Novecento

I viaggi del signor Brouček

 

Leoš Janáček, The Excursions of Mr. Brouček

West Horsley, Grange Park Opera, 7 luglio 2022

★★★★☆

(video streaming)

Dall’Inghilterra arriva lo Janáček meno conosciuto

Výlety páně Broučkovy (I viaggi del signor Brouček) è il titolo del dittico di Leoš Janáček basato su due romanzi satirici di Svatopluk Čech: Pravý výlet pana Broučka do Měsíce (Il vero viaggio del signor Brouček sulla Luna, 1888) e Nový epochální výlet pana Broučka, tentokráte do XV. století (Il nuovo epocale viaggio del signor Brouček questa volta nel XV secolo, 1889). 

Nei primi anni del secolo, Janáček aveva cercato di scrivere un lavoro basato sui romanzi di Čech, ma questi gli aveva negato i diritti sulle sue storie e il compositore aveva accantonato il progetto fino alla morte dello scrittore nel 1908. La famiglia di Čech esitava a rilasciare i diritti, ma dopo aver sentito lo stesso Janáček, acconsentì a concedergli l’uso esclusivo dei romanzi. Poco dopo aver ottenuto il permesso di iniziare la composizione, anche un altro musicista, Karel Moor, sosteneva di aver ricevuto l’autorizzazione esclusiva dal fratello minore di Čech, Vladimír. La questione fu rapidamente presa in esame e si scoprì che Moor non aveva ricevuto un’autorizzazione valida. Ciò non gli impedì di comporre un’opera che andò in scena nel 1910, circa dieci anni prima di quella di Janáček, ma senza il successo e la longevità di quest’ultima. La composizione dell’opera fu un processo complesso e lungo su un periodo di quasi dieci anni: il viaggio sulla Luna è del biennio 1907/8, quello nel XV secolo è del 1917 ma il lavoro ebbe la prima rappresentazione solo nel 1920 e non a Brno come avveniva di solito per le opere di Janáček, bensì a Praga. Ma il 23 aprile al Teatro Nazionale I viaggi del signor Brouček ebbero solo apprezzamenti di stima. 

Brouček (in ceco insetto) è un proprietario di casa di Praga che vive una serie di eventi fantastici mentre viene trasportato, grazie agli effetti inebrianti di un cospicuo consumo di birra, prima sulla Luna e poi nella Praga del XV secolo, durante la rivolta hussita contro l’occupazione tedesca. In entrambe le escursioni, Brouček incontra personaggi che sono versioni trasformate dei suoi conoscenti abituali.

Parte I: Il viaggio del signor Brouček sulla Luna. Scena 1. Il signor Matěj Brouček è un padrone di casa spesso ubriaco e piuttosto trasandato nella Praga di fine Ottocento. In una notte di luna inciampa in via Vikárka dopo una sbronza alla taverna. Nel suo stato di alterazione, incontra Málinka. La donna è sconvolta e drammaticamente suicida dopo aver scoperto che il suo amante, Mazal (che si dà il caso sia uno degli inquilini di Brouček), la tradisce. Nel tentativo sconsiderato di calmare Málinka, Brouček accetta di sposarla. Ben presto si rende conto dell’errore e ritira l’offerta, lasciando che Málinka torni dal suo amante bohémien. Brouček decide di averne abbastanza di questo stress e sogna una vita più rilassata sulla Luna. Scena 2. Brouček è presto deluso da ciò che trova nel suo paradiso lunare. Atterra nel mezzo di una colonia di artisti e intellettuali d’avanguardia che l’incolto Brouček chiaramente disprezza. Si ritrova nella casa di un artista, Blankytny (un personaggio parallelo a Mazal). Blankytny canta un’accorata ode d’amore platonico alla fanciulla lunare, Etherea. Questo segna l’arrivo di Etherea e delle sue “sorelle”, che iniziano con una canzone che predica i benefici di uno stile di vita sano. Ironia della sorte, Brouček cattura l’attenzione della fanciulla, che si infatua immediatamente dell’esotico straniero. Lo porta via a bordo del mitico Pegaso, lasciando Blankytny nell’incredulità e nella disperazione. Scena 3. Eterea e Brouček atterrano nel Tempio Lunare delle Arti, dove si è riunito un gruppo di abitanti. Alla vista di Brouček sono subito sorpresi e spaventati, ma presto lo considerano l’ultima moda. Gli abitanti del luogo presentano a Brouček le ultime novità dell’arte lunare e gli offrono un pasto a base di fiori da annusare. Brouček non è affatto soddisfatto di questo sfoggio d’arte, né si nutre dei profumi. Viene presto sorpreso a mangiare di nascosto un boccone di salsiccia di maiale; la folla gli si rivolta contro ed egli è costretto a una fuga a bordo di Pegasus. Mentre fugge, gli artisti lunari inneggiano all’arte. Scena 4. Mentre la scena della luna si trasforma di nuovo nel cortile della taverna di Praga, Mazal e Málinka stanno tornando a casa e gli artisti si godono un ultimo drink. Un giovane cameriere ride dell’ubriaco Brouček che viene portato via in una botte. Málinka si è apparentemente ripresa dal suo turbamento, mentre lei e Mazal cantano in duetto il loro amore.
Parte II: Il viaggio del signor Brouček nel XV secolo. Scena 1. Nel Castello di Venceslao IV, il signor Brouček e i suoi compagni di bevute discutono sui particolari dei tunnel medievali che si credeva esistessero sotto la città di Praga. Ancora una volta, un Brouček inebetito barcolla verso casa sua e si ritrova in qualche modo in uno di questi tunnel bui, dove incontra apparizioni del passato. Una di queste figure spettrali è Svatopluk Čech, l’autore dei racconti di Brouček. Čech esprime il suo rammarico per il declino dei valori morali nella nazione ceca. Canta la perdita dei veri eroi e desidera la rinascita della sua nazione. Ironicamente, il lamento di Čech è rivolto allo stesso Brouček e alla natura satirica di quest’opera. Scena 2. Il signor Brouček viene trasportato indietro nel tempo e si ritrova nella Piazza della Città Vecchia nel 1420. È un periodo tumultuoso nella Praga del XV secolo, quando il popolo ceco, guidato da Jan Žižka, è assediato dalle armate tedesche del Sacro Romano Impero. Brouček viene subito affrontato dai ribelli hussiti, che lo accusano di essere una spia tedesca a causa della sua scarsa grammatica ceca carica di espressioni tedesche. Brouček convince in qualche modo i ribelli di essere dalla loro parte e gli viene permesso di unirsi a loro. Scena 3. Brouček viene portato a casa di Domšik, un sacrestano, e di sua figlia Kunka. Brouček si trova ora nel mezzo di un’imminente battaglia decisiva per il futuro della nazione ceca, segnalata dal potente canto di inni di battaglia da parte delle masse riunite. I ribelli chiedono a Brouček di esporsi nella difesa di Praga, cosa a cui è tipicamente contrario. Quando inizia la battaglia, il nostro eroe fugge dalla scena. Scena 4. Nella piazza della Città Vecchia, i praghesi festeggiano la loro sofferta vittoria ma lamentano la morte di Domšik. Brouček viene trovato nascosto e accusato di tradimento. Viene opportunamente condannato alla morte per rogo… in un barile di birra. Scena 5. Ancora nella Praga del 1888, appena fuori dalla locanda Vikárka, il signor Würfl, proprietario della locanda e produttore della famigerata salsiccia di maiale della Luna, sente dei gemiti provenire dalla cantina. Scopre il signor Brouček in una botte di birra, visibilmente sollevato di essere vivo e di essere tornato a casa. Il nostro spudorato eroe si vanta con Würfl di aver liberato da solo la città di Praga.

«Anche se le relative riduzioni librettistiche sono indicate sullo spartito come opera di Viktor Dyk, la prima, e di František Serafinský Procházka, la seconda, sappiamo che al testo del Viaggio sulla luna pose mano un numero di librettisti tale da superare il primato della Manon Lescaut di Puccíni. Oltre ai sette dichiarati — V. Dyk, Fr. Mašek, Z. Janke, Fr. Gellner, Jiři Mahen, Jos. Holý e F.S. Procházka — si possono ancora aggiungere Fedora Bartošová e Artuš Rektoris, che con Janáček stesso scrissero un primo abbozzo, e altri ancora, per arrivare forse a quindici in tutto, tra cui persino Max Brod. I litigi, le bizze artistiche, le incomprensioni, i risentimenti e le avventure che s’incrociano nella stesura di questo libretto potrebbero costituire la materia di un romanzo comico» scrive Franco Pulcini nella sua biografia del compositore moravo.

L’obiettivo del compositore era molto chiaro, ossia mettere alla berlina la meschinità della borghesia del suo paese. «Il mancato successo di quest’opera, rappresentata non di frequente e persino in Cecoslovacchia, potrebbe anche essere collegato al rigore morale del suo assunto drammatico, nel quale gli spettatori – esterofili del gusto artistico, cattivi patrioti o rozzi bevitori di birra – si possono riconoscere con fastidio», scrive ancora Pulcini, «la sua rinuncia alla piacevolezza melodica è talmente radicale, come lo è l’assunto drammatico, da suscitare un’immediata indisponibilità del pubblico. È un’opera per esperti molto affascinati dalla storia cèca. Dubitiamo che venga un giorno il suo tempo tra una fetta considerevole del pubblico, come invece accaduto a molte delle opere scritte da Janáček negli ultimi 10 anni della sua vita». Parte di ciò che rende I viaggi del signor Brouček incomprensibili al pubblico moderno non è solo la sua forma specificamente mitteleuropea di opera-vaudeville, ma anche le allusioni storiche agli hussiti mescolate a buffonerie degne del coevo Buon soldato Švejk di Jaroslav Hašek.

Leoš Janáček è riconosciuto grande compositore al di fuori della sua terra d’origine grazie a due protagonisti del mondo dell’opera di lingua inglese: Charles Mackerras e David Pountney. Il primo, settant’anni fa tornava a Londra dopo aver studiato Janáček e altri compositori cechi proprio mentre il nascente regime comunista abbatteva i contatti culturali con l’Occidente. Mackerras è stato il direttore d’orchestra che, alla fine degli anni Cinquanta, ha registrato la Sinfonietta e i preludi d’opera di Janacek, facendo conoscere la musica soprattutto agli ascoltatori britannici. In seguito ne ha registrato quasi tutta la produzione operistica con la Filarmonica di Vienna, ma non questa, che è la quinta opera di Leoš Janáček. Il secondo è il regista che ha portato il compositore moravo sul palcoscenico in Gran Bretagna, debuttando a Wexford cinquant’anni fa con la Kat’a Kabanová per poi costruire un repertorio di produzioni che riflette una profonda simpatia per ciò che Janáček cercava di fare con le parole e con la musica. Pountney condivide con Janáček la convinzione che l’opera debba essere comprensibile: sostenitore dell’opera in inglese, con una presunta avversione per i sopratitoli che distraggono dall’azione sul palcoscenico, in questa produzione fornisce la sua versione del testo e aggiorna le battute ai nostri tempi realizzando un libretto di grande godibilità dove i lunatici sono vegani e non mancano quindi riferimenti al lockdown pandemico o a Boris Johnson in versi adattati ai modelli ritmici della musica di Janáček. 

Questa è la seconda volta che Pountney mette in scena I viaggi di Janáček, la prima fu nel 1992 all’English National Opera e vi si alludeva alla Rivoluzione di velluto che tre anni prima condusse alla dissoluzione dello Stato comunista cecoslovacco. Questa è una produzione totalmente differente con un tocco di Monty Python: la scenografia di Leslie Travers ambienta la vicenda tra un bric-à-brac di souvenir della città d’oro in formato gigante sotto un piatto spezzato decorato con la vista di Hradčany, l’antico palazzo reale alto sulla collina. La birra è una presenza costante, Pegaso è una lattina di Pilsner e i pezzi grossi della Praga del XV secolo vengono portati in giro come statue del Ponte Carlo su carrelli costruiti con casse di birra. I lunatici sono artisti fatui e travestiti dai nomi di Postdatedček o Spotček e negli irriverenti costumi in lattice scintillante di Marie-Jean Lecca. La vicenda del 1420 è preceduta da una scena opportunamente contrassegnata “1989”, in cui l’Autore diventa un imprigionato Vaclav Havel – il poeta dissidente e perseguitato politico sotto il regime comunista dell’allora Cecoslovacchia – alla ricerca di parole «ferventi e liriche, non solo satiriche, come tutto questo».

Eccellente il cast, con un Peter Hoare che sembra divertirsi un mondo nel ruolo del titolo mentre i suoi colleghi Mark Le Brocq, Andrew Shore, Adrian Thompson e Clive Bayley si destreggiano alla grande in ruoli multipli. Il soprano Fflur Wyn brilla nei panni di Málinka, della femminista affamata di uomini Etherea e di Kunka nel XV secolo e Anne-Marie Owens sfrutta al meglio il suo ruolo di Kedruta. Alla testa della BBC Concert Orchestra il direttore George Jackson mette in luce le invenzioni musicali di due opere differenti unite in questo singolare lavoro.

La fanciulla del West

foto © Daniele Ratti – Teatro Regio Torino

Giacomo Puccini, La fanciulla del west

Teatro Regio, Torino, 23 marzo 2024

★★★☆☆

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L’omaggio del Regio torinese a Puccini continua col suo western

«Il poema sinfonico di Puccini» lo aveva definito Arturo Toscanini che ne aveva diretto la prima a New York nel 1910. In effetti la musica dispiegata dal compositore ne La fanciulla del West è opulenta e sproporzionata rispetto alla vicenda narrata e si è talmente trasportati dalla musica e ammaliati dalla ricercata orchestrazione che quasi danno fastidio i banali interventi dei minatori che si lamentano del loro stato e piangono la mamma lontana.

Nella sua incessante volontà a «innovare lo stile», dopo Madama Butterfly Puccini aveva cercato nuove strade che lo avevano portato all’insolito progetto della Fanciulla e in seguito de La rondine, una “colonna sonora” la prima, un’“operetta” la seconda. Anche il successivo Trittico, se non sperimentale, era comunque qualcosa di mai affrontato prima. Quella della Fanciulla è una musica sontuosa che nel secondo atto non si fa scrupolo di ricordare la suspence della fucilazione nella Tosca, mentre nel terzo la perorazione di Minnie per il suo Dick sembra voler citare «N’est-ce plus ma main que cette main presse?» dell’“altra” Manon, quella di Massenet. Puccini era un musicista attento verso la cultura musicale della sua epoca, con Strauss e Debussy in prima linea, e nella Fanciulla questa apertura è ben evidente. Ma resta il problema di un lavoro che si stacca totalmente dagli altri per la mancanza dei sensuali sfoghi melodici a cui Puccini aveva abituato il suo pubblico. Per non dire del libretto di Carlo Zangarini rielaborato in seguito da Guelfo Civinini e con ingenui versi spezzati e goffe rime, non all’altezza di quelli di Adami, Forzano e soprattutto Illica & Giacosa.

Tra le meno apprezzate opere di Puccini, ogni volta spero che una nuova esecuzione mi faccia cambiare idea, ma neanche questa volta ciò è avvenuto. Non per la qualità dello spettacolo, ma perché ci vorrebbe qualcosa di veramente speciale per produrre il miracolo, cosa che non è avvenuta con questa produzione del Teatro Regio. La direzione di Francesco Ivan Ciampa esalta la superba orchestrazione e il tono drammatico della vicenda ma ne sottolinea anche il carattere di colonna sonora, con la musica sempre in primo piano e con i cantanti spesso coperti dagli strumenti, vuoi per la non perfetta acustica della sala e della scenografia, vuoi per la qualità delle voci. Il soprano americano Jennifer Rowley è quella che più risente del volume orchestrale con una voce di bel timbro ma di scarsa proiezione e con acuti talora problematici. Il Dick di Roberto Aronica è al contrario molto sonoro, sicuro negli acuti ma con una declamazione stentorea che nuoce al fascino del personaggio. Il baritono Gabriele Viviani connota con efficacia il carattere detestabile di Jack Rance mentre nel folto gruppo di comprimari si evidenziano per le indubbie qualità vocali e sceniche il Nick di Francesco Pittari e l’Ashby di Paolo Battaglia. Filippo Morace lascia i consueti ruoli comici del teatro napoletano per delineare il personaggio più umano di tutta la vicenda, Sonora. Completano il cast voci di esperienza e altre ormai consolidate uscite dalla scuola del Regio Ensemble: Gustavo Castillo (Wallace), Cristiano Olivieri (Trin), Eduardo Martínez (Sid), Alessio Verna (Bello e Harry), Enrico Maria Piazza (Joe), Giuseppe Esposito (Happy), Tyler Zimmerman (Larkens), Adriano Gramigni (José Castro) e Alejandro Escobar (Un postiglione). Ksenia Chubunova è Wowkle, il personaggio della squaw che con il suo linguaggio fatto di verbi all’infinito e Ugh! fa rizzare i capelli anche a chi poco sopporta il politically correct – e la regista ironicamente fa entrare in scena Billy inalberando il cartello «Native Lives Matter»!

Nel manifesto della prima al Metropolitan Opera House la “special performance – first time on any stage” di The Girl of the Golden West – dove Minnie era Emmy Destinn, Dick Enrico Caruso e il direttore d’orchestra Arturo Toscanini – sono indicati uno stage manager, un chorus master e un technical director, ma non la regia, come era la prassi del tempo. Ora invece i responsabili dell’allestimento hanno il loro giusto peso nell’economia dello spettacolo e i nomi di Valentina Carrasco (regista), Carles Berga e Peter van Praet (scene), Silvia Aymonino (costumi) e Peter van Praet (luci) sono elencati a pieno titolo assieme a quelli degli interpreti sul palcoscenico. La regista di Buenos Aires firma sempre i suoi spettacoli con un’idea forte e questa Fanciulla è presentata come la ripresa di un film western. Il saloon dove si rifocillano i minatori dopo il duro lavoro e la baracca di Minnie sono ambienti isolati nella nudità del palcoscenico trasformato in un set cinematografico dove compaiono macchine da presa, un regista e alcuni assistenti. L’idea non è tra le più originali – la stessa regista l’aveva utilizzata nella sua Tosca a Macerata – ma si giustifica per la fascinazione di Puccini per la nuova musa che in quegli anni sfornava innumerevoli pellicole sull’epopea della “corsa all’oro” nel West americano, anche se la Carrasco pensa agli “spaghetti western” e ai film di Sergio Leone piuttosto che alle lontane pellicole mute e in bianco e nero. Anche Robert Carsen nella sua produzione alla Scala aveva utilizzato una lettura cinematografica, ma con risultati più convincenti. Nello spettacolo della Carrasco su uno schermo che scende dall’alto sono proiettate le immagini che vengono riprese in tempo reale, talora per evidenziare i primi piani dei personaggi oppure per farci vivere la vicenda da una prospettiva diversa, come quella di Dick nascosto nella baracca di Minnie all’arrivo dello sceriffo Jack. L’espediente non è però utilizzato al meglio, l’utilizzo delle camere da presa non ha una sua chiara logica e gli interpreti del “film” si confondono con quelli della “realtà” dell’opera, come quando alla colletta per Larkens partecipa anche il regista o quando alla ricerca del bandito non partono solo i minatori armati di fucili ma anche i macchinisti con i loro martelli e in maniche di camicia sotto la neve… Nel secondo atto la trovata registica è meglio realizzata e risulta più efficace, con il suo gioco di interni-esterni e la nevicata con i fiocchi bianchi sparsi dall’alto e il grande ventilatore. Meglio ancora l’atto terzo quando ci mostra la coppia incamminarsi su una strada verso un futuro più sereno con la citazione del celeberrimo finale di Modern Times di Charlie Chaplin.

Sugli applausi finali scorrono i titoli di coda del film che abbiamo visto ripreso in diretta. E sono applausi calorosi per tutti.

Maria Egiziaca

foto © Roberto Moro

Ottorino Respighi, Maria Egiziaca

Venezia, Teatro Malibran, 8 marzo 2024

 ★★☆☆☆

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No, non è proprio la Thaïs

Dopo 92 anni ritorna a Venezia Maria Egiziaca, l’atto unico di Ottorino Respighi che aveva visto qui la prima italiana cinque mesi dopo essere stato eseguito in versione di concerto alla Carnegie Hall di New York il 16 marzo 1932 diretto dallo stesso autore. Sarà poi riproposto nella città lagunare nuovamente nel 1956 in un trittico assieme al Combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi e a Mavra di Stravinskij.

Con due sole incisioni discografiche – Bongiovanni (registrato dal vivo ad Assisi nel 1980 ma pubblicato nel 1999) e Hungaroton (1989) – non si può dire che Maria Egiziaca sia un’opera popolare, ma la sua ripresa segnala un certo interesse per la musica e i musicisti di un periodo storico in cui i compositori vollero o dovettero scendere a patti col regime fascista. Nel primo caso si può parlare di un volontario rito del consenso, nel secondo di un’inevitabile scelta per poter vedere eseguiti i propri lavori. 

È indubbio il fatto che il Ventennio sia stato un periodo in cui fu manifestato un grande interesse per la musica da parte delle istituzioni politiche, sia in termini di sostegno alle manifestazioni culturali, sia come appoggio alla musica allora affermata (il melodramma verista) o a quella d’avanguardia (il Futurismo). Si trattava ovviamente di un astuto calcolo politico: elargizioni e appoggi a musicisti ed istituzioni musicali furono presto trasformate in garanzie di controllo da parte del regime.

Se Mascagni, Giordano, Cilea, Zandonai, appartenenti alla “Giovine Scuola” del melodramma, furono musicisti in diversa misura affascinati dalla figura di Mussolini, Ottorino Respighi (1879-1936) si era ritagliato uno spazio personale. Dopo aver iniziato una carriera come pianista e direttore d’orchestra si rivolse presto alla composizione di musica orchestrale e con il poema sinfonico Le fontane di Roma (1917), ad oggi il suo brano più conosciuto, rivelò quel raffinato colore armonico e orchestrale in cui si ravvisano le influenze di una cultura straniera (soprattutto francese, tedesca e russa) se non apertamente osteggiata certamente non favorita dal clima autarchico dell’epoca. Respighi fu comunque  il compositore preferito dal Duce e da lui nominato Accademico d’Italia, il riconoscimento più prestigioso a cui si poteva aspirare sotto il Fascismo.

Respighi è stato autore di una decina di melodrammi tra cui appunto Maria Egiziaca, mistero in un atto formato da tre episodi tratto da Le vite dei santi di Domenico Cavalca e da una narrazione di Sofronio di Gerusalemme sulla figura di una prostituta egiziana di nome Maria che si redime e termina i suoi giorni nel deserto vivendo di preghiera. La storia è di dubbio valore storiografico, ma effettivamente nell’entroterra palestinese sembra sia presente fin dal V secolo la tomba di una santa eremita di nome Maria.

Primo episodio. Al porto di Alessandria, Maria, desiderosa di intraprendere un viaggio e cambio fare la sua vita, chiacchiera con un marinaio in procinto di partire con una nave. Nei pressi della nave incontra un pellegrino al quale domanda dove sia diretto. L’uomo dichiara la sua fede: si sta recando in Terra Santa. Colpita, la ragazza gli chiede se i marinai saranno disposti a darle un passaggio e si dice disposta a offrire loro il suo corpo. Il pellegrino, sconvolto, si allontana salendo sulla nave. Di fronte alla proposta di Maria, i marinai invece accettano entusiasti. Al momento della partenza, la donna sente una misteriosa voce che la richiama alla terra d’oltremare.
Secondo episodio. Nel giorno dell’Esaltazione della Croce, fuori dal tempio di Gerusalemme, un povero e un lebbroso attendono di entrare per poter baciare la croce ed essere benedetti. Poco dopo il loro ingresso, anche Maria arriva al tempio, accompagnata da una cieca. Prima che ella possa seguire i fedeli, le si para davanti il pellegrino che di nuovo la maledice. Dopo aver mosso pochi passi verso la porta, Maria sente una misteriosa forza che la trattiene. La ragazza, in preda a un rapimento estatico, vede comparire per un istante l’Angelo di Dio e si abbatte supplicante sulla soglia, confessando i suoi peccati e chiedendo perdono, per poi entrare nel tempio.
Terzo episodio. Diversi anni dopo, l’abate Zosimo si trova in ritiro quaresimale in una caverna nel mezzo del deserto, fuori dalla quale trova una fossa scavata da un leone. Si avvicina una figura indistinta: è Maria, ormai anziana dopo aver trascorso la sua vita errando per il deserto in penitenza. L’abate è convinto che la fossa sia stata scavata dal leone per lui, ma Maria gli racconta la propria storia e gli rivela che l’Angelo di Dio l’ha guidata lì, in fin di vita, perché l’abate potesse assolverla infine dai suoi peccati: la fossa è per lei. I due si riuniscono in preghiera e mentre Maria si china sulla fossa, gli Angeli intonano una lode al Signore.

Il libretto, che alterna settenari e ottonari di gusto datatissimo e infuso di un dannunzianesimo di bassa lega, è di Claudio Guastalla, che per Respighi scriverà i libretti di altre sette opere. L’ingenuità del testo si affianca a lemmi desueti e a una lingua ricercata che tocca il sublime del ridicolo in versi in rima baciata quali «Schiuma il tuo furore e guizza, | uomo, su la bocca vizza, | e la mia voglia più attizza», mentre poco prima ‘struzzo’ rimava con ‘aguzzo’ e ‘puzzo’ e ‘occhi’ con ‘ginocchi’ e ‘accocchi’… Già la critica del tempo aveva definito i versi «non accettabili, [tali] da togliere qualsiasi voglia al musicista di adattarvi le sue note. Il fatto è che il linguaggio è così artefatto, che l’umanità di Maria e delle umili persone che ella avvicina non si sente mai viva e profonda».

Ad accompagnare questa vicenda ingenuamente agiografica, con risvolti addirittura risibili, povera di senso drammatico e con personaggi bidimensionali, c’è una musica ben costruita ma che si limita ad accompagnare e amplificare il canto delle cinque voci – un soprano (Maria); un baritono (Il pellegrino e L’abate Zosimo), un tenore (Il marinaio e Il lebbroso), un altro soprano (La cieca, La voce dell’angelo) e un mezzosoprano (L’altro compagno e il Povero). La vocalità è quella distesa e declamata dello stile gregoriano con pochi abbellimenti che prendono la forma di semplici vocalizzi. O del canto popolare arcaizzante, dove la parola è sempre chiaramente espressa, tanto da rendere inutili i sopratitoli in questo caso. Le armonie non sono particolarmente ricercate e la timbrica orchestrale è ben lontana dalle prodezze coloristiche di certe pagine sinfoniche di Respighi. Quello che prevale è il gusto per l’“antico” – c’è anche un momento in cui il clavicembalo accompagna un recitativo secco – con forme e stilemi del passato. Un diverso colore strumentale distingue i personaggi soprattutto nella prima parte e l’opera termina in modo trionfale su un accecante accordo in mi bemolle maggiore eseguito in fortissimo dall’orchestra, dal coro a tre voci e da Zosimo ma a questo proposito c’è da chiedersi se si tratti dell’estrinsecazione di un sincero senso religioso oppure di una finzione puramente estetizzante quella espressa dal compositore. La risposta sembra propendere per la seconda ipotesi. 

Il maestro concertatore Manlio Benzi fa del suo meglio per dare un senso a un lavoro che si salva soprattutto per la brevità, poco più di un’ora, così da evitare lo spettro incombente della noia. Encomiabili si rivelano anche i cantanti che si sono prodigati in quello che sarà verosimilmente un unicum nella programmazione lirica mondiale. Nella parte del titolo Francesca Dotto delinea con efficacia le tre fasi dell’“evoluzione” del personaggio di Maria: nella prima parte frivola prostituta, nella seconda anima tormentata verso una redenzione che comunque si rivela piuttosto repentina – qui non c’è nessuna “méditation”… – e infine prosciugata anacoreta che aspetta la morte nella terza. Anche il timbro e l’approccio vocale si adeguano alle diverse esigenze espressive così da rendere un po’ più credibile un personaggio che richiama alla lontana quello della Thaïs. Se l’Athanaël di Massenet alla fine si dannava affascinato della cortigiana alessandrina in una traiettoria opposta a quella della donna, qui l’abate Zosimo è un personaggio monodimensionale e unidirezionale a cui Simone Alberghini cerca di dare qualche sprazzo di verità con una tenuta vocale sicura e ben dosata e un fraseggio espressivo. Non si risparmia vocalmente il marinaio di Vincenzo Costanzo che apre l’opera con il suo intervento generoso per affrontare dopo con sobrietà quello del lebbroso. In questa produzione veneziana i ruoli vocali sono un po’ diversi da quelli previsti dal libretto originale: a un altro tenore, Michele Galbiati, tocca il personaggio del Compagno, mentre manca il mezzosoprano per L’altro compagno e Il povero, affidati qui al tenore Luigi Morassi. Con Ilaria Vanacore (La cieca, La voce dell’angelo) e William Corrò (Una voce dal mare) si completa il meritevole cast vocale.

«Un grande trittico chiuso, con la bella cornice scolpita e dorata, poggia su tre gradini alla parete di tessuto violaceo. Due angeli biancovestiti, esili e apteri, escono dalla parete, dall’uno e dall’altro lato del quadro: lievi e silenziosi aprono i portelli del trittico, e dileguano». Così inizia il libretto stampato da Ricordi per la prima al Teatro Goldoni il 10 agosto 1932 e con uno certo guilty pleasure si aspettava quello che avrebbe saputo fare un maestro della scena quale Pier Luigi Pizzi, magari con un tocco irriverente. E invece… Grande delusione: il regista/scenografo/costumista ha preso del tutto sul serio la vicenda e se la pantomima dei due angeli, prevista nel preludio introduttivo, faceva sperare bene, qui invece la chiave di lettura è al grado zero dell’illustrazione. Il decano del teatro italiano si è convertito questa volta alla video grafica e invece delle sue eleganti architetture abbiamo un led wall su cui si proiettano immagini marine, edifici antichi che sembrano costruiti dall’intelligenza artificiale in stile un po’ surreale, simboli cristologici, tra cui una selva di croci simile a quella della Thaïs che il Maestro aveva presentato alla Fenice nel 2007. L’unico elemento tridimensionale in scena è costituito da una stilizzata imbarcazione in legno su cui sale, assieme a tre baldi marinaretti, felice – e invidiata da buona parte del pubblico – la nostra intraprendente peccatrice. Negli intermezzi orchestrali una danzatrice/controfigura (Maria Novella Della Martira) si sostituisce a Maria in prevedibili movimenti coreografici.

Il regista ha modificato in alcuni punti il testo del Guastalla perché oscuro, ma così si sono perse alcune rime senza riuscire comunque a renderlo maggiormente accessibile al pubblico di oggi. Che poi l’originale ‘puzzo’ diventi ‘lezzo’ mi sembra un’aggiunta di dannunzianesimo di cui non si sentiva proprio il bisogno.

Se ieri a Roma la messa in scena di quell’altro atto unico del Novecento che è la Salome di Richard Strauss è stata accolta da qualche dissenso da parte di un pubblico urtato dalla disturbante lettura di Barrie Kosky, questa sera quello veneziano ha digerito e applaudito senza riserve la proposta del Teatro la Fenice. La brevità, gran pregio.

Salome


 
foto © Fabrizio Sansoni

Richard Strauss, Salome

Roma, Teatro dell’Opera, 7 marzo 2024

 ★ ★ ★ ★☆

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Salome, un incubo nero

Che cosa hanno in comune Sarah Bernhardt, Theda Bara, Patrick Dupond e Montserrat Caballé? Che hanno interpretato l’inquietante personaggio di Salome rispettivamente a teatro, al cinema, in un balletto, all’opera.

Soggetto ambito dal cinema muto, prima ancora che Strauss presentasse la sua Salome, la “danza dei veli” aveva avuto innumerevoli versioni coreografiche, da Loïe Fuller a Ida Rubinstein a Mata Hari, mentre del dramma di Oscar Wilde da cui deriva si ricordano le discusse interpretazioni di Carmelo Bene e di Lindsay Kemp.

L’opera è stata spesso presente nei cartelloni del Costanzi – l’ultima volta fu nel 2007 – il teatro che ora ospita in coproduzione con l’Opera di Francoforte lo spettacolo in cui il regista Barrie Koski fornisce una prospettiva diversa dal solito: gli spettatori assistono allo svolgimento della nota vicenda come in un incubo notturno, dal fondo buio della cisterna di Jochanaan. «Wie schwarz es da drunten ist! Es muss schrecklich sein, in so einer schwarzen Höhle zu leben! Es ist wie eine Gruft…» (Come è scuro là in fondo! Deve essere orribile vivere in una grotta così nera… È come una tomba…), dice Salome nella seconda scena e infatti il palcoscenico è rigorosamente vuoto e buio. La scenografia di Katrin Lea Tag, che firma anche i costumi, è praticamente assente, le immagini sono bandite, solo Salome e quelli che interagiscono con lei sono illuminati da uno spot luminoso, un raggio di quella Luna onnipresente nel testo. Tutti gli altri personaggi sono solo voci. L’unico oggetto in scena è un gancio da macellaio che nel finale scende dall’alto nel buco del pavimento e risale con la testa del profeta. Un momento di tensione tremenda, quasi insopportabile con quel rullo dei timpani in fortissimo nell’orchestra.

Salome è frequentemente rappresentata ed è un lavoro su cui si è posata la polvere della tradizione. Il regista australiano-tedesco si impegna a eliminare anche il minimo granello di quella polvere sbarazzandosi primo di tutto del kitsch biblico nelle architetture scenografiche e nei costumi: le prime semplicemente non esistono, Kosky rinuncia a ogni forma di visualizzazione; i secondi sono contemporanei, doppio petto grigio su camicia nera per Erode, tailleur Chanel per la moglie, divisa militare per Narraboth e completo nero per il paggio.

Salome è in scena prima ancora che inizi la musica, quando nel buio si sentono rumori inquietanti provenire da ogni punto della sala del teatro. La donna appare con un enorme copricapo piumato che la trasforma in un’attinia/uccello del paradiso, fasciata in un abito lungo in luccicante lamé, abito che cambierà in continuazione rimanendo però nell’ambito dei tre colori simbolici, bianco (verginità), rosso (desiderio) e nero (morte), che sono anche i colori delle caratteristiche del profeta ammirate dalla donna: il bianco della pelle, il rosso delle labbra, il nero dei capelli. Nella sua messa in scena «testo e musica parlano da soli, sono così potenti da non poter essere illustrati», dice il regista. Qui non si viene distratti da seduzioni visive, tutto si concentra sui pochi personaggi illuminati dalla luce fredda ed essenziale di Joachim Klein. Vista e udito giocano con ambiguità in questo lavoro di Strauss in cui l’ingresso in scena dei due personaggi principali è teatralmente differito: di Salome sentiamo parlare dalle guardie che la descrivono e del profeta sentiamo la voce prima di vedere la sua figura. Ma Kosky sceglie invece di mostrarci subito la principessa che è quasi sempre in scena e ne fa il perno su cui ruota la vicenda, il motore attivo. Salome qui non è una figura passiva, vittima delle attenzioni del patrigno, come si è visto in altre produzioni. Per Kosky non si tratta di un dramma borghese, di una storia padre/patrigno-figlia. Il regista restituisce alla vicenda la sua carica intensa e scandalosa di storia d’amore, perverso sì, ma sempre amore. I duetti sono ad alta tensione erotica quando ai sempre più violenti insulti del profeta la principessa di Giudea risponde con crescente eccitazione. Anche Jochanaan viene in parte sedotto dalla ragazza che si avvinghia al suo corpo, ma è solo un momento e la repulsione per la «figlia di Babilonia» prevale nell’integerrimo profeta. 

La tensione culmina nella scena della “danza dei sette veli”, qui del tutto simbolica: la donna estrae dal suo sesso con crescente eccitazione una interminabile treccia di capelli, cresciuti dentro di lei da quella ciocca che lei aveva poco prima strappato al profeta. E mai come qui la sensualità quasi lasciva della musica è messa in evidenza, con quel crescendo nel ritmo e nel volume sonoro che allude a un orgasmo – trent’anni prima della Lady di Šostakovič! Molto efficace è anche la coppia Erode/Erodiade, una coppia quasi buffa in cui l’arroganza e la debolezza del primo si intrecciano con la cinica sicurezza della seconda che sa esattamente quello che vuole: la distruzione del profeta.

Le prime interpreti di Salome furono cantanti wagneriane – «Salome era vista come una continuazione del Tristan e la principessa giudaica la sorella isterica di Isolde», scrive sul programma di sala Antonio Rostagno – ma per la prima italiana al Regio di Torino il 22 dicembre 1906, il direttore, lo stesso Strauss, volle la bellissima Gemma Bellincioni, la Santuzza di Cavalleria Rusticana, che danzò di persona senza servirsi della controfigura, quella «pantomima dell’eros femminile, opposto alla moderazione della donna […] proposta nell’Italia giolittiana» (ancora Restagno). Vocalmente si passava così ad un’interprete del repertorio verista, dalla tecnica vocale imperfetta ma piena di temperamento. Curiosamente, il giorno prima, alla Scala di Milano, Toscanini dirigeva la stessa opera in una prova aperta a un ristretto pubblico. Come sarebbe interessante poter confrontare i due stili interpretativi, quello misurato e distaccato del tedesco e quello vigoroso e quasi aggressivo dell’italiano! 

Marc Albrecht, indiscussa autorità nel repertorio tardo-romantico, sceglie una terza via. Salome è un’opera che spalanca una finestra su un paesaggio musicale completamente nuovo e la sua lettura mette in luce, oltre un secolo dopo, la grande modernità della scrittura straussiana e approfitta dell’occasione offerta dall’Opera di Roma per ridare nuova vita a questa «musica da camera scritta per cento musicisti», tanti sono i particolari strumentali presenti nella partitura. Il suo è un approccio analitico che però tiene sempre conto delle esigenze espressive del testo e nella sua direzione si alternano con sapienza sia il dramma sia la sensualità, senza che una prevalga sull’altra. Molta attenzione è riservata all’equilibrio tra le voci in scena e l’orchestra, soprattutto nel caso della Salome di Lise Lindstrom, che sostituisce l’originalmente prevista Sara Jakubiak, che ha voce sicura negli acuti ma non nel registro medio-basso. Il suo particolare timbro un po’ acerbo esalta il carattere previsto dal regista: una bambina più che una donna, capricciosa ma che sa quel che vuole e lo ottiene, quasi una femminista in anticipo sui tempi. Con la duttilità della voce e una forte presenza scenica il soprano americano delinea alla perfezione la complessità del personaggio.

Non ha problemi di proiezione vocale invece lo Jochanaan di Nicholas Brownlee, basso-baritono che accentua il tono umano del profeta con un fraseggio espressivo e una grande attenzione alla parola. Il sempre peculiare tenore John Daszak mette in scena un Erode non grottesco, come spesso viene raffigurato, ma tormentato non solo dalla paura ma anche dalla temibile moglie, una efficace Katarina Dalayman. Un magnifico Joel Prieto dà voce all’unico personaggio umano della vicenda, quel Narraboth giovane e appassionato che presto si suicida ed esce così di scena. Eccellente anche il Paggio di Karina Kherunts mentre nella folta schiera degli altri personaggi, in ombra visivamente ma ben presenti vocalmente, si distinguono Michael J. Scott, Christopher Lemmings, Marcello Nardis, Eduardo Niave, Edwin Kaye (i cinque litigiosi ebrei), Zachary Altman e Nicola Straniero (Soldato e Nazareno), Alessandro Guerzoni (Un uomo di Cappadocia) e Giuseppe Ruggiero (Uno schiavo). Ottima prova quella fornita dall’Orchestra del Teatro per bellezza di timbro strumentale, duttilità e precisione nei momenti più complessi.

Il pubblico ha salutato con molta soddisfazione la parte musicale e i suoi interpreti ma ha espresso qualche sparuto dissenso per la parte visiva. Togliere la polvere va bene, ma lasciateci i sette veli, sembrava voler intendere qualcuno senza rendersi conto di aver invece assistito a uno spettacolo quasi memorabile per forza teatrale e carico di una tensione che non ha un momento di stanchezza.

Der singende Teufel

Franz Schreker, Der singende Teufel

Bonn, Stadttheater, 19 maggio 2023

★★★☆☆

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Un Parsifal infelice

L’arcano e magico potere della musica sembra il tema ricorrente delle opere di Franz Schreker: Der ferne Klang (1912), Das Spielwerk und die Prinzessin (1913) poi Der singende Teufel, lavoro iniziato nel 1924, ispirato al testo di Heinrich von Kleist Die heilige Cäcilie oder die Gewalt der Musik (Santa Cecilia e il potere della musica) e originariamente intitolato Die Orgel (L’organo) su libretto del compositore stesso.

Fino agli anni ’20 Franz Schreker è stato l’unico compositore d’opera nel mondo di lingua tedesca le cui esecuzione fossero in grado di tenere il passo con quelle di Richard Strauss. Schreker era uno dei preferiti dalla critica, ma questo status iniziò a sgretolarsi con la prima di Irrelohe a Colonia nel 1924 quando la critica cambiò opinione senza che Schreker avesse deviato dalla strada che aveva percorso e per la quale era sempre stato acclamato. In quell’anno i nazionalsocialisti, sempre più potenti, gli si rivoltarono contro. Le condizioni non potevano essere peggiori quando il 10 dicembre 1928 Der singende Teufel fu rappresentato all’Opera di Stato di Berlino sotto la direzione musicale di Erich Kleiber. Disturbatori di chiara matrice nazista disturbarono la prima dell’opera, ma non riuscirono a impedirne il successo, almeno presso il pubblico. La critica gli fu invece contro e altri teatri, tra cui Breslau, Praga, Monaco di Baviera e Francoforte, abbandonarono i loro piani di mettere in scena l’opera. Solo due ulteriori produzioni ebbero luogo durante la vita del compositore: a Wiesbaden (1929) e a Stettin (1930). Dal 1933 in poi, le sue opere non poterono più essere eseguite in Germania e scomparvero anche dal repertorio internazionale. Solo molto lentamente, a partire da alcune produzioni radiofoniche tra gli anni ’40 e ’60, Franz Schreker tornò alla coscienza pubblica e sul palcoscenico dell’opera. Nonostante questa rinascita, tuttavia, Der singende Teufel nella sua forma originale è rimasto nell’ombra fino ad oggi.

Atto I. La stanza di Amandus. Amandus ha costruito con successo un piccolo organo. Padre Kaleidos pensa che questo sia il momento giusto per convincere Amandus a completare la costruzione dell’organo gigante che suo padre aveva iniziato. Sconvolto dalla proposta, Amandus chiede tempo per riflettere, poiché ha scoperto che suo padre non è riuscito a completare l’organo a causa del progredire della follia e della successiva morte per incendio. Grotta della sacerdotessa Alardis. I pagani cercano la fanciulla più bella per il rito di primavera: Lilian viene scelta per consacrarsi a colui che guiderà i pagani contro i chierici cristiani. Notte. Lilian cerca invano di conquistare Amandus come capo dei pagani.
Atto II. L’ex laboratorio del padre di Amandus. Tormentato dal fatto di non essere riuscito a terminare il lavoro sull’organo gigante, Amandus rifiuta tuttavia di accettare il sostegno di Kaleidos. Quando Amandus sente i primi rumori dei riti pagani, si precipita fuori per seguire la processione pagana. Notte di luna ai margini della foresta: Alla festa del solstizio, Alardis proclama una religione della natura e deride i sacerdoti cristiani. Mentre la gente si scatena, Amandus cerca di portare via Lilian da questo luogo, ma la folla inizia a prendersi gioco di lui. Un cavaliere di nome Sinbrand lo sopraffà in duello, lo fa legare e rapisce Lilian. Padre Kaleidos trova Amandus e lo riporta al monastero dove diventa monaco.
Atto III, Chiostro del monastero. Amandus ha finalmente completato l’organo. Tuttavia, Kaleidos non gli concede la pace: ora deve usare l’organo per sopraffare i pagani saccheggiatori con l’aiuto della parola di Dio. Giardino del monastero. Lilian, segnata dalla terribile esperienza di essere prigioniera di Sinbrand, avverte Amandus dell’imminente attacco pagano. In preda al panico, Amandus chiama a raccolta i monaci per difendere il monastero. Amando ha la visione che il suono dell’organo terrà lontana la folla impazzita. All’inizio la visione di Amandus si avvera, ma poi le nuove “dolci” canne del suo organo si guastano. La sua musica si interrompe in accordi dissonanti e la folla prende d’assalto il monastero in preda a una rabbia distruttiva.
Atto IV. Radura della foresta fuori dalla grotta di Alardis, quattro settimane dopo. Lilian aiuta Amandus a riprendersi. Un pellegrino moresco gli fa visita per chiedere aiuto per il suo organetto rotto. Lilian non vuole che il pellegrino veda Amandus. Infatti, non appena Amandus vede l’organetto, i ricordi del lavoro fallito di una vita si risvegliano con terribile forza. Per liberare il suo amante da questo peso, Lilian vede solo una via d’uscita: distruggere l’oggetto che lo riempie di orrore tormentoso. Si allontana in fretta. Ben presto Amandus apprende la notizia sconvolgente che Lilian ha dato fuoco al monastero e che tra le fiamme l’organo incandescente ha iniziato a produrre delicati suoni celestiali. Piazza davanti al monastero incendiato. Amandus incontra Lilian, che ora è trasfigurata e sbocciata in bellezza. Sapendo di essere riuscita a rompere l’incantesimo su Amandus, crolla a terra morta.

Nella vicenda non si sviluppa tanto una trama quanto una serie di situazioni (la costruzione dell’organo, i preparativi del sabba pagano, la guerra tra i pagani e i monaci, la lotta interiore di Amandus) che si incentrano sui tre personaggi principali Amandus, Kaleidos e Lilian, che potrebbero essere messi in parallelo con i wagneriani Parsifal, Klingsor e Kundry. Decisamente antiwagneriana è però la musica, con uno stile brutalistico che nel corso dell’opera lascia il passo a qualche tentativo melodico. Oltre alla politica, c’era lo Zeitgeist musicale che si allontanava dal tardo romanticismo di cui Schreker si era fatto portavoce fin dal clamoroso successo di Der ferne Klang. La musica del nuovo lavoro appariva ostica ai fan di Schreker; l’eros e la dolcezza qui avevano ceduto il passo a un contrappunto rigoroso e a uno stato d’animo parsifaliano di rinuncia. Nella partitura sorprendente è la forza dirompente dell’organo quando il suo suono sfugge di mano e scatena la folla.

La prima produzione in tempi moderni di Der singende Teufel è stata quella dell’Opera di Bielefeld nel 1989. Ora l’Opera di Bonn lo affida alla regista Julia Burbach che così ha dichiarato: «A prima vista, il libretto contiene un conflitto tra due religioni e ci troviamo in un contesto medievale. Tuttavia, un conflitto tra due gruppi religiosi è sempre presente in qualsiasi periodo storico. Ho voluto trovare un’astrazione per portare la storia fuori dal Medioevo e creare una cornice in cui due forze antagoniste semplicemente si scontrano. Inoltre, associo il protagonista Amandus in modo molto specifico a Franz Schreker, artista e uomo di origini ebraiche che si è trovato all’interno di un conflitto politico del suo tempo vivendo in un mondo in cui alla fine ha perso tutto, passando dall’essere un celebre compositore a un artista espulso, perseguitato e dimenticato. Franz Schreker ha “fallito” come artista ebreo a causa delle circostanze politiche. Der singende Teufel ha molto a che fare con la vita del compositore stesso, che si è trovato tra contraddizioni e forze esterne. Così come l’organo è strumentalizzato nel brano come un’arma, lo stesso vale per un’opera d’arte in generale, in questo caso per le opere di Schreker. Non appena l’opera è terminata, si formano opinioni, viene criticata, viene usata e abusata, sviluppa una vita propria e in un certo senso sfugge al controllo del suo autore».

La messa in scena della Burbach è attenta ai personaggi più che all’ambientazione, risolta con l’impianto scenografico altamente estetico di Dirk Hofacker. Le maschere dei pagani che praticano il loro culto solstiziale intorno alla loro sacerdotessa Alardis vestita con una veste fluente, sono il principale riferimento al Medioevo fornito da Schreker e gli abiti indossati dai coristi e dai sette ballerini coreografati da Cameron McMillan ricordano lontanamente l’immagine medievale del personale infernale presente in varie illustrazioni. I personaggi sono posizionati su una sorta di roccia stilizzata, con i pagani in bianco in netto contrasto con le vesti scure dei fratelli del monastero.

La realizzazione musicale è affidata a Dirk Kaftan che si rivela attento a rendere con chiarezza la complessità di questa scrittura anche nei momenti di più violenta contrapposizione tra la dimessa spiritualità dei monaci e la conturbante e primitiva sensualità dei pagani. Il risultato è ottenuto grazie all’ottima interpretazione degli strumentisti della Beethoven Orchester.

Mirko Roschkowski nel ruolo di Amandus e Anne-Fleur Werner in quello di Lilian esprimono efficacemente il loro tumulto interiore, tenendo testa all’opulenza della grande orchestra. Anche il resto dell’ensemble, il coro potenziato e il corpo di ballo danno il loro contributo a una produzione che non convince però pienamente: molti sono gli spunti offerti da questo lavoro di Schreker ma pochi sono colti dalla regista. Qui ci sarebbe voluta una personalità più forte, come Guth o Kratzer.

La produzione fa parte del progetto “Fokus 33” con cui il teatro di Bonn si impegna a recuperare lavori musicali segnati dall’avvento del Nazismo. Un impegno che la prossima stagione continuerà con Li-Tai-Pe di Clemens von Franckenstein, Moses und Aron di Arnold Schönberg e Columbus di Werner Egk.

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Vienna, Staatsoper, 16 dicembre 2023

★★★★

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A Vienna Turandot è vista attraverso gli occhiali di Freud 

Turandot ha aperto la stagione del San Carlo di Napoli, ancora Turandot chiude l’anno dell’Opera di Stato viennese. Nello stesso giorno in cui la Scala inaugura con uno spettacolo che è stato definito un «concerto in costume» per l’assenza quasi totale di regia, Vienna ne mette invece in scena uno in cui la regia, affidata a un regista come Claus Guth massimo esponente del Regietheater, è tra gli elementi più caratterizzanti della produzione. 

Anche se l’ultima opera di Puccini fu presentata a Vienna appena sei mesi dopo la prima della Scala del 1926, non è così frequentemente eseguita nei teatri austriaci – Turandot è stata vista la prima volta a Salisburgo solo nel 2002 – ma ora il teatro sul Ring ha fatto le cose in grande, arruolando i due cantanti più richiesti del momento: Asmik Grigorian, debuttante nel ruolo del titolo, e Jonas Kaufmann, molto atteso dopo il periodo di problemi di salute e anche lui debuttante scenicamente nel ruolo dopo averlo cantato a Roma in forma di concerto. 

Con la scenografa Etienne Pluss, Guth concepisce una pièce da camera di un’attualità senza tempo, lontana da qualsiasi decoro pseudo-cinese: una scatola bianca che diventa anticamera e poi camera da letto di Turandot, la quale non è la principessa mistica e orgogliosa di molte produzioni, ma una donna traumatizzata che è stata vittima di un uomo e ora rivolge la sua aggressività verso l’esterno, diventando lei stessa carnefice. Guth tenta così di decifrare la fiaba dal punto di vista psicologico con un costante riferimento a Sigmund Freund e Franz Kafka, alternando realismo e simbolismo. I video della Rocafilm mostrano una Turandot gigante dietro una lastra di vetro smerigliato su cui viene spalmato sangue e Liù ha quattro sosia nel primo atto mentre Timur, cieco che cammina con un bastone, sembra invece uscito da una produzione più tradizionale. 

Nella camera da letto di Turandot, luogo di politica e di punizione dove una donna delle pulizie cancella la macchia di sangue dell’esecuzione precedente, la principessa è accovacciata nel suo letto, circondata da quattro comparse in abiti rosa e con teste di bambole bianche sovradimensionate che riflettono il suo non voler uscire dallo stato di adolescente. Il fatto che la principessa Turandot ponga tre indovinelli irrisolvibili ai pretendenti e raccolga le loro teste tiene occupata la burocrazia del regno del terrore: le teste mozzate vengono pesate, catalogate e raccolte in scatole. Ursula Kudrna veste la corte di questo regime totalitario con abiti/uniformi che ricordano la Corea del Nord ma anche figure Playmobil, con la stessa parrucca rossa, occhiali, abito verde menta. Figure che si muovono meccanicamente, ingranaggi di una macchina burocratica kafkiana mentre le grandi porte doppie rinforzate in acciaio richiamano quelle dell’appartamento di Freud nella Berggasse.

Turandot è una sposa che non adotta il passato come un mantello protettivo, ma si sente intrappolata in un momento terribile della sua vita, un momento in cui matrimonio e stupro sono una cosa sola. Asmik Grigorian dimostra ancora una volta la sua classe: quello di Turandot può essere un ruolo vocalmente pericoloso per lei ma, come per la sua Salome, l’intelligente interpretazione si avvale di un timbro dai colori luminosi in un insieme del tutto convincente. Delle sue doti di attrice non si discute, così come della sua capacità magnetica di riempire la scena.

Riesce a tenere il passo il Calaf molto umano di Jonas Kaufmann, stralunato in questo mondo grottesco e oppressivo. Più che un conquistatore spavaldo, il suo Calaf si presenta come un compagno sensibile che tende la mano a una donna in lotta con i suoi dèmoni. Kaufmann non si risparmia vocalmente, gli acuti di tradizione ci sono tutti, ma è soprattutto nelle mezze voci che si ammira la sua grande espressività.

Anche il terzo personaggio decisivo dell’opera, la serva Liù, viene reinterpretato dalla prospettiva di Guth: la schiava che si sacrifica per amore non è qui una vittima, a differenza di Turandot, ma una donna forte e fiera, mai lagnosa come talora vien interpretata Liù. Vestita di nero, è anche la controparte della bianca ed eterea Turandot e la voce sontuosa e di grande proiezione del soprano russo Kristina Mkhitarian si conforma magnificamente a questa lettura. Il prezioso cast vocale è completato dal meno decrepito del solito Altoum di Jörg Schneider, dal Timur autorevole di Dan Paul Dumitrescu, dal Mandarino di Attila Mokus e dal vivace trio di maschere formato da Martin Häßler (Ping), Norbert Ernst (Pang) e Hiroshi Amako (Pong).

La sontuosità zeffirelliana che manca nell’aspetto visivo dello spettacolo la ritroviamo a livello sonoro nella magnificenza orchestrale dei Wiener sotto la sicura guida di Marco Armiliato. che ha sostituito il previsto e indisposto Hans Welser-Möst. La bellezza e modernità della partitura è mirabilmente messa in evidenza dagli strumentisti e dal magnifico coro. Armiliato esegue il finale di Alfano originale, non quello ridotto da Toscanini e da lui utilizzato a partire dalla seconda rappresentazione. Il lungo finale chiarisce le varie fasi che il rapporto tra Turandot e Calaf deve ancora superare per raggiungere un’unione credibile e Claus Guth coglie l’occasione per unire psicologicamente i protagonisti: una volta che si sono professati il loro reciproco amore, il matrimonio viene immediatamente celebrato in modo burocraticamente ufficiale, con sedie poste a metri di distanza l’una dall’altra. Calaf è sconcertato, Turandot non ce la fa più, lo afferra e fugge con lui in un gioioso e inaspettato happy ending.

Il conservatore pubblico dello Staatsoper alla prima rappresentazione sembra abbia contestato la regia di Guth, ma questa si è rivelata una delle produzioni più interessanti degli ultimi anni, dove la profondità di lettura è pari all’eccellenza della realizzazione. D’altronde, è piaciuta anche a Enrico Stinchelli!

Lo spettacolo è stato trasmesso in diretta dalla Radio Televisione Austriaca.

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Napoli, Teatro di San Carlo, 9 dicembre 2023

★★★★☆

(video streaming)

Da Pechino all’abbazia di San Galgano

Quinta inaugurazione di stagione dei maggiori enti lirici italiani: dopo Torino, Venezia, Roma e Milano, c’è quella del San Carlo di Napoli, l’unico teatro a celebrare in apertura il centenario della morte di Puccini mettendone in scena la Turandot. Diversamente dal tempio della lirica milanese di due giorni prima, il teatro napoletano sa osare, sia nella direzione musicale sia in quella registica. Dopo il Rossini di Bieito, quello che fa più scalpore in questo Puccini è infatti la regia di Vasilij Barkhatov, quarantenne moscovita attivo tra i tanti teatri di Mosca, il Mariinskij di San Pietroburgo e la Lituania, dove ha conosciuto e poi sposato la cantante Asmik Grigorian. 

Dopo aver messo in scena con successo Čajkovskij e Prokof’ev, per il suo debutto italiano Barkhatov ha scelto l’ultima opera di Puccini con una drammaturgia che si stacca decisamente dall’ambientazione (invece di Pechino l’interno dell’abbazia in rovina di San Galgano ricreata dallo scenografo Zinoviy Margolin), dall’epoca (siamo nella contemporaneità), dalla mera vicenda suggerita dal libretto. Una drammaturgia che sicuramente può sconcertare ma ha una sua logica: il livello fiabesco della favola del Gozzi (presente nei costumi di Galija Solodovnikova) è solo uno dei due livelli con cui Barkhatov racconta la storia, l’altro è l’universo reale di due innamorati che al ritorno da un funerale (quello del vecchio Timur) discutono sul rifiuto della donna (Turandot) di sposarsi (con Calaf). In auto hanno un incidente e da qui si hanno varie possibili alternative (come nel film Sliding Doors): sopravvive lei (primo atto), oppure lui (secondo atto), oppure entrambi (terzo) e nel video finale si vede che lei sembra accettare la proposta di matrimonio. Dopo tanta morte un vero happy ending.

Ricca di simbolismi (l’abbazia di San Galgano è il luogo dove si svolge il finale di Nostal’gija, il film del 1983 di Andrej Tarkovskij), kolossal e divertente – come quando Altoum entra in scena tempestato di gemme in una bara di cristallo su una barca (simbolo ricorrente della morte) condotta da due guardie in kilt e maschera di Halloween – la lettura di Barkhatov prende strade bizzarre che portano lontano dalla Cina «al tempo delle favole». All’inizio del primo e secondo atto una citazione letteraria – prima il canto III dell’Inferno di Dante, poi il tema di Orfeo ed Euridice da Le metamorfosi di Ovidio – in cui domina il tema della morte, precede un video in cui vediamo gli ultimi istanti prima dell’incidente d’auto. Sospesi tra vita e morte, Calaf e Turandot alternativamente rivivono la storia raccontata dalla fiaba a modo loro. Nella dimensione fiabesca entrano spesso, e talora “a muzzo”, scendendo dall’alto, l’auto dell’incidente a portiere spalancate e la camera di rianimazione nel cui lettino si alternano lui o lei. Che la camera di ospedale richiami quella di Puccini gravemente ammalato dove si era portato la partitura di Turandot senza terminarla è una facile supposizione, così come il suicido di Liù, qui la prima fidanzata sedotta e abbandonata da Calaf, la cui coincidenza con la vecchia vicenda della giovane cameriera Doria Manfredi, probabile amante di Puccini anche lei suicida, fa venire i brividi.

Nonostante tutto, quello che avviene in scena non disturba la musica e la direzione di Dan Ettinger si fa ammirare per la tensione, la lucidità, la modernità esaltata di una partitura che guarda costantemente al futuro nelle scelte musicali che rimandano ad atmosfere ben al di là dell’epoca: quasi stravinskiani sono certi secchi attacchi orchestrali o passaggi dalla dubbia tonalità. Mirabilmente sottolineato è il cambiamento del colore strumentale quando entra in scena Liù nell’ultimo atto: la sua presenza riesce a cambiare il mondo verso la redenzione d’amore, anche se qui è evidente che Turandot aveva finto di non amare Calaf, facendo di tutto per suggerirgli la risposta finale nella scena degli enigmi. 

La proposta del regista russo non mette in imbarazzo gli interpreti, anzi nelle interviste si dichiarano a loro agio. Sondra Radvanovsky dichiara che la produzione «è moderna ma a suo modo tradizionale»… Sovente frequentata, la sua Turandot è sicura, potente, espressiva, a tre dimensioni, una vera donna. Peccato per la dizione: le sue prime parole sono infatti «In questa retta, or son mil’anni e mile». Anche lui habitué della parte, Yusif Eyvazov è un Calaf romantico e particolarmente convincente come personaggio, non fa solo sfoggio di acuti e il suo «Nessun dorma» non scatena un meritato applauso a scena aperta solo perché Ettinger prosegue con decisione. Prima però Eyvazov si era preso il suo momento tenendo a lungo la corona sulla prima o di «e all’alba morirò». Timur di lusso è Alexander Tsymbalyuk, re usurpato di grande nobiltà, ma come avviene spesso gli applausi più calorosi del pubblico vanno a Liù, qui una Rosa Feola di grande sensibilità e linea vocale ineccepibile. Meno soddisfacente il terzetto delle maschere di Ping (Roberto de Candia), Pang (Gregory Bonfatti) e Pong (Francesco Pittari). Glorioso Calaf degli anni passati, l’ottantenne Nicola Martinucci dà voce al vecchio imperatore Altoum. Cori impegnati con buoni risultati, sia quello di voci bianche diretto da Stefania Rinaldi, che quello diretto da Piero Monti.

Pubblico unanime per gli applausi diretti agli interpreti musicali, diviso per il regista e i collaboratori. Come sempre. Il video dello spettacolo è disponibile su RaiPlay e su  youtube. Una bella differenza tra la presentazione televisiva offerta dai soliti Carlucci e Vespa a Milano, meno dilettantesca e “gaffosa” questa di Stefano Catucci ed Elena Biggioggero e senza le interviste ai soliti noti, anche se sarei stato curioso di sentire l’opinione sullo spettacolo del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca presente nel palco reale…

La rondine

 

foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Giacomo Puccini, La rondine

Torino, Teatro Regio, 22 novembre 2023

★★★★☆

La rondine, una riscoperta

La “maledizione” di essere definita un’operetta ha perseguitato La rondine per molto tempo, tanto da farla diventare la meno popolare delle sue opere. È vero che era stato Franz Lehár a presentare Puccini agli impresari del Karl Theater di Vienna per scrivere un’operetta e l’ingaggio era cospicuo, ma il compositore non riusciva ad adattarsi alla forma con i recitativi parlati: in Puccini il flusso sonoro che al momento opportuno diventa una romanza è l’essenza stessa del suo teatro musicale. Con l’approvazione del teatro La rondine poteva diventare un’opera lirica e Giuseppe Adami, il futuro librettista del Tabarro e della Turandot, venne cooptato per scrivere il testo. Ma era il 1914, e la Storia avrebbe reso tutto più difficile, soprattutto per il compositore di un paese che era entrato in guerra contro l’Austria. Tra dubbi e tentennamenti la composizione comunque andava avanti e nella primavera del 1916 l’opera era terminata. Ma dove presentarla in un mondo sconvolto dalla Grande Guerra? La soluzione fu trovata dall’editore Sonzogno, che programmò il debutto nel Principato di Monaco, unica oasi di pace in quel marzo 1917.

In questa “commedia lirica” Puccini si diverte a introdurre motivi musicali come il valzer per alludere all’epoca in cui si svolge la vicenda, il Secondo Impero in Francia, ma essendo compositore attento ai suoi tempi ci sono momenti in cui si avvicina alla pratica jazzista o ai ritmi di fox-trot, per non parlare dell’ironica citazione del corno inglese della Salome di Richard Strauss, quando Prunier elenca le donne ideali degne di lui: «Galatea, Berenice, Francesca, Salomè!…». Quello del rapporto tra Puccini e Strauss è un capitolo molto interessante. Anche se suo rivale, nel maggio 1906 Puccini era andato a sentire la sua Salome a Graz, sedendo in sala assieme a Mahler, Zemlinsky, Schönberg e Berg, praticamente il gotha dei compositori di allora. Ma la musica de La rondine sarà tutt’altra cosa. Come ricorda Guido Marotti nel suo Giacomo Puccini intimo, una sera del 1924 dopo aver suonato al pianoforte il preludio del Tristano, aveva gettato via il volume dicendo: «Basta di questa musica! Noi siamo dei mandolinisti, dei dilettanti: guai a noi se ci lasciamo prendere! Questa musica tremenda ci annienta e non ci fa concludere più nulla!…» e la critica salutò La rondine come il ritorno all’ordine di un «buon toscano, che ha l’aria di sfamarsi a un tratto di cibi paesani […] dopo essersi guastato lo stomaco con dei cibi esotici ed artefatti».

Ora a noi poco importa di queste antiche polemiche e il pubblico accorso al Regio di Torino è uscito soddisfatto da uno spettacolo che ha convinto soprattutto per la direzione di Francesco Lanzillotta che di questa partitura ha messo in evidenza la raffinatezza di scrittura e le soluzioni armoniche à la page per i tempi. La versione scelta è quella originale, mentre al Regio nel 1994 era stata scelta la versione del 1921 con le parti mancanti del terzo atto orchestrate da Lorenzo Ferrero. La rondine è opera famosa quasi solo per un’aria, la prima dell’atto primo, «Chi il bel sogno di Doretta | poté indovinar?» enunciata prima da Prunier e poi fatta sua da Magda, uno dei pezzi per soprano più famosi del teatro pucciniano, modernamente concepito con un’introduzione al pianoforte solo e poi con interventi parlati (un’allusione all’operetta?). Lanzillotta ricrea questa musica con i suoi sublimi ritardandi, gli spunti melodici prima accennati e poi ripresi in tutto il loro trascinante fascino, l’intrecciarsi elegante dei temi. L’orchestra danza sotto le sue mani, gli strumenti fanno a gara in leggerezza e trasparenza, talora sembrano appena sussurrare. Chi aveva dei dubbi sulla qualità di questo lavoro si è dovuto ricredere dopo la resa magistrale del maestro concertatore

E poi c’è il canto di conversazione, che rende naturale il testo tutt’altro che entusiasmante di Adami, che però è perfettamente integrato nella musica. Questa produzione torinese si avvale di due cast. Nella replica del 22 novembre la parte di Magda è affidata a Ol’ga Peretjat’ko, diva che si atteggia a diva con una recitazione manierata e una vocalità in cui il timbro leggermente metallico e un’articolazione della parola che risente dell’accento slavo non riescono a rendere particolarmente empatico il personaggio. La classe e l’eleganza certo non difettano, sulla sicurezza vocale non si discute, ma circola un’aria di freddezza in scena con lei. Non del tutto convincente è il Ruggero di Mario Rojas, voce generosa ma un po’ in difficoltà in certi passaggi acuti. Meglio il Prunier di Santiago Ballerini, spigliato vocalmente e scenicamente, con una sicura linea espressiva e già ammirato nel repertorio della zarzuela. Ottima prova la fornisce Valentina Farcas, vivace Lisette. Il baritono Vladimir Stoyanov è Rambaldo, l’altro baritono Matteo Mollica veste i panni di Périchaud e Rabonnier e negli altri numerosi ruoli ritroviamo gli Artisti del Regio Ensemble: il tenore Paweł Żak (Gobin e Adolfo), il basso Rocco Lia (Crébillon e Maggiordomo), il soprano Amélie Hois (Yvette e Georgette), il soprano Irina Bogdanova (Bianca e Lolette) e il mezzosoprano Ksenia Chubunova (Suzy e Gabriella). Preciso e pimpante si dimostra il coro istruito da Ulisse Trabacchin, che sta portando a un eccellente livello la compagine del teatro.

La vicenda de La rondine può ricordare quella della Traviata, soprattutto nelle situazioni: il dopo festa del primo atto, il rifugio in campagna del terzo, e per l’amore impossibile, ma qui è donna, la mantenuta del marchese Rambaldo, a lasciare volontariamente il giovane. Dopo la sbandata, le attrazioni della vita ricca vincono su tutto e è proprio la lettera della madre di Ruggero, che le prospetta un’esistenza mediocre con pargoli e sotto lo sguardo della suocera, a far decidere Magda per la libertà. Nel secondo atto se l’atmosfera da Bullier ricorda il secondo atto della Bohème da Momus – con le sue grisettes, le fioraie, i camerieri, gli studenti – la servetta Lisette che si reca al ballo con gli abiti della padrona richiama invece l’analoga situazione del Fledermaus, un’altra operetta!

Il regista Pierre-Emmanuel Rousseau sceglie di ambientare la vicenda nel 1973, proprio l’anno dell’apertura del Nuovo Regio. In omaggio all’architetto Mollino la scenografia del secondo atto riprende esattamente lo stile e i particolari del foyer del teatro. Nel primo e terzo atto invece, il decoro in oro e nero si rifà a certi lussuosi ambienti di Yves Saint-Laurent dove non arrivano gli slogan delle manifestazioni studentesche e i personaggi vestono come per una sfilata di alta moda. Scene e costumi sono disegnati dallo stesso Rousseau che per il quadro da Bullier veste come un torero Ruggero (un’altra allusione alla Traviata?) mentre Magda, che secondo il libretto dovrebbe essere travestita da ragazza semplice tanto da non essere riconosciuta neppure dalla sua cameriera, qui sfoggia un sontuoso abito da sera. La trasgressività del Bal Bullier è risolta dal regista pensando al Palace di Parigi, con drag queen e ballerini di vogueing, che però in realtà verrano qualche decennio dopo. Incongrui sono anche i tatuaggi del tenore a torso nudo e braghe corte. Questi scarti temporali non hanno frenato comunque il pubblico dagli applausi.

Con La rondine si concludono i titoli lirici per quest’anno: il dicembre del Regio è dedicato come sempre alla danza.

Salome

Richard Strauss, Salome

Amburgo, Staatsoper, 29 ottobre 2023

★★★

(video streaming)

Secondo capitolo della disfunzione famigliare

Fin dove si può spingere un regista nella sua lettura di un’opera lirica? Fin dove può trascurare particolari non trascurabili della vicenda, dell’ambientazione? La domanda è stata posta innumerevoli volte, ma diventa ancora più attuale dopo la Salome di Amburgo che Dmitrij Černjakov ambienta nel tempo presente durante la festa per il compleanno di Erode, dove uno degli invitati è Jochanaan il quale non lascia mai la sala se non alla fine e con la testa ben salda sul collo. E anche il giovane Narraboth se ne va con le sue gambe. Non ci sono morti, non c’è sangue, non ci sono spade nel ricco salone dove Erode tiene esposta la sua colleziona di teste di tutti i materiali. Černjakov utilizza il testo come punto di partenza per un’esplorazione del lato oscuro della vita borghese, dove orribili segreti sono sotto gli occhi di tutti, ma tutti sono complici nel perpetuare l’oscurità.

In questa famiglia non c’è più nulla di giusto, la comunicazione non avviene più da tempo, il vuoto è riempito da feste come questa cena di vanità di una società decadente di nouveaux riches. Dopo l’Elektra di due anno fa sempre qui ad Amburgo, Černjakov sviluppa ulteriormente la sua lettura dei drammi di Strauss creando così una dilogia della disfunzione famigliare e delle tendenze autodistruttive di personalità morbose, squarciando il velo su veri e propri abissi umani in questa rappresentazione della ricca borghesesia. Invece di tracciare confini gerarchici, il regista fa sedere tutti alla stessa tavola: Erodiade tra Narraboth e gli Ebrei, accanto a lei un soldato, gli Ebrei, i Nazareni. Anche Jochanaan prende posto a capo tavola come l’ospite di riguardo ma anche corpo estraneo a quel mondo volgare e glitterato. Con le spalle al pubblico il regista ottiene l’effetto della voce proveniente dai lontani sotterranei senza però perdere neanche una parola.

Salome arriva tardi alla festa, come se avesse deciso solo all’ultimo momento. Ha messo una gonna di seta sotto una t-shirt punk, scarpe da ginnastica e un piumino. Erodiade va per abbracciarla, ma la figlia la respinge bruscamente. L’esuberante abbraccio con il patrigno Erode è per Salomè una pura presa in giro: è abituata da tempo alla sua lussuria e con la danza ciò diventa abbondantemente chiaro per tutti coloro che non l’hanno ancora capito. Naturalmente, non c’è la “danza dei sette veli”, Salome se ne sta lì in piedi completamente estranea lasciando che il patrigno guardi: per Erode il massimo del piacere non è la lenta rimozione dei veli, ma il vestire la figliastra a proprio piacimento, come una bambola. I costumi di Elena Zaytseva vestono Salomè come un clown triste dal viso bianco, Erode in un completo di seta rosa a fiori, gli altri invitati in modo estremamente appariscente o assurdo.

In un ambiente del genere, l’unico modo per Salome di fuggire è quello di fantasticare su uno degli ospiti – l’intellettuale solitario e occhialuto con la giacca di velluto a coste – per il quale prova un’attrazione tanto maggiore quanto più lui la respinge. Non è attrazione sessuale, l’uomo rappresenta l’unica via di fuga da quel mondo che lei tanto odia. Quando canta «I tuoi capelli sono come uva, come grappoli d’uva nera» si rivolge a un vecchio col riportino, proiettando su di lui un’immagine che si trova solo nel profondo delle sue fantasie di evasione. Man mano che la serata procede, Salome perde ulteriormente il senso della realtà, fantasticando di qualità che non esistono (il bianco della pelle, il nero dei capelli, il rosso delle labbra) e di baciare una testa che non è presente.

Questo approccio di Černjakov potrebbe sembrare forzatamente voyeuristico, ma è il punto di forza di una messa in scena perturbante e che si avvale della straordinaria performance attoriale di Asmik Grigorian che era sembrata insuperabile cinque anni fa a Salisburgo con Castellucci, e invece la sua potenza espressiva qui è ancora maggiore e lo scavo nel personaggio più profondo, il dramma di una solitudine incommensurabile che esplode in momenti di furia distruttrice. Enorme è il contrasto tra la figura fragile sul palco e la voce che emana dal corpo di questa giovane donna che si impadronisce voracemente del registro grave e cerca nel profondo di sé le risorse per fortissimi all’apice della scala sonora. Non solo esegue ogni nota senza errori, ma non c’è nemmeno un briciolo di trepidazione e l’energia che emana è sbalorditiva. Ma Černjakov l’ha voluta anche per le sue qualità di attrice che si sarebbe agevolmente piegata all’originalità della sua proposta. E così è stato. Se con Maria Callas il mondo della vocalità nell’opera è irreversibilmente cambiato settant’anni fa, ora con Asmik Grigorian stiamo assistendo a una rivoluzione altrettanto significativa e il pubblico l’ha perfettamente capito: calato il sipario, dopo una lunga pausa il sipario si è finalmente alzato e con esso il pubblico di fronte alla cantante, sola e ancora stordita, tributandole lunghe ovazioni. E il pubblico raramente sbaglia.

Ritornano Violeta Urmana e John Daszak, la Clitennestra e l’Egisto dell’Elettra, qui Erodiade ed Erode di grande presenza scenica e con i particolari strumenti vocali che li contraddistinguono: il mezzosoprano (dalla Lituania anche lei come la Grigorian) con la sua forza espressiva e il suo temperamento; il tenore inglese con il suo idiomatico timbro e gli sbandamenti di intonazione che se non altro caratterizzano maggiormente il personaggio. Kyle Ketelsen, un Jochanaan autorevole e convincente, si conferma l’artista elegante e raffinato che sappiamo. Oleksiy Palchykov un Narraboth lirico e giustamente disperato, mentre Jana Kurucová offre la sua bella voce al paggio di Erodiade. Oltre che ottimi cantanti si dimostrano anche preziose presenza in scena i cinque Ebrei, i due Nazareni e i due soldati.

Non pare sia piaciuto a tutti Kent Nagano, artista che è stato spesso definito un direttore freddo, analitico, ma che qui sembra un’altra persona, è come se avesse sempre represso una viscerale potenza che è esplosa tutta insieme ora in un direzione che si è dimostrata lontana dai cascami decadentistici, pervasa invece da bagliori accecanti pur senza mai essere troppo frenetica.

La domanda che ci si poneva all’inizio trova la sua risposta nella forte impressione che rimane dopo un simile spettacolo, che rimarrà nella memoria per molto tempo. Sì, ne vale la pena.

Anche l’anno prossimo è previsto un titolo straussiano con la regia di Černjakov. Ancora non si sa quale. Io ci sarò comunque. Attualmente Salome è disponibile gratuitamente su Arte.

L’amore dei tre re

Italo Montemezzi, L’amore dei tre re

Milano, Teatro alla Scala, 12 novembre 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Il bacio della morta

L’amore dei tre re, l’opera lirica più famosa di Italo Montemezzi, andò in scena al Teatro alla Scala di Milano il 10 aprile 1913 diretta da Tullio Serafin. Il libretto di Sem Benelli era tratto dal suo omonimo dramma per il teatro. Allora ricevette recensioni contrastanti, ma divenne rapidamente un successo internazionale soprattutto a New York dove rimase in repertorio per trent’anni di fila. I maggiori direttori d’orchestra hanno dimostrato la loro ammirazione per questo lavoro, da Toscanini a Marinuzzi a De Sabata, che la diresse l’ultima volta alla Scala nel 1953. Dopo settant’anni viene ora riproposta dal teatro che la tenne a battesimo e che pochi anni fa aveva riesumato La cena delle beffe dello stesso librettista. Questo è lo spettacolo che chiude la stagione del teatro milanese che a Sant’Ambrogio ripartirà col Don Carlo.

Atto primo. Siamo nel medioevo, in un remoto castello d’Italia quarant’anni dopo un’invasione barbarica. La scena rappresenta il terrazzo sulla torre del castello. È notte, e una lampada accesa serve da segnale per il ritorno di Manfredo. Entra Archibaldo, vecchio guerriero divenuto cieco, accompagnato dal paggio Flaminio che lo sorregge e lo guida. Archibaldo attende il figlio Manfredo che deve tornare da un assedio al castello nemico e ricorda le glorie passate e gli ardori giovanili; poi scoraggiato dal fatto che Manfredo non giunge torna indietro con Flaminio che nel frattempo, imbrogliando Archibaldo che è giunta l’alba, spegne la lanterna per mettere in guardia Fiora e Avito. Infatti Flaminio copre complicemente la relazione fra i due. Appaiono Fiora e Avito; stanno per salutarsi dopo la notte d’amore, erano promessi sposi, ma ella era dovuta andare in sposa a Manfredo per suggellare la pace tra invasori e vinti. Si scambiano dolci parole, ma Avito si sgomenta al vedere spenta la lanterna, temendo che qualcuno sia giunto la notte a controllarli. La paura si rivela certezza al giungere di Archibaldo; Avito fugge, Archibaldo chiama Fiora e la interroga con chi parlava perché egli non può vedere Avito. Flaminio è solidale con i due e dichiara che Fiora è sola. Fiora dissimula abilmente alle interrogazioni, quando squillano le trombe e Flaminio annuncia il ritorno di Manfredo. Archibaldo sospettoso invita Fiora a tornare in camera per presentarsi al marito più tardi. Entra Manfredo, che si presenta come un valoroso cavaliere medioevale, contento di rivedere il padre e la giovane sposa. Ella si presenta con dolcezza affettata, avallata dalla repressa rabbia di Archibaldo. Manfredo è felice di riabbracciare il suo «tesoro aulente» e si incammina verso la camera da letto. Archibaldo sente e rimane inorridito e implora il Signore di renderlo cieco anche nel sentire.
Atto secondo. La stessa scena del primo atto. Manfredo è in procinto di partire per ritornare a combattere e sta salutando la moglie che si dimostra fredda con lui e verso la sua parola commossa. Ella si dimostra finalmente toccata quando Manfredo le esprime il desiderio di vederla salutarlo dalla torre con il suo velo non appena sarà partito, dato che così si sentirebbe sollevato dalla sofferta lontananza da lei. Fiora commossa promette e Manfredo parte. Fiora rimane sola, pensierosa, quando le si presenta Avito che era sempre rimasto lì, travestito come una guardia del castello. Stavolta però ella si dimostra ostile verso le profferte amorose del giovane, per di più inopportune dato il momento. Egli, colpito e amareggiato vuole partire. Il dialogo è interrotto da una ancella che consegna il velo, mentre Avito si nasconde. Rimasti soli, Avito deluso annuncia a Fiora la sua partenza, ma lei lo richiama concedendogli di baciare la sua veste, mentre dalla torre sventola il velo. Avito rinasce e incalza le resistenze di Fiora sempre più fino a vincerla definitivamente e a baciarla. Travolti dalla passione i due rimangono in un’estasi eterea, quando improvvisamente giunge Archibaldo il quale stavolta avverte bene la presenza di Avito e si adira. Avito fugge ma Archibaldo ha capito che Fiora non era sola. Flaminio annuncia il ritorno di Manfredo, il quale preoccupato per non aver più visto Fiora salutarlo col velo temendo sia caduta dalla torre vuole sincerarsi sulla situazione di lei. Archibaldo manda via Flaminio e rimane solo con Fiora. Alle domande del vecchio stavolta Fiora reagisce violentemente e rivela tutto, ma non il nome dell’amante. Archibaldo, sopraffatto dalla rabbia la afferra alla gola e la uccide. Giunge Manfredo, il quale si dispera alla vista del cadavere di Fiora e rimane sorpreso dalla confessione del padre. Sebbene sia stato messo al corrente della causa non è in grado di provare odio, ma solo pietà. Tuttavia Archibaldo reclama vendetta contro il traditore e medita il modo di compierla. Chiede al figlio di fargli strada col suono dei suoi passi, si carica sulle spalle la sua vittima e lo segue.
Atto terzo. Nella cripta del castello il corpo di Fiora è adagiato sul giaciglio e intorno vi sono popolani che la vegliano. Quando stanno per lasciare il luogo entra Avito, costernato e sopraffatto dal dolore. Avito rimasto solo mira l’amata, la esorta a risvegliarsi: non può credere sia morta, ma poi si arrende all’evidenza. Vuole baciarla per l’ultima volta, ma quando lo fa si sente mancare e non può più camminare. Entra Manfredo che riconosce Avito. Gli rivela che Archibaldo ha cosparso la bocca di Fiora con un potente veleno. Avito accetta il suo destino con rassegnazione, ma Manfredo gli chiede se Fiora lo amava e lui, in un ultimo impeto gli risponde «come la vita che le fu tolta, no, di più… di più…», poi lo esorta a compiere la vendetta giacché sente sopraggiungere la morte. Manfredo, invece, lo adagia a terra accompagnandolo gentilmente: egli non riesce a odiarlo, perché amato dalla sua stessa amata. Quindi si rivolge al corpo di Fiora, supplicandola di non lasciarlo alla sua solitudine, vuole seguirla per sempre e la bacia, barcollando vittima del veleno. Giunge Archibaldo, ansioso di udire il misterioso predatore nella morte; lo abbraccia ma Manfredo gli rivela la sua identità con un ultimo sforzo. Archibaldo inorridisce disperato mentre il figlio gli muore fra le braccia e rimasto solo e condannato al suo buio perpetuo grida «Manfredo! Anche tu, dunque, senza rimedio sei con me nell’ombra!».

Il medioevo, di moda all’epoca, è l’ambiente per il dramma a fosche tinte del testo di Benelli intriso di decadente dannunzianismo e le cui didascalie avrebbero fatto la gioia di Paolo Poli. Se il libretto sfiora spesso il ridicolo, secondo il gusto moderno, su tutt’altro livello è invece la partitura, lussureggiante, complessa, ricercata, preziosa. Come nel Pelléas et Mélisande di Debussy l’orchestra rivela spesso il sottotesto delle interazioni tra i personaggi seguendo il modo in cui i personaggi si muovono in stati di passione incontrollata e diventando allora trascendente, onirica. Scrive Francesco Maria Colombo: «Montemezzi non è, ovviamente, Puccini né ha la fantasia coloristica di certe partiture di Respighi (altro autore di cui le partiture operistiche meriterebbero libretti meno atroci); ma chi, tra gli operisti del suo tempo è così capace di creare atmosfere magiche, notturne, incantate, fosche, misteriose, e di far nascere da quelle atmosfere (cui concorrono insieme armonia e timbro, laddove l’invenzione melodica è meno spiccata) sia il senso del dramma, sia la parola scenica (al punto da fare spesso dimenticare l’oscenità dei versi)? […] Il lessico di Montemezzi è sostanzialmente tardoromantico e si avvale di tutte le risorse del cromatismo: non agisce nel senso dello sviluppo, cioè di un percorso armonico che deduce di volta in volta nuove soluzioni; agisce invece in senso atmosferico, con accordi alterati che valgono non all’interno di un processo in divenire, ma in sé, come segnali di un particolare clima espressivo, come semantemi capaci di sprigionare stati d’animo, situazioni, piccoli nuclei drammatici che si risolvono in sé epperò slittano continuamente l’uno nel prossimo, giustapponendosi (oddio, mi metto a scrivere anch’io come Sem Benelli…) in un continuo cangiare di evocazioni emotive». 

Subentrato all’inizialmente previsto Michele Mariotti, Pinchas Steinberg sfrutta al massimo la qualità dell’orchestra scaligera e nello stesso tempo preserva il decadentismo e le sonorità turgide della partitura che domina con mano sicura, il tutto senza esagerare e sorreggendo nel miglior modo possibile le necessità del canto che qui procede secondo un declamato stentoreo e ripetitivo da cui non riescono a emergere veri squarci lirici. L’annunciato a inizio stagione Günther Groissböck (!) è stato sostituito dal basso russo Evgenij Stavinskij che delinea un Archibaldo un po’ legnoso. Non che manchi la potenza o il colore nella voce, ma è il personaggio che rimane incolore. Nella sua impervia tessitura l’Avito di Giorgio Berrugi risulta spesso troppo enfatico mentre il Manfredo di Roman Burdenko un po’ grezzo. Giorgio Misseri è un Flaminio efficace, ma è in Chiara Isotton che si trova il meglio del cast: fraseggio elegante, voce ampia, intenzioni espressive ben realizzate, la sua performance sarebbe ancora più apprezzabile con una presenza scenica che qui è poco convincente anche a causa della regia di Àlex Ollé e del costume di Lluc Castells che la infagotta in un maglione grigio e sformato su una sottoveste dal colore indefinito. Il regista sceglie un’ambientazione simbolica della vicenda: nella scena nuda e nera di Alfons Flores il pavimento si trasforma in due rampe di scale che costituiscono la torre prima e poi la cripta in cui giace il catafalco della donna. Oltre al letto del primo atto, sono presenti in scena solo delle catene che scendono dall’alto – ben ottocento, per un peso complessivo di 13 tonnellate di ferro – che formano un specie di labirinto per i personaggi o gabbia per la donna. Più che al decadentismo fin-de-siècle il regista pensa alla contemporaneità, all’ennesimo femminicidio di una donna qui concupita da ben tre uomini – suocero, marito e amante – che provano per lei un amore morbosamente possessivo. La contemporaneità è presente anche nei costumi neri e severi degli uomini, ma dà un certo fastidio vedere il vecchio Archibaldo utilizzare un sacchetto di plastica del supermercato per il veleno e i guanti monouso impiegati per avvelenare le labbra della morta – un’invenzione degna di Carolina Invernizio.

È difficile pensare che dopo centodieci anni quest’opera ritorni nei cartelloni dei teatri lirici, troppo lontana quant’è dal nostro gusto. E ancora più improbabile che lo facciano le altre opere del compositore: Giovanni Gallurese, L’Hellera, La nave, L’incantesimo… Ma la musica de L’amore dei tre re, magari nella veste di una suite orchestrale, non sfigurerebbe affatto nei programmi dei concerti sinfonici.