Settecento

Die Entführung aus dem Serail

foto © Mattia Gaido

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio)

Torino, Teatro Regio, 8 novembre 2025

★★★☆☆

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Un harem senza scintille, salvo in buca

Mozart’s Die Entführung aus dem Serail reveals his “elusive” nature, mixing wit, drama, virtuosity, and psychological nuance within dazzling orchestration and exotic “Turkish” color. Blonde’s proto-feminist rebellion contrasts with the comic cruelty of Osmin. The work’s history, past Turin productions, and Versailles staging frame a mixed revival: uneven singing and staging, redeemed by Gianluca Capuano’s exceptional, vibrant conducting.

La produzione del Ratto dal serraglio al Regio risulta esteticamente curata ma teatral­mente debole: lo spettacolo di Michel Fau, nato per Versailles, appare estraneo alla sala torinese e la regia manca di un’idea forte. Cast diseguale, con Leonor Bonilla e Manuel Günther eccellenti ma protagonisti deludenti. Trionfa invece la direzione luminosa, teatrale e magistrale di Gianluca Capuano.

“Inafferrabile” è definito Mozart da Alberto Bosco nel suo intervento sul programma di sala, soprattutto il Mozart de Il ratto dal serraglio, secondo titolo della stagione del Regio di Torino. La sua inafferrabilità sta nell’ambiguità e nella natura sfuggente della musica in questo Singspiel, che è allo stesso tempo leggero e profondo, comico e drammatico, unisce virtuosismo canoro e caratterizzazione psicologica, orchestrazione brillante e raffinatezza.

Femminista ante litteram, Blonde minaccia la rivoluzione delle donne dell’harem come risposta alle avances del pascià che l’ha rapita assieme alla padrona. È su questo argomento di Gottlieb Stephanie il Giovane che nel 1782 Mozart compone Il ratto dal serraglio, appena arrivato a Vienna dopo aver lasciato Salisburgo per essere più libero, finalmente emancipato dal giogo dell’arcivescovo Colloredo. Libero anche dall’opera seria italiana, scrive con questa commedia musicale il suo primo Singspiel in lingua tedesca. La moda del tempo è quella delle turcherie, e Wolfgang se la gode appieno: fanfare di giannizzeri, strumenti esotici e percussioni a profusione. Lo stesso imperatore si lascerà convincere, ma a modo suo: «Troppo bello per le nostre orecchie e troppe note». «Giusto quanto basta!», la risposta del compositore.

Il libretto è divertentissimo: esilaranti le rime con cui Osmin risponde a Belmonte nel primo duetto, per poi minacciare Pedrillo di venire «prima decapitato, poi impiccato, quindi impalato su picche roventi, quindi abbruciato e poi legato e fatto affogare, e finalmente scuoiato». Esattamente in quest’ordine. Chissà le risate che si sarà fatto il ventiseienne Mozart!

Negli anni successivi l’opera venne rappresentata spesso in Italia – a una rappresentazione del 1807 assistette anche Stendhal, che ne riferisce nella sua Vie de Rossini – per poi quasi sparire: la mentalità romantica poco apprezzava questo gioco disinvolto di sentimenti e, come per il Così fan tutte, bisognerà aspettare tempi più moderni. In Italia Il ratto dal serraglio verrà eseguito in forma di concerto, e in lingua italiana, all’EIAR solo nel 1934, mentre l’anno successivo si avrà un allestimento scenico alla Pergola di Firenze, questa volta in lingua originale. A Torino si ricorda la produzione del 1970 al Teatro Nuovo con il Belmonte di Luigi Alva e, al nuovo Regio, quella del 1983 con il Pedrillo di lusso di William Matteuzzi. L’ultima apparizione torinese fu nel 2006, con la regia di Davide Livermore.

Questo nuovo Ratto dal serraglio arriva dall’Opéra Royal di Versailles: uno spettacolo, in lingua francese e con il regista che interpretava anche la parte di Selim, registrato sia su CD sia su DVD e visibile anche su YouTube. L’autore della messa in scena è Michel Fau, popolare attore comico francese che nei suoi spettacoli combina recitazione, maschere, travestimenti e invenzioni visive, unendo teatro classico e contemporaneo. Nel campo della regia lirica, come aveva già fatto con il Dardanus di Rameau a Bordeaux dieci anni fa, Fau mette in scena una rappresentazione che riprende i cliché dell’opera barocca, reinventando lo spettacolo come si sarebbe potuto realizzarlo nel XVIII secolo: ecco quindi l’impianto scenografico di Antoine Fontaine ricreare l’architettura moresca con colori sgargianti e utilizzando la falsa prospettiva del teatro barocco, mentre il sofisticato gioco luci di Joël Fabing ricrea l’atmosfera dei teatri settecenteschi grazie ai fari bassi – così che il quartetto del secondo atto diventa una sorta di teatro delle ombre, con le sagome dei personaggi proiettate sullo sfondo della scenografia. I costumi sgargianti di David Belugou completano il look di questo spettacolo originariamente destinato a una sala di 750 posti costruita nell’ala nord del castello di Versailles, una sala per la cui costruzione Luigi XV aveva affidato l’incarico all’architetto Jacques Ange Gabriel, che utilizzò il legno per imitare il marmo e contenere in tal modo i costi dell’impresa.

Tutt’altro ambiente ora quello del Regio: diverse le dimensioni, diversi i materiali, diverso lo stile architettonico. Quello che a Versailles era un progetto perfettamente coerente col contenitore, nella sala molliniana denuncia una certa estraneità e sa di ricostruzione museale, piacevole ma poco più. La scena è praticamente unica: un praticabile mobile, delle quinte e un soffitto che si abbassa definiscono i diversi ambienti. Non c’è traccia delle prodigiose macchine sceniche barocche ancora in funzione nella sala di Versailles. A questo si aggiunge una regia – ripresa da Tristan Gouaillier – che è eufemistico definire sobria, e senza un’idea forte. Anche un’opera apparentemente semplice come questa poteva suggerirla – per lo meno l’aveva suggerito a Christof Loy nella sua rivelatrice lettura al Liceu di Barcellona nel 2010 o a McVicar a Glyndebourne cinque anni dopo. Dopo una prima parte piuttosto piatta dal punto di vista registico – i tre atti qui sono divisi un po’ incongruamente in due – la seconda offre qualche elemento in più, fino al finale con la “beatificazione” del magnanimo Selim, che s’invola su un tappeto volante. Per il resto la recitazione risente del problema del Singspiel: lunghe parti recitate in tedesco (a Versailles erano in francese) da interpreti che non sembrano dimostrare grandi capacità attoriali e dove neanche l’unico attore, Sebastian Wendelin, riesce a delineare un Selim memorabile.

Parzialmente deludenti i cantanti. Alasdair Kent era stato molto ammirato nel suo registro di haute-contre come Achille nell’Iphigénie en Aulide di Gluck ad Aix-en-Provence e come Toante nell’Ifigenia in Tauride di Traetta a Innsbruck. Anche a Torino, nel Matrimonio segreto, era stato un Paolino di grande stile, ma qui il ruolo di Belmonte si è rivelato impegnativo per i suoi mezzi: l’aria di ingresso «Hier soll ich dich denn sehen» è stata affrontata con troppe incertezze e le successive, nonostante un delicato uso di piani e pianissimi, sono risultate poco convincenti, con una voce poco proiettata e agilità non fluide. Olga Pudova è stata Regina della Notte in più occasioni, una scoppiettante Zerbinetta, ma anche un’Olympia un po’ troppo meccanica. La sua Konstanze ha limiti di volume, ma soprattutto di espressività: le pagine più elegiache, come «Traurigkeit ward mir zum Lose» e «Ach, ich liebte», non lasciano il segno, e quelle più pirotecniche, come «Martern aller Arten», sembrano eseguite con una prudente perizia. La tessitura di Osmin comprende note estremamente basse che Wilhelm Schwinghammer riesce a realizzare a scapito della sonorità e la caratterizzazione buffa del personaggio non è tra le più riuscite. I migliori cantanti in campo si rivelano gli interpreti dei servitori: la Blonde di Leonor Bonilla è un miracolo di freschezza, allegria e tecnica vocale; lo stesso si può dire per il Pedrillo di Manuel Günther.

La componente migliore della serata si è dimostrata la direzione di Gianluca Capuano, massimo interprete di questo repertorio e debuttante in questo teatro. Fin dalle prime note dell’ouverture nel solare do maggiore – con i colpi dei Deutsche Trommel (tamburo a due pelli con corde di risonanza), dei Türkische Trommel (una specie di grancassa) e dei campanelli su un bastone sormontato da una mezza luna (il çevgen turco o Schellenbaum in tedesco), strumenti “speciali” inseriti nell’organico usuale dell’orchestra del teatro – il particolare colore orchestrale è immediatamente stabilito. Nella sua forma di sonata abbreviata, senza un vero e proprio sviluppo centrale, il pezzo afferma la straordinaria teatralità della musica: il carattere marziale del primo tema, in fortissimo, con le “chiamate militari” di corni e oboi, dipinge lo scenario orientale; il secondo tema, più lirico e galante e affidato agli archi, ha una dolcezza “occidentale” che prefigura gli affetti dei personaggi di Belmonte e Konstanze. Le percussioni “turche” ritorneranno a più riprese nel corso dell’opera non come riempitivo coloristico, ma quale motore ritmico propulsivo, elemento perfettamente individuabile nella direzione di Capuano, estremamente varia nelle dinamiche, illuminante ed espressiva. Una delizia di concertazione con un Mozart ricreato nella bellezza del suono, teatrale e fluido.

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Così fan tutte

foto © Vito Lorusso

Wolfgang Amadeus Mozart, Così fan tutte

Milano, Teatro alla Scala, 6 novembre 2025

★★★★☆

(diretta televisiva)

Mozart ai tempi di Temptation Island

Alla Scala Robert Carsen trasforma Così fan tutte in un reality show contemporaneo, dove le coppie di amanti mettono alla prova la fedeltà sotto l’occhio delle telecamere. Tra scenografie pop, ironia e malinconia, l’allestimento riflette sull’amore come spettacolo mediatico. La direzione limpida di Soddy e un cast diseguale completano una lettura lucida e provocatoria, in cui la commedia settecentesca rivela tutta la sua modernissima verità.

Come ultimo titolo della stagione, e in attesa dello Šostakovič di Sant’Ambroeus, la Scala propone una novità di peso: per la prima volta Robert Carsen si confronta con Così fan tutte. Il regista canadese catapulta l’opera nel nostro tempo, quello ossessivo delle relazioni “sotto schermo”. Il palcoscenico diventa uno studio televisivo, con telecamere in vista, divani fucsia e posti per il pubblico: un microcosmo mediatico dove l’amore si misura in like e inquadrature.

Il titolo alternativo dell’opera, La scuola degli amanti, diventa il nome del format televisivo in cui due coppie — Ferrando e Dorabella, Guglielmo e Fiordiligi— si sottopongono alla prova della fedeltà orchestrata da Don Alfonso e Despina, non più filosofo e cameriera, ma conduttori di un reality crudele e scintillante. «Nel Così fan tutte abbiamo due coppie che accettano, consapevolmente o meno, di mettere alla prova il loro amore. Tutti partecipano a un esperimento in cui scoprono aspetti di sé e del proprio partner che ignoravano. E, come nei reality, non sanno né cosa accadrà né come reagiranno», spiega Carsen.

L’idea, di per sé, non è la scoperta dell’anno, ma il suo pregio sta nell’intelligenza con cui la visione contemporanea illumina il senso profondo dell’opera: il gioco delle apparenze, la fragilità dei sentimenti, la finzione della fedeltà. Eppure Carsen non rinuncia al divertimento. Il suo allestimento prende di mira il mondo dei format televisivi, fra confessionali che ricordano il Grande Fratello e ironie graffianti: come quando, sotto l’effetto del “tossico”, le immagini video di Renaud Rubiano diventano psichedeliche, o quando i giovani amanti si sfidano in guerre d’acqua a colpi di pistole giocattolo.

Un gigantesco ledwall domina la scena rotante disegnata da Carsen e Luis F. Carvalho (anche autore dei costumi), illuminata con cura maniacale da Peter van Praet e dallo stesso regista. Con le coreografie di Rebecca Howell per i marinaretti in partenza sulla portaerei, il tutto si veste di una lucida patina pop-glamour di grande eleganza. La lettura visiva è potente, provocatoria, ma talvolta rischia di soffocare la grazia musicale e la perfetta simmetria che Mozart e Da Ponte avevano intessuto con mano attenta.

Sotto la superficie luccicante, però, pulsa una malinconia sottile. Lo si avverte nei momenti in cui la musica prende il sopravvento: nel celebre terzetto «Soave sia il vento», ad esempio, il reality si spegne, le luci calano, la scena si svuota, e resta solo la purezza del canto. In quel silenzio sospeso, il “gioco” si capovolge in consapevolezza, la commedia si tinge di verità, e l’amore mostra il suo lato fragile. È forse questa l’intuizione più riuscita: un’opera buffa del Settecento che oggi suona come un esperimento sociologico, una riflessione sull’amore trasformato in spettacolo. Il messaggio è chiaro: la relazione e la fedeltà, oggi, sono performance sotto gli occhi di tutti. Così fan tutti, davvero.

Sul podio, Soddy dirige con gesto limpido e attenzione cameristica: trasparenza, leggerezza, e un senso costante di equilibrio tra la civetteria giocosa e la malinconia più tenera. Anche al fortepiano, il maestro cesella i recitativi con eleganza. Corretti come sempre gli interventi del coro diretto da Giorgio Martano.

Sulla carta il cast sembrava ideale, ma il risultato è diseguale. Elsa Dreisig è una Fiordiligi un po’ rigida nelle agilità di Come scoglio, ma convincente nelle arie più liriche. Più omogenea la Dorabella di Nina van Essen, mentre Sandrine Piau appare una Despina vocalmente troppo leggera per sostenere il gioco teatrale. Gerald Finley, interprete di classe, manca però di mordente come Don Alfonso; Luca Micheletti è un Guglielmo forse troppo baldanzoso, e Giovanni Sala (Ferrando) non sempre trova la fluidità necessaria in «Un’aura amorosa».

Nel Così messo in scena da Claus Guth e visto alla Scala nel 2014, al libretto di Da Ponte vennero tagliate molte parti. Lo stesso avviene anche questa volta, ma non infastidisce tanto la mancanza del duettino Ferrando e Guglielmo «Al fato dan legge» (n. 7) o dell’aria di Ferrando «Ah, lo veggio, quell’anima bella» (n. 24) — tagli tradizionali —, quanto l’eliminazione o il ridimensionamento di interi recitativi, come le battute tra Despina e Don Alfonso, con la celebre frase «A una fanciulla | un vecchio come lei non può far nulla», che chiariva il loro rapporto. Molti altri interventi di Despina vengono soppressi, forse per la scarsa caratterizzazione del personaggio.

Zaide oder der Weg des Lichts

foto © Marco Borrelli

Zaide oder der Weg des Lichts (Zaide o la via della luce)

Salisburgo, Felsenreitschule, 17 agosto 2025

★★★★★

(video streaming)

Un altro pasticcio a Salisburgo: l’arte di ricominciare dall’incompiuto

Al Festival di Salisburgo Raphaël Pichon rielabora Zaide di Mozart in un pastiche che unisce brani da Davide penitente, Thamos e altri lavori. In scena l’Ensemble e il Coro Pygmalion animano una riflessione contemporanea su libertà e memoria. Sobria regia e interpreti eccellenti, con Sabine Devieilhe e Julian Prégardien protagonisti di rara intensità.

Questa volta utilizza la musica di Mozart il secondo pastiche che il Festival di Salisburgo propone al suo pubblico: dopo quello di Vivaldi viene rappresentata in forma semi-scenica una riscrittura di Zaide, il Singspiel incompiuto del 1780, ai cui numeri sono aggiunti brani tratti dall’oratorio Davide penitente, dalle musiche per Thamos, re d’Egitto e da altri pezzi vocali e strumentali degli anni 1779-1785, oltre a una registrazione dello spettrale Adagio in Do per glassharmonica del 1791, l’ultimo anno di vita di Mozart, con cui inizia e si conclude lo spettacolo (1).

Quello che viene fuori, nelle intenzioni di Raphaël Pichon, direttore e autore della concezione, è visivamente vicino a One Morning Turns into Eternity messo in scena da Peter Sellars nella stessa location, la Felsenreitschule: lo stesso sterminato palcoscenico qui ancora più vuoto perché non c’è alcuna struttura scenografica, solo il gioco di luci e ombre di Bertrand Couderc e i sobri movimenti coreografici di Evelin Facchini. Sul palcoscenico a sinistra l’Ensemble Pygmalion, a destra il coro omonimo e l’“azione”, con i solisti che talora appaiono tra le arcate scolpite nella roccia, come il Tiranno Solimano per la sua aria “Der stolze Löw” o Zaide, dietro a una stilizzata glasharmonica che a un certo punto cadrà a terra.

Nella drammaturgia di Eddy Garaudel basata sul testo di Wajdi Mouawad, la figlia di Zaide, Persada, torna nella prigione, ora trasformata in museo, alla ricerca di notizie su sua madre.

Prologo
Persada, una giovane donna, visita i resti di un’ex prigione ora diventata museo. Lì incontra un uomo che sembra essere lì da secoli. È l’uomo che sta cercando: Allazim, il guardiano di questo luogo della memoria. Persada è alla ricerca di tracce di sua madre, che non ha mai conosciuto: Zaide, chiamata anche “la donna che canta”, che un tempo era rinchiusa in una delle celle del luogo. L’unico indizio che Persada possiede. Questo viaggio attraverso lo spazio e il tempo è un ultimo disperato tentativo di scoprire la verità e guarire la ferita della sua storia familiare. Su insistenza della ragazza, Allazim raccoglie i suoi ricordi. Evoca un tempo non così lontano dal nostro, quando questo luogo era una tetra prigione politica in cui molti sogni andarono in frantumi.
Atto primo
Allora. L’arrivo di Zaide è un barlume di speranza per i prigionieri, uomini e donne distrutti da anni di prigionia. Ben presto Zaide viene soprannominata “la donna che canta”, perché è l’unica che riesce a tenere la testa alta di fronte alle umiliazioni quotidiane inflitte dal tiranno Soliman e rispondere al suo scagnozzo Allazim. I prigionieri si aggrappano al loro canto come a un’ancora di salvezza; è un conforto gradito dopo giorni di privazioni e reclusione. Zaide ama un altro prigioniero, Gomatz, ma vengono separati con la forza. Il loro amore sembra quasi ridicolo in questo luogo desolato, ma è autentico e conferisce loro una forza inaspettata. Un giorno Allazim si accorge che Zaide è incinta. È profondamente sconvolto da questa notizia. L’idea che il bambino nasca in quella terribile prigione e che il tiranno Soliman possa usarlo per torturare Zaide e Gomatz in modo ancora più crudele lo indigna. I bambini non devono pagare per i crimini dei loro genitori. Questa scoperta ha l’effetto di una scossa elettrica su Allazim. Decide di rischiare la vita per salvare i prigionieri e prepara la loro fuga.
Atto secondo
Incoraggiati dalla prospettiva di una felicità imminente, i prigionieri preparano la fuga con l’aiuto di Allazim. Ma il destino ha deciso diversamente e, proprio mentre stanno per salpare dalla riva, scoppia una tempesta che riporta la barca verso le gelide mura della prigione. Soliman esulta, invoca morte e vendetta e gli amanti vengono condannati a morte. Con un ultimo grido di disperazione, Zaide dà alla luce sua figlia, la bambina che crescerà con il nome di Persada. Dopo l’esecuzione dei due prigionieri, tutti sono presi dal panico. Come si è potuto permettere tutto questo? Fino a dove si spingerà l’orrore? Allazim si oppone a Soliman e lo supplica di risparmiare la neonata. Soliman, paralizzato dalla follia della sua arroganza e delle sue decisioni, acconsente.
Epilogo
Allazim conclude il suo racconto. Come sfuggire a ciò che ci distrugge? Persada, che ha appena scoperto la verità sulle sue origini, decide di rompere il circolo vizioso della vendetta, di perdonare e di cercare, se ancora possibile, di costruire un futuro diverso.

Zaide, ovvero: quando un’opera incompiuta del giovane Mozart si trasforma in uno specchio lucidissimo del nostro tempo, grazie a un’operazione di teatro musicale che ha la grazia dell’intelligenza e il coraggio della libertà. «Una Zaide dei nostri tempi», la chiama Raphaël Pichon, anima e demiurgo del progetto. E già questo basterebbe a far drizzare le orecchie: non la solita riesumazione da archeologi della partitura, ma un gesto teatrale che prende Mozart sul serio. Talmente sul serio da osare guardarlo negli occhi, invece di imbalsamarlo in teche filologiche.

L’idea, infatti, non è quella di completare Zaide come se si fosse Mozart (mission impossible, oltre che un tantino presuntuosa), ma di compiere un petit pas de côté, un piccolo passo laterale, e riscriverne il libretto restando fedeli non alla lettera ma allo spirito. Lo spirito, appunto, di un’epoca che sognava l’Illuminismo e si trovava davanti al dispotismo. Di un’eroina che canta per resistere e di un amore che sfida la tirannia. E dunque, ecco Zaide o La via della luce, metafora neanche troppo velata di un’umanità che ha perso la strada e prova a ritrovarla. Attraverso la memoria, il dolore, la speranza.

Il personaggio nuovo, Persada, non è un orpello moderno incollato per far scena. È il nostro tramite, la nostra lente: deve conoscere il proprio passato per poterlo accettare. Nel frattempo, il coro – magnificamente integrato scenicamente – diventa uno specchio frantumato, riflesso di un’umanità in pezzi. Ma in mezzo a questi cocci resta una voce, quella di Zaide, “la donna che canta”: simbolo radioso di resistenza, bellezza, e testardaggine emotiva.

Ma veniamo alla musica – che è poi quello che conta, sempre. Il tessuto sonoro è un patchwork mozartiano di altissimo artigianato. Si prendono 11 dei 15 numeri superstiti di Zaide e li si intrecciano con sette brani della Messa in do minore K. 427 (che per inciso è diventata Davide penitente), più un cameo del Misericordias Domini K. 222. Sì, il testo è in tedesco, italiano e latino: trilinguismo che potrebbe spaventare, ma che in realtà dà respiro, stratifica il discorso, amplia lo spettro.

Pichon, con il suo sempre eccellente Ensemble Pygmalion, fa un lavoro di ricamo sonoro di rara coerenza: tutto, dalle cuciture barocche agli sbuffi classici, torna perfettamente. E il coro, ripetiamolo, è protagonista: canta benissimo e recita altrettanto bene. Già questo sarebbe un miracolo.

Sul fronte solisti, una cinquina di livello olimpico. Lea Desandre (Persada) è pura intensità incarnata; Johannes Martin Kränzle dà ad Allazim il peso giusto, senza sbavature. Daniel Behle riesce persino a farci empatizzare con il tiranno Soliman (e questo è già teatro, non solo canto). Ma i fuochi d’artificio veri arrivano da Sabine Devieilhe (Zaide) e Julian Prégardien (Gomatz): lei, un miracolo di luce e dolcezza in “Ruhe sanft” – una delle più belle arie scritte da Mozart, punto –; lui, tutto bellezza timbrica e fraseggio innamorato. Perfetti.

E infine, una domanda – un po’ provocatoria, ma necessaria: e se il futuro dell’opera fosse… non nell’opera? Se il teatro musicale del XXI secolo passasse da queste operazioni ibride, rigeneranti, che rimettono in circolo il passato per raccontare il presente? Dopo Bastarda su Donizetti, dopo le reinvenzioni su Verdi de La Monnaie di Bruxelles, ecco che anche Mozart diventa materia viva da plasmare, non santino da incensare. Forse l’opera è davvero uscita dal museo. E forse, finalmente, ha ricominciato a vivere.

(1) Ecco la struttura musicale:
Prologo
Adagio in Do per glassharmonica KV 356 (ora KV 617a)
“Ma tu sì fiero scempio” (Persada) recitativo dall’aria per concerto Ah, lo previdi KV 272
Atto primo
Scena I
“Alzai le flebil voci al Signor” (Coro, Zaide) coro da Davide penitente KV 469/1
Scena II
“Brüder, lasst uns lustig sein” (Allazim) coro da Zaide KV 344/1
“Im Garten der Unschuld” (Allazim) melologo da Zaide KV 344/9
“Der stolze Löw” (Soliman) aria da Zaide KV 344/9
Scena III
“Sii pur sempre benigno” (Coro) coro da Davide penitente KV 469/4
“Sorgi, o Signore” (Zaide, Persada) duetto da Davide penitente KV 469/5
Scena IV
“Ein einziges Glühwürmchen reicht aus” (Allazim) melologo da Zaide KV 344/2
“Ruhe sanft, mein holdes Leben” (Zaide) aria da Zaide KV 344/3
“Einsam bin ich, meine Liebe” (Gomatz) Lied KV Anh. 26
“Nascoso è il mio sol” (Zaide, Persada, Gomatz, Soliman) Canone KV 557
Scena V
“Nicht alle Wahrheiten sind gut zu wissen” (Allazim) melologo da Zaide KV 344/2
“Meine Seele hüpft vor Freuden” (Zaide, Gomatz) duetto da Zaide KV 344/5
“Chi in Dio sol spera” (Zaide, Persada, Gomatz, Coro) coro da Davide penitente KV 469/10
Atto secondo
Scena I
“Misero! O sogno” (Soliman) recitativo dall’aria per concerto Aura che intorno spiri KV 431
“In Mächtigen seht ungerührt” (Allazim) aria da Zaide KV 344/14
“A te fra tanti affanni! (Soliman) aria da Davide penitente KV 469/6
Scena II
“O selige Wonne” (Zaide, Gomatz, Allazim) terzetto da Zaide KV 344/8
“Misericordias Domini” (Coro) Offertorium KV 222
Scena III
Allegro molto da Thamos, König in Ägypten KV 345/7a
“Tiger! wetze nur die Klauen” (Zaide) aria da Zaide KV 344/13
“Se vuoi, puniscimi” (Coro) da Davide penitente KV 469/7
“Freundin! stille deine Tränen” (Gomatz, Allazim, Soliman, Zaide) quartetto da Zaide KV 344/15
“Trostlos schluchzet Philomele” (Gomatz, Zaide) aria da Zaide KV 344/12
Epilogo
“Tra l’oscure ombre funeste” (Persada) aria da Davide penitente KV 469/8
Adagio in Do per glassharmonica KV 356 (ora KV 617a)

Ifigenia in Tauride

foto © Birgit Gufler

Tommaso Traetta, Ifigenia in Tauride

Innsbruck, Tiroler Landestheater, 29 agosto 2025

★★★★★

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L’Ifigenia di Traetta, tra barocco e opera riformata

Alle Settimane di Musica Antica di Innsbruck, Christophe Rousset dirige con Les Talens Lyriques l’Ifigenia in Tauride di Traetta, esempio della riforma operistica settecentesca ispirata a Gluck. L’esecuzione, brillante e drammatica, valorizza cori e recitativi accompagnati. Splendida l’Ifigenia di Rocío Pérez, intensa e tecnicamente impeccabile; buona la messa in scena psicologica di Nicola Raab.

Dopo quella di Antonio Caldara, le Settimane di Musica Antica presentano un’altra Ifigenia, quella di Tommaso Traetta. Del compositore di Bitonto qui ad Innsbruck due anni fa s’era ascoltato l’oratorio sacro Rex Salomon, ora è la volta di un’opera seria che Traetta scrisse per una commissione della corte asburgica. L’Ifigenia in Tauride fu infatti proposta dall’Ispettore generale degli spettacoli di Vienna, il conte Giacomo Durazzo – lo stesso che nel 1764, ambasciatore imperiale a Venezia, avrebbe acquistato i manoscritti vivaldiani ora nel fondo Foà-Giordano della Biblioteca Nazionale di Torino – su libretto di Marco Coltellini, poeta ed editore dalla cui stamperia livornese era uscita la seconda edizione del Saggio sopra l’opera in musica dell’Algarotti, testo fondamentale dei riformatori operistici settecenteschi capeggiati da Ranieri de’ Calzabigi.

Fu infatti quest’ultimo a proporre il nome di Coltellini a Vienna e a procurargli la commissione per il libretto dell’opera il cui felice esito gli fece conseguire il titolo di poeta di corte presso gli Asburgo. Coltellini scriverà per Mozart La finta semplice (1768) e sarà l’autore anche dell’altra incursione di Traetta nella tragedia greca, l’Antigona (1772). Il dramma di Euripide è complesso – infatti l’episodio della Tauride fu messo in musica meno sovente di quello in Aulide – ma Coltellini riesce a costruire una trama efficacissima, con recitativi incalzanti che riflettono il ritmo naturale del discorso – evidente è la vicinanza a Gluck per cui è la musica a servire la parola, non viceversa – e una precisa definizione dei personaggi.

Seconda opera viennese di Traetta dopo la sua Armida del 1761, l’Ifigenia in Tauride fu messa in scena nel teatrino di corte di Schönbrunn il 4 ottobre 1763 «festeggiandosi i felicissimi nomi delle loro maestà imperiali e reali», come si legge sul libretto a stampa, essendo infatti il 4 (San Francesco d’Assisi) e il 15 (Santa Teresa del Gesù) appunto gli onomastici di Francesco I di Lorena e Maria Teresa d’Austria.

Atto primo. Oreste è sbarcato in Tauride (l’odierna Crimea) con il suo amico Pilade per rubare il sacro tesoro dal tempio di Pallade Atena. Nonostante gli avvertimenti di Pilade, Oreste decide di irrompere immediatamente nel palazzo sperando di porre fine al suo calvario. Pilade giura fedeltà al suo amico fino alla morte. Nel frattempo, Ifigenia spera nella salvezza: per quindici anni, Toante l’ha costretta a sacrificare alla dea ogni straniero che metteva piede sull’isola. Quando le viene portato il prigioniero Oreste, i due fratelli non si riconoscono, ma la vista dello straniero, che lei riconosce come un connazionale, commuove profondamente Ifigenia. Durante i preparativi per il sacrificio, Oreste soffre di allucinazioni, che lei usa come pretesto per convincere Toante a rimandare il delitto sacrificale.
Atto secondo. Non riuscendo a persuadere Toante a sospendere il sacrificio rituale nel caso di Oreste, Ifigenia è disperata e vuole togliersi la vita. Pilade, alla ricerca di Oreste, trova un complice nell’unico alleato di Ifigenia, Dori, che lo conduce segretamente al tempio. Una volta imprigionato, Oreste è tormentato dalle Furie. Nella sala delle guardie vede il fantasma della madre assassinata, Clitennestra, che crede di riconoscere anche nel volto di Ifigenia. Ifigenia chiede a Oreste della sua patria e viene a sapere della morte dei suoi genitori. Ma Oreste non osa rivelare la sua identità. Dori riunisce Oreste e Pilade e mostra loro un passaggio segreto per fuggire dal tempio. Oreste lo usa per rubare l’oggetto sacro. Di fronte a Toante, Dori confessa di aver aiutato gli stranieri a fuggire. Toante giura una sanguinosa vendetta.
Atto terzo. Oreste si prepara a partire con i suoi uomini. Si accorge che Pilade è scomparso e si mette alla ricerca di lui. Ancora una volta, Ifigenia non può sfuggire al sanguinoso fardello della sua posizione con Toante che la minaccia apertamente. Pilade è stato catturato mentre fuggiva e ora deve essere ucciso da Ifigenia, insieme a Dori. Oreste interrompe i preparativi per il rituale, viene catturato dalle guardie del tiranno e deve essere sacrificato immediatamente. Pilade rivela l’identità di Oreste e Ifigenia rifiuta di continuare con il rituale. Toante decide di sacrificare Oreste lui stesso e Ifigenia pugnala a morte il tiranno e annuncia che condurrà gli amici liberati nella sua patria amica e fertile abbracciando Oreste.

I cinque personaggi dell’Ifigenia in Tauride furono interpretati da stelle dell’epoca: Oreste fu il contralto castrato Gaetano Guadagni (l’Orfeo di Gluck l’anno prima); Pilade il soprano castrato Giovanni Toschi; Ifigenia il soprano Rosa Tartaglini Tibaldi; Toante il marito Giuseppe Tibaldi, tenore; Dori il soprano Maria Sartori. Nella sua Ifigenia Traetta fonde i caratteri tipici dell’opera francese (cori e balletti) con quelli dell’opera italiana (arie con da capo), inserite però in una struttura drammaturgica serratissima, con scene molto articolate dove predominano i recitativi accompagnati (ben 11, quante le arie solistiche) e i cori (addirittura 13!). (1)

Se il primo atto si muove ancora nel solco della tradizionale opera barocca con la sua successione di arie solistiche, nel secondo atto il coro inizia a svolgere un suo proprio ruolo drammatico intervenendo direttamente nell’azione con un effetto sorprendente. Abbiamo dunque una lunga scena prima con Dori e Pilade, che cerca l’amico Oreste, e poi con Oreste solo con i suoi rimorsi per il matricidio, quando le Eumenidi inizialmente sembrano cantargli una ninna-nanna accompagnata dai dolci arpeggi dei violini, «Dormi Oreste!», per poi passare alla denuncia della colpa: «Ti scuote, ti desta | l’ombra mesta, sdegnosa, negletta, | d’una madre svenata da te» su un crescendo scandito da oboi, corni e viole. Quindi, sui fremiti delle biscrome dei primi violini incalzati dagli strumenti bassi: «Senti, ingrato, che chiede vendetta, | mostra il seno, ti sgrida, e minaccia; | ti rinfaccia che vita ti diè». Una pagina di una drammaticità raramente rappresentata con tale evidenza nel teatro musicale fino ad allora.

Traetta fu uno dei massimi rappresentanti dell’opera napoletana settecentesca ed è evidente ad esempio nella cullante melodia dell’aria di Ifigenia dell’atto primo «So, che pietà de’ miseri». Ma in lui c’è anche un’urgenza drammaturgica nuova che proietta il suo lavoro nel futuro. 55 anni separano la sua Ifigenia da quella di Caldara, ma sembrano molti di più: le convenzioni dell’opera qui sembrano sorpassate di colpo, le ornamentazioni non sono solo un mezzo per dimostrare le abilità canore dell’interprete, ma un modo per definire in maniera più teatrale il personaggio, sia che si tratti della parte del vilain Toante, di cui si sottolinea la disumana crudeltà, o del dramma di Ifigenia che nell’aria del secondo atto «Che mai risolvere» dipana colorature nervose come quelle della Regina della Notte mozartiana, agilità pienamente giustificate dalla situazione drammatica.

Bene ha fatto il Festival a chiamare un francese per rendere giustizia a questo lavoro con cui si realizza la transizione all’estetica gluckiana. Christophe Rousset, che ha già registrato di Traetta la sua Antigona, alla guida de Les Talens Lyriques imprime alla partitura un impulso ritmico tale da far diventare l’orchestra vero motore dell’azione, non semplice accompagnamento: il passo è travolgente e i tempi e i volumi sonori sempre adeguati. Il colore smagliante degli interventi strumentali è solo una delle qualità dell’esecuzione dell’ensemble, capeggiato dalla Kapellmeisterin Gilone Gaubert, che si distingue per precisione di attacchi e varietà di intenzioni. Nella compagine si ammirano i bei suoni sia degli archi sia degli otto strumenti a fiato presenti (flauto barocco, flauto traverso, oboe, corno inglese, due fagotti e due corni) e pregevole risulta il contributo di Valerie Montanari al cembalo nei lunghi recitativi. Non è da meno il coro NovoCanto, insieme tirolese composto da quattordici voci che nei numerosissimi interventi corali hanno modo di dimostrare la loro qualità vocale messa in luce ad esempio nel citato intervento delle Furie che tormentano il povero Oreste dove le taglienti parole si stagliano con grande efficacia.

Nel cast si distingue l’Ifigenia di Rocío Pérez, il soprano spagnolo dalla fulgida carriera, qui al suo debutto alle Festwochen dove ha entusiasmato il pubblico con la sicura tecnica e l’intensità espressiva di una parte impegnativa perché l’interprete deve dare corpo a un personaggio – da vittima sacrificale nella prima parte in Aulide, qui nella Tauride diventa lei stessa carnefice in quanto designata a immolare alla dea Pallade Atena tutti gli stranieri che mettono piede sulla terraferma, una serie infinita di vittime – che esprime la varietà dei suoi sentimenti in tutti i toni della tragicità. Quella che potrebbe essere una interpretazione monocorde, mostra invece le infinite varietà espressive del personaggio. Altrettanto entusiasta la reazione del pubblico per Suzanne Jerosme, finalista del Concorso Cesti del 2016, qui nei panni di Pilade. Anche se è discutibile la scelta di una voce femminile per il personaggio – si attenua in questo modo l’intensità/ambiguità del rapporto di amicizia maschile quasi omoerotico con Oreste, sottolineato non solo dal librettista Coltellini ma anche dai librettisti dell’Iphigénie en Aulide di Gluck e presente anche in Euripide – la cantante fin dalla sua prima travolgente aria «Stelle irate, il caro amico» sfoggia una padronanza tecnica strabiliante nella rapidità delle colorature e nella piena proiezione vocale, qualità che illuminano ogni suo ulteriore intervento atteso con emozione dal pubblico. Terzo soprano in scena è la danese Karolina Bengtsson, che delinea con sobrietà il personaggio un po’ meno sfaccettato di Dori. 

Anche lui finalista del Cesti del 2018, il controtenore polacco Rafał Tomkiewicz ha timbro gradevole, bei legati ed espressività, ma non soddisfa pienamente come tormentato Oreste, non essendo la dizione tale da rendere incisivi i suoi lunghi recitativi. Niente da dire invece per Alasdair Kent, tenore australiano per il quale le impervie agilità della parte di Toante non costituiscono la minima difficoltà e che insieme alla spigliata presenza scenica definiscono con efficacia l’arroganza del re della Tauride.

La messa in scena di Nicola Raab non si distingue per particolare bellezza o ingegnosità. La regista dà una lettura psicologica della storia interrogandosi sul prima e sul dopo dei fatti rappresentati, sull’ambiguità del rapporto di Ifigenia con Toante, che prima l’ha salvato e poi l’ha “costretta” al ruolo di sacerdotessa e sulla atemporalità della vicenda, sottolineata dai costumi, di Madeleine Boyd, appartenenti a epoche diverse: la Grecia antica, il Rinascimento (?), la modernità. Non nuova, ma efficace per effettuare i diversi cambiamenti di ambientazione, l’impianto scenografico rotante (della stessa Boyd) con cui si passa dalla fiancata di una nave con le lettere ΑΘΗ (le iniziali di Atena) verniciate sulla superficie corrosa, al vuoto del tempio con sospeso il simulacro della dea realizzato in una leggera rete di metallo, all’intimità di un ambiente su due piani ricettacolo di tele e altri oggetti antichi. Alle tante domande la regia non dà molte risposte, come nel finale quando invece di abbracciare finalmente il fratello ritrovato, Ifigenia se ne va da sola sbattendo la porta e lasciando gli altri a cantare la posticcia morale: «E tremino i tiranni | d’un Nume punitor».

Ancora una volta la missione delle Festwochen di far scoprire i gioielli del nostro passato musicale è riuscita e il pubblico si dimostra ampiamente soddisfatto applaudendo con entusiasmo tutti gli artefici della proposta.

(1) Struttura dell’opera:
Sinfonia
Atto primo
1. Recitativo accompagnato Ah, tu non senti, amico (Oreste)
2. Aria Qual destra omicida (Oreste)
3. Aria Stelle irate (Pilade)
4. Coro Fra gl’inni, e i cantici
5. Recitativo accompagnato Ma quale ascolto (Dori)
6. Coro Misero giovane
7. Aria Frena l’ingiuste lacrime (Toante)
8. Recitativo accompagnato Deh, con qual core, amica (Ifigenia)
9. Aria So, che pietà de’ miseri (Ifigenia)
10. Coro O come presto a sera
11. Recitativo accompagnato Ah, ti ravviso (Oreste)
12. Cavata Oh Dio, dov’è la morte (Oreste)
13. Coro Ah, si purghi quest’ostia macchiata
14. Coro Temuta Pallade
Atto secondo
15. Aria Or palpita, e freme (Dori)
16. Recitativo accompagnato Ah! qual s’apre al mio cor (Ifigenia)
17. Aria Che mai risolvere (Ifigenia)
18. Coro Dormi Oreste! Ti scuote, ti desta
19. Aria Ah! Per pietà placatevi (Oreste)
20. Coro di Furie Nere figlie dell’Erebo
21. Coro In queste amare lacrime
22. Recitativo accompagnato Di’: vivi ancora (Ifigenia)
23. Coro di vergini Chi può frenar le lacrime
24. Aria Grazie, pietosi Dèi (Pilade)
25. Recitativo accompagnato Di’: vivi ancora (Ifigenia)
26. Coro Gli strali tremendi
27. Recitativo accompagnato Soccorso santa Dea (Uno dei cori)
28. Aria Smanio di rabbia e fremo (Toante)
Atto terzo
29. Aria V’intendo amici Numi (Oreste)
30. Aria Vedi grave di nembi, e saette (Toante)
31. Recitativo accompagnato Misera! Che farò! (Ifigenia)
32. Duetto Il mio destin non piangere (Dori e Ifigenia)
33. Coro Quante ombre meste (Vergini e Sacerdoti)
34. Recitativo accompagnato Verran tra poco (Pilade)
35. Recitativo accompagnato Fermatevi, custodi (Ifigenia)
36. Seguiam la donna forte (Oreste, Pilade, Dori e coro)
37. Tutti E fremino i tiranni

Stabat Mater

foto © GTG / Monika Rittershaus

Giovanni Battista Pergolesi, Stabat Mater

Ginevra, Cathédrale Saint-Pierre, 16 maggio 2025

★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Né opera, né concerto: lo Stabat Mater di Castellucci, tra installazione e rito

Nella cattedrale di Saint-Pierre a Ginevra, Romeo Castellucci trasforma lo Stabat Mater di Pergolesi in un rito visivo e spirituale di rara intensità. Tra i suoni spettrali di Scelsi e le voci di Barbara Hannigan e Jakub Józef Orliński, la scena diventa meditazione collettiva sul dolore e la rinascita. Emozione pura, silenzio finale come unica risposta.

Chi mai pensasse che nello Stabat Mater di Pergolesi ci sia una certa leziosità settecentesca dovrebbe mettersi in coda per entrare nella cattedrale protestante di Saint-Pierre a Ginevra e ricredersi totalmente con il penultimo spettacolo della stagione del Grand Théâtre.

Si tratta di uno spettacolo che si svolge fuori sede, un lavoro che non è stato concepito per la scena, ma Romeo Castellucci riesce nell’impresa di dare vita alle inquietanti immagini evocate dalla sequenza del beato Jacopone da Todi (1230?-1306), il probabile autore delle terzine formate da due ottonari e un settenario in cui la prima parte, «Stabat Mater dolorosa | juxta crucem lacrimosa | dum pendebat filius», è una meditazione sulle sofferenza della madre di Gesù durante la passione e crocefissione del figlio, mentre la seconda, che inizia con «Eia, Mater, fons amoris, | me sentire vim doloris | fac, ut tecum lugeam», è un’invocazione dell’orante a partecipare il dolore della madre di Cristo.

La prima impressione, entrando nel severo tempio della riforma calvinista (1), è spiazzante sia per la prospettiva sia per l’orientazione simbolica di una chiesa: i banchi sono allineati lungo la navata centrale e rivolti verso sud su un lunghissimo palco di legno chiaro su cui si svolge la cerimonia. Di questo infatti si tratta: il teatro rituale di Castellucci trova qui la sua forma più significativa, quella di un rito quasi liturgico che non richiede applausi, ma la partecipazione intensa degli spettatori e dove i segni religiosi e pittorici si intrecciano in uno spazio di grande intensità emotiva. Le poche luci sono puntate su un’inquietante processione di militari in divisa mimetica, casco e occhiali scuri, armati di strumenti musicali anche loro dipinti in grigio-verde, che vanno a sistemarsi nel coro. Sono infatti i musicisti dell’Ensemble Contrechamps – diciotto fiati, tre percussionisti e cinque archi gravi – che intonano, a preludio della musica di Pergolesi, i Quattro pezzi per orchestra di Giacinto Scelsi, compositore ligure (1905-1988) primo seguace in Italia della dodecafonia di Arnold Schönberg. Scelsi anticipò anche correnti della musica contemporanea quali la minimal music e la musica spettrale e con i Quattro pezzi su una nota sola, scritti nel 1959 e originariamente per orchestra da camera, vuole rendere percepibili la vibrazione e la profondità del suono, la sua consistenza piuttosto che l’arte combinatoria delle note, che qui è una sola per ogni pezzo, che vivono delle minime variazioni dinamiche, colore e densità esaltati dalla riverberazione dell’ambiente. È un’apertura dello spazio nel primo brano, un richiamo nel secondo, un’attesa e una ricerca nel terzo, e una visione infernale attraverso un cluster assordante nel quarto. Con la direzione di Barbara Hannigan, anche lei irriconoscibile sotto la divisa mimetica, si crea un impasto materico monocromo e spettrale su cui si muovono in un balletto astratto tre lunghissime pertiche bianche montate su base motorizzate e oscillanti nella navata della cattedrale come fasci di luce laser.

Le luci, scarsissime, esaltano il dramma che sta per compiersi. Arrivano donne e uomini vestiti di grigio e formano gruppi compatti che “partoriscono” prima una bambina, poi la figura maschile di San Giovanni, infine quella femminile di Maria. Durante l’esecuzione gli interpreti e i figuranti si dispongono in tableaux vivants che ricordano le figure dei compianti medievali o barocchi mentre la musica di Pergolesi, eseguita dall’ensemble del Pomo d’Oro, quintetto d’archi e organo nascosti alla vista degli spettatori, si innesta con sorprendente continuità su quella di Scelsi. I tempi sono dilatatissimi, tengono conto del riverbero acustico con le voci di Barbara Hannigan e Jakub Józef Orliński come emergenti dolenti da un lutto collettivo. Drammatica, quasi viscerale e dai contrasti estremi l’interpretazione del soprano, più sobria la linea vocale del contraltista ma caratterizzata da una grande proiezione e da un’intensa presenza scenica. Nel loro diverso approccio interpretativo, i due cantanti raggiungono livelli di grande drammaticità e tensione emotiva. Visivamente lo spettacolo culmina con l’arrivo di una quindicina di bambini – e dopo ieri sera non si può non pensare ai bambini del lager di Terezín nei loro abitini grigi… – che accolgono in grembo raffigurazioni del corpo martoriato del Cristo. Una miscela straziante di innocenza e morte.

Sull’Amen finale si innestano le Tre preghiere latine (1970) di Scelsi per coro a cappella, qui i coristi della Maîtrise du Conservatoire Populaire di Ginevra, nell’Ave Maria e nel Pater Noster, invisibili e con un suono lontano ed etereo. Ultima la voce solista di Barbara Hannigan nel virtuosistico Halleluja, che chiude la serata quando, nel buio, le porte centrali della cattedrale lentamente si aprono e il pubblico esce sulla piazza. Qualcuno non può fare a meno di applaudire, forse per scaricare la tensione accumulata, ma i più rimangono in silenzio, come in raccoglimento.

(1) Nel programma una nota specifica che «la scenografia e le immagini presentate sono di esclusiva responsabilità degli artisti e non coinvolgono in alcun modo la Chiesa protestante di Ginevra». 

Mitridate

Wolfgang Amadeus Mozart, Mitridate, re di Ponto

Madrid, Teatro Real, 4 aprile 2025

★★★★☆

(diretta streaming)

Un maggiordomo e una famiglia quanto mai disfunzionale

Coprodotta con Francoforte e Barcellona, arriverà anche al San Carlo di Napoli questa produzione del Mitridate, re di Ponto di un Mozart che a quattordici anni ha già assimilato, tra le altre cose, l’opera seria italiana con stupefacente padronanza, tanto da poter offrire il suo lavoro per l’inaugurazione della stagione di carnevale di un teatro come il Regio Ducale di Milano dove andrà in scena con grande successo il 26 dicembre 1770. Qui Mozart vedrà ancora rappresentati Ascanio in Alba (ottobre 1771) e Lucio Silla (maggio 1772).

Nel libretto del Mitridate di Vittorio Amedeo Cigna-Santi non è difficile vedere nel padre dispotico Mitridate e nel figlio alienato Sifare desideroso di emanciparsi senza rompere i legami familiari, una proiezione dei sentimenti che Mozart non poteva più reprimere a quell’epoca. Si appoggiava ancora al padre, da cui riceveva protezione e sicurezza essenziale per la sua crescita come artista, ma cominciava già a emergere una tensione, un bisogno di tagliare i ponti, che l’autorità paterna aveva tenuto repressa, alla maniera di quel Mitridate che torna in vita dopo una falsa morte proclamata da lui stesso per mettere alla prova la fedeltà della sua cerchia più intima. 

Ma c’è anche il personaggio di Aspasia, la quale non osa tradire Mitridate ma neanche a rinunciare a Sifare, per cui rimane combattuta tra i due sentimenti. Per lei Mozart compone una successione di arie e scene impressionante dal punto di vista vocale e drammatico. In questo, Mozart segue fedelmente la tragedia originale di Racine dove la parte di Monime del Mithridate era uno dei più grandi ruoli per un’attrice della Comédie Française ed è con esso che Adrienne Leucouvreur debuttò nell’istituzione nel 1717 con un tale successo da essere subito nominata sociétaire e far nascere intorno a lei una vera e propria leggenda, molti anni prima di Francesco Cilea.

La difficoltà della messa in scena del Mitridate mozartiano – sono molte infatti le esecuzioni in forma di concerto come quella che si ascolterà il mese prossimo alla Scala – sta nell’immaginare un manufatto teatrale in cui integrare le sue impressionanti arie, che sono di per sé piccole opere in miniatura: non consentono un approccio “realistico”, ma, in compenso, fanno appello a situazioni perfettamente reali, persino domestiche. Per questo Claus Guth ha scelto di creare con lo scenografo Christian Schmidt due spazi che coesistono da prospettive antagoniste. Da un lato, un mondo riconoscibile, con un’estetica iperrealista, che fa appello agli ambienti di una villa elegante nella sua modernità anni ‘60, con spazi per scene quotidiane e coniugali, domestiche, in cui è plausibile la storia di due figli rivali, sorpresi quando scoprono che il padre, che credevano morto, torna all’improvviso e scopre le loro slealtà. Accanto a questo, convive un altro spazio: un palcoscenico vuoto di fronte a una grande parete crivellata di buchi neri, uno spazio onirico, astratto, con regole totalmente diverse, in cui i personaggi riflettono e parlano con loro stessi. Da una parte c’è l’azione e dall’altra il suo lato oscuro e tormentato. Qui i personaggi sono raddoppiati o moltiplicati – Mitridate e Aspasia hanno ben sei alter-ego – assieme a minacciosi uomini in nero. Il direttore tedesco si dimostra spietato nella messa a nudo dei complessi, a dir poco, rapporti famigliari tra padre, figli e spose. Su tutti un ineffabile maggiordomo porge bevande, armi, veleni. Con le luci di Olaf Winter e i costumi di Ursula Kudrna Claus Guth costruisce una struttura visiva che oscilla tra realismo e onirico con straordinaria coerenza.

La direzione musicale di Ivor Bolton è di grande livello: il melodismo mozartiano e la tensione drammatica risultano perfettamente equilibrati e l’alternanza dei lunghi recitativi con le arie perfettamente realizzata. Esemplari gli interventi solistici degli strumentisti dell’orchestra del Real come il corno solo in scena durante l’aria di Sifare «Lungi da te, mio bene».

Il ruolo tenorile del titolo ha una tessitura estremamente acuta che sale costantemente fino al do con salti di quasi due ottave. L’interprete per il quale Mozart ha scritto la parte fu Guglielmo D’Ettore, rinomato tenore siciliano che fu anche il Mitridate nell’opera di Quirino Gasparini con lo stesso libretto del Cigna-Santi. Ora a Madrid c’è l’argentino Juan Francisco Gatell, tenore leggero dall’impeccabile fraseggio, bravo attore e convincente come personaggio. Dove la tessitura è accessibile, come nelle arie «Quel ribelle e quell’ingrato» o «Già di pietà mi spoglio», tutto va bene, ma in «Se di lauri il crine adorno», «Tu che fedel mi sei» o «Vado incontro al fato estremo» i molti do lo mettono un po’ in difficoltà e risultano forzati rispetto alla linea di canto altrimenti elegante. Franco Fagioli dimostra ancora una volta la flessibilità del suo strumento la cui estensione dal registro basso a quello più acuto – arriva con agio al la opzionale in «Venga pur, minacci e frema» – per delineare il complesso personaggio di Farnace che conclude l’opera, prima del quintetto finale, con la sua aria solistica piena di tristezza e malinconia. Come Marzio il tenore Juan Sancho ha un’unica aria, ma molto impegnativa, che però qui viene incomprensibilmente ridotta alla sola prima parte. Un’unica aria ha anche Arbate, che il controtenore Franko Klisović risolve con efficacia. 

Eccezionale il terzetto di voci femminili. Aspasia apre l’opera con «Al destin che la minaccia», la prima di quattro arie solistiche che Sara Blanch esegue con stupefacente sicurezza e temperamento, timbro rotondo e uniforme in tutto il registro, controllo dei fiati, acuti perfetti e belle variazioni nei da capo con un’elegante cadenza in «Al destin che mi minaccia». Dove l’aria non richiede colorature, sono i colori e le dinamiche a essere valorizzati, come nella gluckiana «Pallid’ombre, che scorgete». L’amato Sifare qui è Elsa Dreisig en travesti, voce lirica, bella e agile, timbro scuro ma dolce. Grande stilista, ha controllato saggiamente la voce nel duetto «Se viver non degg’io» con quella della Blanch. Anche Marina Monzó ha avuto il suo trionfo come Ismene. Nella sua seconda aria «So quanto a te dispiace» piena di coloratura e di lunghe linee di scale veloci ha cantato con una perfezione immacolata.

La non frequenza del titolo e l’intelligenza della messa in scena saranno motivi per rivedere una seconda volta questa produzione quando arriverà in Italia.

Le nozze di Figaro

foto @ Mattia Gaido

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

Torino, Teatro Regio, 23 novembre 2024

★★★★☆

Inaugurazione in controtendenza del Regio Torinese

Nel 1775 il geniale inventore Abraham-Louis Breguet apriva a Parigi la sua manifattura di orologi. Nello stesso periodo Pierre Jacquet-Droz e figli costruivano delle bambole che, sotto abiti preziosi, celavano complicati e ingegnosi meccanismi per riprodurre i movimenti di uno scrivano, di un disegnatore e di una suonatrice di clavicembalo. Automi che oggi si possono ammirare al museo di Neuchâtel. Nella seconda metà del Settecento è evidente una vera e propria infatuazione per i congegni meccanici precisi e complessi.

Un congegno altrettanto infallibile è quello del teatro di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais – figlio lui stesso di un orologiaio – e in particolare de La folle journée, ou Le mariage de Figaro, che Lorenzo da Ponte tradusse in libretto dopo che la commedia, andata in scena a Parigi dopo innumerevoli ritardi e divieti, a Vienna era stata censurata. È dunque un testo di scottante attualità quello che Mozart mette in musica nel 1786 e anche se ridimensionano gli elementi di critica sociale presenti nell’originale francese, Da Ponte e Mozart inseriscono momenti in cui è evidente lo scontro tra classi: «Se vuol ballare, signor contino» è un esplicito dileggio, sulle note sarcastiche di un minuetto, di Figaro nei confronti del personaggio di casta superiore.

Il fatto che dietro Le nozze di Figaro ci siano tre tra i maggiori genii di teatro di tutti i tempi non poteva che rendere questo un capolavoro assoluto, il vertice massimo nel genere buffo settecentesco. Un titolo frequentemente inserito nei cartelloni dei teatri italiani, che però per la inaugurazione della loro stagione, dopo l’indigestione pucciniana, preferiscono puntare su Verdi – come fanno infatti quest’anno il Teatro alla Scala (La forza del destino), La Fenice (Otello), l’Opera di Roma (Simon Boccanegra), il Maggio Musicale Fiorentino (La traviata), il Regio di Parma (Giovanna d’Arco) – non il Regio di Torino però, che non solo preferisce Mozart, ma ne affida l’esecuzione a un direttore giovane e poco conosciuto, Leonardo Sini. Nato a Sassari 34 anni fa e con una carriera già consolidata, Sini affronta la partitura con passo spedito e trascina gli eventi in una corsa dal ritmo incalzante. Buono l’equilibrio tra buca e palcoscenico con solo un piccolo scollamento tra orchestra e cantanti nel terzo atto che verrà sicuramente risolto nelle repliche. Il tono brillante dell’orchestra si ritrova nel colore ispanico di alcune pagine come il fandango con le castagnette suonate dai ballerini nella coreografia di Nuria Castejon. Sono salve però le oasi liriche, quando sui personaggi scende per un momento una nebbia malinconica o nel finale quando il perdono della Contessa, dopo le traversie incontrate nel corso della folle journée, sembra elargito a tutta quanta l’umanità.

Il cast è abbastanza omogeneo senza punte di particolare eccellenza. Il Figaro di Giorgio Caoduro si fa ammirare sia nei recitativi sia nei momenti più cantabili, dove l’eleganza del fraseggio predomina sulla vivacità del personaggio che risulta delineato con sobrietà. Lo stesso si può dire per il Conte di Vito Priante, dalla recitazione asciutta e dalla espressione vocale precisa e nobile. Una sostituzione dell’ultimo momento è quella di Monica Conesa con Ruzan Mantashyan che acquista il portamento sontuoso della Contessa ma vocalmente il soprano armeno delude in parte per un legato non impeccabile nelle sue grandi arie e acuti non limpidissimi. Meglio lo stile della Susanna di Giulia Semenzato che, se non la sensualità del personaggio, regala delle belle variazioni. Delizioso il Cherubino di Josè Maria Lo Monaco, mezzosoprano catanese dal bel timbro e dai rapinosi passaggi a mezza voce. Ben definiti sono la Marcellina di Chiara Tirotta, il Bartolo di Andrea Concetti e il Basilio di Juan José Medina, allievo del Regio Ensemble. Un eccesso di caratterizzazione quello del Don Curzio di Cristiano Olivieri a cui la regia impone una balbuzie da avanspettacolo. Scenicamente più sviluppata del solito è la parte del giardiniere Antonio, qui il sostanzioso Janusz Nosek del Regio Ensemble. Magico come sempre il momento di Barbarina affidata a un’altra allieva del Regio Ensemble, l’incantevole Albina Tonkikh. Affidabile come sempre il coro istruito da Ulisse Trabacchin, dal quale si staccano le vivaci contadine di Eugenia Braynova e Daniela Valdenassi.

Di Emilio Sagi, direttore che ha spesso frequentato il genere spagnolo per eccellenza, ossia la zarzuela, ricordo il suo vivacissimo Barbiere di Siviglia rossiniano, dove alla fine i due innamorati volavano via in mongolfiera. Ora ne Le nozze di Figaro il Conte e Rosina sono scesi da tempo dalla mongolfiera, sono più maturi, in parte disillusi, soprattutto la ragazza diventata Contessa, che deve fare i conti con l’età e con le intemperanze del marito. Nella sua lettura Sagi stempera i motivi di critica sociale per esaltare invece l’aspetto ludico ed erotico da commedia di equivoci e intrighi amorosi. Il regista, che è stato Direttore Artistico del Teatro de la Zarzuela e poi del Teatro Real di Madrid (ed è da qui che arriva questa produzione de Le nozze) sottolinea l’elemento “Siviglia” nel suo allestimento: non solo le sue architetture tipiche nelle scenografie di Daniel Bianco e nei costumi di Renata Schussheim, ma anche il sole della città andalusa, che inonda il patio del palazzo del Conte, in cui avvengono le controscene in secondo piano, o che risveglia la Contessa quando Susanna scosta le tende delle due grandi finestre. A questo proposito, nella sua accurata regia Sagi si lascia andare a qualche errore drammaturgico: non è infatti pensabile che la Contessa appena risvegliata intoni «Porgi, amor, qualche ristoro al mio duolo, a’ miei sospir» come prima cosa. Altro errore nel primo atto, proprio all’inizio, quando Figaro misura non la stanza bensì il letto già posizionato in un ambiente di per sé vastissimo. Non un errore ma un momento che poteva essere meglio rappresentato quello della tirata di Figaro contro le donne: il testo di Da Ponte compensa l’attenuata carica sociale con una misoginia tipica del suo tempo ma che suona fastidiosa alle nostre orecchie. Non dico eliminarla in omaggio a un imperversante atteggiamento politically correct, ma c’era modo di “virgolettarlo” senza renderlo ancora più palese con Figaro al proscenio e le luci accese in sala.

Un sipario dipinto a drappi rossi bordati d’oro separa e mostra in trasparenza i diversi quadri dell’opera. Le scenografie vagamente strehleriane nelle dimensioni e nei colori sono illuminate dalle belle luci di Eduardo Bravo mentre particolarmente riuscito è l’allestimento del terzo atto, con il salone scandito da archi e colonne, e del patio del finale, ricco di vasi, piante, fiori e una fontana. Un suggestivo panorama notturno su cui si alza una grande luna piena. Attento è il gioco registico, ma sempre sobrio e affidato alle competenze attoriali degli interpreti.

Molto felice l’esito della serata con applausi intensi e prolungati soprattutto per Susanna, Cherubino e il direttore. Con questo spettacolo, dopo il felice progetto delle tre Manon, parte ufficialmente la stagione del Regio, intitolata “La meglio gioventù”, come il film di Giordana, dedicata ai diversi aspetti della gioventù che fanno da fil rouge nella scelta dei titoli. Infatti dopo la parentesi ballettistica, di prammatica nel periodo natalizio, il cartellone riprenderà a fine gennaio con L’elisir d’amore, un’altra vicenda di amori giovanili.

L’Olimpiade

foto @ Vincent Pontet

Antonio Vivaldi, L’Olimpiade

Parigi, Théâtre des Champs Élysées, 23 giugno 2024

★★★★☆

(video streaming)

Olimpiade a Parigi, quella di Vivaldi però

Un mese prima dell’apertura dei Giochi Olimpici a Parigi, il Théâtre des Champs Elysées mette in scena quell’Olimpiade di Vivaldi che era stata qui eseguita in forma di concerto nel febbraio 2022.

Nonostante il titolo non si tratta di un’opera sullo sport, ma sull’amicizia e le vicissitudini dell’amore. Vi si racconta di come Licida, salvata la vita a Megacle che da allora è diventato suo amico “per la vita e per la morte”, è promesso ad Argene ma è infatuato della principessa Aristea, senza sapere che il suo amico Megacle è innamorato di lei. Poiché il padre della ragazza l’ha promessa al vincitore dei Giochi Olimpici, Licida, di scarse attitudini sportive, chiede a Megacle di prendere il suo posto nelle gare, fingendo di essere lui. Questo mette in contrasto l’amico e crea una situazione complessa che richiede ben tre ore per essere risolta. 

Le più di cento versioni a stampa de L’Olimpiade dimostrano la popolarità del libretto di Metastasio e tra i quasi sessanta compositori che hanno intonato il testo non poteva mancare Antonio Vivaldi che, dopo Antonio Caldara l’anno prima, la mette in scena il 17 febbraio 1734. L’autografo vivaldiano si trova, come tanti altri, alla Biblioteca Nazionale di Torino nella collezione del fondo Foà. Si tratta di una partitura chiara e curata, con pochissimi errori, forse la bella copia destinata da Vivaldi al copista, con solo qualche correzione nell’aria di Megacle «Se cerca, se dice». Sembra che la voce di basso inizialmente prevista per Aminta fosse poi destinata alla parte di Alcandro in questa nuova distribuzione e questo spiega le due arie aggiunte, non presenti nell’originale metastasiano, così da bilanciare nel numero quelle di Aminta e quelle di Alcandro. Il testo di alcune arie è modificato rispetto all’originale metastasiano, ma rari sono in questo lavoro i casi di autoimprestito. Trama e struttura sono le stesse dell’Olimpiade di Pergolesi.

L’ambientazione scelta dal regista Emmanuel Daumas è quella di una palestra, ricostruita nella scenografia di Alban Ho Van, dove si allenano cinque sportivi che con le loro acrobazie rubano la scena ai cantanti come nel caso di Quentin Signori, che con la sua esibizione al filo suscita più applausi di Aristea che canta «Sta piangendo la tortorella» o la break-dance di Orlinsky quando Argene intona «Per que’ tanti suoi sospiri». Gli ironici e geniali movimenti coreografici di Raphaëlle Delaunay, i costumi di Marie La Rocca e le parrucche, i maquillages e le maschere di Cécile Kretschmar danno un ilare tocco offenbachiano a questo dramma metastasiano e con la sua frizzante messa in scena Daumas rende bene lo spirito di meraviglia dell’opera barocca introducendo toni irriverenti e spassosi.

Lo stesso Jean-Christophe Spinosi, che l’aveva diretta in forma di concerto due anni fa, ritorna alla guida dell’Ensemble Matheus per esaltare i tempi e prendersi la libertà di far accompagnare dal violoncello solo l’aria «Sciagurato in braccio a morte» di Alcandro, far cantare a Megacle il finale «Viva il figlio delinquente» a cappella e aggiungere tocchi musicali moderni. A questo approccio inconsueto e frizzante si adattano gli interpreti, soprattutto Jakub Józef Orliński che permea il personaggio di Licida della sua esuberante personalità fatta di agilità vocali e di movimenti di break-dance eseguiti mentre continua a cantare! Se Angela Zanacchi, virtuosa di S.A. d’Armstat era stata ammirata alla prima del Teatro veneziano di Sant’Angelo, qui sulle tavole del TCE sono le acrobazie del controtenore polacco a suscitare i maggiori applausi. Ma di Orliński si apprezzano anche le doti espressive nella sensuale aria «Mentre dormi Amor fomenti», che in questa versione vivaldiana si confronta con quella di Pergolesi e non si sa quale premiare per la bellezza di entrambe, o la drammatica «Gemo in un punto e fremo» con cui si conclude il secondo atto.

Trasformata in body builder, Marina Viotti è vocalmente la trionfatrice della serata. Come Megacle esibisce una vasta gamma di sentimenti e colori senza mai perdere la bellezza della linea di canto. In «Se cerca, se dice» Vivaldi trasforma la forma chiusa dell’aria in una vera scena di grande drammaticità. Caterina Piva è un’Aristea scenicamente convincente ma la linea di canto è spesso scomposta mentre l’Argene di Delphine Galou mostra talora la corda vocalmente. Il precettore Aminta qui si trasforma in una specie di maga a cui presta la voce Ana Maria Labin che con la celebre aria «Siam navi all’onde algenti», creata per il castrato Marianino Nicolini, chiude la prima parte.

Nella esecuzione del 2022 era Alcandro, ora Luigi de Donato è un autorevole ma anche parodistico Clistene, sempre pronto a sbudellare la vittima di turno in sacrificio a Giove. Ancora più comico l’Alcandro di Christian Senn che però con il suo numero con l’assolo di violoncello mette in luce le sue doti musicali ed espressive.

Nel finale riappare l’acrobata tutto dipinto di blu e con la fiaccola olimpica per ricordarci che tra quattro settimane incomincia la grande kermesse sportiva. Ce ne eravamo quasi dimenticati nel mondo favoloso di Vivaldi.

Don Giovanni

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevèchée, 14 luglio 2010

★★★☆☆

(video registrazione)

Ultimo tango a Aix

È Festen, il film del 1998 diretto da Thomas Vintenberg, a ispirare la lettura di Dmitrij Černjakov del Don Giovanni: la vicenda è privata di ogni valenza mitica e ambientata nella contemporaneità di una composita famiglia in cui il personaggio di Don Giovanni è il catalizzatore di forti reazioni tra i vari componenti – com’era in Teorema, il film di Pasolini. All’inizio li vediamo seduti a un tavolo, riuniti per qualche ricorrenza, in un elegante e austero salone biblioteca pieno di fiori.

Abbiamo dunque il capofamiglia, il Commendatore; la figlia Donna Anna; il suo attempato fidanzato Don Ottavio; Zerlina, la figlia di Donna Anna da un precedente matrimonio; lo sposo di Zerlina, Masetto; Donna Elvira, cugina di Donna Anna; Don Giovanni, marito di Donna Elvira; Leporello, il parente nullafacente che vive nella stessa casa. Rivedremo la stessa scena nel finale architettato ai danni di Don Giovanni. Il regista russo piega dunque la vicenda per una sua drammaturgia lontana dalle intenzioni degli autori ma che rivela la sua efficacia tale è l’abilità con cui viene realizzata e ancora una volta ci si stupisce di come il testo di Da Ponte e la musica di Mozart si adattino così bene alla rappresentazione delle problematiche delle relazioni contemporanee.

Nel suo cappottone di cachemire cammello, trasandato – tale e quale al Marlon Brando di Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, un altro riferimento cinematografico – il Don Giovanni di mezza età di Černjakov è un corpo estraneo alla famiglia, ma un modello per il giovane Leporello. Giovanni ha da tempo una relazione con Anna, ma ora è in crisi. La donna però non si arrende e rincorre supplicando l’uomo. L’arrivo del Commendatore complica le cose: nella collutazione muore sbattendo la testa contro un piano della libreria. Un sipario nero cade dall’alto e su questo si proietta la prima di tante didascalie che scandiscono il passare del tempo. Cinque giorni dopo siamo infatti nello stesso ambiente trasformato in camera ardente, con il ritratto del vecchio tra funebri corone di fiori. Anna in lutto si consola con l’alcol, ma è evidente che più che al padre morto pensa all’ex amante, come evidente è la natura del rapporto tra Elvira e Giovanni: una coppia aperta che inscena rituali in cui Elvira fa la parte della moglie che insegue inutilmente il marito con i suoi tradimenti, cinicamente elencati da Leporello, ma già ampiamente conosciuti da Elvira. La festa con cui Zerlina presenta il fidanzato tamarro agli amici è interrotta dall’arrivo di Giovanni e Leporello e qui inizia la farsa della seduzione: Giovanni è infatti il padre di Zerlina ma lei è l’unica a non saperlo ed è lei a provare un’insolita attrazione per lo “zio”. È Elvira che rivela il segreto all’orecchio della ragazza, che da quel momento rimane molto disturbata.

Adulterii, infedeltà, rancori, attrazioni incestuose: il peggio che può dare una famiglia è impietosamente messo in scena con lucida coerenza ed eccezionale abilità drammaturgica. Alla fine tutti si alleano contro Giovanni e inscenano un’ultima finta riunione famigliare utilizzando un attore sosia del Commendatore: Giovanni è ormai al delirio, si attacca alla bottiglia, è in preda di fitte al petto. Non muore, ma viene abbandonato da tutti, Zerlina addirittura gli sputa in faccia.

Così termina il “Don Giovanni di Dmitrij Černjakov con musiche di Mozart”. Un gran pezzo di teatro che dimostra la duttilità della musica e del libretto settecenteschi ad adattarsi alla psicologia di personaggi di oggi. 

Se l’aspetto visivo è l’elemento premiante di questa produzione, anche su quello sonoro si possono spendere parole di lode per la direzione nervosa di Louis Langrée alla testa dei Freiburger Barockorchester con i loro strumenti storicamente informati che si adattano perfettamente all’azione sul palcoscenico, così violenta e chiaroscurata. Bene anche gli interventi corali delle English Voices.

Premessa l’eccellenza attoriale degli interpreti, non tutti brillano per eccellenza vocale. Certo non Bo Skovhus, protagonista poco musicale, dalla linea di canto spezzata e costretto spesso al parlato, ma neanche il Don Ottavio poco consistente di Colin Balzer. Più convincenti il Leporello di Kyle Ketelsen, il Masetto di David Bižić e il Commendatore di Anatoli Kotscherga. Non male il cast femminile con la tesissima Donna Anna di Marlis Petersen, l’intensa Donna Elvira di Kristīne Opolais e la Zerlina di Kerstin Avemo.

Le perplessità del pubblico sono del tutto superate quando lo spettacolo viene ripreso tre anni dopo con la direzione di Mark Minkowski e interpreti nuovi, a parte Leporello e Commendatore. La produzione del 2010 è disponibile in DVD della BelAir.

Don Giovanni

foto © SF/Monika Ritterhaus

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 9 agosto 2024

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

La solitudine del Cavaliere

Il Don Giovanni di CC – non Chanel, ma Currentzis & Castellucci… – tre anni fa era stato lo spettacolo di punta del Festival di Salisburgo che riprendeva dopo la pandemia. Ora viene riproposto con gli stessi artefici, un cast in parte modificato e alcune variazioni nella messa in scena. 

La versione scelta da Teodor Currentzis è quella di Vienna senza il duetto Zerlina-Leporello del secondo atto, ma col finale di Praga. Tra i numeri mozartiani sono inserite altre musiche, particolarmente lunghe quelle che precedono la scena del cimitero. Dopo aver abbassato il diapason a 430 Hz, le scelte dinamiche del direttore greco-russo sono portate all’estremo, con recitativi molto “recitati” e lunghe pause, ma la loro dilatazione ha un corrispettivo con le dilatazioni visuali adottate dal regista. Le arie che seguono i recitativi hanno un attacco repentino e ricche sono le variazioni nelle riprese. Con le improvvisazioni di Maria Shabashova al fortepiano, Currentzis non fa che riattivare una pratica musicale del tempo di Mozart: quella di Currentzis è pura filologia da questo punto di vista – anche se spesso improvvisazioni e variazioni non sono esattamente in stile settecentesco. 

Anche Romeo Castellucci reintroduce nella pratica teatrale di oggi quella del Settecento, ridando senso teatrale a quella che è spesso la pratica museale di molte esecuzioni moderne. Come scrisse a suo tempo Dino Villatico, le sue messe in scena non sono mai un’illustrazione più o meno avvincente del dramma, ma una sorta di discorso parallelo o sotterraneo che commenta il testo rappresentato. Castellucci si prende la libertà di trasportare sulla scena un’interpretazione che riveli lati nascosti o poco indagati del testo. Il regista italiano è a Salisburgo per la seconda volta dopo la sua Salome del 2018 e affronta un lavoro di Mozart per la terza volta dopo Die Zauberflöte (Bruxelles, 2018) e il Requiem (Aix-en-Provence, 2019). Nel Don Giovanni la vicenda è talmente nota che nella sua lettura Castellucci – che cura come sempre tutti gli aspetti della parte visiva: regia, scenografie, costumi e luci – ne rovescia tutti i meccanismi narrativi grazie alla drammaturgia di Piersandra di Matteo. Qui la solitudine del cavaliere è assoluta, la sua serenata è un numero totalmente solipsistico e nel finale completa la sua autodistruzione, disperatamente cercata fino a quel momento, rimanendo solo e nudo, ricoperto di bianco al pari di una statua classica o come i gessi di Pompei in cui si trasformano anche gli altri personaggi. In questa visione del tutto pessimistica del “dramma giocoso” il regista privilegia il primo termine e nel finale «l’antichissima canzon», intonata dal coro in buca invece che dai personaggi in scena, diventa una cantata che conclude con solennità una tragedia. L’aspetto “giocoso” è affidato alle innumerevoli trovate che costellano lo spettacolo: i figli di Donna Elvira che terrorizzano Don Giovanni; la gag comica che segue il «Lasciar le donne» di Leporello; i sempre diversi outfit con cui si presenta Don Ottavio il cui carattere fatuo e svirilizzato viene evidenziato da travestimenti femminilizzanti al limite del ridicolo, ed eccolo quindi ammiraglio, con annesso modellino di nave radiocomandato e ventaglio di piume, Pierrot con barboncino, crociato etc. Nella sua ansia di stupire il regista riesce a stupire il pubblico quando durante “l’aria dello champagne” tutta l’orchestra viene sollevata in alto con effetto entusiasmante.

La scena fissa rappresenta l’interno di una chiesa che all’inizio, nel silenzio, viene completamente spogliata dei suoi arredi: i banchi, le tele, le statue, l’altare. Nel momento in cui il grande crocifisso viene calato dal muro attacca la musica dell’ouverture. Una capra che attraversa il palcoscenico e una donna nuda che si nasconde dietro i pilastri confermano che quello che rimane è uno spazio “sconsacrato”, non c’è dimensione spirituale in questo dramma tutto esistenziale. Nella sua prima apparizione Don Giovanni entra in scena minacciosamente con un martello in mano, ma non per il Commendatore – quello morrà di un attacco cardiaco – , il martello è per sottolineare la figura iconoclasta del Cavaliere. Ben presto scende un velatino e la garza rende le immagini sfocate, oniriche; tutto è in un bianco abbagliante, i particolari sono poco distinguibili, come avvolti in una nebbia. Leporello sarà l’unico a uscire fuori da questo velatino nel finale: libero dal padrone lo può osservare con distacco attraverso questo diaframma. Don Giovanni e Leporello sono uguali nei vestiti e nei movimenti, l’unica differenza essendo la catena che Leporello porta a mo’ di cintura, quella con la quale il padrone tiene “incatenato” il servo. Loro sono in bianco, Donna Elvira osa qualche colore negli abiti, Donna Anna è in nero, una figura tragica che porta con sé la maschera della tragedia, infatti, e incarna una delle furie («Come furia disperata | ti saprò precipitar») che la accompagnano. E sono furie in nero quelle che come le Baccanti fanno a pezzi il corpo del povero Masetto. Il «Vedrai carino» di Zerlina è infatti rivolto ai pezzi di un manichino, non al martoriato corpo dello sposo: la sessualità è deumanizzata e Don Giovanni sogna il «ristoro» che gli può procurare la bella alla finestra accarezzando una scala di alluminio. L’elemento femminile è presente con una folla di 150 cittadine salisburghesi di ogni età, genere e (dis)abilità, che creano una massa intimidatoria, come il coro giudicante della tragedia greca. Sono ancora i loro corpi, coperti di veli neri, a formare il cimitero del secondo atto. 

La messa in scena di Castellucci non è priva di simbolismi e autocitazioni: il pianoforte che cade dall’alto e si sfascia – ma ancora è possibile strimpellarci sopra le note del basso continuo – o la carrozza nera che perde una ruota quando Don Giovanni capisce che il suo gioco di seduzione con Zerlina viene messo in crisi da Donna Elvira, o il catalogo di Leporello che diventa non una ma due fotocopiatrici, la seconda calata dall’alto come il registratore Revox nel suo Moses und Aron. Altre sono più criptiche, come l’immondizia che riempie il palcoscenico nel finale primo con il vecchio barbuto in bikini a fiori.

Nel suo horror vacui per riempire lo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus, Castellucci affastella gag e oggetti in quantità talora eccessiva, ma nel complesso il suo è uno spettacolo altamente intrigante, anche se non col ritmo che ci aspettiamo dalla folle journée di un libertino. La prima parte è decisamente più riuscita della seconda e bellissimo l’ingresso dei giovani sposi Zerlina e Masetto con le infinite mele che rotolano sul palcoscenico e una di queste ritornerà sull’albero della tentazione. 

Currentzis nella sua concertazione si prende le solite libertà, ma mette in luce particolarità della partitura come i suoni quasi materici e sporchi di certi interventi dei fiati, la trasparenza degli archi e dei legni, l’impeto trascinante dei tempi vivaci, il tono sognante di quelli lenti. Il suo Mozart, come aveva dimostrato col Requiem eseguito a marzo a Torino, è sempre sorprendente e spesso illuminante.

Un Don Giovanni seducente ma interiorizzato è quello di Davide Luciano, lo stesso interprete della produzione originale, che dà prova di grande resistenza – è quasi sempre in scena – e sensibilità: il bel timbro caldo si piega a sottigliezze che raramente abbiamo ascoltato e la presenza scenica è sicura ma non strabordante. Tutti nuovi gli altri interpreti maschili, ma se il Commendatore di Dmitrij Ul’ianov è autorevole fisicamente e vocalmente, Kyle Ketelsen, cantante raffinato e intelligente che è stato il Don Giovanni di Barrie Kosky a Vienna nel 2021, qui è un Leporello un po’ sotto tono e vocalmente spesso coperto dall’orchestra. Anche il Masetto di Ruben Drole non brilla per particolari doti vocali col suo timbro spento. Troppo esangue e poco convinto del ruolo assegnatogli dal regista il Don Ottavio di Julian Prégardien, che risolve eccellentemente le difficoltà della sua prima aria, mentre nella seconda è meno convincente. 

Meglio il reparto femminile, dove Nadežda Pavlova, che tre anni fa aveva avuto qualche incertezza di intonazione, qui dimostra invece grande sicurezza nelle agilità vocali e nella impervia tessitura della parte di Donna Anna di cui privilegia comunque l’elemento belcantistico più che quello tragico, ma così trascina il pubblico che la acclama. Ritorna nella parte di Donna Elvira Federica Lombardi e qui sembra un po’ affaticata pur disegnando una Donna Elvira passionale e decisa, pur non sempre vocalmente controllata. Bene la vivace e luminosa Zerlina di Anna el-Khashem.

Alla fine standing ovation del pubblico. Nella città natale di Mozart non si ha il timore di mettere in scena i suoi capolavori interpretandoli e facendoli diventare uno spettacolo di oggi: choccante e da discutere – come sempre dovrebbe essere il teatro. Anche il teatro musicale.