Francesco Maria Piave

Rigoletto


foto © Mattia Gaido

Giuseppe Verdi, Rigoletto

Torino, Teatro Regio, 28 febbraio 2025

★★★★☆

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Rigoletto nella Belle Époque

Febbraio, mese di Rigoletto? In queste settimane la Fenice di Venezia riprende l’intrigante produzione di Michieletto, il Maggio Fiorentino quella di Livermore, e ora al Regio di Torino è la volta della nuova lettura di Italo Muscato, che già lo aveva messo in scena a Roma nel 2016. 

Se poi uno avesse voglia di varcare le Alpi, questo mese potrebbe vedere dei Rigoletti in Bielorussia, Moldavia e Ucraina, a Danzica, San Pietroburgo, Praga, Berna e due diverse produzioni in Germania. Giusto per avere ulteriore conferma dell’indiscussa popolarità del titolo verdiano, secondo solo a La traviata, stabilmente al primo posto assoluto per numero di rappresentazioni nel mondo.

Nella stagione del teatro torinese Rigoletto non solo rappresenta al meglio il grande repertorio, quello più amato dal pubblico – che infatti ha esaurito i posti disponibili in tutte le recite – ma è anche, nelle parole del sovrintendente Mathieu Jouvin, «un’opportunità per ribadire il valore di un teatro che incarna i principi culturali europei. Con questa produzione, infatti, aggiungiamo un nuovo tassello al dialogo tra la cultura francese e quella italiana, suggellato dall’incontro tra due “miti”: Giuseppe Verdi e Victor Hugo. Entrambi dovettero confrontarsi con problemi di censura, ma mentre il dramma di Hugo fu a lungo interdetto perché venivano contestati apertamente i facili costumi della monarchia, e dunque si trattava di un testo di natura politica, l’opera di Verdi […] si concentra sull’umanità dei protagonisti e conferisce valore universale ai loro sentimenti e alle loro fragilità».

 

Nelle fasi del lavoro di composizione di questo dramma destinato a quel teatro, la Fenice di Venezia, dove due anni dopo fallirà La traviata, scriveva Verdi: «Io trovo […] bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore». Primo pannello di quella che sarà definita la “trilogia popolare”, Rigoletto segna la piena maturità del compositore e un punto di svolta nella sua carriera, dove musica e dramma si fondono in un’unità potente ed emotivamente travolgente. Rivoluzionario è l’irrompere del “vero” nel teatro in musica: protagonisti di un’opera sono un uomo fisicamente deforme (Rigoletto) e una donna moralmente compromessa (Violetta). 

Un’operazione di tale rottura aveva bisogno anche di una musica “diversa”, e quella del Rigoletto lo è in molti punti. Qui Verdi integra musica e dramma in modo innovativo, superando la struttura tradizionale di arie e recitativi e le convenzioni del bel canto: le transizioni tra scene sono fluide, viene privilegiata una narrazione musicale continua e unitaria, in cui i numeri chiusi sono funzionali alla progressione drammatica. L’orchestra commenta l’azione e amplifica le emozioni, come il temporale nell’atto III che riflette il caos interiore dei personaggi. Il tema oscuro e minaccioso associato alla maledizione di Monterone ricorre come un filo conduttore, un uso che anticipa i Leitmotive wagneriani, pur senza la loro sistematicità. Anche nell’orchestrazione Verdi introduce innovazioni usando gli strumenti in modo espressivo, con colori che accentuano le atmosfere: gli archi gravi per la maledizione, i legni per l’ingenuità di Gilda. Tutto è chiaro ed evidente nella concertazione di Nicola Luisotti, uno dei due i punti di forza di questa produzione torinese. 

Interprete raffinato e assiduo frequentatore del repertorio verdiano, Luisotti legge la partitura con grande slancio drammatico, ma altrettanta attenzione alle esigenze del palcoscenico con tempi sempre equilibrati che si dilatano con sensibilità nei momenti lirici e diventano giustamente più incalzanti nelle svolte drammatiche. Mai come sotto la sua bacchetta la strumentazione e la melodia di Verdi mostrano la loro raffinatezza – quanto sono lontani i tempi dello zum-pa-pà con cui veniva eseguito con stanca tradizione il suo repertorio più popolare –, qui tutto è trasparenza ed eleganza, dominano gli equilibri espressivi, le sfumature delicate. L’orchestra non accompagna le voci: ne è l’alter-ego strumentale, il sostegno sonoro ed emotivo di quanto viene espresso nel canto.

Come quando in scena c’è Giuliana Gianfaldoni, l’altro punto di forza di questa produzione, una Gilda memorabile per bellezza di emissione e di timbro. Un canto legato che incanta l’ascoltatore con la soavità dei mezzi suoni, le celesti smorzature, la fluidità delle note, che non sono più solo note, ma suoni di immacolata purezza. Il «Caro nome» fa venire giù il teatro dagli applausi e non viene bissato solo perché si comprometterebbe la continuità dell’azione.

La misura e la perfetta dizione sono due delle qualità del baritono George Petean, un Rigoletto espressivo che sfoggia un bello strumento sonoro impiegato con gusto. Ritorna nella parte che ha interpretato frequentemente Piero Pretti, un Duca di Mantova vocalmente solido ma non attraente, sicuro ma non al massimo dell’espressività. Espressività di cui è ricca invece la Maddalena di Martina Belli, che sfoggia altresì una presenza scenica di tutto rilievo. Doverosamente cavernoso è lo Sparafucile di Goderedzi Janelidze, ma la dizione è un po’ problematica, mentre autorevole è il conte di Monterone di Emanuele Cordaro. Cinque artisti del Regio Ensemble prestano la loro ormai sicura presenza: Siphokazi Molteno (Giovanna), Janusz Nosek (Marullo), Daniel Umbelino (Matteo Borsa), Tyler Zimmerman (Il conte di Ceprano) e Albina Tonkikh (La contessa di Ceprano). Chiara Maria Fiorani come Il paggio della duchessa e Mattia Comandone come Un usciere di corte, completano il cast. Particolarmente convincente il coro del teatro istruito da Ulisse Trabacchin.

Nelle sue intenzioni, il regista Leo Muscato vuole «restituire al pubblico l’essenza archetipica e dolente di Rigoletto. La sua doppia identità, la tensione tra sacro e profano e il mondo di specchi in cui si muove riflettono una società in disfacimento, ancora incredibilmente attuale. L’atmosfera decadente richiama anche suggestioni cinematografiche [dove] il mondo appare distorto, quasi onirico, e la realtà si mescola con l’illusione. È questa la suggestione attraverso la quale racconto il terzo e ultimo atto di Rigoletto: la taverna di Maddalena e Sparafucile diventa un luogo rarefatto, permeato da un senso di attesa sospesa; qui Gilda osserva il Duca attraverso un velo di fumo, in un contesto dove i contorni della realtà si dissolvono». Che queste intenzioni non si colgano nella effettiva messinscena sarà probabilmente una mia insufficiente attenzione. L’ambientazione scelta dal regista e dai suoi collaboratori – Federica Parolini per le scene, Silvia Aymonino per i costumi e Alessandro Verazzi alle luci – è quella di un mondo primo novecento gaudente e incosciente, ma visto con la lente deformante di un cauto espressionismo. La vicenda è narrata linearmente a parte qualche variante non del tutto comprensibile: Monterone muore di un attacco di cuore dopo la sua invettiva e appare quindi come “fantasma” quando dovrebbe invece entrare in carcere; la reclusione di Gilda avviene in un educandato femminile gestito da suore che però mal controllano il via vai di uomini all’interno; poco credibile è anche la «casa mezzo diroccata sulle sponde del Mincio» qui diventata fumeria d’oppio e bordello di lusso molto frequentato. Oltre che lineare il racconto messo in scena da Muscato è spesso ridondante: si parla del Duca, ed eccolo lì in carne e ossa; una scala serva al rapimento? qui ce ne sono ben cinque, mentre i rapitori si muovono come il Gatto Silvestro…

Nei saluti finali l’applausometro premierebbe nell’ordine Giuliana Gianfaldoni con ovazioni, il Maestro Luisotti con altrettanto entusiasmo, subito dopo George Petean e infine Piero Pretti. Applausi al minimo sindacale per la regia.

Rigoletto

foto © Michele Monasta – Maggio Musicale Fiorentino
(non ci sono fotografie col protagonista della serata del 18 febbraio)

Giuseppe Verdi, Rigoletto

Firenze, Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, 18 febbraio 2025

★★★★☆

Al Maggio Fiorentino riproposto il Rigoletto di Livermore

Il Rigoletto è titolo che non manca di certo nelle stagioni liriche fiorentine. Subito frequentatissimo – negli anni 1852-62 si ebbero rappresentazioni alla Pergola, al Leopoldo, al Teatro Nuovo, a quello di Borgognissanti, al Pagliano e all’Alfieri – rimase poi stabilmente in repertorio e dal 1934 sui palcoscenici del Comunale e del Verdi si succedettero venti diverse produzioni. L’attuale nuovo edificio nel 2015 ha ospitato la messa in scena di Henning Brockhaus, mentre nel 2018 e 2019 il Rigoletto di Francesco Micheli ha fatto parte del Progetto Trilogia Popolare. In piena pandemia e con i teatri chiusi al pubblico, il 23 febbraio 2021 fu trasmessa in streaming la produzione di Davide Livermore diretta da Riccardo Frizza (con Javier Camarena, Luca Salsi ed Enkeleda Kamani) che nell’ottobre dello stesso anno potè arrivare normalmente in sala in tre rappresentazioni con Piero Pretti, Amartuvshin Enkhbat e Mariangela Sicilia.

Quella produzione è ora riproposta con lo stesso Sparafucile di allora ma con tutti gli altri interpreti nuovi. Nella recita del 18 febbraio Rigoletto ha la voce di Leon Kim, baritono sudcoreano specializzato al Conservatorio Cherubini di Firenze e frequentemente presente nel repertorio verdiano (Germont, fra Melitone, Conte di Luna, Foscari, Macbeth, Amonasro, Miller, Renato, Paolo Albiani…). Voce chiara ma di grande proiezione, fraseggio variegato, accorto uso dei livelli sonori, delinea con sensibilità il personaggio e il suo «Cortigiani, vil razza dannata» va al segno anche senza eccessi espressivi. Straziante ma equilibrato è il tragico finale con lo scoprimento del cadavere della figlia. Non presenta difformità fisiche, ma è ben chiaro il suo ruolo subordinato rispetto al nobile padrone.

Il Duca di Celso Albelo è giustamente superficiale e arrogante, e supplisce con la presenza vocale a una presenza scenica non particolarmente affascinante. Il belcantista di Tenerife ha un inizio non esaltante, poi nel corso della recita migliora sempre più per quanto riguarda colori e agilità, ma il tono è quello di un interprete del passato, con gli stessi vezzi, come la n in «qual piuma al ve-n-to, muta d’acce-n-to…». Con il suo prezioso strumento vocale Albelo evidenzia la unicità del personaggio puntando alla singolarità dei suoi interventi, quasi tutti solistici in un’opera dominata invece da numeri a dialogo. «Ho ideato il Rigoletto senz’arie, senza finali, con una sfilza interminabile di duetti, perché così ero convinto», scrive Verdi, che plasma le forme dei numeri chiusi in una visione di moderna esaltazione della drammaturgia. Come avviene ad esempio nella prima scena del secondo atto, dove la tradizionale successione di recitativo-aria-cabaletta diventa una complessa scena teatrale: l’esclamazione del Duca «agitatissimo», «Ella mi fu rapita!», è seguita dal lirico «Parmi veder le lagrime» e dopo l’intervento del coro attacca la trascinante cabaletta «Possente amor mi chiama» («alzandosi con gioia», dice il libretto) con i pertichini del coro «Oh, qual pensier or l’agita». Di esempi simili ce ne sono altri in questo lavoro che allora si dimostrò in anticipo sui tempi e che nelle intenzioni del compositore doveva essere un primo passo verso la liberazione dagli schemi rigidi delle convenzioni musicali del tempo.

Il timbro di Ol’ga Peretjat’ko non è mai stato il punto forte della sua voce: un freddo metallo penetrante, compensato però da ottima intonazione, precise agilità ed efficace utilizzo dei piani sonori, con mezze voci e filati, tutti quanti impiegati nel definire il complesso personaggio di Gilda, innocente vittima dei sentimenti in una società brutale. Aiutata da una direzione di ampio respiro, il suo «Caro nome», distillato con preziosi pianissimi e belle variazioni, entusiasma il pubblico fiorentino.

 

L’interprete di Sparafucile, si diceva, è l’unico in comune con le passate edizioni: Alessio Cacciamani non sfoggia una voce cavernosa, ma delinea con efficacia e una certa eleganza la figura del sicario. Molto scuro è invece il timbro della Maddalena di Eleonora Filipponi, tanto che quasi non se ne sente la voce nel quartetto del terzo atto. Adeguati si rivelano gli altri comprimari con in evidenza il Monterone nobile e autorevole di Manuel Fuentes. Come si è già detto, la direzione di Stefano Ranzani ha tempo molto ampi a favore dei cantanti, ma è comunque funzionale allo svolgersi implacabile del dramma. Gli strumentisti dell’Orchestra del Maggio rispondono con precisione e giusti colori, così come il coro maschile, compatto ma duttile, istruito da Lorenzo Fratini.

A suo tempo la regia di Davide Livermore aveva diviso la critica: chi aveva apprezzato la cupa atmosfera e la serrata interazione tra i personaggi, chi aveva sollevato dubbi su una drammaturgia che non rispetta le indicazioni del libretto. Le scene di Giò Forma, i fantastici costumi di Gianluca Falaschi e le crude luci di Antonio Castro creano ambienti diversi e atemporali che più che la fedeltà alla lettera del libretto, interpretano lo spirito di un dramma sotto il peso della “maledizione”, con l’ineluttabile sconfitta del debole rispetto al più forte.

Il primo suono che ascoltiamo al levarsi del sipario è il rumore di una stazione della metropolitana: è qui infatti che è ambientato il breve preludio, con il cadavere di Gilda per terra e tre personaggi che prima indifferenti poi guardano con tono di condanna il quarto, il padre, sopraffatto dal senso di colpa. La «sala magnifica nel palazzo ducale» del I atto è dominata da un letto dorato per le «orgie» del depravato duca e da un grande affresco con figure e scene barocche ottenute con le proiezioni della D-Wok. Lo stesso sfondo rappresenterà poi il marciapiede visto dalla lavanderia seminterrata che è la casa e il posto di lavoro di Gilda e Rigoletto (atto II), poi un finestrone, attraverso il quale si vede il temporale, nel night club di Sparafucile e Maddalena (atto III), per poi terminare appunto nella squallida stazione della metropolitana vista all’inizio. Nella regia non mancano i rimandi cinematografici cari a Livermore, (qui il Kubrick di Eyes Wide Shut, ad esempio) con il solito horror vacui visivo e abuso di armi. Ma il taglio drammatico rimane efficace, anche se nella ripresa di Gian Maria Sposito si perde un po’ il lavoro sugli interpreti e salta fuori qualche imprecisione, come i fari luminosi sul pubblico durante gli interventi di Monterone.

Simon Boccanegra

Rating criteria/VALUTAZIONI

Giuseppe Verdi, Simon Boccanegra

Roma, Teatro dell’Opera, 4 dicembre 2024

★★★☆☆

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Tra camalli e De Chirico: Simon Boccanegra inaugura la stagione romana

Due anni fa al Festival Verdi di Parma si era potuta ascoltare la versione veneziana originale del 1857, mentre ora, per l’inaugurazione della stagione del Teatro dell’Opera di Roma, si torna alla seconda versione del Simon Boccanegra, quella definitiva e comunemente eseguita.

L’autore, insoddisfatto del risultato, soprattutto del libretto di Francesco Maria Piave, tornò sul suo «figlio gobbo» per dargli una nuova veste, letteraria innanzitutto, affidandone la revisione del testo ad Arrigo Boito e modificando buona parte della musica. La nuova versione andò in scena nel marzo 1881 a Milano, nel frattempo però c’erano stati Un ballo in maschera, La forza del destino, Don Carlos, Aida – per non parlare del Tristano, del Ring, di Carmen… –  e Verdi non era più il compositore di quasi un quarto di secolo prima. Alla Scala allora non piacquero le scelte stilistiche che ora invece ammiriamo nel Simon, ossia la vicenda tutta dolore e rimpianti, i personaggi tutt’altro che eroici, l’armonia sofisticata ma torbida, il senso melodico non trascinante, il colore scuro e opaco della strumentazione, le poche arie scritte in funzione drammatica e non per compiacere il pubblico. Da qui l’assenza di virtuosismi vocali, anzi, la scelta di una vocalità plasmata sulla parola che rende memorabili per scultorea monumentalità i momenti di Fiesco («A te l’estremo addio, palagio altero»), Simone, («Plebe! Patrizi! Popolo dalla feroce storia!») o Paolo («Me stesso ho maledetto!»). Solo i giovani hanno momenti lirici: di dolce cantabilità Amelia/Maria nella sua aria strofica («Come in quest’ora bruna») o impetuosi Gabriele Adorno («Sento avvampar nell’anima»).

Michele Mariotti ritorna diciassette anni dopo il suo primo Simon Boccanegra bolognese e ora è all’apice della carriera. Si capisce che sarà una serata speciale fin dalle prime note, meravigliosamente distillate, del breve preludio – meno di un minuto e mezzo – diverso da tutte le sinfonie d’opera precedenti. Qui cui non c’è un tema che risentiremo nel corso dell’opera, non viene annunciato un motivo che verrà sviluppato, c’è solo un lento ondeggiare in un allegro moderato tenuto dai violini prima che alla nona battuta entrino i fiati (fagotto, trombone, corno) con una nota lunga. Tutto in pianissimo, pura atmosfera. Atmosfera liquida. È il luccichio del mare? La superficie calma dell’acqua? Chissà, a Verdi non interessa descrivere, quanto “far sentire il mare” sullo sfondo di una città eternamente in tumulto. Mariotti sottolinea le novità di una scrittura che porterà all’Otello: un’alternanza di stile declamato, conversativo e intimo, con grandi contrasti e un’orchestra che respira con i personaggi e che qui sfoggia strumenti perfettamente intonati, sì anche gli ottoni nei fragorosi vertici drammatici dell’acclamazione del nuovo doge o della sommossa abortita.

Si alterna con il primo cast un quartetto di cantanti di tutto riguardo. Claudio Sgura è un Simon Boccanegra di grandissima statura, in tutti i sensi. Interprete dalla variegata tavolozza espressiva, dispone di uno strumenti vocale di tutto rispetto che però sa modulare all’occasione, com’è il caso di quel «Figlia!» sfumato e tenuto all’infinito. Ne esce un personaggio umanamente dolente: giandiose sono le sue esplosioni di rabbia o disperazione, ma ancora più intensi sono i momenti di affetto e malinconia espressi con un fraseggio di grande morbidezza. Il soprano russo Maria Motolygina è un’interprete di notevoli mezzi vocali, talora fin troppo esibiti, bellissimo timbro, grande tecnica ed espressività che le permettono di delineare una Maria/Amelia viva e sensibile. Come sempre autorevole ed elegante, Riccardo Zanellato se la deve vedere con la tessitura bassissima di Jacopo Fiesco, un personaggio che riesce ad imporre col suo fraseggio nobile e la sua sensibilità interpretativa. Bella sorpresa quella di Anthony Ciaramitaro, un Gabriele Adorno dallo splendido timbro, caldo e ricco di sfumature, e dalla notevole capacità espressiva. Gran vocione quello di Gevorg Hakobyan, baritono armeno che riesce a dare al suo Paolo Albiani la statura del futuro Jago. Particolarmente soddisfacente il resto del cast: Luciano Leoni (Pietro), Caterina D’Angelo (ancella di Amelia) e soprattutto Enrico Porcarelli, che fornisce un rilievo particolare al suo Capitano dei balestrieri. Ottimo l’apporto del coro del teatro istruito da Ciro Visco.

Richard Jones, di cui ricordiamo importanti e geniali allestimenti, qui sembra limitarsi al risparmio: la sua regia non brilla per tensione drammatica, la recitazione è lasciata alla buona volontà dei cantanti, la particolare dimensione atmosferica dell’opera è quasi assente nell’ambientazione che non si capisce sia tra le due guerre (con riferimenti ai totalitarismi nella testa monumentale dell’ultimo atto) o dopoguerra (nei costumi di Anthony McDonald e Luis F. Carvalho che citano i lavoratori del porto per la plebe, sono genericamente borghesi per i patrizi e costumi d’epoca per il doge e i Consiglieri del Senato), ma perché allora le spade di latta? Le scenografie dello stesso McDonald oscillano tra il didascalico e il simbolico: la piazza dechirichiana del prologo solo per il faro in fondo richiama la città di Genova; il “salotto di passaggio” del palazzo dei Grimaldi è ambientato ai piedi di un faro tra nere rocce puntute; la stanza del doge del secondo atto è una soffitta sghemba e squallida dalla triste tappezzeria; l’interno del palazzo ducale del terzo atto è ancora la piazza e tutto avviene per strada; dal catafalco su cui giace la morta Maria si alza poi Amelia e sullo stesso si adagerà il doge morente. Il trascolorare dell’alba è una cupa eterna notte nel gioco luci di Adam Silverman e una coreografa per i movimenti mimici e un maestro d’armi sono stati impiegati per gli scontri tra popolani e patrizi, inutilmente rappresentati in scena quando il libretto neanche li prevede. Per non dire poi di quel sipario che sembra di cartone con le finestre e la porta ritagliate…

Fortunatamente è ancora una volta la pregevole esecuzione musicale che prevale. Quella che ha pienamente convinto il pubblico romano che ne ha decretato il successo con calorosi applausi rivolti a tutti i cantanti e in particolare al direttore musicale Mariotti.

 

Macbeth

 

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Macbeth

Parma, Teatro Regio, 26 settembre 2024

★★★★☆

Il Macbeth di Parigi, in francese, inaugura il Festival Verdi

Sei anni fa ci aveva fatto conoscere Le trouvère, la versione francese de Il trovatore. Quest’anno il Festival Verdi per inaugurare la sua XXIV edizione, intitolata “Potere e Politica”, mette in scena il Macbeth nella versione di Parigi del 1865 e in francese, anche se dal titolo questa volta non si capisce. Era stata eseguita in forma concertistica all’aperto al Parco Ducale nel 2020 durante la pandemia e registrata su CD, mentre nel 2018 al Teatro Regio era stata allestita la versione del 1847.

Dopo aver esaurito le opere del compositore a cui è dedicato, un festival deve approfondirne la conoscenza con le versioni meno popolari o desuete, oltre che metterle in scena in produzioni non banali. Entrambi gli scopi sono raggiunti da questa produzione del Macbeth con la regia di Pierre Audi, la concertazione di Roberto Abbado e un cast di grande livello. La revisione di Candida Mantica si basa sull’edizione critica di David Lawton.

La versione di Parigi, ma cantata in italiano, non è una novità per il pubblico: molto spesso quello che viene proposto sulle scene è un mix delle due versioni, ossia la seconda senza i ballabili e con l’inserimento del finale della prima versione. Oltre a piccoli cambiamenti per adattarsi alla prosodia francese, sostanziali sono le differenze tra le due versioni, quella del 1847 alla Pergola di Firenze e quella di diciotto anni dopo al Théâtre Lyrique di Parigi. Per questa nuova versione Verdi chiede l’intervento del Maffei per poi far trasporre tutto in francese da Charles Louis Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont. Accanto a piccoli cambiamenti di termini, importanti sono la sostituzione della cabaletta di Lady Macbeth del secondo atto «Trionfai! securi alfine | premerem di Scozia il trono» con l’aria «La luce langue» che diventa qui «Douce lumière». Nella versione del 1865 Macbeth si trova accanto la moglie anche nel terzo atto, dove le narra il responso delle streghe e assieme decidono di sterminare Macduff e prole e di cercare il figlio di Banco per ucciderlo. A questo fine la cabaletta di Macbeth solo in scena «Vada in fiamme, e in polve cada» viene sostituita dal duetto tra Macbeth e Lady Macbeth «Heure de mort e de vengence». Sempre nel terzo atto furono inoltre inserite le danze per adeguarsi alle convenzioni teatrali parigine. Nel quarto atto il coro «Patria oppressa» diventa una scena e coro e cambia la morte di Macbeth, che nella prima versione avviene fuori scena dopo che ha cantato «Mal per me che m’affidai | ne’ presagi dell’inferno!», mentre nella seconda abbiamo l’aria «Mais à jamais pourtant | par le crime ma vie | sera flétrie!», poi il duello tra Macduff e Macbeth con la morte di quest’ultimo in scena. Diverso anche il coro finale dei soldati «Un jour brillant rayonne». In questa versione il ruolo propulsivo della Lady, che in quella del 1847 si esauriva a metà del dramma, è molto più evidente: qui la coppia agisce in simbiosi, un organismo indissolubile, e i due coniugi diabolici muoiono in parallelo dopo un flusso di coscienza, irrazionale quello di lei, razionale quello di lui.

Il diverso tono delle seconda versione, la “tinta” come diceva Verdi, è individuato da Roberto Abbado, lo stesso dell’esecuzione del 2020, alla testa della Filarmonica Arturo Toscanini con l’Orchestra Giovanile della Via Emilia per la banda interna, nella corsa inarrestabile verso la catastrofe del protagonista, uno slancio drammatico di grande tensione realizzato con un ampio range dinamico e con l’orchestrale sempre pronta a realizzare le intenzioni direttoriali. Ammirevole è l’impegnativa prova del coro del teatro istruito da Martino Faggiani e particolarmente godibili i ballabili, per la qualità dell’accompagnamento strumentale e la coreografia di Pim Veulings che ha coinvolto in una specie di pantomima i due protagonisti al proscenio, mentre in secondo piano un Macbeth ballerino se la vede con ben tre Lady danzanti.

Il giovane baritono Ernesto Petti, debuttante nella parte, delinea un Macbeth dominato dalla moglie ma dai notevoli mezzi vocali, un bel timbro, un declamato chiaro e una grande espressività. Nella maturazione di questo giovane cantante si prevede un interprete di spessore e la conferma sarà probabilmente lo Gérard del prossimo Andrea Chénier a Torino. Aveva saltato la prova generale per un’indisposizione, ma si è presentata alla prima in piena forma Lidia Fridman, Lady Macbeth dal timbro non particolarmente bello, in linea quindi con quanto richiesto dall’autore, ma di grande temperamento. Qualche modulazione meno aspra, qualche passaggio di registro meno discontinuo sarebbe stato apprezzato maggiormente, ma così il suo fraseggio frastagliato definisce vocalmente quello che la figura scenica del soprano russo, ormai quasi italiano, suggerisce visivamente: una figura imponente che sovrasta il marito, l’elemento dominante di questa coppia senza figli. Luciano Ganci dà grande slancio, forse anche troppo, a Macduff nell’aria finale mentre come Malcom si ascolta un sicuro David Astorga. Bene anche le figure minori della Comtesse di Natalia Gavrilan e il Médecin di Rocco Cavalluzzi. 

E infine Banquo, che smette di cantare già a metà del secondo dei quattro atti, ma Michele Pertusi lascia la sua impronta indelebile anche in questa prova in francese dove ogni parola ha il suo senso teatrale, il fraseggio è senza pari, la presenza scenica imponente. È l’unico italiano del cast che con la sua lunga frequentazione di titoli francesi sembra essere nato sui bordi della Senna. Sarà anche perché è di qui, ma gli applausi più calorosi del pubblico sono proprio per lui.

La messa in scena di Pierre Audi è a dir poco austera e cupa, i movimenti sono quasi stilizzati e la recitazione minimalista. Qualche particolare non convince: far leggere la lettera («Je les vis apparaître au jour de la victoire») dalla Lady in presenza del marito – e nello stesso momento farle dire al servitore che annuncia l’arrivo del Re Duncan: «Macbeth l’amène?» – è un errore anche drammaturgico. Qui la Lady deve essere sola con i suoi propositi criminali nel coinvolgere il marito. Complessivamente comunque lo spettacolo convince ma non trascina, è curato ma freddo, come spesso accade con le produzioni del direttore del Festival di Aix-en-Provence. Nella scenografia di Michele Taborelli dei primi due atti la riproduzione della sala del Regio e le tende rosse ricordano il meta-teatro del Don Giovanni di Carsen, poi l’impianto scenico cambia, con delle grate che suggeriscono la gabbia in cui si stanno rinchiudendo i due assassini. Una piattaforma che sale e scende nel mezzo del palcoscenico aggiunge una dimensione alla staticità dell’impianto: qui si inabissa il cadavere di Duncan e risale già nella bara poco dopo. Senza particolari guizzi la realizzazione della scena delle apparizioni e quella delle ondine e silfidi con i giovani allievi di Professione Danza. Nel finale durante il coro finale Macduff gioca con la sedia facendola ruotare come avevano fatto le streghe. Audi vuole forse suggerire così la precarietà del potere?

Ottimo il gioco luci di Jean Kalman e Marco Filibeck e più che appropriati i costumi di Robby Duiveman, elegantissimi all’inizio, poi più dimessi. Certo che vestire la Fridman è facile: col suo fisico e la sua altezza sembra sempre pronta per una sfilata in passerella. Meno facile per gli uomini, eccetto per Pertusi che sfoggia sempre un’invidiabile eleganza innata.

Il caloroso esito con applausi prolungati per tutti gli artefici dello spettacolo, compreso il regista una volta tanto, dimostra l’opportunità di operazioni come queste nel proporre titoli largamente conosciuto in vesti parzialmente inedite, ma conferma anche che il francese è di rigore solo per le opere di Verdi nate in questa lingua, come Les vêpres siciliennes o il Don Carlos. E non è solo questione di abitudine: l’italiano del Macbeth è ben più incisivo della pur pregevole traduzione di Nuitter e Beaumont.

Rigoletto

    

Giuseppe Verdi, Rigoletto

Parigi, Opéra Bastille, 11 aprile 2016

(video streaming)

Rigoletto in scatola

Claus Guth debutta per la prima volta nel 2016 all’Opéra National di Parigi con il Verdi del Rigoletto di cui dà una lettura come sempre personale anche se non totalmente condivisibile. Sia come sia, la produzione rimarrà in cartellone fino al gennaio 2025 con varie riprese.

Ecco che cosa scriveva Alessandro di Profio di Connessi all’opera sull’edizione andata in scena nel novembre 2021: «Il regista tedesco immagina un buffone di corte torturato dai rimorsi che ritira fuori una scatola di cartone in cui sono stati riposti ricordi angoscianti. La scatola occupa l’intero palcoscenico e resta, quasi senza alcun cambiamento, per i tre atti. Dunque, tutta l’opera è un riportare a galla e rivivere i rimorsi atroci di un vecchio padre, omicida suo malgrado della figlia. Per il costante oscillare, tra passato e presente, di Rigoletto ce ne sono due: certo il cantante, ma anche un doppio, ovvero un mimo. L’idea del doppio non è nuovissima: Guth l’aveva già sfruttata in Fidelio. Comunque, insieme all’espediente del mega-scatolone di cartone, teatralmente potrebbe funzionare. Purtroppo, arrivano tanti altri “segni” che rendono la regia non sempre limpidissima. Perché i costumi oscillano tra evocazioni rinascimentali e abiti da primo Novecento? Perché chiedere ai coristi mimiche senza alcun senso, incoerenti tanto rispetto al testo quanto alla situazione? Perché lasciarsi andare con balletti caricaturali che hanno l’unico effetto di creare un grottesco non per forza voluto (o che fosse un ammiccamento all’estetica del “brutto” ricercata da Victor Hugo..?)? Le ballerine piumate che sgambettano al suono de “La donna è mobile” sono legittimamente accolte solo da risa. Geniale nella rilettura della trilogia dapontiana di Mozart, Guth non ritrova in questo Verdi le stesse vette».

Nel tempo si sono susseguiti numerosi cast. Nella prima edizione Rigoletto fu Quinn Kelsey, Gilda Ol’ga Peret’jatko, il Duca di Mantova Michael Fabiano, Maddalena Vesselina Kasarova, Monterone Mikhail Koleshvili, Sparafucile Rafal Siwek. Ecco quello che scrisse su Forum Opéra Yannnick Boussaert: «La Gilda di Ol’ga Peret’jatko è al limite della grandezza. Esperta belcantista, impreziosisce il suo canto in ogni momento: trilli a bizzeffe, note filate, piani delicati, tutto contribuisce a caratterizzare una giovane donna meno interessata alle posizioni di ballo che il padre vorrebbe che ricoprisse che a realizzare i suoi desideri o l’ingenuo sacrificio a cui acconsente. Quinn Kelsey mostra molte qualità. Il suo carisma sul palcoscenico è innegabile, ben supportato da una voce potente e facile al massimo della sua gamma. Gli manca un pizzico di oscurità e di mordente per differenziare completamente il vile buffone e vendicatore cieco dal padre amorevole e iperprotettivo. Michael Fabiano è più a suo agio nel secondo tempo. Nel primo atto, ha inciampato su acuti approssimativi e attacchi di note prese dal basso. Questo problema è stato risolto dopo l’intervallo, quando ha navigato tra valore e resistenza. Mentre alcuni debuttano, Vesselina Kasarova torna all’Opéra di Parigi in un ruolo che forse non ci si aspettava. Il ricco timbro della bulgara è immediatamente riconoscibile, così come la sua particolare pronuncia, a cui manca un po’ di potenza in più. Il Monterone di bronzo di Mikhail Kolelishvili e il cupo Sparafucile di Rafal Siwek sono entrambi ottimi nella tonalità di Fa. I comprimari sono complessivamente di ottimo livello, così come gli uomini del Coro dell’Opéra di Parigi, con le loro voci calde e unificate, attente allo stile e alle sfumature verdiane. In buca, Nicola Luisotti ha dato vita al dramma alla testa di un’orchestra concentrata su un ritmo e movimenti limpidi. L’orchestra falange segue le pause di ritmo e le sfumature volute dal direttore italiano, in particolare nei finali d’atto. I dettagli si accumulano, i crescendi colpiscono nel segno e la tensione sale sempre dalle vibrazioni dei violini o dai cinguettii dei fiati».

 

I due Foscari

foto © Andrea Crovera

Giuseppe Verdi, I due Foscari

Venezia, Teatro La Fenice, 8 ottobre 2023

★★★☆☆

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Com’è triste Venezia…

Opera venezianissima: siamo nel XV secolo e i Foscari del titolo sono il Doge Francesco e il figlio Jacopo, vittime del rancore tra famiglie nemiche e della brama di vendetta di Jacopo Loredano, membro del temibile Consiglio dei Dieci. Jacopo Foscari, ingiustamente accusato per un delitto che non ha commesso, ritorna illegalmente dall’esilio a cui era stato condannato sperando nella clemenza del Consiglio e nell’intercessione del padre Doge, ma Francesco, pur combattuto, è rispettoso della legge e il figlio è nuovamente condannato all’esilio morendo di crepacuore sulla nave che lo deve portare a Creta. Ma l’accanimento contro i Foscari non ha fine: Francesco viene costretto a dimettersi e la notizia che una confessione ha scagionato il figlio, ahimè troppo tardi, e il rintocco delle campane che festeggiano il nuovo Doge Malipiero, sono fatali per il vecchio che muore anche lui «d’angoscia». Un soggetto perfetto per La Fenice, «pieno di passione e musicabilissimo», come scrive Verdi, ma il teatro rifiuta ritenendo inopportuno riportare a galla l’antico rancore tra famiglie ancora attive allora in città e il compositore si rivolge altrove: I due Foscari vedrà la luce a Roma, al Teatro Argentina il 3 novembre 1844.

Francesco Foscari è il primo di una serie di vecchi oppressi dal potere – verranno poi Simon Boccanegra, Don Carlo, a suo modo anche Macbeth – e l’opera è un punto di svolta della drammaturgia verdiana: I due Foscari è il primo lavoro nel quale «vicende politiche siano in sostanza il motore stesso dell’azione», come scrive Massimo Mila, anche se Verdi qui sembra volersi staccare dal genere di Nabucco e Lombardi, opere prevalentemente di grandi quadri e vicende collettive, per rivolgersi invece a un dramma imperniato su personaggi-individui e azioni private travolte dalla politica. Per la prima volta qui si incarnano «la ragion di stato, le contraddizioni del potere, la solitudine che da esso deriva, la scissione tra persona privata e personaggio pubblico», come ricorda giustamente il Maestro Stefano Rolli nell’intervista inserita nel programma di sala.

La musica dei Foscari è scura al pari della tragedia di Lord Byron, The Two Foscari: An Historical Tragedy da cui è tratto il libretto di Francesco Maria Piave, lo stesso librettista del precedente Ernani. Nel 1821 a Ravenna Byron aveva scritto anche Marino Faliero, Doge of Venice, anch’essa ambientata nella città lagunare che il poeta conosceva bene per averci vissuto molti anni. I cinque atti della tragedia di Byron non sembrano offrire una particolare drammaturgia essendo l’azione statica, congelata nel lamento di tre personaggi – è presente con i suoi figli anche Lucrezia, la moglie di Jacopo – ma fin dalle prime note dell’ouverture Verdi riesce a definire con efficacia teatrale la plumbea atmosfera che dominerà nel dramma, con gli strumenti spesso nel registro grave e un uso dei timpani prima sommesso poi quasi ossessivo. L’atto secondo inizia con la tetraggine del carcere, in cui langue Jacopo, dipinta da un duo viola-violoncello di grande cupezza. Neanche la musica con cui si apre il terzo atto, il coro e barcarola del popolo e delle maschere «che si incontrano, riconoscono, passeggiano. Tutto è gioia» come dicono le didascalie del libretto, nella sua brevità riesce a cancellare la cupezza dell’atmosfera che volge presto in tragedia con la morte dei due personaggi eponimi. Ma a rendere teatrale e «musicabilissimo» I due Foscari sono le arie e il guizzo delle cabalette, cosa che ha ben compreso Sebastiano Rolli, specialista del repertorio verdiano, che a capo dell’orchestra del teatro dà una lettura trascinante della partitura realizzando alla perfezione questo primo Verdi degli “anni di galera”, un compositore costretto a un lavoro forsennato e massacrante sotto i condizionamenti dell’ambiente teatrale. Bilanciando il suono orchestrale Rolli riesce ad accompagnare le voci nello slancio delle cabalette e nei concitati ensemble dei finali infuocati con tempi esatti e colori ora sommessi ora sfavillanti. Una prova magnifica di senso del teatro.

Nel cast vocale svetta la maiuscola performance di Luca Salsi, un Francesco Foscari delineato a tutto tondo con grande proiezione vocale, ricchezza di sfumature e intenzioni, una scavo sulla parola senza pari. Due sono i momenti solistici più grandiosi di questo personaggio magnificamente tratteggiato da Verdi: nel primo atto «Eccomi solo alfine… […] O vecchio cor, che batti | come a’ prim’anni in seno» quando esprime il tormento della sua impotenza di fronte alla legge; nel terzo atto l’amaro sfogo di «Questa dunque è l’iniqua mercede, | che serbaste al canuto guerriero?» rivolto al Consiglio dei Dieci che gli impone la rinunzia. In entrambi il baritono parmense sa trarre accenti da brivido che lo mettono alla pari con i più celebrati interpreti del passato. Nei panni di Jacopo Foscari Francesco Meli non parte benissimo: le note tenute sono eccessivamente vibrate, gli acuti sforzati, ma poi nel corso della serata l’esecuzione migliora e il tenore genovese riesce a fornire una solida e convincente performance. La parte di Lucrezia Contarini è tra le più impervie tra quelle delle opere di questo periodo, al pari di Abigaille, ma Anastasia Bartoli la affronta con grande sicurezza con quella voce imperiosa come una lama d’acciaio che nel tempo si spera diventi però meno tagliente. Difficile non rendere odiosa la parte di Jacopo Loredano, ma Riccardo Fassi non eccede in truculenza, anzi ne dà una lettura sobria e pure elegante. Qui ci vorrebbe l’aiuto di un regista per definire il personaggio, ma la regia è totalmente latitante. L’ultima volta che I due Foscari è stato dato a Venezia fu nel 1977 con la regia di Sylvano Bussotti: tanto valeva riprendere quella produzione vista a Torino qualche anno dopo e che mi ricordo fosse a suo modo efficace. Grischa Asagaroff si limita a far entrare e uscire i personaggi e il coro senza un vero senso drammaturgico e gli interpreti affidano alle loro capacità attoriali la teatralità dei loro gesti, per lo più convenzionali. Non va meglio per la scenografia di Luigi Perego che ricrea una Venezia falsa e bruttoccia, con le nuvolette e il mare dipinti sulle quinte e con al centro un parallelepipedo, ispirato alla tomba dei Foscari nella chiesa dei Frari, fatto ruotare da quattro figuri in mantelli neri lucidi per creare i vari ambienti. Lo stesso Perego disegna i costumi tutti uguali con con un guizzo di surreale follia al terzo atto, quello delle maschere, quando tutti si presentano con un copricapo a forma di ferro delle gondole… Neanche alle Folies Bergères o a Las Vegas hanno mai osato tanto kitsch! Ah, anche qui c’era un balletto. Da dimenticare.

Deluso dalla Venezia dipinta, il pubblico si è infiammato però per la parte musicale con calorosi applausi agli interpreti vocali e al direttore. Uno spettacolo da ascoltare senza guardare.

 

Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 19 agosto 2023

★★★★☆

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La scossa del Macbeth di Warlikowski al Festival di Salisburgo

Mentre qui in Italia ci trastulliamo in provinciali polemiche su regie “tradizionali” e regie “moderne”, il più blasonato festival del mondo impiega solo i più “discussi” registi di oggi: Martin Kušej (Le nozze di Figaro), Christof Loy (Orfeo ed Euridice), Christof Marthaler (Falstaff), Simon Stone (The Greek Passion), Krzysztof Warlikowski (Macbeth). Certo non sono tutti spettacoli memorabili, anzi qualcuno è proprio brutto (due su cinque…), ma c’è comunque chi paga 465 € per una poltrona in platea e le sale sono sempre piene – e parliamo di oltre 5200 posti ogni sera nei tre teatri principali. Alla faccia della crisi dell’opera! 

Molta era l’attesa per la nuova produzione del “polacco terribile” dell’opera di Verdi: quelle di Warlikowski sono come un ottovolante: una corsa mozzafiato tra alti e bassi da cui non si esce indenni, come in questo Macbeth, che a momenti di grande teatro fa seguire altri meno convincenti, ma nel complesso è un’esperienza che lascia il segno. Che è quello che dovrebbe sempre fare il teatro.

Lo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus sembra ancora più esteso orizzontalmente nell’impianto scenografico di Małgorzata Szczęśniak, con una lunghissima panca di legno, come nella vecchia sala d’attesa di una stazione ferroviaria. Un video mostra in bianco e nero una madre che allatta un bambino. Una donna, la Lady, siede sulla panchina a destra, un uomo, Macbeth, all’altra estremità. Poi da sinistra entra una stanza dove donne bendate formulano oracoli, mentre da destra entra la cabina di un medico e una videocamera accompagna la donna nella cabina su una sedia ginecologica. La visita sembra stabilire la sua impossibilità di avere figli. 

La mancanza di figli – e quindi di una discendenza – è il tema centrale nella drammaturgia di Christian Longchamp, ancor più della brama di potere: se non hai qualcuno di tuo a cui lasciarlo, a che cosa serve? E sono molti i bambini che affollano la scena: quelli delle profezie, certo, ma anche i figli di Macduff, vittime di una strage degli innocenti allorché la madre decide di avvelenarli tutti, compresa sé stessa, per non consegnarli «fra gli artigli di quel tigre».

Anche Michieletto aveva puntato sulla mancata maternità della Lady, ma qui di diverso c’è la forte relazione di coppia dei due coniugi che mai si spezza. Neanche alla fine, quando vengono legati assieme, ormai dementi e fisicamente sfatti, prima di essere linciati dal popolo: lei era stata salvata dal suicidio e ha vissuto gli ultimi istanti assieme all’amato marito, amato forse anche più del potere. Molti sono i momenti nello stile di Warlikowski, ad esempio quello del banchetto, dove la Lady canta il suo brindisi al microfono, mentre Macbeth è ossessionato dalla visione di Banco che egli stesso ha disegnato su un palloncino. O quando viene servito il piatto finale e sotto la cupola c’è un bambolotto guarnito con broccoli. Appena incoronati dopo l’assassinio di Duncano, in piena regalia, una volta che la musica si ferma e la folla si disperde i due scoppiano a ridere per la facilità con cui l’hanno fatta franca, poi però subito dopo si rendono conto di non poter desiderare altro e da quel momento inizia il loro dramma e conseguente decadimento: lei inizia a bere, a delirare per inesistenti macchie di sangue; lui soffre del complesso di castrazione da parte della moglie/madre o delle streghe – sullo schermo della televisione erano intanto apparse le immagini dell’Edipo Re di Pasolini – e da quel momento vive su una carrozzina a rotelle, aiutato/dileggiato dai servitori.

Questa azzardata drammaturgia non sarebbe convincente senza la presenza di due interpreti che facciano propria la particolare visione del regista e Asmik Grigorian e Vladislav Sulimskij lo fanno. Lei lituana, lui bielorusso, si impadroniscono entrambi della parola verdiana, oltre che della psicologia dei personaggi, creando una coppia magnetica teatralmente e vocalmente notevole. È proprio qui da Salisburgo che la Grigorian ha iniziato la sua straordinaria carriera rivelandosi come Salome nella produzione di Castellucci. Le doti sceniche dell’artista sono eccelse, quelle vocali quasi altrettanto, e anche qui in questo temibile ruolo non delude le aspettative creando un personaggio umano e tragico allo stesso tempo, senza l’eccesso di malvagità che di solito viene attribuito al personaggio. Non perché la Lady non sia malvagia, ma perché qui prevale la sua nuda umanità. Il canto è espressivo, ma non espressionista e le note sempre perfettamente intonate. Non so se sarebbe piaciuta a Verdi che voleva dei suoni «aspri, soffocati, cupi», ma al pubblico è piaciuta senza riserve. Vladislav Sulimskij è un Macbeth tormentato che presto perde l’aggancio con la realtà e piomba negli abissi della quasi demenza. La voce è molto elastica ed espressiva e il suo «Pietà, rispetto, amore» è del tutto convincente, così come il conclusivo momento «Mal per me che m’affidai», l’aria recuperata dalla versione del 1847.

Macbeth è un lavoro dove predominano le due voci principali, ma anche Malcom e Macduff hanno a disposizione momenti importanti. Il primo con «Ah, la paterna mano» dove Jonathan Tetelmann ha riscosso un grande successo di pubblico con la sua voce dal bel timbro e dalla enorme proiezione, forse anche troppa: “less is more” vale anche per il fascinoso tenore cileno-americano. Il secondo sparisce presto dalla scena, ma ha modo di farci apprezzare Tareq Nazmi nella sua drammatica aria «Come dal ciel precipita» eseguita con le generose risorse vocali e interpretative del basso tedesco. Caterina Piva (la Dama della Lady), Evan LeRoy Johnson (Malcom), Aleksei Kulagin (il Dottore), Grisha Martirosyan (Domestico di Macbeth) e Hovhannes Karapetyan (Assassino e Araldo) hanno completato in bellezza l’eccellente distribuzione. Il coro poteva fare meglio, mentre meglio non potevano fare i Wiener Philharmoniker sotto la guida di Philippe Jordan che ha sostituito il previsto Franz-Welser Möst, che si è dovuto sottoporre a un urgente intervento ortopedico. Non sono il primo a dire che nella sostituzione tutti ci abbiamo guadagnato: la concertazione di Jordan è risultata trascinante pur nel rispetto delle voci in scena, con dinamiche spedite ma non affrettate, una grande forza teatrale con colori e luci (e ombre) mirabilmente realizzati dagli straordinari strumentisti.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo di grande impatto salutato dalle ovazioni del pubblico. Fino al 27 ottobre la registrazione video è disponibile su arte.tv.

La traviata

  

Giuseppe Verdi, La traviata

Parigi, Opéra Garnier, 28 settembre 2019

★★★★☆

(video streaming)

A Parigi una Traviata 2.0

Assieme a Stiffelio, La traviata è l’unica altra opera in cui Verdi mette in scena la sua contemporaneità. Per questo entrambi i lavori ebbero grandi problemi con la censura: la società borghese del tempo non amava vedersi raffigurata nei suoi vizi e nelle sue ipocrisie, preferiva rispecchiarsi in vicende storiche del passato sublimate dal tempo e dalla distanza. Il romanzo di Dumas, La Dame aux camélias, era stato pubblicato da neanche cinque anni e l’adattamento teatrale era uscito  un anno prima: per ricreare l’impatto che quel lavoro aveva avuto sui contemporanei di Verdi, ora a distanza di 170 anni i registi rendono attuale l’ambientazione per il pubblico di oggi e sempre meno infatti si vedono Violette in crinoline ottocentesche o in stile Belle Époque, meno che mai in costumi settecenteschi, come aveva dovuto fare Verdi per aggirare la censura in alcune città degli stati che formavano l’Italia di allora.

Ecco quindi che al Palais Garnier Simon Stone adatta la vicenda ai nostri tempi: Violetta è una star dei social con milioni di follower; ha una sua linea di cosmetici; come VIP salta le file per entrare nei locali alla moda ma proprio per la vita troppo indipendente della donna il principe saudita che doveva sposare la sorella di Alfredo «si ricusa al vincolo» – e questo è l’elemento meno convincente della drammaturgia, mentre passa invece il fatto che non sia la tisi a minare la salute della giovane bensì una recidiva tumorale. Tutto questo lo veniamo a sapere fin dal preludio dai messaggi che scorrono sugli schermi a led che tappezzano le facce di un parallelepipedo rotante che si mostra cavo per il locale trendy, per la Place des Pyramides o per la stanza dell’ospedale oncologico in cui viene ricoverata Violetta. Le scene sono firmate da Bob Cousins e l’interessante gioco luci si deve a James Farncombe. Questa dicotomia tra realtà virtuale e reale è l’elemento più intrigante della messa in scena di Stone, che poi indugia in «scene che potrebbero urtare la sensibilità dei più giovani o dei non informati», come si legge su un avviso dell’Opéra National che mette in guardia il pubblico dalle esplicite immagini al neon che decorano la festa da Flora, praticamente un’orgia in costume, e dei goliardici costumi dei partecipanti, ideati da Alice Babidge, con falli di gomma ben in mostra ma nei posti sbagliati.

Per sottolineare il cambiamento d’atmosfera tra l’ambiente urbano e quello rurale del secondo atto, nella produzione di Černjakov alla Scala Alfredo affettava le zucchine, qui invece spinge una carriola piena digrappoli d’uva che poi pigia coi piedi per il vino fatto in casa, mentre per il latte c’è una placida vacca che Violetta sta mungendo – ma che diventerà un trattore nelle riprese dello spettacolo a Monaco di Baviera – e c’è pure una piccola chiesetta per ricordare alla giovane che «dal ciel non furono tai nodi benedetti». Angosciante il terzo atto nel reparto trasfusioni di un ospedale, dove ogni paziente è accompagnato da qualcuno, Violetta invece è sola, si stacca la flebo e delirando rivive il passato: la fila per entrare nel locale trendy, il retro della discoteca con i bidoni di immondizia, la piazza con la statua dorata, le immagini sul cellulare del felice passato. Poi la vediamo coricata nel lettino di ospedale in uno spazio vuoto e abbagliante di bianco, ma non muore nel lettino: si avvia verso un’apertura e sparisce nella nebbiolina. Un finale poco convincente.

Quella che invece risulta del tutto convincente è la direzione di Michele Mariotti, dai lividi accordi del preludio del primo atto a quello straziante del terzo, dagli angosciosi colpi dei timpani di «Amami Alfredo» alle ruvide e desolate strappate degli archi di «Addio del passato». Mariotti presta grande attenzione alle voci e al loro equilibrio sonoro con la fossa orchestrale. Riapre poi i tagli di tradizione così che la sua Traviata risulta integrale salvo alcuni da capo nelle cabalette dei due uomini.

Trionfo personale per la Violetta di Pretty Yende che esordisce nella parte, a suo agio nelle agilità e nei virtuosismi del primo atto come nella tragica intensità del terzo quando è finalmente e totalmente nella pelle della protagonista, mentre fino a quel momento c’era una certa freddezza. Non sembra scoccare invece la stintilla tra i due protagonisti, più convincenti da soli che in duo. Benjamin Bernheim ha voce ampia e ben sfumata, la recitazione non è un gran che ma così delinea un Alfredo un po’ impacciato e superficiale, come in realtà è il personaggio. Jean‑François Lapointe è un Germont padre non particolarmente convincente ma gioca in casa e il pubblico è in delirio per lui. Julien Dran (Gaston) e Thomas Dear (Dottor Grenvil) sono quelli che si fanno più notare nella folta schiera di comprimari. Preciso e scenicamente sciolto il coro del teatro diretto da José Luis Basso.

 

Simon Boccanegra

Giuseppe Verdi, Simon Boccanegra

Parma, Teatro Regio, 14 ottobre 2022

★★★☆☆

(live streaming)

L’ur-Boccanegra e i suoi difetti a Parma

È dovere dei festival fare conoscere le versioni alternative dei capolavori dei compositori che intendono celebrare e bene ha fatto dunque il Festival Verdi, finalmente in versione completa dopo la sospensione del 2020 e la forma ridotta del 2021, a presentare la versione originale del 1857 del Simon Boccanegra, quella che a Venezia aveva replicato il fiasco de La traviata di quattro anni prima. Un’edizione che per la prima volta integra documenti autografi ritrovati nella villa di Sant’Agata del Maestro in una nuova produzione assegnata alla regista Valentina Carrasco, debuttante a Parma.

Le principali differenze di questo ur-Boccanegra, oltre alla miriade di piccoli aggiustamenti sia al testo che alla musica approntati da Verdi e Boito per l’edizione del 1881, stanno nella presenza di un breve preludio costruito su temi che verranno esposti nel corso dell’opera, una virtuosistica cabaletta a conclusione dell’aria di sortita di Maria/Amelia e una scena di festa alla fine del primo atto che nella seconda versione verrà sostituita dalla ben più incisiva scena del Gran Consiglio. Manca quindi il monologo di Paolo «Me stesso ho maledetto» e il personaggio non ha il peso che avrà nella futura versione. Simone Boccanegra qui non è ancora quella grande opera dove la riflessione politica e il disinganno del potere coinvolgono anche gli affetti privati come sarà con Boito, in questa versione abbiamo una storia privata immersa in uno scontro politico.

Nella lettura della Carrasco è la lotta di classe la protagonista: la plebe è sostituita dagli operai, lavoratori dal coltello facile, i patrizi dai capitalisti. La ferocia del potere è rappresentata dalle carcasse di bue appesi in un macello, la congiura una resa di conti tra mafiosi. La registra illustra in maniera molto realistica l’espressione “carne da macello” e la violenza espressa nel libretto – sangue, pugnale, morte sono i termini più frequenti – e ambiente la vicenda nella Genova degli anni ’60, come si evince dai costumi di Mauro Tinti, dai video in bianco e nero e dalle scene di Martina Segna. Questo realismo si trasforma però in un quadro simbolico di riappacificazione nel finale quando Genova diventa inopinatamente un campo di grano e i camalli del porto candidi pastori da presepe con scialletto di pelle di agnello. Il corrusco Quarto stato di Pellizza da Volpedo si trasforma così in un romantico quadro di mietitori dove viene portato in scena anche un agnellino vivo e il sole al tramonto è reso con sei riflettori puntati sul pubblico, ma tutto questo ottimismo non sembra confermato dalla musica, pessimistica quanto mai. Che poi le carcasse da macello avrebbero urtato la sensibilità di molti spettatori era prevedibile ed è avvenuto, ma non è questo il punto. La regista dimostra di possedere molte idee, anche troppe, ma spesso sono espresse in maniera pesante e poco coerente e la recitazione non rende più plausibili i personaggi. Qui la morte di Simone è tra le più imbarazzanti viste finora e  la fanciullaggine di Amelia eccessiva.

Senza riserve è invece la realizzazione musicale affidata alla conduzione esperta di Riccardo Frizza che rende il meglio di questa partitura ancora un po’ grezza, ma che lascia intravedere i tesori futuri. I tempi scelti sono convincenti, il colore scuro e gli sprazzi di luce sono ben resi, giusto è l’equilibrio tra orchestra e cantanti, precisi gli interventi del coro, qui impegnato anche in passi coreografici e movimenti complessi, peraltro ben controllati dalla Carrasco.

Nobile e introverso è il Simone di Vladimir Stoyanov: più che la fierezza dell’ex corsaro qui predomina l’amore per la figlia ritrovata negli affetti privati e la delusione in quelli pubblici. Nel finale condividerà il pianto con l’altro padre, Fiesco, un autorevole Riccardo Zanellato. David Cecconi, privato della sua pagina più importante, non riesce a dare tridimensionalità al suo Paolo Albiani mentre la coppia dei giovani può contare sul sicuro mestiere di Piero Pretti, un Gabriele Adorno se non attorialmente, vocalmente convincente, e una freschissima Roberta Mantegna che affronta senza esitazione e con ottimi risultati la cabaletta «Il palpito deh frena» quando Amelia è in attesa dell’arrivo del suo amato.

Il video streaming dello spettacolo è disponibile sul portale operastreaming.com, il palcoscenico virtuale dell’Emilia-Romagna.

Ernani

 

Giuseppe Verdi, Ernani

★★★

Roma, 3 giugno 2022

(video streaming)

L’Ernani riproposto a Roma denuncia ben più degli anni che ha

È una capsula del tempo questa produzione di Hugo de Ana dell’Ernani che aveva inaugurato la stagione lirica romana nel 2013: regia, scene e costumi sembrano risalire non a nove anni fa, ma a un passato assai più remoto. Le incombenti scenografie – un richiamo alla facciata del palazzo di Carlo V a Granada col suo forte bugnato e le colonne – invece che tridimensionali potrebbero essere dipinte e non cambierebbe molto dell’efficacia drammatica, mentre così costringono a una scena unica. I pesanti arredi e i sontuosi costumi d’epoca connotano i personaggi ma sembrano inutilmente ingombranti e costosi: i bordi di pelliccia, i broccati e i ricami dell’ultima/o corista vanno del tutto persi nella affollata visione d’insieme. Le interazioni fra i personaggi sono prevedibili con il tenore che si piazza a gambe larghe al proscenio e il soprano che risponde alla descrizione di una cantante d’epoca con le forme abbondantemente generose e che solo un’altrettanto abbondante dose di suspension of disbelief può far passare per «aragonese vergine» giovinetta di cui tutti cadono innamorati cotti.

Vero è che la drammaturgia dell’Ernani di Francesco Maria Piave poco si presta a una lettura teatralmente contemporanea della vicenda, ma c’è un momento quasi da pochade in questo lavoro che un regista un po’ più disinibito avrebbe potuto sfruttare in modo intrigante: una donna è concupita da due diversi pretendenti e viene scoperta nel mezzo della notte e nelle stanze più intime del suo castello dal terzo pretendente, quello che conta di sposarla il giorno dopo. Il tenore (amato dalla donna), il baritono (qui addirittura il monarca) e il basso (il terzo e vecchio intruso) si affrontano e quest’ultimo crede di risolvere con le armi la questione prima di scoprire di avere di fronte a sé il proprio re. Poi la faccenda si sviluppa tra perdoni che hanno secondi fini, finte rese, scoppi d’ira e gelosie presto sedati, repentini cambiamenti di alleanze, patti sciagurati e congiure. Eppure Ernani aveva rappresentato un lavoro sperimentale per il Verdi 32enne qui alla sua quinta opera, presentata alla Fenice dopo le quattro alla Scala. Il compositore sembra voler superare il sistema della forma a numeri chiusi per dar vita a un teatro vivo e romanticizzato. Ecco allora la scoperta del ruolo archetipo del baritono o l’utilizzo dei terzetti per le strette in cui concentrare la tensione drammatica dopo lo slancio lirico degli incisi melodici.

Nove anni fa alla guida dell’orchestra del teatro c’era Riccardo Muti, ora è la volta di Marco Armiliato che dà buona prova realizzando una lettura quasi completa della partitura – manca la cabaletta della cavatina di Silva «Infin che un brando vindice» che Verdi non aveva potuto utilizzare a Venezia per la modestia del “basso comprimario” a disposizione – e con le riprese delle arie, che però talora mettono in difficoltà il tenore. I momenti migliori sono nelle impennate dinamiche degli ensemble finali e nel sostegno delle voci, anche se alcune, tenore e basso, risultano spesso sopraffatte dall’orchestra.

L’unico a ritornare nei panni titolari dopo il 2013 è Francesco Meli di cui si ammirano il colore e le intenzioni interpretative, anche se ora la voce manca a tratti di fermezza e gli acuti risultano sforzati. Per di più il suo è il personaggio a cui la regia ha reso il peggior servizio, sempre con la mano sulla spada anche nelle dichiarazioni d’amore. Non gioca poi a suo favore il confronto con il volume vocale dei colleghi Angela Meade (Elvira) e Ludovic Tézier (Carlo). Il soprano americano non mostra alcuna difficoltà a padroneggiare le insidie vocali del ruolo anche se dal punto di vista interpretativo non esibisce un fraseggio né una recitazione particolarmente coinvolgenti: resta il mirabile controllo della sua enorme voce, ma manca l’emozione. Tézier è invece il miglior Carlo disponibile, con un mezzo vocale altrettanto potente e controllato, ma con in più uno scavo sul personaggio che lo porta a ricevere il più caloroso applauso a scena aperta dopo il suo meraviglioso «O de’ verd’anni miei». Evgenij Stavinskij è un Don Ruy Gomez de Silva di non enorme voce ma elegante, autorevole ed espressivo. Bene i comprimari, usciti dalla Fabbrica-Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma: la Giovanna di Marianna Mappa, lo Jago di Alessandro Della Morte e il valido Rodrigo Ortiz, Don Riccardo.

Statico e impacciato scenicamente, non si può dire che compattezza e precisione siano le maggiori qualità vocali del coro dell’Opera di Roma istruito da Roberto Gabbiani, come si è sentito nell’iconico «Si ridesti il leon di Castiglia» reso con una certa fiacchezza. Definiti giustamente “movimenti mimici” gli strani gesti dei ballerini di Michele Cosentino.