Mese: Maggio 2024

Alfred, Alfred / La serva padrona

Franco Donatoni, Alfred, Alfred

Giovanni Battista Pergolesi, La serva padrona

Reggio Emilia, Teatro Ariosto, 24 maggio 2024

(diretta streaming)

Intermezzi buffi distanti 260 anni

Una sorta di complementarietà lega queste due opere in questo insolito abbinamento ora in scena a Reggio Emilia. La serva padrona lanciò a metà del ‘700 il genere dell’intermezzo, il precursore dell’opera buffa, su scala europea. Alfred, Alfred è sottotitolata “intermezzo”, nome scelto da Donatoni per sottolineare il potenziale farsesco di una vicenda banale che svolta nel surreale, e questo in un momento in cui la buffoneria nel teatro musicale alla fine del XX secolo non era proprio in primo piano.

Anche la distanza nel linguaggio musicale tra le due opere nasconde corrispondenze nei modi in cui ciascuna evoca la caricatura e l’ironia: la viscosa morbidezza degli archi di Pergolesi trova corrispondenza nello stridente tintinnio asimmetrico di Donatoni, un compositore talmente rigoroso da sembrare anni luce distante dal genere buffo.

Alfred, Alfred è la seconda esperienza teatrale di Donatoni dopo Atem (Teatro alla Scala, 1984) e nasce da un’esperienza autobiografica dello stesso compositore. Rappresentata al Festival “Musica” di Strasburgo nel 1995, ripresa a Parigi e a Nanterre nel 1998 e poi nel 2014 assieme a Gianni Schicchi a Spoleto e in varie città italiane, il protagonista dell’opera è lo stesso compositore il quale, dal letto di una camera d’ospedale perché colpito da una crisi diabetica nel 1992,  assiste in silenzio ad un susseguirsi continuo di avvenimenti surreali che si prestano a tragicomiche riflessioni sulla vita. Un viaggio sospeso tra la surrealtà delle visioni di un malato e la realtà della vita ospedaliera popolata da infermieri spaventose, strani dottori, ancor più strani visitatori.

Suddiviso in sei scene e sei intermezzi, il libretto, dello stesso Donatoni, parte dai dialoghi della quotidianità ospedaliera con il paziente a letto. L’ensemble ha una dimensione ridotta ed ha la caratteristica di una forte presenza di strumenti a pizzico quali chitarra, mandolino e clavicembalo, che donano una connotazione settecentesca alle musiche. Spesso un solo strumento solista accompagna i cantanti: una donna (Tosca Fosca la Formosa) che parla del latte e invece porta al malato del pesce fritto duetta con un flauto in sol; un fagotto con un parente fumatore di pipa; una tromba in scena una visitatrice che porta notizie poco confortanti per il malato: «Anche tuo fratello è stato ricoverato per coma diabetico. È molto grave, dicono che non se la caverà». Il linguaggio musicale è quello dell’avanguardia del tempo ironicamente farcito di citazioni musicali (Verdi, Stravinskij, Wagner, Bellini…) e una vocalità espressionista dove ogni parola, ogni frase è ripetuta varie volte come nelle opere buffe. Un grottesco concertato,  «Il diabete è una burla, ma a me non danno a berla», costituisce il finale.

Cuce assieme le due operine la bacchetta di Dario Garegnani alla testa dell’orchestra Icarus Ensemble, mentre su concezione della Muta Imago, la regista Claudia Sorace e il dramaturg Riccardo Fazi danno vita alle immagini. Nella ideazione della Sorace la corsia d’ospedale è popolata da figure horror e surreali che si affacciano sul malato e i loro volti giganteggiano minacciosi sugli schermi con i video di Maria Elena Fusacchia.

Nella produzione di Spoleto il malato, parte muta, era un gesticolante Paolo Rossi, qui invece è il giovane basso Giuseppe de Luca che dopo l’intervallo vediamo alzarsi dallo stesso letto. Si trattava dunque di un incubo di Uberto, il personaggio de La serva padrona. Dalla corsia di ospedale si passa con continuità all’elegante appartamento con opere d’arte dell’uomo che ha paura di invecchiare, e lo vediamo infatti che si fa iniettare del botulino da Vespone, mentre Serpina in bigodini si dà arie da padrona. «Serpina riesce nell’intento di conquistare Uberto», dice la regista, «proponendogli un altro tipo di mondo, gli impone la sua visione. Infatti quando lei riesce a sposarlo, avviene sulla scena uno stravolgimento temporale. Per questo non apparirà la bella casa borghese ma la famosa immagine di Delacroix della Libertà, per indicare gli anni della rivoluzione, perché i due servi (in scena anche il ruolo muto di Vespone) vogliono rovesciare il mondo. In questo senso la debolezza di Uberto è la debolezza dell’Ancient regime con le fragilità dell’uomo incarnato da Alfred Alfred che non sa vivere».

Anche se azzardato il legame narrativo tra i due lavori distanti 260 anni è ben realizzato e convincente anche grazie alla sciolta presenza scenica dei tanti personaggi della prima parte, ironicamente tratteggiati da film horror, e i tre della seconda, dove si fa notare per freschezza e buona tecnica la giovane Samantha Faina, a suo agio nella musicalità di Pergolesi e nelle variazioni dei dacapo.

Don Giovanni

foto © Andrea Ranzi

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Bologna, Comunale Nouveau, 26 maggio 2024

★★★★☆

Don Giovanni, burattinaio a spasso nei secoli

Forse è l’opera di Mozart che ha maggiormente stimolato i metteurs en scène più radicali: da quella “destrutturata” di Dmitrij Černjakov a Aix-en-Provence nel 2010 a quella ancora più recente di Romeo Castellucci a Salisburgo nel 2021, zeppa di simboli non sempre agevolmente decifrabili. 

Risulta quasi una sfida controcorrente quindi quella di mettere in scena in costumi settecenteschi il Don Giovanni da parte di Alessandro Talevi, che a Bologna l’anno scorso aveva ambientato Le nozze di Figaro in epoca moderna e che completerà qui la trilogia dapontiana con il Così fan tutte. Ma la sorpresa non è finita lì: quando, dopo le prime scene, entrano altri personaggi i costumi sono ottocenteschi e dopo ancora moderni!

«Se in quel primo capitolo della trilogia ho voluto dun­que svelare l’eternità delle passioni destinate a non tramontare nel tempo, in Don Giovanni ho deciso di sviluppare ancora di più questo concetto», dice il regista, «tenendo sempre presente che Don Giovanni è un archetipo e di conseguenza si può permettere il lusso di sedurre donne in qualsiasi secolo, attraversando il tempo e lo spazio». Ecco allora un portale passando attraverso il quale il seduttore può andare a spasso nel tempo per sedurre le sue belle. Se Donna Anna e Don Ottavio sono in severi abiti XIX secolo, Zerlina e Masetto vestono abiti cafonal contemporanei mentre lui, Don Giovanni, l’abito lo cambia a seconda dell’epoca. Il massimo si ha durante la festa in casa sua dove alla cacofonia delle tre orchestre in scena si aggiunge quella dei costumi (ideati da Stefania Scaraggi) e delle danze (coreografate da Danilo Rubeca): dietro la coppia in primo piano impegnata in un impeccabile minuetto un’altra coppia si muove sui passi di un tango e a destra gli altri invitati si dimenano in movenze rock. Nella cena finale le vittime di Don Giovanni, che abbiamo visto nei video di Marco Grassivaro dominarne la mente, entreranno dalle finestre, ognuna col suo costume, per condurre il dissoluto “non punito” là dove «c’è un mal peggior».

Ma una seconda forte idea domina la lettura di Talevi di questo “dramma giocoso”. Le relazioni personali in questa vicenda passano tutte solo e soltanto attraverso la figura del Cavaliere, è lui il mediatore unico con cui i vari personaggi si relazionano: Don Giovanni e il Commendatore; Don Giovanni e la coppia Donna Anna/Don Ottavio; Don Giovanni e Donna Elvira; Don Giovanni e la coppia Zerlina/Masetto; Don Giovanni e Leporello. Tra gli altri personaggi non ci sono rapporti particolari, certo a causa delle differenze sociali – di qua i nobili, di là i popolani – ma anche tra i nobili: Donna Anna e Don Ottavio vedono Donna Elvira non come una di loro, ma come una un po’ svitata arrivata dalla lontana Burgos. Insomma, Don Giovanni è il motore e la ragione d’essere degli altri personaggi che gravitano attorno a lui, è un burattinaio che muove e determina le azioni degli altri.

Ecco allora che il “portale del tempo” nel secondo atto si rimpicciolisce per diventare un teatro dei burattini in cui si affacciano in dimensioni ridotte gli altri personaggi. Un’idea non inedita – presente ad esempio nelle produzioni di Robert Carsen a Milano e di Chiara Muti a Torino – ma qui intelligentemente riproposta ed efficacemente realizzata, pur nelle limitazioni logistiche della succursale del Teatro Comunale chiuso per restauri e temporaneamente trasferito nella sala Comunale Nouveau della Fiera, una sala onestamente più adatta alle proiezioni cinematografiche. Un palcoscenico ridotto al minimo delle funzioni ha dettato le esigenze scenografiche che unitamente ai limiti di budget hanno costretto a utilizzare l’impianto scenico de Le nozze dello scorso anno, ossia un insieme di facciate montate su carrelli che formano i vari ambienti richiesti dalla vicenda, come l’esterno su cui si volge il duello col Commendatore o il cimitero dove da un loculo appare il viso dello stesso, defunto. Il tutto abilmente illuminato dalle luci di Teresa Nagel. La regia di Talevi è piena di piccoli sapidi particolari e gesti, sempre correlati alla musica però, con un gusto del teatro e una maestria nell’indirizzare verso una felice interpretazione attoriale e vivace presenza scenica i giovani interpreti che formano un cast omogeneo e di ottimo livello. 

Nella parte del protagonista scende in campo il basso argentino Nahuel di Pierro che dopo aver vestito i panni di Leporello ad Aix-en-Provence nel 2017 ora indossa quelli del padrone. Voce di bella proiezione e ricca di armonici, il suo è un Don Giovanni elegante e nobile, dal carattere un po’ cinico ma senza eccessi. Corretto, insomma, ma non memorabile. Timbro molto simile è quello di Davide Giangregorio, il Masetto della produzione di Livermore a Macerata, qui un Leporello di vivace presenza scenica e grande personalità. Per l’indisposizione di Ol’ga Peretjat’ko è subentrata con breve preavviso la Donna Anna del secondo cast, Valentina Varriale, che ha totalmente conquistato il pubblico con la sua sensibile interpretazione in una parte difficile che passa dai toni drammatici della prima scena al racconto ansimante «Era già alquanto | avanzata la notte» alle agilità della sua ultima aria solistica in risposta alle pressanti richieste dell’impaziente fidanzato, qui un René Barbera in stato di grazia che ha portato in scena uno dei migliori Don Ottavio per eleganza di stile e linea vocale. Molto brava anche Karen Gardeazabal, la Donna Anna di Macerata, tecnica impeccabile e bel fraseggio, ma forse un po’ più di temperamento nella sua Donna Elvira non avrebbe guastato. Efficace è la coppia dei giovani sposi, Zerlina una spumeggiante Eleonora Bellocci, Masetto un sanguigno Nicolò Donini. Il possente e autorevole Commendatore di Abramo Rosolen qualche brivido fra gli spettatori l’ha fatto scorrere.

Dalla stessa produzione de Le nozze di Figaro dell’anno scorso arriva Martijn Dendievel, giovane direttore belga che rifugge dai toni estremi e della partitura dà una lettura fedele, precisa e analitica, ma senza grandi trasporti e con tempi talora fin troppo dilatati – all’ultimo Muti, per intendersi – che trasformano l’Allegretto della serenata di Don Giovanni «Deh vieni alla finestra» in un estenuato Adagio. Qualche guizzo e qualche libertà in più, nelle riprese soprattutto, sarebbero stati graditi. 

Successo cordiale per tutti i fautori dello spettacolo con più insistenti applausi per il Don Ottavio di René Barbera e la Donna Anna di Valentina Varriale che nonostante l’avesse già cantata la sera prima non si è tirata indietro e ha generosamente salvato la recita.

Don Quichotte

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Jules Massenet, Don Quichotte 

Parigi, Opéra Bastille, 23 maggio 2024

★★★★★

(diretta streaming)

L’indicibile nostalgia del passato in uno spettacolo sconvolgente

Uscire dalla sala con le tasche piene di fazzoletti bagnati ed essere felici. E meno male che si trattava di una proiezione in un cinema buio, dove puoi nascondere la commozione e non doverti vergognare di piangere come un vitello. 

Nei cinema francesi si può vedere in diretta il Don Quichotte di Jules Massenet dall’Opéra Bastille di Parigi nella produzione di Damiano Michieletto con la direzione musicale di Patrick Fournillier. Un avvenimento che lascia il segno per la magia visiva messa in scena dal regista veneziano e dal suo magic team e dalla musica di un Jules Massenet che a 68 anni, ma a due dalla morte, firma la sua ultima grande opera. Sì, dopo verranno Roma, Panurge, Cléopatre e Amadis, queste ultime tre postume, ma il Don Quichotte è l’unica ancora nei cartelloni dei teatri. Opera molto particolare anche per Massenet, che nella sua carriera di compositore ha esplorato tutti i generi, ma questa è ancora diversa da tutte le altre, un raffinato exercise de styles, un equilibrio calibrato di stili diversi che includono anche il folclore spagnolo. E con una strumentazione ai limiti della rarefazione. Per raccontare che cosa? In Don Quichotte non accade quasi nulla, tutto è nella mente del «bon Chevalier de la longue figure» e quello che vediamo sono i suoi deliri, le sue farneticazioni. Su questo si gioca l’idea di Michieletto che cerca di rispondere a una semplice domanda: come si vive con un demente? Lo si compiace nelle sue fantasie, o si cerca di riportarlo alla realtà?

Nell’opera si parla molto di amore, di un amore talmente idealizzato – quello del protagonista per Dulcinea – da risultare irraggiungibile. L’unico amore vero, reale, tangibile è invece quello di Sancho per il suo amico/padrone. I due vivono insieme: uno è uno scrittore, un artista in crisi, perduto nella sua creazione e nella nostalgia di un amore sfortunato; l’altro è il compagno fedele che si prende cura di lui, gli prepara il pranzo, lo asseconda nei suoi deliri sperando di riportarlo ogni tanto alla realtà. Ma tutto è inutile: frutto dell’azione combinata di farmaci e alcol, le allucinazioni di Don Quichotte hanno il sopravvento, fino alla morte, un momento in cui diventano lancinanti i rimpianti della vita, come canta Dulcinea sul ritmo lamentoso di una danza lontana: «Lorsque le temps d’amour a fui, | que reste-t-il de nos bonheurs? | Et des étés, | lorsque la nuit dans ses voiles ensevelit | l’éclat des fleurs» (Quando il tempo degli amori è fuggito, cosa resta della nostra felicità? E delle estati, quando la notte col suo velo nasconde lo splendore dei fiori). E l’ultimo straziante abbraccio tra i due uomini è una di quelle scene davanti alle quali non si può non lasciare scorrere le lacrime.

Ma non è l’unico momento di uno spettacolo che rimarrà indelebile nella memoria. La figura di Dulcinea sul cavallo di una vecchia giostra è la sintesi di una drammaturgia poetica e surreale con cui Michieletto riesce a ricreare questa meditazione sulla nostalgia del passato. Un altro momento è l’inizio del quarto atto quando Don Quichotte ascolta rapito in cuffia la musica che noi stessi ascoltiamo, una musica sospesa ed evanescente, mentre sul fondo una coppia danza al rallentatore, come in un sogno. O ancora la scena dei mulini a vento, i giganti nella mente di Don Quichotte, qui figure nere senza volto che escono dalle pareti, da sotto il tappeto, dal divano. Mai a teatro una raffigurazione dei fantasmi che infestano una mente è stata così efficace.

Come può una scenografia ricreare questo mondo dove realtà, sogno e sogno della realtà si confondono? Il genio di Paolo Fantin riesce nell’impresa di rendere questi diversi piani: un ambiente domestico che si apre in una prospettiva di mise en abyme, come quando due specchi uno di fronte all’altro si rimandano all’infinito l’immagine intrappolata in mezzo. Il verde salvia delle pareti e dei mobili si stempera nei colori delle luci precise e magiche di Alessandro Carletti, i costumi anni ’50 di Agostino Cavalca danno il giusto tocco di nostalgia, le sobrie immagini video della rocafilm aggiungono l’elemento onirico e il risultato è uno degli spettacoli più riusciti degli ultimi anni.

Molte le sostituzioni nel cast ma, come nel caso dell’interprete del titolo – l’originariamente previsto Il’dar Abdrazakov non sembra più essere persona grata per il suo sostegno alla rielezione di Putin – non si riesce a immaginare un Don Chisciotte michielettesco (giovane e aitante) più vero di quello di Christian van Horn, basso-baritono americano tra i più raffinati, ammirato sia nel repertorio ottocentesco (magnifico Méphistophélès nel Faust di Kratzer a Parigi tre anni fa) sia in quello contemporaneo (il maggiordomo Julio in The Exterminating Angel, l’ultima opera di Thomas Adès). Una dizione talora non ineccepibile diventa un difetto del tutto trascurabile in una interpretazione così intensa e commovente come quella offerta sulle tavole dell’Opéra Bastille. Ineguagliabile anche il Sancho di Étienne Dupuis per carica umana, perfezione vocale e bellezza di timbro. Invece della prevista Marianne Crebassa a impersonare la sensualità e la giovinezza di Dulcinée è il mezzosoprano Gaëlle Arquez, cantante che con la sua raffinata linea di canto è a suo agio nelle agilità vocali come nei momenti più lirici. Di ottimo livello gli altri giovani comprimari: Emy Gazeilles (Pedro), Marine Chagnon (Garcias), Samy Camps (Rodriguez) e Nicholas Jones (Juan). Buona la prova fornita dal coro istruito da Ching-Lien Wu mentre alla direzione dell’orchestra del teatro Patrick Fournillier si rivela abile concertatore nelle pagine più vivaci come in quelle più liriche. Particolarmente apprezzabile il violoncellista solista nell’interludio al quinto atto, una pagina quasi allo stesso livello della “Méditation” della Thaïs di sedici anni prima.

Das Rheingold

Richard Wagner, Das Rheingold 

Zurigo, Opernhaus, 18 maggio 2024

★★★☆☆

(video streaming)

Un signore dell’anello molto domestico

Se il  recente Rheingold di Castellucci a Bruxelles era pieno zeppo di simboli, alcuni anche poco decifrabili, questo di Andreas Homoki a Zurigo solo apparentemente appartiene allo stesso mondo visivo, qui infatti la narrazione è del tutto lineare e le cose rappresentate sono didascalicamente quello che sono: l’oro del Reno è una pepita in una scatoletta portagioielli, l’anello è proprio un anello, il drago un mostro da cartoni animati che esce dall’armadio, il rospo un giocattolo di plastica. «Il Rheingold è stata una delle prime opere che ha ascoltato» confessa Homoki, che afferma «di non essersi soffermato sulle differenze di strati sociali, sulle teorie marxiste del capitalismo o sulle questioni femministe, che sono facilmente individuabili nell’opera; ho voluto semplicemente evidenziare le interazioni personali e l’azione, senza stravolgere la trama né dare nuove interpretazioni, ma cercare semplicemente di trasmettere il messaggio di fondo del lavoro wagneriano», che è quello di una vicenda molto borghese in cui le relazioni interpersonali di una famiglia “normalmente” disfunzionale.

Ecco allora che il letto del fiume – citato nel libretto quando nella prima scena Flosshilde rimprovera le sorelle con le parole «Des Goldes Schlaf | hütet ihr schlecht! | Besser bewacht | des schlummernden Bett» (Dell’oro il sonno mal custodite! Meglio vegliate del sonnecchiante il letto) –  lo troviamo nei tre i letti delle figlie del Reno della scenografia di Christian Schmidt formata da stanze bianche di una grande villa (forse la stessa in cui soggiornò Wagner a Zurigo nei mesi della stesura iniziale della partitura) su una struttura che ruota quasi continuamente. Una soluzione elegante – all’inizio il rotare degli ambienti richiama il lento flusso del grande fiume e il gioco a rimpiattino delle tre fanciulle con Alberich da una stanza all’altra è ben realizzato – ma alla lunga monotona: il fondo del fiume Reno, l’Asgard immerso nelle nuvole, il  Nibelheim e il Valhalla si svolgono tutti negli stesse interni e i grandi momenti di questo immenso dramma musicale si rivelano così piuttosto sotto tono con i passaggi da una scena all’altra affidati esclusivamente alla musica a sipario chiuso. 

Ironici i costumi dello stesso Schmidt: le tre figlie del Reno sono in bianchi pigiami di seta e parrucche platinate; Wotan e Fricka ricordano Wagner e consorte, lui in vestaglia da camera lei in abito verde; Froh e Donner due giocatori di cricket in giacca a righe e paglietta; i giganti Fasolt e Fafner due cacciatori bavaresi (sembra che alla prima assomigliassero a due ebrei ortodossi e il regista ne ha rapidamente cambiato il look). In questo ambiente borghesemente domestico l’outsider è Loge, un Jack Sparrow a piedi nudi. Nei costumi dei Nibelunghi domina il nero ovviamente e il bianco in quelli degli dèi. Come sempre appropriato è il gioco luci di Franck Evin. 

A parte i giochi di prestigio di Loge che fa apparire all’improvviso varie fiamme, non c’è mito o soprannaturale in questo Rheingold visto come un ambiente molto borghese con Freia indispettita per il comportamento dei maschi della famiglia, i due fratelli Donner e Froh bambini troppo cresciuti e Wotan un patriarca che si siede al lungo tavolo dorato che rappresenta il Walhalla con dei parenti scocciati. L’arcobaleno che doveva transitarli nel castello non c’è: le porte dell’armadio si aprono, ne esce una luce abbagliante, si chiude. Tutto qua. Perché il pubblico non creda troppo a quello che vede e non si immerga nella finzione, in diversi momenti quando Loge parla esce dal quadro in cui si immagina la vicenda le luci in sala si accendono.

Per questo ambizioso progetto di mettere in scena l’intero ciclo, alla guida della Philharmonia Zürich c’è il direttore musicale Gianandrea Noseda che debutta in questo Wagner dalle dinamiche non esasperate, dove sono i dettagli strumentali, ben ripresi dalla regia video, a fare la differenza. L’efficacia teatrale non ne risenti e assieme all’equilibrio con le voci in scena costituisce un punto di forza della sua concertazione travolgente ma ben calibrata e variegata nelle dinamiche.

Le voci sono di qualità discontinua. Tomasz Konieczny è un Wotan di grande personalità, grande proiezione vocale ma con salti di registro bruschi, una linea di canto aspra e un’intonazione traballante. Si salvano invece la presenza scenica e la convincente recitazione. Così succede anche con il dinoccolato Loge di Matthias Klink, dal parlato e dall’intonazione ancora più opinabili. Molto bene invece le donne, come l’inquieta Fricka di Patricia Bardon, la fresca Freia di Kiandra Howarth, la Erda di Anna Danik e le tre ondine Woglinde (Uliana Alexyuk), Wellgunde (Niamh O’Sullivan) e Flosshilde (Siena Licht Miller). Dei due giganti meglio il Fasolt di David Soar del fin troppo cavernoso Fafner di Oleg Davydof, accettabili il Donner di Jordan Shanahan e il Froh di Omer Kobiljak. L’eccellenza vocale la troviamo nei due Nibelunghi: Christopher Purves è un Alberich di grande intensità e grande attenzione alla parola, pur non essendo di madrelingua; Wolfgang Ablinger-Sperrhacke si dimostra invece un Mime quasi  insuperabile per varietà di colori ed espressioni. 

Theodora

Georg Friedrich Händel, Theodora

Vienna, Museumsquartier Halle E, 25 ottobre 2023

★★★★☆

(video streaming)

Caffè Teodora

Come aveva fatto Claus Guth, che per l’ambientazione della sua Ariadne auf Naxos a Zurigo aveva scelto un luogo iconico della città, ossia il ristorante Kronenhalle, anche Stefan Herheim per la sua Theodora a Vienna ambienta la vicenda dello scontro tra paganesimo e cristianesimo nel famoso Café Central dove nella drammaturgia di Kai Weßler i martiri sono camerieri che si ritrovano licenziati e devono lasciare, se non proprio questo mondo, la caffetteria. 

Almeno qui in Occidente non si muore più per la fede e si possono vivere le proprie convinzioni religiose in privato, ma si viene sacrificati nei templi del consumismo. Teodora, Didimo, Settimo e Irene sono tutti subordinati al capo cameriere e ne subiscono le avance sessuali. Il pubblico internazionale del caffè riflette in parte i loro umori, ma spesso l’opinione pubblica diverge poiché la loro visione del mondo, di Teodora in particolare, non sempre trova risonanza tra la folla. Una folla che, come nel film di Buñuel, non riesce ad abbandonare il locale.

Le volte neogotiche e le colonne ricostruite meticolosamente dalla scenografa Silke Bauer trasformano il Café Central nell’interno di una chiesa con i suoi raggi di speranza che il sole invia attraverso le finestre oltre le quali scorre una vista sulla Herrengasse, oppure un cielo notturno o le palme di un giardino. Manca totalmente il misticismo in scena, cosa che il regista sembra voler compensare all’ultimo momento: poco prima della fine il soffitto si abbassa, le colonne affondano nel pavimento e un angelo in nero appare sul tetto con le fiamme nelle mani. Nel frattempo Theodora e Didymus si sono allontanati prendendo ognuno strade diverse.

In Theodora l’atmosfera sonora è chiaramente distinta: per i Romani che puniscono impietosamente i cristiani prevalgono gli ottoni e un tono autoritario nella musica; per i cristiani dominano invece i suoni morbidi e l’aspetto interiorizzato e contemplativo. Il Didymus della produzione di Christof Loy e Ivor Bolton al Festival di Salisburgo del 2009 è ora alla guida de La Folia Barockorchester e il controtenore Bejun Mehta dimostra la sua competenza in questo repertorio lavorando alle variazioni e alle cadenze con i solisti e gli strumentisti ottenendo un risultato più che apprezzabile.

Jacquelyn Wagner è un’intensa e sontuosa Theodora, Christopher Lowrey un Didymus sensibile e lirico, così come il Septimius di David Portillo, tenore dalla voce luminosa, mentre Julie Boulianne è Irene. Il cattivo della situazione (Valens) trova in Evan Hughes il giusto interprete per peso vocale e presenza scenica, ma è il coro, l’eccellente oltre ogni lode Arnold Schoenberg Chor, a catturare l’attenzione con la sua ineguagliabile performance attoriale. Chissà se qui sotto le Alpi arriveremo mai a un risultato se non simile almeno comparabile con i cori dei nostri teatri.

Stagione Sinfonica RAI

Wolfgang Amadeus Mozart, Sinfonia n° 34 in Do maggiore K 338 
I. Allegro vivace
II. Andante di molto
III. Allegro vivace

Dmitrij Šostakovič, Sinfonia n° 10 in mi minore op. 93
I. Moderato
II. Allegro
III. Allegretto – Largo – Più mosso
IV. Andante – Allegro

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Daniele Gatti direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 16 maggio 2024

Per il suo ritorno con l’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI Daniele Gatti ha scelto Mozart come entrée al plat de résistance della serata costituito dalla Decima Sinfonia di Šostakovič. Cronologicamente il primo e l’ultimo pilastro della evoluzione della sinfonia che, nata nella sua forma classica con Haydn e Mozart nel secondo Settecento, è arrivata al XX secolo e qui ha trovato nel compositore russo il suo ultimo grande interprete.

Se le 104 sinfonie di Haydn spaziano su un periodo molto lungo, il culmine della sua creazione è quello delle ultime dodici (le “Sinfonie londinesi”) che appartengono al periodo 1791-1795 e vengono quindi dopo le ultime sei di Mozart: dal 1782 della “Haffner” (K 385) al 1788 della “Jupiter” (K 551). La K 338 in programma è stata scritta prima della partenza di Mozart per Monaco (novembre 1780) per l’allestimento dell’Idomeneo. La sinfonia è in Do maggiore e ha un carattere esuberante così messo in evidenza da Massimo Mila: «È il capolavoro di quella musicale tracotanza, di quell’orgoglio della propria maestria, che caratterizza le composizioni di Mozart dopo i suoi ritorni dai viaggi all’estero», in questo caso da Parigi, dove aveva presentato, tra l’altro, la sua Sinfonia n° 31, la “Pariser” appunto. Nel complesso il viaggio era stato deludente, ma era comunque stato un’utile esperienza per l’ex enfant prodige. La K 338 è dunque l’ultima sinfonia della sua gioventù salisburghese e fa da ponte alla successiva dirompente maturità viennese, quando è finalmente lontano dalla provinciale corte arcivescovile. Originariamente concepita in quattro movimenti, fu poi ridotta a tre, una struttura più comune nel primo classicismo. A questo proposito il musicologo Alfred Einstein ha avanzato una sua tesi secondo cui il Minuetto in Do maggiore K 409, scritto a Vienna nel maggio 1782, sarebbe stato composto per questa sinfonia, ma non esiste alcuna prova a sostegno di tale affermazione e per di più il Minuetto richiede due flauti che sono invece assenti nell’organico della sinfonia che come fiati prevede due oboi, due corni, due fagotti e due trombe.

Una vivace fanfara in tempo di marcia introduce il primo tema dell’Allegro vivace iniziale mentre il secondo è più lirico. Tono molto festoso è anche quello del secondo movimento, un “Andante di molto” [sic] in Fa maggiore per soli archi, ad eccezione di un fagotto che raddoppia i bassi. Ancora più allegro è ovviamente il finale con un ritmo che richiama quello di una tarantella. Daniele Gatti non sopravvaluta i meriti di questo lavoro che presenta nella sua olimpica gioia compositiva lasciando agli strumentisti dell’orchestra la possibilità brillare nei loro interventi. Nella lettura a memoria di Gatti è la fluidità dei temi e la trasparenza del suono a trovare la più felice realizzazione.

Nei 172 anni che trascorrono tra il lavoro di Mozart e quello di Šostakovič come è cambiato il mondo! Sono mutate la società, la cultura in generale e la musica in particolare. Soprattutto la sinfonia, che è diventata un oggetto più pregno di significato e ideologicamente importante, quasi scomodo, di quanto fosse stato nel passato. È successo con Beethoven e succederà ancora di più con Bruckner e Mahler a fine Ottocento. Non solo a livello estetico, ma anche a livello sociale la sinfonia assume un’importanza e un ruolo che nessun’altra forma strumentale possiede, come fu messo ben in chiaro la prima volta da Paul Bekker nel suo saggio del 1918 Die Sinfonie von Beethoven bis Mahler – testo fondamentale incredibilmente mai tradotto in italiano! Con Šostakovič nel Novecento la sinfonia assurge a un peso tale da farla implodere su sé stessa: le sue quindici partiture, composte tra il 1926 e il 1971, costituiscono un grandioso monumento ideale, spirituale e formale, ma forse saranno le ultime sinfonie. Sulla pelle del massimo compositore russo del Novecento è passata tutta la fatica e la paura di una nazione che è stata protagonista e vittima di una delle più sanguinose vicende che l’umanità abbia patito nella sua storia: prima la rivoluzione russa, poi l’assedio bellico nazista, poi l’epoca di Stalin e il post-stalinismo. Tutte queste vicende sono state vissute di persona da Šostakovič e hanno lasciato un forte impatto nelle sue composizioni. Nel loro insieme le sue sinfonie costituiscono il diario storico e dell’anima di una personalità sensibile, tagliente e attiva in una congiuntura sociale e umana drammatica quant’altre mai furono.

Della Decima sinfonia e dei suoi pregi costruttivi è già stato scritto in occasione della esecuzione di James Conlon con la stessa OSN un anno e mezzo fa. Il moderato iniziale è ritenuto la migliore pagina sinfonica di Shostakovich in assoluto: il compositore rinuncia al movimento allegro per disegnare un «disperato deserto» tramite «una tetra trenodia di desolante miseria» (Franco Pulcini) e Gatti riesce a rendere rabbrividente quell’inizio strisciante dei violoncelli e contrabbassi in un crescendo lentissimo e inesorabile che porta al lancinante pieno a tutta orchestra a metà del movimento e poi alla successiva livida estinzione sonora. Non è solo un gioco di decibel, ma di una diversa qualità del suono quella ottenuta dal direttore milanese: livido all’inizio, dolorosamente abbagliante nel fortissimo. Espressivamente potente è il relativamente breve secondo movimento, lo Scherzo-Stalin, un diabolico gioco di incastri in cui l’alternanza dei piani acustici viene magistralmente realizzata dall’orchestra. Un certo richiamo a Mahler è evidente nel valzer sempre più beffardo del terzo movimento, mentre il quarto porta a quella «isterica aggressività» del finale che lascia il pubblico senza fiato ma prodigo di applausi copiosi e insistenti.

Una serata ricca di intense emozioni quella regalataci dal vincitore del “Premio Abbiati” della critica musicale italiana come miglior direttore del 2023, premio assegnatogli per la terza volta nella sua quarantennale carriera.

Bohème: Breathe – Umphefumlo

Mark Dornford-May, Bohème: Breathe – Umphefumlo

Internationale Filmfestspiele Berlin 2015

Mimì in Sudafrica

Recentemente le opere di tema orientale di Puccini sono state oggetto di discussioni sull’appropriazione di una cultura da parte di un’altra: è stato il caso della Turandot con la cultura cinese o di Madame Butterfly con quella giapponese. Il tema del yellowface si è aggiunto così a quello del blackface. Ma nel 2015 una ben diversa operazione capovolgeva i termini: Mark Dornford-May, un inglese trapiantato in Sudafrica, con un film su La bohème – sempre Puccini! – girato in un sobborgo di Cape Town e cantato in lingua Xhosa, dimostra come si possa arrivare alla geniale appropriazione politico-culturale della tradizione operistica europea da parte di una cultura a noi estranea. Di qui a dire che così, con la reciproca appropriazione, il problema è risolto il passo è lungo e non ne dimostra la relativizzazione, essendo ancora enormi i nostri debiti coloniali con il resto del mondo. Ma l’operazione di Dornford-May, che dieci anni prima aveva già girato una U-Carmen nella baraccopoli di Khayelitsha, non solo dimostra una volta di più l’universalità dei sentimenti, la vitalità e contemporaneità dell’opera lirica, ma indica anche un modo diverso di fruirla, con buona pace dei melomani tradizionalisti.

Nel 2000 Dornford-May e il direttore d’orchestra Charles Hazlewood si sono recati in Sudafrica, dove hanno tenuto audizioni in tutto il paese, selezionando più di 2.000 persone per formare una compagnia di teatro lirico per lo Spier Festival, che sarebbe diventata l’Isango Ensemble. Da allora Oltre alla U-Carmen sono stati messi in scena The Magic Flute – Impempe Yomlingo con la partitura mozartiana trasposta per orchestra di marimba e A Christmas Carol. Nell’estate del 2012, La Boheme – Abanxaxhi, una partnership unica con il Fondo Globale per la lotta all’AIDS, alla tubercolosi e alla malaria, si è esibita per cinque settimane a Londra. Il regista si è scontrato con la stampa e parte dell’establishment artistico per un suo articolo su un giornale sudafricano in cui deplorava il “volto bianco” del teatro sudafricano e la mancanza di critici in grado di parlare qualsiasi lingua africana. 

Con il suo film su La bohème Dornford-May ha voluto porre l’accento sul fatto che nel 2014 nel mondo due milioni di persone sono morte di TBC, essendo Khayelitsha uno dei posti più colpiti. La vicenda della Mimì di Murger malata di tisi e degli amici bohémien trova riscontro nella brutale realtà degli studenti africani che lottano per il cibo, per una casa e per le medicine.

Strumenti a percussione e un coro sostituiscono la grande orchestra mentre le voci sono quelle fresche ma ben impostate di cantanti locali: citiamo almeno Mhlekakai Mosiea (Lungelo/Rodolfo), Bususuwe Nhejane (Mimì) e Pauline Malefane (Zolka/Musetta), l’interprete principale di U-Carmen. I direttori musicali sono Mantisi Dyantis, che ne ha curato l’arrangiamento e la stessa Malefane che assieme al regista ha scritto la sceneggiatura.

La drammaturgia è brillantemente adattata nel passaggio dalla Parigi ottocentesca all’oggi di uno slum sudafricano. I giovani hanno grandi sogni per il futuro, segnalati da inserti scherzosi in cui reggono cartelli quali “Premio Nobel” per Mimi che studia di ventare una botanica e intanto dipinge fiori, “Playboy, dio del sesso, rivoluzionario” per l’artista Mandisi/Marcello. Il pagamento dell’affitto richiesto dal padrone di casa è qui risolto con un principio di incendio che fa fuggire tutti lasciando l’immobile senza luce così da far incontrare i due giovani Mimi e Lungelo/Rodolfo a lume di candela. Alcindoro qui è un boss della malavita locale e Musetta è Zoleka, una cantante jazz che si accompagna alla tastiera per intonare «As I go by…» (Quando m’en vo…).

Mimì muore sotto un cavalcavia mentre il rumore del treno che passa lì vicino copre i rintocchi di una lontana campana. Cambia l’ambientazione, cambiano i tempi, ma l’emozione e lo strazio sono gli stessi. E si scopre che l’immortale “Che gelida manina” è altrettanto commovente in lingua Xhosa.

P.S. Un sincero ringraziamento a Giuliano Danieli che al convegno “Puccini in scena, ieri e oggi” organizzato a Lucca dalla Associazione Nazionale Critici Musicali ha fatto conoscere questo film e mi ha poi dato la possibilità di visionarlo.

Vincerò, ma anche no

Alfonso Antoniozzi, Vincerò, ma anche no

136 pagine, Janus Editore, 2021

Lo strillo in copertina “Tutto quello che nessuno ha mai detto sull’opera lirica” è ambizioso se non addirittura pretenzioso, ma il nome dell’autore è una garanzia: Alfonso Antoniozzi – grande cantante, intelligente regista, assessore alla cultura della sua città (Viterbo), docente di Teoria e tecnica dell’interpretazione, uomo di spettacolo a tutto tondo – è un animale di palcoscenico che conosce benissimo il suo ambiente e di lui ci si può sicuramente fidare. Più cauto è comunque il sottotitolo ufficiale “Pratico manualetto per i neofiti dell’Opera”. Di questo infatti si tratta, di un’introduzione per chi è digiuno di opera e al massimo riconosce Vincerò o Brindiamo, brindiamo, perché li ha sentiti cantati da il Volo…

«Mi auguro che questo libro possa essere una delle cento chiavi possibili che aprono le porte di un teatro d’opera allo spettatore», scrive Antoniozzi, che utilizza dieci celeberrime pagine del repertorio lirico per incuriosire e stimolare quella «passione che aspetta di essere scoperta, una di quelle che non vi lasciano più e che vi migliorano l’esistenza».

Ma il librino non è rivolto solo ai neofiti, anche gli appassionati vi possono trovare qualche spunto curioso presentato con una scrittura brillante e ironica. Con il criterio inflessibile di parlare solo di interpreti non più viventi – con l’eccezione di Renata Scotto, al tempo ancora in vita – Antoniozzi confessa di non avere avuto il coraggio di scrivere giudizi sui colleghi, anche se solo positivi. Oltre che ai colleghi, l’autore si rivolge ai critici musicali e ai musicologi rivelando che anche se il testo non è pensato a loro, se volessero lo stesso leggerlo non mancano i motivi per «allenare le sinapsi che sovrintendono all’ironia e magari persino all’autoironia». E infatti così è.

Ognuno dei dieci esempi è formato da un’introduzione/digressione delle peripezie legate alla composizione dell’opera da cui l’aria è tratta, al compositore e alla sua epoca; dalla trama dell’opera; da una parafrasi del testo; da una guida all’ascolto e dall’interpretazione scelta che si può ascoltare/vedere in rete tramite il QR-code opportunamente stampato.

Pagliacci / Cavalleria rusticana

Ruggero Leoncavallo, Pagliacci

Pietro Mascagni, Cavalleria rusticana

Amsterdam, Het Muziektheater, 28 settembre 2019

★★★★★

(registrazione video)

Carsen fa Pirandello

Ad Amsterdam la stagione lirica è inaugurata da una produzione di Robert Carsen che si rivela una delle sue migliori. Si tratta di Pagliacci e Cavalleria rusticana, in quest’ordine, invertito rispetto a quello tradizionalmente adottato perché Carsen parte dal prologo di Pagliacci con la tirata di Tonio sull’autore che «al vero ispiravasi» e rivolto al pubblico «piuttosto che le nostre povere | gabbane d’istrioni, le nostr’anime | considerate, poiché noi siam uomini | di carne ed ossa», per puntare su una rappresentazione meta-teatrale che accomuna i due lavori e li collega.

 In Pagliacci la folla è il coro stesso che dalle prime file della platea diventa personaggio prima rispondendo con infantile entusiasmo agli «squilli di tromba stonata» dei teatranti di fiera e poi salendo in palcoscenico per seguire da vicino lo spettacolo delle maschere concluso dal doppio assassinio. Uno spettacolo senza commedia dell’arte, ma con elementi clowneschi: il naso rosso di Tonio, le scarpe smisurate, il trucco dei visi. I costumi sono di Annemarie Woods e le luci come sempre dello stesso Carsen e di Peter van Praet mentre la scenografia di Radu Boruzescu mostra due sipari rossi – i diversi livelli della rappresentazione – e un palcoscenico vuoto con sedie raffazzonate, stender appendiabiti e tavolini per il trucco. Il set della farsa all’interno dell’opera è una replica degli stessi camerini. Tonio è un tecnico di palcoscenico e fari, tralicci, quinte sono a vista a sottolineare la commistione tra vita reale e finzione scenica.

Dopo l’intervallo, Cavalleria inizia col “fermo immagine” del tragico finale di Pagliacci, i due cadaveri a terra e la folla sbigottita. Gli spettatori-performer indossano abiti identici a quelli di tutti i giorni e il loro direttore, Ching-Lien Wu, appare come sé stessa mentre dirige una prova. Santuzza non è stata disonorata socialmente, ma licenziato dal cast e Mamma Lucia è una direttrice di scena. Qui non c’è la Sicilia, non c’è colore locale. Solo il teatro, dove la finzione è talora più convincente della realtà e la distinzione tra l’uno e l’altra è una linea piuttosto sfocata. Più che il Verismo, Carsen ha in mente Luigi Pirandello che qualche decennio dopo avrebbe esplorato il sofferto rapporto tra attore e personaggio. La lettura di Carsen potrebbe sembrare audace, ma è la sua attenta regia con tanti particolari di grande teatralità e l’attenzione alla recitazione dei cantanti a rendere del tutto convincente l’azzardo.

Questo grazie anche alla direzione di Lorenzo Viotti, che ha sostituito il previsto Sir Mark Elder. La sua concertazione è ricca di sfumature e colori, più brillanti e con tempi spediti in Pagliacci, più sobri e con tempi dilatati in Cavalleria. Magnifica è la resa dell’Intermezzo e in ogni momento l’attenzione ai cantanti è suprema. In questo è aiutato da un coro superlativo e da solisti di grande interesse. Nella prima parte il Canio di Brandon Jovanovich conferma le doti attoriali del tenore americano accanto a una vocalità atipica che qui però risulta molto efficace per la grande proiezione, il fraseggio spezzato, gli acuti potenti. Il suo lavoro di immedesimazione rende il personaggio totalmente credibile e di grande impatto. Nedda ideale per il timbro lirico è quella del soprano Aylin Pérez. Il suo canto è senza sforzo, con mezzevoci e pianissimi suadenti, trilli puliti e un buon controllo anche nel registro medio e basso, ottenuto mantenendo lo stesso timbro uniforme. Roman Burdenko è un giustamente spregevole Tonio dalla voce imponente che si piega alle esigenze del ruolo. Marco Ciaponi (Beppe) è un magnifico Arlecchino, lirico e di bel fraseggio. Silvio di lusso dal timbro pieno e morbido quello di Mattia Olivieri, di avvenente fisicità nel sensuale duetto con Nedda.

Burdenko ritorna nella seconda parte come Alfio, e forse se ne poteva fare a meno. Santuzza di eccezione è quella di Anita Rachvelishvili, tra le migliori in assoluto con una resa vocale e teatrale sconvolgente. Brian Jagde è un giusto Turiddu musicale, dalla bella linea di canto e mai eccessivo nell’interpretazione. Credibile e fascinosa la Lola di Rihab Chaieb, mentre Elena Zilio è la Mamma Lucia di sempre.

The Gondoliers

Arthur Sullivan, The Gondoliers

Glasgow, Theatre Royal, 28 ottobre 2021

★★★★☆

(video streaming)

L’ultimo grande successo e capolavoro di G&S

Terz’ultima delle Savoy Operas, The Gondoliers or The King of Barataria fu anche l’ultimo grande successo di William Schwenck Gilbert e Arthur Sullivan, 553 repliche successive alla prima del 7 dicembre 1889, ed è forse il loro massimo capolavoro.

Le relazioni tra librettista e compositore, anche a causa del tiepido successo della loro ultima collaborazione, The Yeomen of the Guard, erano diventate tese. Alle smanie di Sullivan per scrivere un’opera seria in cui la musica «doveva essere predominante» Gilbert aveva risposto: «Se voi avete la sorprendente impressione di essere stato negletto negli ultimi dodici anni, e se siete serio nella vostra intenzione di voler scrivere un’opera in cui “alla musica debba essere assegnato il riguardo primario” (dal che capisco trattarsi di un’opera in cui il libretto, e di conseguenza il librettista, devono occupare un posto subordinato), non c’è certo la possibilità di trovare un modus vivendi soddisfacente per entrambi. Voi siete un esperto nella vostra professione, e io nella mia. Se ci vogliamo rimettere insieme deve essere come maestro e maestro, non come maestro e servo». Essi si riappacificarono, ma rimase sotterranea una vena di rancore fra i due che alla fine sarebbe uscita allo scoperto.

Nell’aprile del 1890 Gilbert scoprì che le spese di manutenzione del teatro, tra cui un nuovo tappeto per l’atrio anteriore del teatro, erano state addebitate alla partnership invece che a carico di Carte. Gilbert affrontò Carte, ma il produttore si rifiutò di riconsiderare i conti, cosa che fece infuriare Gilbert. Le cose degenerarono presto, Gilbert perse le staffe con i suoi soci e intentò una causa contro Carte. Sullivan sostenne Carte rilasciando una dichiarazione giurata in cui affermava erroneamente che c’erano delle piccole spese legali in sospeso a causa di una battaglia che Gilbert aveva avuto nel 1884 con Lillian Russell, mentre in realtà quelle spese erano già state pagate. Quando Gilbert lo scoprì, chiese la ritrattazione della dichiarazione giurata; Sullivan rifiutò e Gilbert si sentì tradito. Sullivan sentiva che Gilbert stava mettendo in dubbio la sua buona fede, e Sullivan aveva altri motivi per rimanere nelle grazie di Carte: Carte stava costruendo un nuovo teatro, la Royal English Opera House (oggi Palace Theatre), per produrre l’unica grande opera di Sullivan, Ivanhoe. Dopo la chiusura di The Gondoliers nel 1891, Gilbert ritirò i diritti di rappresentazione dei suoi libretti, giurando di non scrivere più opere per il Savoy. L’aggressiva azione legale di Gilbert, anche se coronata da successo, aveva amareggiato Sullivan e Carte. Dopo molti tentativi falliti da parte di Carte e di sua moglie, Gilbert e Sullivan si riunirono grazie agli sforzi del loro editore musicale, Tom Chappell. Nel 1893 produssero la loro penultima collaborazione, Utopia, Limited, ma The Gondoliers si sarebbe rivelato l’ultimo grande successo di Gilbert e Sullivan. Utopia fu solo un modesto successo e la loro ultima collaborazione, The Grand Duke, nel 1896, fu un fallimento. Dopo di allora, i due non collaborarono mai più.

Il tempo trascorso su The Gondoliers fu più lungo che per le altre opere, Sullivan dimostrò tutta la sua maestria in cori e concertati complessi dal punto di vista del contrappunto delle voci e trascinanti ritmi di danze di gusto spagnolo. I loro sforzi non furono inutili e i risultati non delusero le aspettative: i critici furono estremamente favorevoli e il pubblico in delirio. Come era successo con The Mikado l’ambientazione esotica, qui una Venezia di fantasia nel primo atto e il palazzo del regno di Barataria nel secondo, aveva spinto Gilbert a premere sul pedale della satira sociale. Il libretto è un’incantevole presa in giro delle attrattive e delle insidie del potere, del privilegio e del clientelismo.

Atto I. A Venezia, ventiquattro contadine dichiarano la loro passione per i bei fratelli gondolieri Marco e Giuseppe Palmieri, che si bendano per scegliere equamente le loro spose. Alla fine, Giuseppe sceglie Tessa e Marco sceglie Gianetta, e tutti e quattro si recano in chiesa per un doppio matrimonio. Il Duca e la Duchessa di Plaza-Toro, insieme alla figlia Casilda, arrivano dalla Spagna per incontrare Don Alhambra del Bolero, il Grande Inquisitore. Mentre il loro tamburino Luiz parte per annunciare l’arrivo del Duca, il Duca e la Duchessa rivelano alla figlia un segreto che hanno custodito per vent’anni: quando lei aveva solo sei mesi, è stata data in sposa al figlio neonato del Re di Barataria, che è stato portato a Venezia da Don Alhambra e ora è lui stesso Re dopo la morte del padre in un’insurrezione. Casilda è quindi diventata regina di Barataria e i suoi genitori l’hanno portata a Venezia per farle conoscere il marito. Segretamente innamorata di Luiz, Casilda si rassegna a una vita separata da lui. Don Alhambra arriva e spiega che il piccolo Principe di Barataria è stato allevato dal gondoliere veneziano Baptisto Palmieri, che aveva un figlio della stessa età e che ha dimenticato quale dei due fosse. I due ragazzi – Marco e Giuseppe Palmieri – crebbero e divennero a loro volta gondolieri. Solo la balia Inez, che li ha accuditi (e che è anche la madre di Luiz), sa chi è il primo, ma ora vive con un brigante in montagna. Il Grande Inquisitore invia Luiz a cercarla. Quando Marco e Giuseppe arrivano con le loro mogli, Don Alhambra spiega che uno di loro è il Re di Barataria, ma nessuno sa quale. Nonostante le loro convinzioni repubblicane, i “fratelli” sono entusiasti e accettano di recarsi subito a Barataria, regnando insieme fino a quando non sarà possibile identificare il vero Re. Don Alhambra avvisa le mogli che non possono essere ammesse a Barataria fino a quando il Re non sarà stato dichiarato, trascurando di dire che il vero Re è già sposato con Casilda.
Atto II. A Barataria, Marco e Giuseppe, fedeli alle loro radici repubblicane (d’adozione), insieme governano in uno stile idealista, anche se un po’ caotico. Vivono una vita splendida, ma sentono la mancanza delle mogli. Ma ben presto, faticando a sopportare la separazione, le signore arrivano da Venezia e tutti festeggiano con un gran ballo. Don Alhambra arriva a palazzo e scopre che Marco e Giuseppe hanno promosso tutti alla nobiltà, e comunica che il vero Re è stato sposato con Casilda da bambino ed è quindi un bigamo involontario. Le mogli dei gondolieri sono sconvolte nello scoprire che nessuna di loro sarà regina. Il Duca e la Duchessa di Plaza-Toro arrivano con Casilda e, sconvolti dalla mancanza di sfarzo e di cerimonie di benvenuto, si impegnano a educare Marco e Giuseppe a un corretto comportamento regale. I due ex gondolieri rimangono soli con Casilda, che promette di essere una moglie fedele per uno di loro, e quando arrivano le altre mogli, tutti e cinque cantano della loro strana situazione. Don Alhambra arriva con la nutrice Inez, che conosce la vera identità del Re. La donna confessa che quando il Grande Inquisitore è arrivato per portare via il Principe bambino, ha sostituito il proprio figlio piccolo, tenendo il vero Principe sotto la propria guardia. Così il Re non è né Marco né Giuseppe, ma Luiz, e Casilda scopre di essere già sposata con l’uomo che ama. I due gondolieri, sebbene delusi per non essere diventati Re, tornano a Venezia felici con le loro mogli.

La produzione della Scottish Opera, realizzata in collaborazione con la D’Oyly Carte Opera Company e la State Opera South Australia, è diretta con brio da Derek Clark che dà vita alla più solare e gioiosa delle Savoy Operas. Sotto la sua guida la Schottish Opera Orchestra si dimostra un duttile strumento per realizzare la non facile partitura ricca di invenzioni musicali argute e sapienti allo stesso modo. Frizzante è il est di interpreti efficacissimi nel tratteggiare i sapidi personaggi di questa storia surreale: i fratelli Palmieri, i gondolieri del titolo, Marco (William Morgan) e Giuseppe (Mark Nathan); le spose Gianetta (Ellie Laugharne) e Tessa (Sioned Gwen Davies); gli spiantati e altezzosi aristocratici spagnoli The Duke of Plaza-Toro (l’esilarante Richard Suart) e The Duchess of Plaza-Toro (Yvonne Howard); il Grande Inquisitore Don Alhambra del Bolero (Ben McAteer); Casilda (Catriona Hewiston), Luiz (Dan Shelvey) e tutti gli altri.

Fedele alla tradizione della d’Oyly Carte ma con un pizzico di modernità è l’arguto allestimento di Stuart Maunder, direttore artistico della State Opera South Australia di cui si ricorda il delizioso Mikado. Assieme alle scene di Dick Bird, al gioco luci di Paul Keogan e alle fluide coreografie di Isabel Baquero il risulato è uno spettacolo visivamente godibilissimo che il culmine nei costumi dello stesso Bird, uno per tutti quello della Duchessa: una gonna di due metri e mezzo di larghezza, sbrindellata e sbiadita nel primo atto, riportata allo splendore di sete dorate nel secondo assieme alla parrucca in cui è infilzata una lunga gondola. Il costumista si diverte non solo con la profusione di fiori e nastri degli abiti settecenteschi delle contadine, ma con il costume dei fratelli gondolieri che devono condividere il ruolo di re. Per non parlare dell’abito da fenica spagnola di Casilda che sfoggia anche una benda nera su un occhio – non sempre lo stesso… – a mo’ di principessa Eboli!

La recita è stata filmata e trasmessa dalla rete BBC4 ed è attualmente disponibile su Operavision oltre che su YouTube.