solito. Non ricorre al canto di forza, anzi utilizza piani e pianissimi e nel duetto raggiunge momenti di dolcezza veri ed emozionanti. Insomma, meglio così che un Pinkerton berciante e stentoreo. La Suzuki di Mihoko Fujimura si rivela migliore attrice che cantante, dalla dizione per di più poco comprensibile. Lionel Lhote è un signorile Sharpless dal fraseggio elegante mentre giustamente autorevoli sono lo zio bonzo di Inho Jeong e il Commissario Imperiale di Kristján Jóhannesson. Semplicemente perfetto il Goro di Carlo Bosi. Due ex allievi dell’Académie d’Aix-Marseille, Kristofer Lundin e Albane Carrère, danno vita al Principe Yamadori e a Kate Pinkerton.

Lo spettacolo è disponibile in video streaming sul circuito ArteTv.

Turandot

     

Giacomo Puccini, Turandot

Milano, Teatro alla Scala, 4 luglio 2024

★★★☆☆

(diretta streaming LaScalaTv)

Mille lumini e un minuto di silenzio per Puccini

Il 25 aprile 1926 ci fu la prima della Turandot. Puccini era mancato da 17 mesi. Come sappiamo, Arturo Toscanini dopo la morte di Liù posava la bacchetta sul leggio e rivolto al pubblico diceva «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il Maestro è morto».

98 anni dopo nello stesso teatro e nello stesso momento della vicenda l’orchestra tace, sullo schermo circolare appare il ritratto del compositore e coristi e figuranti sul palcoscenico si mostrano con un lumino a led in mano. Lo stesso fanno gli spettatori in sala e nei palchi, ai quali era stato distribuito dalle maschere nell’intervallo tra secondo e terzo atto. Segue un minuto di silenzio e poi riprende il finale, il solito brutto finale di Alfano.

La Scala con questa produzione omaggia Puccini nel centenario della morte affidando la direzione d’orchestra a Michele Gamba che esegue la partitura con grande senso teatrale e drammatico e ampi livelli sonori più che attenzione ai particolari strumentali. Determinante si rivela il ruolo del coro magistralmente istruito da Alberto Malazzi mentre nel cast spiccano le voci femminili di Anna Netrebko e Rosa Feola. La prima è la Turandot di riferimento oggi per le magistrali intenzioni espressive, i formidabili sonori pianissimi, e pazienza se la voce è talora un po’ intubata e l’intonazione perfettibile. La sua presenza scenica e la definizione del personaggio, qui tutt’altro che gelida e ieratica ma donna complessa e tenera figlia, sono al momento quasi uniche nel panorama operistico. Anche la Liù di Rosa Feola è tutt’altro che lacrimevole, una donna di carattere che rende la sua morte ancora più commovente. Il timbro naturalmente d’argento e i legati rendono la sua performance indimenticabile. Il Calaf di Yusif Eyvazov è una presenza costante nell’ultima opera del compositore lucchese, sia che si tratti della tradizionalissima produzione dell’Arena di Verona che della contestata versione del russo Barkhatov al San Carlo di Napoli. Pregi e difetti della sua voce sono già stati ampiamente discussi. Autorevole è il Timur di Vitalij Kowaljow e insolito l’Imperatore, bonario vecchietto che entra in scena a braccetto con Calaf, con la voce cesellata di Raúl Giménez. Vengono invece dall’estremo oriente le tre maschere, scenicamente spigliate ma non sempre con limpida dizione, di Sung-Hwan Damien Park, Chuan Wang e Jinxu Xiahou, rispettivamente Ping, Pang e Pong.

Lo spettacolo di Davide Livermore pullula come al solito di moltissime idee, alcune non portate avanti, come quella delle tre maschere che qui la maschera la portano ed è quella col volto di Calaf poiché ne rappresentano lo sdoppiamento della personalità, ma questo solo la prima volta che entrano in scena. Personaggio muto sempre presente assieme a Turandot è quello di Lo-u-Ling, l’«ava dolce e serena» dalla quale nasce l’odio della «principessa di gelo» per il genere maschile. Nella sua regia Livermore fa dare il bacio fatale all’ava stessa e solo in quel momento Turandot è libera di amare Calaf. Tante altre sono le idee registiche che si esprimono in scene e controscene sviluppate con teatrale efficacia ma con un horror vacui quasi “zeffirelliano”.

Nella sua scenografia Livermore ingloba la tecnologia e la creatività di Paolo Gep Cucco, direttore creativo della D-Wok la società che rende virtuali le scenografie per i palcoscenici operistici fondendo analogico e digitale. Assieme a Eleonora Peronetti Cucco disegna una scenografia dominata da un gigantesco impianto video capace di creare una realtà aumentata sulla scena, in questo caso una Pechino dark in 3D alla Blade Runner proiettata su un ledwall di 12×9 metri. Un altro ledwall circolare serve per proiettare le riprese di materiali in slowmotion: pioggia, polvere, petali, inchiostri, foglie, fiamme, ripresi a 1400 frame al secondo per creare effetti di sospensione e magia e nello stesso tempo dare immagine al personaggio della Luna, tante volte invocata nel libretto. Con i costumi di Mariana Fracasso e le luci di Antonio Castro le simulazioni digitali mescolano corporeità e fantasia con dosi di suggestioni cinematografiche, tutto per ricreare la favola della vicenda ambientata «in Pekino, al tempo delle favole». Indubbia è l’eccellenza tecnica dimostrata dal regista, ma troppo invadenti risultano le azioni coreografiche che interessano il Principe di Persia e gli sgherri dell’Imperatore. E poi di mimi che sdoppiano i personaggi ne abbiamo abbastanza.

Ariadne auf Naxos

foto © Michele Crosera

Richard Strauss, Ariadne auf Naxos

Venezia, Teatro la Fenice, 25 giugno 2024

★★★★☆

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Ariadne auf Naxos: il lato brillante di Richard Strauss

Nel 1999 Paul Curran era stato incaricato di organizzare un gala a Buckingham Palace. Durante lo spettacolo un maggiordomo si era avvicinato al regista dietro le quinte per chiedergli di «far cantare più velocemente il tenore» (Plácido Domingo!) perché a cena era previsto dell’agnello e S.A.R il Principe di Galles non voleva che si rovinasse la pietanza. 

Cambiano i tempi ma molte cose rimangono tali: la vicenda di Ariadne auf Naxos è quella di un “concerto aziendale” di breve durata e ben pagato – «Und das ausbedungene Honorar wird nebst einer munifizenten Gratifikation durch meine Hand in die Ihrige gelangen» (E l’onorario convenuto insieme a una generosa gratifica passerà dalle mie mani nelle Sue)  dice il Maggiordomo al Maestro di musica –  dove la musica, l’arte, è solo un pretesto, un contorno, e la creatività del compositore deve sottostare ai gusti capricciosi del ricco e potente di turno. I rapporti tra committente e artisti sono sempre stati difficili e conflittuali sia nel passato che nel presente e per questo  Ariadne auf Naxos è un’opera particolarmente attuale con il suo corrosivo gioco di metateatro dove più situazioni avvengono simultaneamente sì da  riprodurre la vita nella sua complessità.

Curran nel 2003 al Malibran aveva già presentato una Ariadne auf Naxos, ma questo è un nuovo allestimento in coproduzione con il Comunale di Bologna (dove è andato in scena due anni fa) e il Verdi di Trieste. La scenografia di Gary McCann, che si occupa anche dei costumi, si apre sì su un palazzo viennese, ma non settecentesco, le decorazioni sono tipicamente Jugendstil tipica della nuova ricca borghesia viennese. Nella seconda parte il salone viene invaso da un ingombrante impianto barocco avvolto in luci lunari e abitato da fauni e angiolini oltre alle tre ninfe che proteggono la solitudine della protagonista. Poi piano piano l’impianto viene smontato per lasciare spazio a un cubo da discoteca per l’esibizione di Zerbinetta e infine si alza per il finale pieno di luce con cui Arianna si allontana col suo Bacco, l’unico momento favolistico di una vicenda fino a quel momento trattata in maniera piuttosto  realistica. Come l’inizio dell’opera seria quando mentre una Naiade, una Driade e una Ninfa osservano Arianna prima nel sonno e poi nel suo lamento, il regista ci mostra il backstage con i commedianti, un gruppo di tamarri sfrontati, ed evidentemente annoiati, in attesa di qualche spiraglio in cui inserirsi. Tra selfie e falliti tentativi di ingresso, è una nota di colore del regista che funziona magnificamente. I costumi nel prologo richiamano gli anni ’70 mentre nell’opera serie che segue  sfilano sontuosi abiti da ballo ottocenteschi per i personaggi seri e pop per quelli comici dove Zerbinetta diventa Katy Perry col suo cuore ricamato a paillettes sul corpetto, la gonna di tulle e la parrucca rosa – lo stesso colore degli oufit delle “maschere” e quello predominante nelle luci di Howard Hudson.

Il contrasto antico/nuovo è sintetizzata nei personaggi delle due cantanti, l’una una snob primadonna della lirica, l’altra un’acclamata icona pop, ma nel corso dell’opera Arianna smette i panni di essere mitologico  – quasi allegoria della virtù – per diventare una donna innamorata,  mentre Zerbinetta  da capocomica si trasforma in donna che accoglie la vita e l’amore con leggerezza. Anche musicalmente ben distinti sono gli stili musicali: la vocalità di Arianna è modellata sull’arioso secentesco, quella di Zerbinetta sul belcanto italiano ottocentesco con la voce che gareggia assieme al flauto nelle colorature. Da una parte frasi ampie, legate, un tono malinconico e una scrittura orchestrale che ricorda il Rosenkavalier; dall’altro fuochi d’artificio vocali e un’orchestrazione frizzante. Alla testa dell’orchestra del teatro ridotta a ranghi quasi cameristici Markus Stenz riesce a differenziare nettamente le due parti, quella quasi convulsa del prologo e quella ricca di liricità dell’opera seria sfociante poi in un finale da apoteosi. La mano leggera del maestro concertatore si evidenzia sui toni da operetta che assume talora questo felicissimo prodotto di Strauss e Hofmannsthal.

Due primedonne si contendono il palcoscenico, qui entrambe eccezionali. Sara Jakubiak è una Ariadne dalle ragguardevoli doti vocali, enorme proiezione, linea omogenea in tutti i registri e sontuosa nel declamato drammatico. A questo è da aggiungere una più che convincente presenza scenica mentre passa dai capricci da prima donna nel prologo all’eroina tragica e infine alla donna innamorata. Ma come sempre è Zerbinetta la trionfatrice della serata, con Erin Morley, già ammirata a Vienna, assolutamente a suo agio nelle funamboliche richieste della sua aria affrontate con souplesse e gusto soubrettistico di prim’ordine. Relativamente breve ma impegnativa la parte di Bacchus in cui il tenore John Matthew Myers esibisce sicurezza di fiati e potenza sonora ragguardevoli. Molto espressiva ma con qualche incertezza nel registro acuto Sophie Harmsen, il Compositore, e solita confidenza per il Maestro di Musica di Markus Werba, parte già affrontata a Milano e a Firenze. Ottimamente recitate e cantate le parti della Maschere: Mathias Frey (Scaramuccio), Szymon Chojnacki (Truffaldin), Enrico Casari (Brighella) ma soprattutto Äneas Humm (Arlecchino). Un po’ troppo marcate le mossettine dell’effeminato Maestro di ballo di Blagoj Nacoski mentre ben realizzate si sono rivelate le ninfe: Jasmin Delfs, Marie Seidler e Giulia Bolcato, rispettivamente Najade, Dryade ed Echo. Nel ruolo parlato del Maggiordomo si distingue l’attore Karl-Heinz Macek

Successo molto caloroso con grandiose ovazioni per le due protagoniste femminili da parte di un pubblico che, come sempre alla Fenice, ha occupato ogni posto possibile del teatro.

Trittico

foto @ Daniele Ratti

Giacomo Puccini, Trittico

Torino, Teatro Regio, 18 giugno 2024

★★★★☆

Coniugare tre volte la morte: il Trittico conclude in bellezza la stagione del Regio

Prima di arrivare al Trittico che conosciamo Puccini aveva preso in considerazione altri progetti. La sua intenzione era quella di accostare alla tradizionale opera in cui un unico soggetto viene sviluppato in più atti, tre atti unici diversi ma sottesi a un’idea unitaria. Era il caso del progetto pensato ai primi mesi del ‘900, ossia quello di mettere in musica i tre titoli della saga umoristica di Tartarin de Tarascon di Alphonse Daudet, o quell’altro preso in considerazione qualche anno dopo utilizzando tre novelle di Maksim Gor’kij, un progetto discusso con Valentino Soldani e Luigi Illica ma poi accantonato, anche se rimase qualcosa dell’ambientazione della prima novella, La zattera (due chiatte sul Volga), per la chiatta sulla Senna del Tabarro e anche la figura di donna fragile e infelice della seconda novella di Gor’kij, Ventisei uomini e una donna, forse lasciò qualche segno su Suor Angelica.

Bisogna arrivare però al 1912, quando a Parigi al Théâtre du Grand Guignol Puccini assiste al dramma in un atto La Houppelande (La palandrana) di Didier Gold – autore tra l’altro nel 1913 di una Histoire de Manon Lescaut – che gli sembrò di grande efficacia teatrale. Il secondo scomparto del trittico avrebbe dovuto essere affidato a Gabriele D’Annunzio e il terzo a Tristan Bernard, per realizzare così le tre parti di uno schema costituito di tre episodi contrastanti: «uno orripilante, uno sentimentale e uno farsesco». Affidato il libretto a Giuseppe Adami, Il tabarro non fu pronto se non alla fine del 1916 – nel frattempo c’era stata La rondine – mentre più veloce fu la composizione degli altri due atti unici, affidati questi alla penna di Giovacchino Forzano. Finalmente il Trittico debuttava a New York il 14 dicembre 1918, assente l’autore: nonostante la Grande Guerra fosse finita i viaggi in mare erano ancora molto difficoltosi e il Maestro preferì rimanere in patria per seguire la prima italiana al Costanzi un mese dopo, l’11 gennaio 1919. Dopo i primi contrastati giudizi, il Trittico di Puccini ha raggiunto una grande popolarità e ancora oggi è tra i suoi lavori più eseguiti, nonostante la difficoltà di mettere in scena in una stessa serata tre opere così diverse e con così tanti interpreti. 

Arriva ora al Teatro Regio di Torino a conclusione della sua stagione la produzione de La Monnaie del 2022 con la regia di Tobias Kratzer ripresa da Ludivine Petit. Rappresentato nella sua completezza, così come voleva l’autore, il Trittico permette di apprezzare tre opere differenti tra di loro ma mutualmente necessarie, tre visioni della vita (e della morte) interconnesse da sottili legami. Uno di questi è appunto la morte, che viene citata quattro volte nel Tabarro, cinque in Suor Angelica, curiosamente mai nel Gianni Schicchi dove il morto è sulla scena! In particolare la morte del bambino di Giorgetta e Michele («l’anno scorso là in quel nero guscio | eravamo pur tre… c’era il lettuccio | del nostro bambino») si lega a quella del bambino di Suor Angelica e questo particolare è messo in evidenza dal regista là quando le suore del monastero sfogliano con avidità le pagine di un giornaletto con la storia illustrata del Tabarro. E sono le immagini della maternità e della vita coniugale a destare la nostalgia delle recluse.

Diversamente da chi ha cercato di unificare l’ambientazione dei tre atti unici – Michieletto nel 2016 a Roma, Lotte de Beer a Monaco l’anno dopo – Kratzer fornisce di ognuno un’immagine visiva e un approccio del tutto differenti l’uno dall’altro: la scenografa Rainer Sellmaier, che firma anche i costumi, ricrea tre mondi completamente diversi per colore, taglio visivo, stile. Per Il tabarro sceglie di dividere la scena in sezioni, un po’ come aveva fatto Philipp Stölzl a Salisburgo per Cavalleria & Pagliacci: il ponte della chiatta, la misera stanza con le pareti di lamiera, la stiva, la riva con il lampione e le prostitute sono i riquadri di una graphic novel dai colori rossi e neri, alla Sin City di Frank Miller, come evidenziato dal carattere tipografico del titolo che campeggia in alto a sinistra.

Tutt’altra atmosfera per Suor Angelica: un palcoscenico vuoto con solo una lunga panca nel fondo che accoglie l’andirivieni delle monache mentre su uno schermo si proiettano le immagini in bianco e nero del monastero, delle celle, dei corridoi, del parlatorio. Immagini che prolungano la scena e dove i personaggi talora continuano in video quello che è iniziato dal vivo, o viceversa. Non proprio mistico, anzi ironico il finale. Nessuna apparizione mariana: il giornaletto trovato nella cella di una suora viene gettato nel caminetto ma una fiamma lambisce una sedia e dà fuoco alla stanza e poi all’intero convento. Ed è su uno sfondo di fiamme che vediamo la figura del figlioletto.

Come in uno zapping televisivo ci troviamo in un’ambientazione totalmente diversa per Gianni Schicchi: una gradinata per parte del pubblico e pochi pezzi d’arredamento moderno. Buoso Donati si versa un bicchiere di vino, rilegge compiaciuto il testamento che firma e nasconde nella busta del disco di Suor Angelica che sta ascoltando per poi essere colpito da un attacco di cuore e rimanerci secco. Invece del letto qui c’è la lounge chair di Charles Eames ad accogliere prima il cadavere di Buoso, poi il corpaccione di Gianni Schicchi per la burla che lo condanna all’inferno dantesco. Con un telecomando trovato per caso dall’alto scende una vasca – a Bruxelles, molto più opportunamente, usciva dal pavimento – piena di schiuma in cui si infilano allegri i personaggi e il crescendo comico è così esaltato a dovere dopo i drammi dei primi due titoli. Il pubblico fa parte dell’azione occupando la gradinata dello sfondo ed è invitato a interagire con «Oh!» di meraviglia, risate e applausi sollecitati da assistenti di scena dello studio televisivo in cui si immagina sia girato il reality show. Anche i testimoni del notaio Ser Amantio sono presi dal “pubblico”. Questo è lo spettacolo che Michele guardava sullo schermo della sua televisione nel Tabarro. Il cerchio così si chiude. Tobias Kratzer riesce a creare una messa in scena contemporanea mantenendo perfettamente leggibile la narrazione e il tono di ogni singola vicenda.

Note positive anche sul piano musicale dove la lettura di Pinchas Steinberg asseconda i pregi di queste tre partiture, che si scoprono ogni volta sorprendentemente moderne. La musica del Tabarro mette in primo piano «la signora Senna», con lo sciabordio dell’acqua sulle pareti della chiatta, qui un lento motivo ondeggiante che avrebbe potuto scrivere Debussy (viene alla mente Nuages, il primo movimento dei suoi Trois nocturnes) che disegna il pigro scorrere dell’acqua del fiume nella calura estiva. Poi i suoni si fanno più materici – i clacson delle imbarcazioni, le voci e i canti dalle rive, i miagolii dei gatti… – e l’orchestra assieme alle voci ci dà il Puccini più amato, quello dell’incontenibile slancio lirico del duetto di Giorgetta e Michele che si lasciano andare alla struggente nostalgia della loro Belleville prima del brusco tragico finale. Cambio d’atmosfera con Suor Angelica dove Steinberg adatta i suoni orchestrali all’ambiente claustrale in cui però scorrono brividi di una vita non vissuta nello struggimento di Suor Genovieffa per un agnellino o di Suor Dolcina per «un panierin di noci. Buone con sale pane!» (nella regia di Kratzer la suora affonda con voluttà le dita in un barattolo di Nutella…). Anche nel momenti più turgidi di possenti sonorità, il direttore israeliano riesce a mantenere la trasparenza dell’orchestra e la varietà dei sette episodi che scandiscono la via crucis di Suor Angelica: La preghiera, Le punizioni, La ricreazione, Il ritorno dalla cerca, La zia Principessa, La grazia, Il miracolo. Ancora cambio di tono per l’episodio di Gianni Schicchi, dove lo humour nero del libretto trova nella musica di Puccini un insolito corrispondente, anche se sono gli squarci lirici di «Firenze è come un albero fiorito» e di «O mio babbino caro» a fissare indelebilmente nella memoria questo gustosa farsa. Momenti adeguatamente sottolineati dalla sapiente direzione di Steinberg. 

Buona parte dei numerosi interpreti è presente in due dei tre titoli come Roberto Frontali che dopo il brusco Michele nel Tabarro, riprende il Gianni Schicchi interpretato nel film di Michieletto, un personaggio costruito per sottrazione, scevro di stucchevoli effetti, ma ancora più efficace. Elena Stikhina, prima Giorgetta, poi Suor Angelica, dimostra grande espressività con il suo strumento vocale messo duramente alla prova nella seconda parte con risultati giustamente premiati dall’entusiasmo del pubblico. Samuele Simoncini è un Luigi introverso dai generosi mezzi vocali piegati a una efficace definizione del personaggio. Annunziata Vespri è una Frugola forse un po’ troppo querula, meglio come Suora zelatrice. Il bel timbro e la presenza scenica di Roberto Covatta si evidenziano prima come Tinca e poi come Gherardo. Gianfranco Montresor (Talpa in Tabarro) diventa lo stralunato Simone anche lui tentato dalla Jacuzzi in Gianni Schicchi. Lucrezia Drei evidenzia il suo chiaro luminoso mezzo vocale in ben tre parti: Una giovane amante, Suor Genovieffa, ma soprattutto come Lauretta riscuote un meritato successo dopo «O mio babbino caro». Matteo Mezzaro dopo essere stato Un giovane amante, interpreta un trascinante Rinuccio col pandoro in mano e l’acuto ben proiettato. E infine tre signore della scena lirica hanno dato il loro prezioso contributo come La gelida zia principessa di Anna Maria Chiuri in outfit di lusso sbattuto in faccia alle povere suore, La badessa riconoscibile fin dalle prime note di Monica Bacelli e la Zita dell’inossidabile Elena Zilio.

Tra gli artisti del Regio Ensemble che ormai hanno raggiunto grande sicurezza vocale e vivace presenza scenica ci sono Irina Bogdanova (in tre parti: Voce di sopranino, Prima sorella cercatrice e Nella; Ksenia Chubunova (Suor Dolcina); Tyler Zimmerman (Betto). Si fanno ancora notare per il bel timbro e l’espressività Enrico Maria Piazza (Venditore di canzonette) e Andres Cascante (Marco).

Solido entusiasmo alla recita degli under 30 con un pubblico attento, partecipe, educatissimo e senza tosse… Innumerevoli le chiamate da parte di giovani che sembrano rivelarsi più preparati di certi abbonati. Chissà, il pubblico di domani forse sarà migliore di quello di oggi.

Bohème: Breathe – Umphefumlo

Mark Dornford-May, Bohème: Breathe – Umphefumlo

Internationale Filmfestspiele Berlin 2015

Mimì in Sudafrica

Recentemente le opere di tema orientale di Puccini sono state oggetto di discussioni sull’appropriazione di una cultura da parte di un’altra: è stato il caso della Turandot con la cultura cinese o di Madame Butterfly con quella giapponese. Il tema del yellowface si è aggiunto così a quello del blackface. Ma nel 2015 una ben diversa operazione capovolgeva i termini: Mark Dornford-May, un inglese trapiantato in Sudafrica, con un film su La bohème – sempre Puccini! – girato in un sobborgo di Cape Town e cantato in lingua Xhosa, dimostra come si possa arrivare alla geniale appropriazione politico-culturale della tradizione operistica europea da parte di una cultura a noi estranea. Di qui a dire che così, con la reciproca appropriazione, il problema è risolto il passo è lungo e non ne dimostra la relativizzazione, essendo ancora enormi i nostri debiti coloniali con il resto del mondo. Ma l’operazione di Dornford-May, che dieci anni prima aveva già girato una U-Carmen nella baraccopoli di Khayelitsha, non solo dimostra una volta di più l’universalità dei sentimenti, la vitalità e contemporaneità dell’opera lirica, ma indica anche un modo diverso di fruirla, con buona pace dei melomani tradizionalisti.

Nel 2000 Dornford-May e il direttore d’orchestra Charles Hazlewood si sono recati in Sudafrica, dove hanno tenuto audizioni in tutto il paese, selezionando più di 2.000 persone per formare una compagnia di teatro lirico per lo Spier Festival, che sarebbe diventata l’Isango Ensemble. Da allora Oltre alla U-Carmen sono stati messi in scena The Magic Flute – Impempe Yomlingo con la partitura mozartiana trasposta per orchestra di marimba e A Christmas Carol. Nell’estate del 2012, La Boheme – Abanxaxhi, una partnership unica con il Fondo Globale per la lotta all’AIDS, alla tubercolosi e alla malaria, si è esibita per cinque settimane a Londra. Il regista si è scontrato con la stampa e parte dell’establishment artistico per un suo articolo su un giornale sudafricano in cui deplorava il “volto bianco” del teatro sudafricano e la mancanza di critici in grado di parlare qualsiasi lingua africana. 

Con il suo film su La bohème Dornford-May ha voluto porre l’accento sul fatto che nel 2014 nel mondo due milioni di persone sono morte di TBC, essendo Khayelitsha uno dei posti più colpiti. La vicenda della Mimì di Murger malata di tisi e degli amici bohémien trova riscontro nella brutale realtà degli studenti africani che lottano per il cibo, per una casa e per le medicine.

Strumenti a percussione e un coro sostituiscono la grande orchestra mentre le voci sono quelle fresche ma ben impostate di cantanti locali: citiamo almeno Mhlekakai Mosiea (Lungelo/Rodolfo), Bususuwe Nhejane (Mimì) e Pauline Malefane (Zolka/Musetta), l’interprete principale di U-Carmen. I direttori musicali sono Mantisi Dyantis, che ne ha curato l’arrangiamento e la stessa Malefane che assieme al regista ha scritto la sceneggiatura.

La drammaturgia è brillantemente adattata nel passaggio dalla Parigi ottocentesca all’oggi di uno slum sudafricano. I giovani hanno grandi sogni per il futuro, segnalati da inserti scherzosi in cui reggono cartelli quali “Premio Nobel” per Mimi che studia di ventare una botanica e intanto dipinge fiori, “Playboy, dio del sesso, rivoluzionario” per l’artista Mandisi/Marcello. Il pagamento dell’affitto richiesto dal padrone di casa è qui risolto con un principio di incendio che fa fuggire tutti lasciando l’immobile senza luce così da far incontrare i due giovani Mimi e Lungelo/Rodolfo a lume di candela. Alcindoro qui è un boss della malavita locale e Musetta è Zoleka, una cantante jazz che si accompagna alla tastiera per intonare «As I go by…» (Quando m’en vo…).

Mimì muore sotto un cavalcavia mentre il rumore del treno che passa lì vicino copre i rintocchi di una lontana campana. Cambia l’ambientazione, cambiano i tempi, ma l’emozione e lo strazio sono gli stessi. E si scopre che l’immortale “Che gelida manina” è altrettanto commovente in lingua Xhosa.

P.S. Un sincero ringraziamento a Giuliano Danieli che al convegno “Puccini in scena, ieri e oggi” organizzato a Lucca dalla Associazione Nazionale Critici Musicali ha fatto conoscere questo film e mi ha poi dato la possibilità di visionarlo.

Pagliacci / Cavalleria rusticana

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Amsterdam, Het Muziektheater, 28 settembre 2019

★★★★★

(registrazione video)

Carsen fa Pirandello

Ad Amsterdam la stagione lirica è inaugurata da una produzione di Robert Carsen che si rivela una delle sue migliori. Si tratta di Pagliacci e Cavalleria rusticana, in quest’ordine, invertito rispetto a quello tradizionalmente adottato perché Carsen parte dal prologo di Pagliacci con la tirata di Tonio sull’autore che «al vero ispiravasi» e rivolto al pubblico «piuttosto che le nostre povere | gabbane d’istrioni, le nostr’anime | considerate, poiché noi siam uomini | di carne ed ossa», per puntare su una rappresentazione meta-teatrale che accomuna i due lavori e li collega.

 In Pagliacci la folla è il coro stesso che dalle prime file della platea diventa personaggio prima rispondendo con infantile entusiasmo agli «squilli di tromba stonata» dei teatranti di fiera e poi salendo in palcoscenico per seguire da vicino lo spettacolo delle maschere concluso dal doppio assassinio. Uno spettacolo senza commedia dell’arte, ma con elementi clowneschi: il naso rosso di Tonio, le scarpe smisurate, il trucco dei visi. I costumi sono di Annemarie Woods e le luci come sempre dello stesso Carsen e di Peter van Praet mentre la scenografia di Radu Boruzescu mostra due sipari rossi – i diversi livelli della rappresentazione – e un palcoscenico vuoto con sedie raffazzonate, stender appendiabiti e tavolini per il trucco. Il set della farsa all’interno dell’opera è una replica degli stessi camerini. Tonio è un tecnico di palcoscenico e fari, tralicci, quinte sono a vista a sottolineare la commistione tra vita reale e finzione scenica.

Dopo l’intervallo, Cavalleria inizia col “fermo immagine” del tragico finale di Pagliacci, i due cadaveri a terra e la folla sbigottita. Gli spettatori-performer indossano abiti identici a quelli di tutti i giorni e il loro direttore, Ching-Lien Wu, appare come sé stessa mentre dirige una prova. Santuzza non è stata disonorata socialmente, ma licenziato dal cast e Mamma Lucia è una direttrice di scena. Qui non c’è la Sicilia, non c’è colore locale. Solo il teatro, dove la finzione è talora più convincente della realtà e la distinzione tra l’uno e l’altra è una linea piuttosto sfocata. Più che il Verismo, Carsen ha in mente Luigi Pirandello che qualche decennio dopo avrebbe esplorato il sofferto rapporto tra attore e personaggio. La lettura di Carsen potrebbe sembrare audace, ma è la sua attenta regia con tanti particolari di grande teatralità e l’attenzione alla recitazione dei cantanti a rendere del tutto convincente l’azzardo.

Questo grazie anche alla direzione di Lorenzo Viotti, che ha sostituito il previsto Sir Mark Elder. La sua concertazione è ricca di sfumature e colori, più brillanti e con tempi spediti in Pagliacci, più sobri e con tempi dilatati in Cavalleria. Magnifica è la resa dell’Intermezzo e in ogni momento l’attenzione ai cantanti è suprema. In questo è aiutato da un coro superlativo e da solisti di grande interesse. Nella prima parte il Canio di Brandon Jovanovich conferma le doti attoriali del tenore americano accanto a una vocalità atipica che qui però risulta molto efficace per la grande proiezione, il fraseggio spezzato, gli acuti potenti. Il suo lavoro di immedesimazione rende il personaggio totalmente credibile e di grande impatto. Nedda ideale per il timbro lirico è quella del soprano Aylin Pérez. Il suo canto è senza sforzo, con mezzevoci e pianissimi suadenti, trilli puliti e un buon controllo anche nel registro medio e basso, ottenuto mantenendo lo stesso timbro uniforme. Roman Burdenko è un giustamente spregevole Tonio dalla voce imponente che si piega alle esigenze del ruolo. Marco Ciaponi (Beppe) è un magnifico Arlecchino, lirico e di bel fraseggio. Silvio di lusso dal timbro pieno e morbido quello di Mattia Olivieri, di avvenente fisicità nel sensuale duetto con Nedda.

Burdenko ritorna nella seconda parte come Alfio, e forse se ne poteva fare a meno. Santuzza di eccezione è quella di Anita Rachvelishvili, tra le migliori in assoluto con una resa vocale e teatrale sconvolgente. Brian Jagde è un giusto Turiddu musicale, dalla bella linea di canto e mai eccessivo nell’interpretazione. Credibile e fascinosa la Lola di Rihab Chaieb, mentre Elena Zilio è la Mamma Lucia di sempre.

Cavalleria rusticana / Pagliacci



Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

foto © Brescia e Amisano – Teatro alla Scala

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Milano, Teatro alla Scala, 21 aprile 2024

★★★★☆

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È sempre bello anche tredici anni dopo lo spettacolo di Martone

Negli ultimi tempi non è stato sempre scontato vedere rappresentati assieme nella stessa serata Cav & Pag, come amano chiamare nei paesi anglosassoni l’accoppiata di Cavalleria rusticana e Pagliacci. Molte volte sono stati eseguiti singolarmente, soprattutto per ragioni di budget, altre volte in abbinate secondo criteri fantasiosi se non addirittura bizzarri. Così c’è stato il legame del tema femminista (Cavalleria con La voix humaine di Poulenc), l’ambientazione geografica (Cavalleria con La giara, il balletto su musiche di Casella) oppure per puro contrasto stilistico o cronologico (Pagliacci con L’incantesimo di Montemezzi o con Sull’essere angeli di Filidei). Questo per limitarsi ad alcuni degli esempi più recenti. Il Teatro alla Scala segue invece la tradizione, proponendo assieme i due lavori d’esordio di Mascagni e di Leoncavallo, comunemente considerati i più rappresentativi del movimento verista in musica.

Anche se solo due anni separano le due composizioni, quella di Leoncavallo (1892) ha dei caratteri di modernità più spiccati rispetto all’opera di Mascagni (1892) e il proporle assieme permette una volta di più percepire le differenze di stile e di propositi dei due lavori. Con la sua ambientazione siciliana l’opera di Mascagni veniva a interrompere una serie di composizioni intrise di cultura nordica quali l’Amleto di Faccio, Le Villi di Puccini, I Lituani di Ponchielli. Cavalleria sarà poi vista come una reazione al wagnerismo nell’Italia fascista di alcuni decenni dopo. Dalla novella del Verga del 1880 al dramma scritto dallo stesso per la Duse nel 1884 all’opera, la passionalità si accende sempre più in personaggi dai sentimenti elementari e violenti tradotti dal compositore in un linguaggio efficace che infatuerà, tra gli altri, Gustav Mahler, che la dirigerà a Budapest a soli sei mesi dalla prima al Costanzi di Roma e varie altre volte ad Amburgo e a Vienna. In Pagliacci invece, elemento di straordinaria modernità è lo scambio tra vita reale e teatro, l’ambiguità tra uomo e attore, tra finzione scenica e autenticità dei sentimenti, tematiche che confluiranno poi nel teatro di Pirandello.

Tanto è rutilante di colori la Sicilia di Dolce & Gabbana attualmente in mostra a Palazzo Reale, quanto scura e scarna è la messa in scena di Cavalleria di Mario Martone, lo spettacolo del 2011 ripreso da Federica Stefani che non è invecchiato per nulla e se allora venne contestato ora viene considerato uno dei migliori allestimenti del dittico verista. Sul palcoscenico vuoto ci sono soltanto le sedie del coro, una presenza di massa del popolo che è quasi un’eco del coro della tragedia greca. Con i visi che si voltano dall’altra parte quando c’è Santuzza, si capisce come Janáček amasse quest’opera: la sua Jenůfa trasporta in Moravia una vicenda simile e come nel lavoro di Mascagni anche lì il paese è un protagonista antagonista della figura principale. La dimensione tragica della storia è messa a nudo senza orpelli e l’ipocrisia della società è chiaramente indicata quando vediamo compare Alfio uscire dal bordello prima di andare dal barbiere. La scena diventa vuota quando Santuzza è abbandonata da tutti, anche Alfio fa segno di disprezzare la sua delazione e Mamma Lucia è troppo chiusa nel dolore per il figlio morto da darle retta.

Proprio la nudità della scena esalta la performance di Elīna Garanča, Santuzza lettone che cova sotto un comportamento controllatissimo un temperamento appassionato in cui la voce dal timbro di velluto svetta con facilità in acuti lancinanti. Una performance la sua che è stata oggetto di ovazioni da parte del pubblico. Brian Jagde è un Turiddu di grande squillo, ma si vorrebbe una maggiore espressività. Di Roman Burdenko, Alfio, non si può non confermare quanto già rilevato altrove: nell’opera italiana sconta una dizione perfettibile e una certa rozzezza espressiva che dà più fastidio in Mascagni di quanto avvenga in Leoncavallo. Francesca di Sauro è una fresca e seducente Lola mentre Elena Zilio si conferma la Mamma Lucia par excellence: la voce è quella che è, il parlato si sostituisce talora al canto, ma scenicamente è perfetta, minuta e con un gioco di mani e di sguardi che senza eccessi fanno capire tutto il dramma.

La direzione di Giampaolo Bisanti non convince del tutto, trascinante e teatrale non si conforma alla sobrietà della scena di Martone e le sottigliezze strumentali di Mascagni – sì, ci sono – si perdono: senza fare riferimento a Karajan, basta ascoltare il giovane Lorenzo Viotti nella produzione di Amsterdam come riesce ad arrivare a risultati di grande bellezza qui non toccati nonostante un’orchestra ancora più prestigiosa. Anche l’Intermezzo scorre via senza lasciare traccia. Le cose vanno leggermente meglio in Pagliacci, dove le forti tinte sono più accettabili.

Lo scenografo Sergio Tramonti, la costumista Ursula Patzak e il light designer Pasquale Mari hanno avuto più da fare nel lavoro di Leoncavallo: il viadotto che domina la scena, la lurida roulotte e le automobili richiamano un teatro più realista dove Martone fa traboccare la realtà oltre il sipario, quasi annullando la distanza tra la scena e gli spettatori: il palcoscenico viene stirato fino in platea da dove arrivano i Contadini, Silvio trepida in sala e il pubblico della pantomima è un’estensione sulla scena di quello della platea, con gli stessi abiti eleganti. Nella regia di Martone due soli gli errori, uno all’inizio e uno alla fine. All’inizio il sipario si apre per farci vedere la scena e poi si richiude (!) per il prologo di Tonio e alla fine la cinica battuta «La commedia è finita!» è tolta a Tonio, l’anima nera della vicenda, e data a Canio. D’accordo che è di tradizione, ma si tratta solo di compiacere il tenore, non ha senso drammaturgico, è Tonio che ha fin da subito ha dichiarato «L’autore ha cercato invece di pingervi uno squarcio di vita. Egli ha per massima sol che l’artista è un uom e per gli uomini scrivere ei deve. Ed al vero ispirasi».

A parte Roman Burdenko, di cui s’è detto, nella seconda parte dello spettacolo tutti nuovi sono gli interpreti. Fabio Sartori è uno specialista del ruolo di Canio a cui offre uno squillo e una proiezione sonora di tutto rispetto. Il personaggio è intriso di un rancore che scaccia la lacrima da «Vesti la giubba» e riempie di violenza il suo «Ah! … sei tu? Ben venga!» prima di ammazzare Silvio. Nedda nostalgica per una vita che avrebbe voluto diversa è quella di Irina Lungu, che sfoga la sua linea lirica nell’aria in cui invidia gli uccelli liberi che «Stridono lassù». Mattia Olivieri è il Silvio ideale per giovanile baldanza e avvenenza fisica, che non guasta e giustifica ampiamente l’infatuazione di Nedda. Che poi il suo mezzo vocale disponga di un colore e di una ricchezza di sfumature invidiabili non fa che confermare l’impressione. Con Jinxu Xiahou, simpatico Peppe, i Contadini Gabriele Valsecchi e Luigi Albani, artisti del coro, si completa il cast dei solisti. Coro come sempre in gran spolvero quello diretto da Alberto Malazzi. Grande successo di pubblico accorso a riempire ogni singolo posto del teatro.

Saint François d’Assise

foto © Carole Parodi

Olivier Messiaen, Saint François d’Assise

Ginevra, Grand Théâtre, 16 aprile

★★★★☆

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San Francesco predica nella città di Calvino

Due erano le preoccupazioni maggiori di Olivier Messiaen: la fede cattolica e la passione per l’ornitologia. Con Saint François d’Assise, la sua unica opera, il compositore avignonese le coniuga entrambe. Avrebbe voluto nientemeno Gesù Cristo come protagonista, ma si dovette accontentare del santo a lui più vicino, quel Giovanni di Pietro Bernardone che in un certo momento della sua vita aveva abbandonato la famiglia, le ricchezze e le bravate della gioventù per la povertà assoluta diventando il Santo d’Assisi. 

Su libretto proprio – come faceva Wagner… – nel suo lavoro Messiaen pone al centro la predica agli uccelli: è il quadro sesto, il più lungo di otto quadri suddivisi in tre atti. L’azione drammatica e i tempi teatrali non sono al primo posto nella sua concezione: ben poco succede sulla scena e i tempi sono dilatati a dismisura, arrivando l’esecuzione musicale a superare abbondantemente le quattro ore che con i due intervalli vogliono dire cinque ore e mezza di spettacolo.

Quarant’anni dopo la prima parigina, questa cantata religiosa-meditazione spirituale-inno alla bellezza della creazione-celebrazione della musica – molti sono i modi di definire questo anomalo lavoro – arriva sulle sponde del Lago Lemano dove trova un teatro, il Grand Théâtre di Ginevra, col coraggio di metterla in scena in una produzione che ha del grandioso per i mezzi messi in campo. Già solo l’orchestra è sterminata: una ventina di legni, quasi altrettanti ottoni, una settantina d’archi, cinque percussionisti impegnati in una miriade di strumenti oltre a xilofono, xylorimba, marimba, vibrafono, glockenspiel e ben tre suonatori di Ondes Martenot, strumento quest’ultimo utilizzato da Messiaen anche nella sua sinfonia Turangalîla. A capo della gloriosa Orchestra della Suisse Romande è Jonathan Nott, esperto di musica contemporanea che gestisce impavidamente i suoni di una partitura che non fa concessioni a nessuno strumentista, chiedendo da ognuno il massimo. La partitura, nonostante le ripetitività, ad esempio del motto di quattro note che ricorre per tutta l’opera, ha momenti sorprendenti: i richiami degli uccelli, ad esempio, più che dai prevedibili fiati sono realizzati dalle percussioni e la celestiale e rarefatta pagina affidata alle Ondes Martenot – la lingua di Dio… – si scontra con gli aggressivi suoni degli ottoni pieni di minaccia, quasi il risveglio di Fafner. Nulla è scontato in questa colossale partitura in otto poderosi volumi che Nott realizza nonostante gli inconvenienti della scelta di porre l’orchestra dietro i cantanti, che stanno per lo più al proscenio, con il coro confinato al fondo del palcoscenico con i microfoni per portare le voci in sala e risolvere così il problema della distanza. Il suono dell’orchestra è così in qual modo ovattato e viene privilegiata la chiarezza delle linee strumentali piuttosto che il suono dei pieni orchestrali.

Non minori sono anche le esigenze dal punto di vista vocale, con nove parti soliste e un centinaio di coristi. Il canto del protagonista evoca il cantus firmus gregoriano con l’orchestra che commenta dopo ogni verso. Robin Adams si accolla l’impegnativo compito di essere sempre presente in scena in sette quadri su otto. Il suo canto declamato dalle mille screziature ci restituisce un Francesco intensamente umano e la sua solida presenza scenica si avvale di una dizione che, a parte la pronuncia della r francese, rende il testo ben comprensibile nella sua chiara articolazione. Più varia è la linea di canto dell’Angelo, affidata al soprano Claire de Sévigné, unica voce femminile, dalla pura radiosità vocale espressa su un registro acuto particolarmente etereo. Più terreno il carattere del Lebbroso e il tenore Aleš Briscein si rivela efficace con i suoi salti di registro nella trasformazione del personaggio dalla autocommiserazione per il suo tragico stato alla guarigione alla redenzione. Di gran livello sono i ruoli secondari dove si sono fatti ammirare per la solennità della figura William Meinert (fra Bernardo), Kartai Karagedik (un autorevole fra Leone), Omar Mancini (un ironicamente connotato fra Elia), Joé Bertili (fra Silvestro), Anas Séguin (padre Ruffino) e Jason Bridges (fra Masseo). La voce di Dio è affidata al coro, qui quello del teatro rinforzato dal Choeur Motet de Genève.

Per la messa in scena di questo unicum di Messiaen è stato chiamato l’artista visivo Adel Abdessemed il quale, alla sua prima esperienza teatrale, per ogni quadro più che una scenografia ha ideato un’installazione con oggetti non sempre di chiara comprensibilità. Vada per l’enorme piccione dal petto insanguinato issato su un mucchio di forme rotondeggianti che potrebbero essere dei teschi – con i piccioni l’artista franco-algerino è diventato famoso per una sua scultura che capovolge l’immagine popolare del piccione viaggiatore e lo trasforma in un uccello distruttivo: in quest’opera monumentale (2 metri di alluminio) il piccione viaggiatore diventa la rappresentazione di una bomba a orologeria, la paura degli altri che minaccia la nostra società – chiaro è il mappamondo che si sgonfia da un quadro all’altro, evidente simbolo della nostra Terra minacciata da guerre e inquinamento. Meno evidenti sono il dromedario che viene issato lentamente nell’ottavo quadro o i robot che pigiano l’uva nel secondo.

Abdessemed porta in scena elementi della sua cultura come il richiamo a un hammam nel quadro del lebbroso con i tappeti berberi appesi o i due grandi dischi istoriati con le immagini cabalistiche dei triangoli e dei quadrati intrecciati su cui vengono proiettati dei video, ma non mancano richiami all’iconografia cristiana, come il ritratto del santo di Cimabue o l’arcangelo Gabriele del Beato Angelico da cui copia le ali multicolori per l’Angelo. Di Abdessemed sono anche i costumi dei francescani fatti di vecchie strisce di stoffa, tuniche approssimative con fagotti (a guisa di migranti) e cuciti gli scarti della nostra civiltà digitale: componenti di dispositivi elettronici di vario tipo, CD, tastiere di telefonini, circuiti stampati. Quasi sempre congrui con la vicenda, talora gli oggetti scenici ideati dall’artista rompono l’equilibrio visivo, come la riproduzione della chiesa della Porziuncola che invade il palcoscenico, fino a quel momento tenuto pressoché vuoto, coprendo quasi totalmente la vista dell’orchestra che invece era giustamente in piena vista nel quadro della predica agli uccelli, o dell’Angelo musicante quando il santo sale verso il cielo sulle note ipnotiche delle Ondes Martenot.

Per curioso contrappasso, la città di Calvino ospita dunque il messaggio fortemente intriso di cattolicità del compositore francese. Con un libretto dove la parola Dieu viene ripetuta 49 volte e Seigneur 39 volte, per un non credente come me questa dichiarazione di fede qual è l’opera di Messiaen è stata un’esperienza puramente estetica e, perché negarlo, faticosa. Ahimè, neanche questa volta ho provato la «gioia perfetta della paziente sofferenza»…

Il disciplinato pubblico ginevrino ha accusato qualche defezione nel corso della serata, ma alla fine ne è rimasto abbastanza per salutare calorosamente gli artefici della produzione, soprattutto Robin Adams e Claire de Sévigné.