Barocca

L’Orfeo

Claudio Monteverdi, L’Orfeo

Cremona, Teatro Ponchielli, 21 giugno 2024

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Euridice e il gatto di Schrödinger

Il “paradosso del gatto” è un Gedankenexperiment (esperimento mentale) ideato dal fisico Erwin Schrödinger nel 1935 per dimostrare come la meccanica quantistica possa fornire risultati paradossali se applicata a un sistema fisico macroscopico. L’esperimento descrive un apparato nascosto da un contenitore in cui un gatto è collegato a un sistema fisico che ne determina la morte se in esso si verifica spontaneamente un evento subatomico con una certa probabilità in un dato tempo. Secondo la meccanica quantistica, finché non viene osservato, un tale sistema si trova in una sovrapposizione degli stati “evento avvenuto-non avvenuto” e da questo deriva che anche l’animale dovrebbe trovarsi nella stessa condizione, con la conseguenza paradossale che gli stati “gatto vivo” e “gatto morto” sarebbero entrambi presenti contemporaneamente.

Perché questa digressione sulla fisica a proposito di uno spettacolo d’opera? Ma perché il regista de L’Orfeo di Monteverdi andato in scena al Teatro Ponchielli e che ha inaugurato il 41° Monteverdi Festival di Cremona, ossia Olivier Fredj, nelle sue note di regia pubblicate sul programma di sala cita proprio questo paradosso della meccanica quantistica: «E se Euridice fosse il gatto di Schrödinger? Se il nostro sguardo contemporaneo non fosse solo quello di chi ascolta Verdi o Debussy, ma anche quello che guarda la scienza, e in particolare la vita e la morte, modificato dalle scoperte della fisica quantistica?» si chiede Fredj. «La rappresentazione esiste solo per il pubblico che la guarda, il teatro è come uno specchio e lo sguardo ne modifica la realtà». Così come succede per una particella subatomica che se la osserviamo (usando dei fotoni che la colpiscono) il suo stato cambia, così fa lo sguardo di Orfeo causando la morte definitiva di Euridice. Va be’.

Dopo aver visto lo spettacolo nella lettura del regista francese non si trova molto che sembri concretizzare questo dotto riferimento filosofico, a parte forse Speranza che va in giro come un vetraio ambulante con gli specchi sulla schiena. La drammaturgia di questo Orfeo “quantistico” si dipana in modo convenzionalmente lineare, senza un’idea geniale ma con talune ingenuità, senza una particolare attenzione attoriale, affidandosi alla naturale presenza scenica dei giovanissimi interpreti e con un uso non particolarmente studiato dei movimenti dei personaggi in scena. La scenografia di Thomas Lauret non è particolarmente bella, ma comunque efficace: arcate che richiamano architetture stilizzate si abbassano nel momento del transito dal mondo dei vivi a quello dei morti mentre l’apoteosi finale avviene in un palcoscenico vuoto che mostra le attrezzature sceniche. Decisamente bruttocci i costumi disegnati da Camilla Masellis e Frédéric Llinarès che si coniugano in tre stili: contemporanei, abiti a sacco con disegni argento su nero di Jean Cocteau – autore della pièce teatrale del 1926 Orphée e poi nel 1950 del film omonimo e nel 1960 de Le testament d’Orphée – e infine abiti di varie epoche per gli abitatori dell’oltretomba. Più intrigante la grafica di Jean Lecointre ispirata ai versi di Striggio del quinto atto «Benché queste mie luci | sien già per lagrimar fatte due fonti», e i video surrealisti di Julien Meyer proiettati sullo schermo di fondo con la costante presenza di un occhio.

La parte più convincente dello spettacolo è la componente musicale affidata a Francesco Corti al cembalo e alla guida de Il Pomo d’Oro, che realizza la partitura del Divino Claudio con un’elegante libertà espressiva, un magistrale ammorbidimento del disegno ritmico spaziato in intense pause espressive e un’attenta ricerca coloristica, esaltando così l’ariosità del fraseggio e ponendo al centro di tutto la parola. Una certa sobrietà di tocco lo porta a non esaltare la sontuosità della toccata iniziale che avremmo preferito magari fosse ripetuta, come è tradizione, aumentandone la sonorità.

Tutti gli interpreti sono giovanissimi e provengono dal I Concorso Cavalli Monteverdi Competition, come il suo vincitore Marco Saccardin, Orfeo baritono in questo caso, bella voce ben proiettata, stile già ampiamente acquisito e grande resistenza in una parte che lo richiede quasi sempre in scena. Col il suo timbro grave riesce ad esaltare l’aspetto umano e virile del personaggio, risultando particolarmente commovente nel lamento sui «campi di Tracia» all’uscita dagl’Inferi. Meno precise le agilità richieste nel duetto finale col padre Apollo, qui il giovane Giacomo Nanni (anche Pastore e Terzo spirito) neppure lui completamente a suo agio nelle colorature. Voce di cristallina purezza e luminosità quella di Jin Jiayu (La Musica, Euridice) e ben timbrata ed espressiva quella della Messaggera di Margherita Sala. Bella la coppia Proserpina e Plutone di Paola Valentina Molinari e Rocco Lia, quest’ultimo già ascoltato come Armigero nello Zauberflöte e Fiorello nel Barbiere di Siviglia di Torino. Un promettente basso è anche il Caronte di Alessandro Ravasio. Completano il cast il mezzosoprano Laura Orueta (Speranza), il soprano Emilia Bertolini (Ninfa), il tenore Roberto Rilievi (Primo pastore, Primo spirito), il tenore Matteo Straffi (Secondo pastore, Secondo spirito) e il controtenore Sandro Rossi (Terzo spirito). Apprezzabile il Coro Cremona Antiqua diretto da Diego Maccagnola.

Alla seconda recita il pubblico ha applaudito calorosamente tutti gli artefici dello spettacolo, con particolare insistenza il protagonista Marco Saccardin che aveva nel frattempo dimostrato le sue abilità di musicista a tutto campo imbracciando il liuto nel finale dell’opera: Orfeo appagato da Apollo riprendeva lo strumento con cui aveva intrapreso il viaggio nell’oltretomba per l’amore della sposa Euridice.

Médée

Marc-Antoine Charpentier, Médée

Parigi, Palais Garnier, 7 maggio 2024

★★★★★

(video streaming)

Ritorno dopo dopo 300 anni d’assenza nella sala in cui fu creata

Compositore di musica prevalentemente sacra – 12 messe, uno sterminato numero di composizioni liturgiche, mottetti, salmi, oratorii, 4 Te Deum Marc-Antoine Charpentier (1643-1704) è anche autore di cantate profane, arie “sérieux et à boire”, pezzi strumentali e lavori per il teatro: pastorali, opere da camera, la “tragédie biblique” David et Jonathas e infine la “tragédie lyrique” Médée che rimane l’unica sua vera opera. La prima del 4 dicembre 1693 non ebbe molto successo e fu questo il motivo per cui Charpentier abbandonò il genere. 

Médée è stata eseguita raramente nei due secoli seguenti, ma ultimamente è oggetto invece di numerose riprese, a partire dal 1984 quando al Festival d’Automne di Parigi fu messa in scena da Robert Wilson. Nel 1989 allo Châtelet fu diretta in versione di concerto da William Christie, che l’aveva registrata su disco cinque anni prima, e nel 1994 a Lisbona ancora Christie dirigeva la produzione di Jean Marie Villégier, mentre negli anni 2002-2005 era Hervé Niquet che la faceva ascoltare a Toronto e Parigi. Il regista Pierre Audi la mise in scena nel 2012 al Théatre des Champs Élysées, Andreas Homoki a Zurigo nel 2017 e Sir David McVicar al Coliseum di Londra nel 2013, in inglese, produzione ripresa a Ginevra nel 2019 e che ora approda a Palais Garnier concertata dallo stesso Christie. Sulla direzione del glorioso direttore americano e protagonista della riscoperta della musica di Charpentier c’è poco da aggiungere. Quella della Médée è una partitura di cui conosce i minimi particolari e che ricrea in tutta la sua sonora sontuosità, drammaticità o leggerezza, grazie al contributo prezioso della compagine orchestrale Les Arts Florissants, che non a caso porta il titolo dell’“idylle en musique” del 1685 dello stesso compositore francese.

Colpisce all’inizio per la sua figura minuta, ma presto il mezzosoprano Léa Desandre si impadronisce del personaggio trasfigurandosi in una Médée di grande modernità e forza espressiva. La grande tecnica e la voce calda e ricca di sfumature sono al servizio di una interpretazione impeccabile per stile e con una gamma di stati emotivi ampia e sempre molto controllata. A ciò si aggiunge un costante coinvolgimento teatrale che la porta a un efficace gioco corporeo quando si fa possedere dalla magia infernale e si dimostra anche un’abile ballerina nella danza delle Furie.

La parte scritta per haute-contre di Jason è affidata alla voce chiara e luminosa di Reinoud van Mechelen, il tenore belga che sa combinare una proiezione vocale di tutto rispetto che non compromette però la morbidezza e l’eleganza della linea del canto. Solo la recitazione è un po’ rigida. Questo non è un problema del sapido Créon di Laurent Naouri, maestro degli effetti drammatici che passa con disinvoltura dall’orgogliosa arroganza del re alla vulnerabilità quasi clownesca del padre umiliato da Médée, un personaggio contrastato a cui la regia conferisce un amore filiale caratterizzato da un’ambiguità inquietante. Né del disinvolto Oronte di Gordon Bintner. Créuse è il soprano Ana Vieira Leite, che con il suo timbro cristallino sa passare efficacemente dalla frivolezza giovanile alla vittima innocente torturata dal tormento letale procurato dalla veste regalatale dalla rivale. Fra i tanti comprimari meritano una citazione la Nérine di Emmanuelle de Negri, Mariasole Mainini (Un’italiana), Élodie Fonnard (Cléon), Julie Roset (Amour) e poi il coro di Les Arts Florissants, diretto da Thibaut Lenaerts, impeccabile per precisione e dizione, sia che canti dietro le quinte che di persona sul palco.

Sir David McVicar traspone la vicenda in Inghilterra, negli anni della Seconda Guerra Mondiale. La scenografia, disegnata da Bunny Christie, che disegna anche i sontuosi costumi, mostra l’elegante interno degli uffici dell’esercito dove Jason diventa per l’occasione un capitano di marina e Oronte appartiene all’aviazione, una rivalità facile ma efficace. Il divertissement del secondo atto è trasformato in un cabaret con Amour che scende da un aereo militare rosa ricoperto di paillette, il tutto nell’intelligente disegno luci di Paule Constable. A ciò si aggiungono le umoristiche coreografie di Lynne Page che mescolano argutamente danza classica e jazz. Dopo le farsesche parate militari, le sanguinarie Furie che escono dall’Inferno con i fantasmi “zombie”, nel finale Médée ascende nel fumo di una città che ha saccheggiato con fuoco e sangue. 

Uno spettacolo imperdibile per la straordinaria intelligenza teatrale e il gioco attoriale, oltre che alla magnificenza musicale. La registrazione video è attualmente disponibile su ArteTV.

Theodora

Georg Friedrich Händel, Theodora

Vienna, Museumsquartier Halle E, 25 ottobre 2023

★★★★☆

(video streaming)

Caffè Teodora

Come aveva fatto Claus Guth, che per l’ambientazione della sua Ariadne auf Naxos a Zurigo aveva scelto un luogo iconico della città, ossia il ristorante Kronenhalle, anche Stefan Herheim per la sua Theodora a Vienna ambienta la vicenda dello scontro tra paganesimo e cristianesimo nel famoso Café Central dove nella drammaturgia di Kai Weßler i martiri sono camerieri che si ritrovano licenziati e devono lasciare, se non proprio questo mondo, la caffetteria. 

Almeno qui in Occidente non si muore più per la fede e si possono vivere le proprie convinzioni religiose in privato, ma si viene sacrificati nei templi del consumismo. Teodora, Didimo, Settimo e Irene sono tutti subordinati al capo cameriere e ne subiscono le avance sessuali. Il pubblico internazionale del caffè riflette in parte i loro umori, ma spesso l’opinione pubblica diverge poiché la loro visione del mondo, di Teodora in particolare, non sempre trova risonanza tra la folla. Una folla che, come nel film di Buñuel, non riesce ad abbandonare il locale.

Le volte neogotiche e le colonne ricostruite meticolosamente dalla scenografa Silke Bauer trasformano il Café Central nell’interno di una chiesa con i suoi raggi di speranza che il sole invia attraverso le finestre oltre le quali scorre una vista sulla Herrengasse, oppure un cielo notturno o le palme di un giardino. Manca totalmente il misticismo in scena, cosa che il regista sembra voler compensare all’ultimo momento: poco prima della fine il soffitto si abbassa, le colonne affondano nel pavimento e un angelo in nero appare sul tetto con le fiamme nelle mani. Nel frattempo Theodora e Didymus si sono allontanati prendendo ognuno strade diverse.

In Theodora l’atmosfera sonora è chiaramente distinta: per i Romani che puniscono impietosamente i cristiani prevalgono gli ottoni e un tono autoritario nella musica; per i cristiani dominano invece i suoni morbidi e l’aspetto interiorizzato e contemplativo. Il Didymus della produzione di Christof Loy e Ivor Bolton al Festival di Salisburgo del 2009 è ora alla guida de La Folia Barockorchester e il controtenore Bejun Mehta dimostra la sua competenza in questo repertorio lavorando alle variazioni e alle cadenze con i solisti e gli strumentisti ottenendo un risultato più che apprezzabile.

Jacquelyn Wagner è un’intensa e sontuosa Theodora, Christopher Lowrey un Didymus sensibile e lirico, così come il Septimius di David Portillo, tenore dalla voce luminosa, mentre Julie Boulianne è Irene. Il cattivo della situazione (Valens) trova in Evan Hughes il giusto interprete per peso vocale e presenza scenica, ma è il coro, l’eccellente oltre ogni lode Arnold Schoenberg Chor, a catturare l’attenzione con la sua ineguagliabile performance attoriale. Chissà se qui sotto le Alpi arriveremo mai a un risultato se non simile almeno comparabile con i cori dei nostri teatri.

Orlando furioso

Antonio Vivaldi, Orlando furioso

Ferrara, Teatro Comunale, 5 aprile 2024

(diretta streaming)

Vivaldi a Ferrara col suo Orlando

Come se volesse farsi perdonare la faccenda del Farnace (1), Ferrara negli ultimi tempi ha cercato di recuperare con Vivaldi grazie alle cure di Federico Maria Sardelli. Sommo conoscitore dell’opera del veneziano, il musicologo e direttore negli ultimi tre anni ha eseguito qui al Teatro Comunale di Ferrara una trilogia vidaldiana composta da Farnace, appunto, Catone in Utica e ora Orlando Furioso, tutti e tre spettacoli con la messa in scena di Marco Bellussi. Per di più questa di Ferrara è una ghiotta occasione per vederlo prima di Bayreuth, essendo una coproduzione con Fondazione Teatro Comunale di Modena, Daegu Opera House e Bayreuth Baroque Opera Festival. Il lavoro di Vivaldi va in scena nella nuova edizione critica Ricordi a cura di Federico Maria Sardelli e Alessandro Borin. Che poi il librettista dell’Orlando furioso, Grazio Braccioli, sia ferrarese e che l’Ariosto abbia scritto il suo capolavoro e sia morto proprio qui, aggiunge quel di più alla vicenda che lega l’opera a questa città.

Diviso nei classici tre atti con due intervalli, e non due parti e un solo intervallo com’è in voga oggi, lo spettacolo comprende la quasi totalità dei numeri previsti a parte il terzo atto che viene molto sforbiciato e che qui dura solo 35 minuti – in confronto ai 65’ del I atto e ai 55’ del II. Questa edizione di Sardelli/Borin è diversa dalla precedente edizione eseguita da Fasolis che aveva modifiche nel terzo atto per ampliare la parte di Orlando. Sardelli invece rispetta il libretto originario e la successione degli eventi e delle arie e concerta con la solita vivacità alla testa dell’orchestra barocca Accademia dello Spirito Santo con il suo stile storicamente informato. «L’organico strumentale prevede due cembali, tipico della struttura teatrale barocca; evitiamo certi strumenti che oggi sono di moda nella pratica barocca contemporanea, come le chitarre e gli arciliuti, ma che al tempo di Vivaldi, intorno al 1727 non erano più in uso, tanto più in teatro. Questa operazione di recupero filologico sicuramente andrà a favore dell’ascolto e della piacevolezza», ha dichiarato Sardelli e in effetti il suono offerto dall’orchestra è pulito e preciso e i tempi adottati mai estremizzati. Interessante l’affidamento di certi ruoli: nell’originale il personaggio eponimo era un contralto en travesti e qui Sardelli utilizza un controtenore; Medoro e Ruggiero erano due castrati contraltisti mentre ora sono rispettivamente un contralto donna en travesti e un controtenore. Regolari invece le altre voci con Angelica soprano, Alcina e Bradamante contralti e Astolfo basso.

Yuriy Mynenko è un Orlando di solida presenza scenica, bel timbro e grande estensione sfoggiata con agio nella sua prima famosissima aria «Nel profondo cieco mondo». Tocca a lui terminare il secondo atto con un’acrobatica «Ho cento vanni a tergo» di grande intensità mentre nel terzo rende efficacissima la scena della pazzia del personaggio con ariosi e recitativi di alta drammaticità. Arianna Vendittelli, unico soprano dell’opera, è un’Angelica volitiva e dalla voce luminosa che incanta fin dall’aria «Un raggio di speme» con cui si apre l’opera. L’Alcina di Sonia Prina è personaggio a tutto tondo che il contralto magentino rende del tutto simpatico con la sua ironia e una vocalità calda anche se talora un po’ in affanno. La dolcezza di emissione in «Sol da te mio dolce amore» è la qualità massima del Ruggiero di Filippo Mineccia ma la scelta registica non gli rende il massimo dei favori. Si veda per contrasto lo stesso momento come la regia di Ceresa nell’Orlando veneziano del 2018 esalti l’intervento di Carlo Vistoli. Chiara Brunello (Medoro), Loriana Castellano (Bradamante) e Mauro Borgioni (Astolfo) concludono un cast di qualità.

Come s’è detto anche questo terzo Vivaldi ferrarese è affidato a Marco Bellussi che con lo scenografo Matteo Paoletti Franzato e il gioco luci di Marco Cazzola ricrea un palazzo di Alcina astratto e minimalista: «Lo spettacolo – spiega il regista – asseconda le dinamiche distorsive del dramma e per questo ho deciso di puntare su un solo potente elemento, lo specchio. Le pareti del palazzo sono dunque specchio e specchio è anche il soffitto della reggia. Ne deriva che tutto ciò che in essa avviene può essere realtà o riflesso distorto della stessa. Accade quindi che la piccola società dei nostri personaggi reagisca di riflesso ai condizionamenti di una molteplicità destabilizzante di prospettive, dando vita ad una commedia in cui tutti, più o meno consapevolmente, sono mossi dalle loro passioni in una condizione di insicurezza e provvisorietà». Il risultato è però l’effetto di un acquario, effetto esaltato dalla presenza di un velario che separa dal pubblico quel che avviene sul palcoscenico e serve da schermo a proiezioni liberamente interpretabili. I costumi di Elisa Cobello mescolano le epoche storiche col presente: Angelica è vestita in un bianco abito da sposa fin dalla prima scena; Alcina sfoggia outfit in lamé e una parrucca argento; Medoro un completo rosso che funziona sia da maschio che da femmina; Ruggiero e Orlando costumi d’epoca. Con pochi mezzi il regista Bellussi ha ottenuto un allestimento sì efficace ma totalmente privo degli elementi fiabeschi della vicenda.

(1) Quando Vivaldi concluse il Farnace nel 1727 era un compositore all’apice della sua notorietà, il che non impedì però che nel 1739 gli fosse impedito dal Cardinale Tommaso Ruffo di recarsi a Ferrara per la ripresa dell’opera, adducendo motivi di morale per la condotta considerata un po’ troppo spregiudicata, anche per quei tempi, di un religioso che non celebrava la messa, bazzicava i teatri e aveva una relazione forse non platonica con una sua pupilla, «la sig. Anna Girò», la sua prima Tamiri. Per la produzione del Farnace Vivaldi aveva dato fondo a tutte le sue risorse in quanto anche impresario e allestitore. Il divieto ebbe effetti drammatici sulla vita del compositore che per rientrare nei debiti partì per Vienna per cercare fortuna con gli esiti che sappiamo: la morte dell’imperatore Carlo VI aveva portato alla chiusura per lutto di tutti i teatri e lasciato Vivaldi senza protezione imperiale e senza fonti di reddito, tanto che vi morì di miseria dopo nemmeno un anno dal suo arrivo.

Flavio, re de’ Longobardi

   ∙

Georg Friedrich Händel, Flavio, re de’ Longobardi

Bauyreuth, Markgräfliches Opernhaus, 17 settembre 2023

★★★★★

(video streaming)

Mai stata così divertente l’opera seria

Bayreuth, due teatri a meno di due chilometri dove hanno luogo due festival, a poche settimane di distanza, che più diversi non potrebbero essere. Sulla collina “sacra” nella sala del Festspielhaus, appositamente costruita, si celebra il rito dei Gesamtkunstwerk wagneriani, dieci titoli di un canone immutabile. Solo con la novità degli allestimenti – qui è il regno del Regietheater più spinto – si cerca di dire qualcosa di diverso. Al centro della cittadina, l’ineguagliabile gioiello del teatro margraviale dal 2020 è la sede del festival internazionale Bayreuth Baroque diretto da Max Emanuel Cenčić che ogni anno trae qualcosa di diverso dall’inesauribile fonte dell’opera seria settecentesca. Come quest’anno, quando viene proposto un lavoro non consueto di Händel, Flavio, re de’ Longobardi.

Su libretto di Nicola Francesco Haym, il testo è tratto dal Flavio Cuniberto di Matteo Noris già messo in musica da Gian Domenico Partenio (1681), Domenico Gabrielli (1688), Luigi Mancia (1696) e Alessandro Scarlatti (1702) prima di venire intonato dal “caro sassone” nel 1723 e rappresentato il 14 maggio di quell’anno allo Haymarket di Londra. Händel inizialmente pensava di intitolare il lavoro Emilia dal personaggio femminile che ha ben sei arie e un duetto mentre il personaggio eponimo solo tre numeri solistici. Händel terminò la composizione a sette giorni dalla prima rappresentazione e l’opera andò in scena otto volte. Altre quattro rappresentazioni, dirette dallo stesso compositore, ebbero luogo nel 1732 prima che il lavoro sparisse dai cartelloni, fino alla ripresa in tempi moderni nel 1967 a Gottinga. (1)

La vicenda si svolge in Lombardia nel VI secolo E.V. Il re Flavio (Autari) regna sui Longobardi e sull’Inghilterra. Ugone e Lotario sono i suoi due consiglieri. Il figlio di Ugone, Guido, deve sposare la figlia di Lotario, Emilia. Ugone ha anche una figlia, Teodata che il padre vorrebbe che cercasse di entrare alla corte come dama di compagnia per non passare la fanciullezza in solitudine, ma ignora che Teodata ha un amante segreto, Vitige, aiutante del re.
Atto I, Davanti alla casa dell’anziano Ugone, prima dell’alba, Vitige lascia la camera di Teodata. In seguito, nella casa di Lotario, ha luogo il matrimonio tra Guido ed Emilia, in presenza solo dei più stretti parenti. Gli sposi cantano la loro felicità, poi si separano in attesa delle celebrazioni che si svolgeranno di sera. Ugone presenta Teodata al re, dicendogli che ella brama di entrare al suo servizio come dama di compagnia. Incantato dalla bellezza di Teodata, Flavio acconsente e assegna Teodata come dama alla propria moglie, Ermelinda. Lotario invita il re ai festeggiamenti nuziali. Flavio riceve poi una lettera dell’anziano governatore d’Inghilterra che chiede di essere sollevato dal proprio incarico. Flavio pensa inizialmente di affidare l’incarico a Lotario, che già assapora la prospettiva, poi cambia idea in favore di Ugone, poiché vuole allontanare quest’ultimo, per poter corteggiare Teodata senza interferenze. Lotario si sente offeso e parte furioso. Flavio parla a Vitige della bellezza di Teodata, senza sapere che egli è l’amante della giovane e Vitige cerca di nascondere i propri sentimenti sostenendo che Teodata non è particolarmente bella. Nel cortile del castello Ugone incontra il figlio Guido, il quale gli dice di essere stato schiaffeggiato da Lotario. Ugone deve difendere il proprio onore, ma è troppo vecchio per poter brandire una spada, perciò chiede a Guido di combattere in sua vece. Guido è combattuto tra il sentimento di dovere verso il padre e l’amore per Emilia, ma proclama orgogliosamente la decisione di difendere l’onore della famiglia. Giunge Emilia, che non capisce per quale motivo Guido cerchi di sfuggirla: gli giura eterna fedeltà, ma nota il suo cambiamento d’umore.
Atto II. In una sala del castello, Flavio sta corteggiando Teodata. Irrompe Ugone, tanto angosciato da non riuscire a parlare chiaramente. Flavio lascia la stanza. Ugone inveisce, parlando della perdita dell’onore della famiglia. Teodata pensa che la sua relazione con Vitige sia stata scoperta e confessa tra le lacrime. L’angoscia di Ugone, all’apprendere la situazione della figlia, aumenta. Nella casa di Lotario, quest’ultimo dice ad Emilia che non intende consegnarla al figlio dell’odiato rivale e che perciò il matrimonio deve considerarsi nullo. Guido, giunto in cerca di Lotario, chiede ad Emilia di lasciarlo solo per un po’. Al castello, Flavio ordina al suo aiutante di condurgli Teodata. Vitige deve rivelare a Teodata quale infelice missione gli è stata richiesta e Teodata gli narra che Ugone è venuto a conoscenza della loro relazione segreta. Per prendere tempo, essi architettano un piano in cui Vitige fingerà di sollecitare l’amore di Teodata e lei si fingerà disponibile. Nel cortile della casa di Lotario, Guido sfida Lotario a duello. Lotario si fa beffe della sfida del giovane, ma la accetta. Nel combattimento, Lotario cade. Quando giunge Emilia, Lotario fa appena in tempo, prima di morire, a indicare in Guido il proprio assassino. Disperata, ella giura vendetta, ma è lacerata, poiché questo significa vendetta contro colui che ama.
Atto III. Al castello Emilia e Ugone chiedono al re di avere giustizia. Ella domanda la morte per l’assassino del proprio padre, mentre Ugone implora che sia risparmiata la vita al proprio figlio. Sopraffatto dagli eventi, Flavio chiede tempo per riflettere e li manda via. Vitige entra con Teodata, la cui presenza fa ammutolire Flavio. Egli cerca di farla corteggiare per proprio conto da Vitige, ma alla fine si fa avanti egli stesso, chiamandola “mia regina” e cercando di condurla alle proprie camere da letto. Vitige è oppresso dalla gelosia. Emilia è in lutto, per la morte del padre e per la fuga di Guido, ma ancora una volta giura implacabile vendetta. Guido appare e le porge la propria spada, cosicché lei possa ucciderlo. Emilia la prende, poi la lascia cadere e parte. Guido implora l’aiuto dell’amore. Vitige e Teodata litigano, accusandosi a vicenda di essersi spinti troppo oltre nell’inganno ordito ai danni del re. Poi si rendono conto che Flavio è entrato ed ha ascoltato tutto. Ammettono di essere amanti, con sconcerto di Flavio. Entra Guido, e supplica il re di essere messo a morte se Emilia lo odia ancora per la sua azione. Ugone poi confessa di avere incitato il figlio a commettere il delitto in propria vece. Flavio, finalmente consapevole della propria responsabilità di re, manda a chiamare Emilia e ordina a Guido di nascondersi e ascoltare ciò che accadrà. Flavio dice ad Emilia che Guido è stato ucciso, come lei aveva chiesto, e le offre di vederne la testa come prova. Emilia rifiuta e implora di essere uccisa a sua volta, poiché la su a vita senza Guido non ha significato. Guido esce dal proprio nascondiglio ed Emilia quasi sviene per la gioia. Guido le chiede perdono, e lei chiede un periodo di lutto. Flavio infine stabilisce che Vitige dovrà sposare «colei che agli occhi tuoi non piace”, cioè Teodata, e che Ugone verrà scacciato dal regno, ma per recarsi in Inghilterra e divenirne governatore. Tutti ringraziano il re e l’opera si chiude con un coro di riconciliazione.

Flavio è una delle opere di Händel dalla partitura più leggera, scritta per archi e continuo, con un uso parsimonioso dei fiati. Sebbene vi siano passaggi di intensità drammatica emergenti con forza, il tono generale è quello dell’understatement, della raffinatezza e persino dell’ironia, cosa che ha ben compreso Cenčić il quale è anche regista dello spettacolo. Il suo non è certo Regietheater, non c’è un konzept forte a cui la drammaturgia dell’opera si deve piegare. Le sue regie hanno però una vivacità e una cura per la recitazione tale che anche l’ultimo figurante ha un ruolo scenico ben individuato. Cenčić integra la commedia nel dramma in modo credibile, promuovendo l’immagine stereotipata che abbiamo dei monarchi assoluti come esigenti, egoisti e persino infantili, che vivono in un ambiente lussuoso e totalmente lontano dalla realtà. E così è il suo Flavio per il quale, ispirandosi chiaramente a Luigi XIV e a Versailles, ogni azione diventa uno spettacolo pubblico, una grandiosa affermazione della sua autorità e del suo potere assoluto e una parte del tessuto cerimoniale dello Stato. Persino i rapporti sessuali con la regina diventano un evento pubblico, un coucher du Roi con la corte che assiste ai suoi tentativi di copula con Madame aiutandosi visivamente per riuscire a espletare i doveri coniugali mentre Madame la vedremo in un altro momento consolarsi col nano di corte. La regina è chiaramente una parte importante della corte, ma viene solo menzionata nel libretto. Cenčić invece la introduce come personaggio muto, insieme alle sue dame di compagnia e al nano, senza dubbio come riferimento alla corte spagnola. La narrazione si inserisce così con successo nel contesto più ampio e credibile della vita di corte.

Abbandonato il secolo VI dei fatti storici, l’ambientazione scelta è quella di una corte a cavallo dei secoli XVII e XVIII con i costumi perfettamente connotati di Corina Gramosteanu e la geniale scenografia di Helmut Stürmer, che con sei pannelli incernierati e su rotelle forma credibili ambienti d’epoca, eleganti e funzionali. Due lampadari di cristallo che scendono dall’alto, alcune poltrone e un letto a baldacchino per le imprese dell’erotomane monarca completano l’impianto in cui si sviluppano le 31 scene dell’opera. Ad aumentare la cerimonialità, un maggiordomo annuncia solennemente ogni volta con tre colpi di bastone i cambi di scena qui legati da brevi interludi orchestrali. Molti i gustosi momenti sparsi in uno spettacolo dove anche il trasporto del cadavere di Lotario è occasione di una divertente gag.

Il tono registico non reggerebbe se sul palcoscenico non ci fossero interpreti che sanno stare con ironia al gioco e qui tutti, dal primo all’ultimo, dimostrano un’efficace presenza scenica. È il caso del personaggio del titolo, affidato al giovane controtenore Rémy Brès-Feuillet che ritrae un dissoluto ed egoista re Flavio dimostrando grande abilità nel giocare con la comicità del ruolo. Adeguatamente prepotente, sprezzante e socialmente inconsapevole degli effetti delle sue azioni su coloro che lo circondano, è il più delle volte in camicia da notte o anche senza quando è immerso in una tinozza per il bagno. Il canto elegante, con piacevoli ornamentazioni e una coloratura versatile sono i punti di forza della sua performance vocale.

Personaggio con il maggior numero di numeri musicali a disposizione, è comprensibile che inizialmente Händel volesse titolare Emilia il suo lavoro. Julija Ležneva conclude tutti e tre gli atti, i primi due con cadenze, variazioni inusitate e trilli infiniti realizzati con sommo agio assieme a grande espressività guadagnandosi gli applausi più nutriti della serata. È ancora lei a iniziare teatralmente il terzo con una delle tre arie di furore di cui è ricca l’opera, le altre due essendo quelle di Vitige, «Sirti, scogli, tempeste, procelle» e Guido, la famosa «Rompo i lacci, e frango i dardi» in cui Max-Emanuel Cenčić, non pago di essere direttore del festival e regista dello spettacolo, si fa interprete con i suoi ragguardevoli mezzi vocali, una tecnica invidiabile e una padronanza di questo repertorio che pochi possono avere. Terzo controtenore in scena è Yuriy Mynenko, inappuntabile Vitige dalla sottile vena ironica mentre con il suo caldo registro il mezzosoprano Monika Jägerová disegna una sensuale e vivace Teodata. Il baritono Sreten Manojlović (Lotario) e il tenore Fabio Trümpy (Ugone) completano degnamente il cast. Alla guida del pregevole Concerto Köln Benjamin Bayl risponde con sensibilità alle intenzioni dell’autore con una lettura chiara e dettagliata ma sempre sensibile al dramma, soprattutto nel cogliere i momenti più drammatici dell’opera.

Dopo Carlo il Calvo di Porpora e Alessandro nell’Indie di Vinci, questo lavoro poco conosciuto di Händel ha portato Cenčić a essere l’indiscusso realizzatore di un repertorio glorioso che ancora tanti tesori cela nei suoi forzieri. Non mancheranno certo titoli nuovi da scoprire per le future edizioni di Bayreuth Baroque.

(1) Ecco la struttura dell’opera:
Ouverture
Atto primo
I.01 Ricordati, mio ben, duetto (Teodata, Vitige)
I.02 Quanto dolci, quanto care (Emilia)
I.03 Bel contento già gode quest’alma (Guido)
I.04 Benché povera donzella (Teodata)
I.05 Se a te vissi fedele, fedele ancor sarò (Lotario)
I.06 Di quel bel che m’innamora (Flavio)
I.07 Che bel contento sarebbe amore(Vitige)
I.08 L’armellin vita non cura (Guido)
I.09 Amante stravagante più del mio ben non v’è (Emilia)
Atto secondo
II.01 Fato tiranno e crudo, ogn’or a danni miei (Ugone)
II.02 S’egli ti chiede affetto (Lotario)
II.03 Parto, sì, ma non so poi (Emilia)
II.04 Rompo i lacci, e frango i dardi (Guido)
II.05 Chi può mirare e non amare (Flavio)
II.06 Con un vezzo, con un riso (Teodata)
II.07 Non credo instabile chi mi piagò (Vitige)
II.08 Ma chi punir desio? l’idolo del cor mio (Emilia)
Atto terzo
III.01 Da te parto, ma concedi che il mio duolo (Emilia)
III.02 Corrispondi a chi t’adora, arioso (Vitige)
III.03 Starvi a canto e non languire (Flavio)
III.04 Che colpa è la mia, se Amor vuol così? (Teodata)
III.05 Sirti, scogli, tempeste, procelle (Vitige)
III.06 Oh Guido! oh mio tiranno, recitativo (Emilia)
III.07 Squarciami il petto – Amor, nel mio penar deggio sperar, recitativo e aria (Guido)
III.08 Ti perdono, o caro bene, duetto (Emilia, Guido)
III.09 Doni pace ad ogni core, coro

Polifemo

 

photo © Klara Beck

Nicola Porpora, Polifemo

Strasburgo, Opéra National du Rhin, 5 febbraio 2024

★★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Polifemo esce dallo schermo

Rivale di Händel a Londra, Nicola Porpora era riuscito ad accaparrarsi le star del canto dell’epoca per la sua nuova opera, quel Polifemo il cui libretto di Paolo Antonio Rolli riuniva due vicende che avevano come protagonista comune il ciclope monocolo che nell’Odissea Omero descrive come pastore sull’Etna che non disdegna l’antropofagia mettendo a rischio la vita di Ulisse e dei suoi nel frattempo sbarcati in Sicilia, mentre nelle Metamorfosi, otto secoli dopo, Ovidio trasforma in geloso amante della ninfa Galatea. Lo stesso Händel aveva trattato la seconda vicenda in un’opera giovanile, la “serenata a tre” Aci, Galatea e Polifemo scritta durante il suo soggiorno napoletano nel 1708, per poi riprenderla nel 1718, su testo inglese come la “little opera” Acis and Galatea.

Anche se il figlio di Nettuno gli dà il titolo, il lavoro di Porpora è piuttosto incentrato sugli amori paralleli di Aci e Galatea e di Ulisse e Calipso, gli altri quattro personaggi dell’intrigo. Il sesto, quello della ninfa Nerea, è un ruolo minore, che infatti sparisce nella seconda versione dell’opera. Il 1 febbraio 1735 al King’s Theatre di Londra Polifemo aveva riscosso grande successo, grazie anche alla presenza, come s’è detto, dei più rinomati cantanti del tempo: i castrati Farinelli e Senesino, nei ruoli di Aci e Ulisse, e il soprano Francesca Cuzzoni, Galatea, tutti transfughi della Royal Academy of Music di Händel. Anche il basso Antonio Montagnana, già Polifemo nell’Acis and Galatea, e il contralto Francesca Bertolli (Calipso) erano cantanti di nome mentre della “signora Segatti” (Nerea) si sa poco.

Polifemo è la seconda opera di successo di Porpora a Londra dopo l’Arianna in Nasso con cui il compositore italiano aveva risposto all’Arianna in Creta di Händel. Porpora utilizza frequentemente i recitativi accompagnati nei momenti più salienti della vicenda, mentre duetti e terzetti si alternano alle arie solistiche. Qui non non ci sono particolari novità nell’armonia, le arie sono accompagnate dall’orchestra con alcuni sapienti interventi di strumenti solistici, soprattutto dei legni e degli ottoni, ma l’accento è posto sulla voce, più che negli interventi puramente strumentali: mentre la scelta delle arie di Händel è precipuamente teatrale, la scrittura di Porpora è altamente edonistica e dedicata alla gloria dei cantanti. La drammaturgia è semplificata e procede per scene, come quella dell’accecamento di Polifemo in parte agito in scena, in parte raccontato.

Ben presto l’opera, come tutte le opere serie del Settecento, dovette lasciare il posto all’opera napoletana e poi a quella buffa, ma anche se non rimase nei cartelloni dei teatri, alcune sue arie hanno continuato a vivere nelle esecuzioni da concerto, prima fra tutte «Alto Giove» che è diventata un banco di esibizione per le grandi voci controtenorili di oggi come quelle di Philippe Jarousski, Valer Barna-Sabadus o Filippo Mineccia, il quale ne ha dato dato un’interpretazione di grande intensità. L’aria è stata portata alla notorietà anche nel cinema, con il film Farinelli di Gérard Corbeau del 1994 che ricostruisce la vita del leggendario Carlo Broschi. A quella produzione aveva partecipato per la parte musicale anche Emmanuelle Haïm che porta ora sulle scene dell’Opéra National du Rhin, per la prima volta in Francia, il titolo di Porpora. Assieme al suo Concert d’Astrée, una compagine di strumenti che utilizzano la pratica storicamente informata nei modi e nelle tecniche, la Haïm adotta uno stile asciutto ed elegante che mette in luce al meglio il palpitante ritmo della partitura e l’ampio respiro melodico realizzando un buon equilibrio sonoro tra buca e voci le quali, malgrado una scenografia non ottimale, riescono a non essere coperti dall’orchestra. La sua versione è un misto delle due versioni dove vengono accorciati, un po’ troppo, i recitativi, anche quelli accompagnati che sono la vera ricchezza di quest’opera, e sono tagliati anche alcuni numeri musicali tra i quali il primo coro, l’aria di Aci «Morirei del partir nel momento» nel primo atto e quella di Calipso «Lascia tra tanti mali» nel secondo.

A dispetto del titolo, i protagonisti principali del Polifemo sono, in ordine di numero d’arie solistiche, Galatea, Aci e Ulisse. Redivivo Farinelli, Franco Fagioli ha le prime e le ultime lettere del nome e si conferma una volta di più come lo strabiliante fenomeno vocale di oggi: in tre delle sue arie fornisce una dimostrazione di meraviglie vocali che entusiasmano anche il pubblico di oggi, come è avvenuto sulle tavole del teatro di Strasburgo. L’opera, in tre atti, è stata suddivisa in due parti con la prima comprendente l’atto primo e buona parte del secondo, così che l’aria di Aci «Nell’attendere il mio bene» funge egregiamente da finale primo con la sua ininterrotta esibizione di trilli, il da capo con acrobatiche variazioni e una cadenza che Fagioli affronta con disarmante facilità e tecnica impeccabile trasformando il semplice pastore in una fonte da cui sgorgano straordinari virtuosismi. Le stesse prodezze vocali, questa volta piegate a intenti espressivi, vengono esibite in «Alto Giove», allorché dopo essere rimasto schiacciato dal masso del ciclope Aci ringrazia il re dei numi per avergli accordato l’immortalità implorata dall’amata Galatea: trasformato in fiume accoglierà per l’eternità la ninfa tra le sue acque. Visivamente questo diventa un momento magico nello spettacolo del regista Ravella dove sotto una pioggia di coriandoli lucenti avviene la trasformazione del pastore in acqua corrente. Sul piano vocale i lunghi fiati, le note legate e la messa di voce incantano il pubblico a cui il controtenore argentino regala ancora una girandola di vocalità pirotecniche da togliere il fiato nella pagina «Senti ‘l fato | ch’è già fisso» prima del finale. Forse è il palcoscenico troppo vuoto, forse è il tempo che passa anche per lui, la voce di Fagioli questa sera non sembra però avere la proiezione che aveva un tempo.

Ottima performance è anche quella del secondo controtenore, Paul-Antoine Bénos-Djian, il cui timbro è più virile, gli armonici più ricchi, il volume sonoro cospicuo e ben dosato. Meno impegnativi sono gli artifici vocali richiesti dal ruolo di Ulisse, il personaggio che oltre ad amoreggiare con la ninfa Calipso, riesce a salvare la vita ai suoi compagni e a mandare su tutte le furie il ciclope accecandolo nel suo unico occhio. Il basso boliviano José Coca Loza presta con ironia i suoi mezzi vocali, spesso amplificati per esigenze sceniche, al personaggio del titolo nelle sue due sole arie solistiche e negli ariosi sopravvissuti ai tagli.

Nel reparto femminile ci sono sorprese e una conferma. Madison Nonoa è un soprano neozelandese che ha fatto il suo debutto a Glyndebourne nel Rinaldo di Händel e qui all’Opéra du Rhin l’anno scorso è stata Maria in West Side Story. Ha bellissimo timbro e dimostra grande sensibilità nel rendere una Galatea qui particolarmente affascinante anche se il ruolo è limitato a quello di fedele innamorata. Comunque è il personaggio con il maggior numero di arie solistiche. A Nerea è il compito di aprire teatralmente la seconda delle due parti in cui è suddiviso lo spettacolo cantando da un palco di proscenio la sua aria «Una beltà che sa | farsi de i cor tiranna» presentata come una canzone, ma che permette di mettere in luce le fresche e promettenti qualità vocali del giovane soprano inglese Alysia Hanshaw. Il contralto Delphine Galou conferma invece le sue doti sceniche e interpretative come fascinosa Calipso.

L’allestimento di Bruno Ravella legge la vicenda come ripresa cinematografica di un peplum, il genere molto popolare negli anni ’50 e ’60: film in costume di argomento mitologico o storico girati a Cinecittà sia dagli americani – I 10 Comandamenti (1959), Spartacus (1960), Cleopatra (1963)… – sia dagli italiani, con i titoli dedicati a Ercole, Maciste, Ursus, spesso in triviali parodie. Durante l’ouverture scopriamo dunque di essere su un set cinematografico con proiettori, macchine da presa, microfoni, un regista (lo stesso interprete di Polifemo) che si prende certe libertà con l’attrice giovane (Galatea) – e per questo nel finale sarà arrestato dalla polizia –, un pittore di scenari (Aci), il divo palestrato (Ulisse), l’assistente di regia ecc. Nel secondo atto vediamo gli attori in costume e le scenografie di cartapesta dove la figura del ciclope copia quella del film Il 7° viaggio di Sinbad (1958) di Nathan Juran: un gigante dalla testa cornuta, un occhio solo, ovviamente, e zampe caprine. Ravella riprende dunque questo genere mitologico colorato e improbabile per ricreare l’opera settecentesca dove subito dopo la voce dei cantanti l’elemento più importante dello spettacolo erano le scene dipinte e le macchine sceniche per destare quel senso di meraviglia che solo il teatro in musica poteva offrire al suo pubblico. E l’effetto è pienamente ottenuto: i cantanti stanno perfettamente al gioco e lo smaliziato pubblico di oggi si lascia andare e si diverte.

Lo dimostrano i copiosi applausi che nel finale hanno accolto i cantanti, con meritate ovazioni per Fagioli, Emmanuelle Haïm e parimenti il regista e le sue collaboratrici, Annemarie Woods per scene e costumi e D.M.Wood per le luci.

Dopo Strasburgo lo spettacolo, prodotto con l’Opéra de Lille, parte per Mulhouse e Colmar, ma meriterebbe che approdasse anche in altri teatri: lo chiedono la rarità del titolo, la bellezza della musica, l’esecuzione musicale di gran classe e l’intelligente e godibile allestimento.

Giustino

Antonio Vivaldi, Giustino

Drottningholm, Slottsteater, 18 agosto 2023

★★★★★

(video streaming)

Otello a Bisanzio

Mentre si discute del progetto di far rinascere a Venezia il Teatro di San Cassiano, nella nordica Svezia già esiste una sala storica dove ogni estate si danno opere del Settecento nella suggestiva ambientazione di un teatrino di legno con le sue scene dipinte e i macchinari azionati a mano. Un teatro sopravvissuto ai suoi tempi quello del Castello di Drottningholm, patrimonio mondiale dell’UNESCO e fra i pochissimi al mondo a disporre ancora della scenotecnica originale.

Qui lo scorso agosto è andata in scena per la prima volta un’opera di Vivaldi, quel Giustino che era stato commissionato al compositore veneziano dal Capranica dopo il successo dell’Ercole sul Termodonte.  Eseguita quale seconda opera della stagione di Carnevale del 1724, fu l’ultima opera composta dal Prete Rosso per Roma. A causa del noto divieto di far calcare le scene alle donne, tutti i personaggi furono interpretati da cantanti maschi, in maggioranza castrati. 

Libretto e partitura sono conservati nel fondo Foà della Biblioteca Nazionale di Torino. Suddiviso in un prologo e tre atti, il testo era stato era stato scritto oltre quarant’anni prima dal conte Nicolò Beregan e messo in musica per la prima volta da Giovanni Legrenzi nel 1683, l’anno dell’assedio di Vienna da parte dei turchi. Il libretto rimandava metaforicamente alla resistenza del Sacro Romano Impero con l’aiuto dei veneziani contro gli Ottomani e l’opera ebbe grande successo negli ultimi due decenni del Seicento.

Il libretto fu ripetutamente rimaneggiato, in particolare dall’abate Giulio Convò nel 1703 per uno dei primi esperimenti operistici di Domenico Scarlatti, successivamente  nel 1711 Pietro Pariati lo aveva adattato a cinque atti per Tommaso Albinoni. Il libretto utilizzato da Vivaldi fu probabilmente riadattato da Antonio Maria Lucchini, autore del Farnace di Vinci e della Tieteberga di Vivaldi (opera questa da cui derivano molte delle arie presenti nel Giustino) ripristinando la struttura in tre atti ma senza prologo. Il libretto sarebbe stato ripreso e musicato, con ulteriori modifiche, da Händel nel 1737.

L’opera si finge a Bisanzio, durante l’epoca dell’Impero Romano d’Oriente, nel secolo V d.C.

Atto primo. Mentre a corte si stanno svolgendo le celebrazioni per l’incoronazione del nuovo imperatore Anastasio e per le sue nozze con Arianna, giunge la notizia che le truppe del nemico invasore Vitaliano hanno attraversato il Bosforo. L’ambasciatore di questi Polidarte giunge a palazzo recando offensive condizioni di pace, tra le quali è anche compresa la concessione della mano di Arianna al suo sovrano. Anastasio respinge con sdegno le proposte di Polidarte e parte incontro al nemico, seguito dall’indomita Arianna che è decisa a condividerne la sorte sul campo. In campagna, il giovane contadino Giustino si addormenta vagheggiando la gloria militare e gli compare in sogno la dea Fortuna la quale gli promette allori, trono e gloria se egli sarà capace di affrontare ardimentosamente il suo destino. Appena risvegliato e ben deciso a seguire le indicazioni della dea, Giustino ha subito l’occasione di mettersi in mostra salvando da un orso la sorella dell’imperatore, Leocasta, la quale, colpita dal valore e anche dalla bellezza del giovane, lo invita a seguirla a corte, dove si trova anche sotto le mentite spoglie femminili di Flavia, sedicente principessa fuggitiva, il fratello di Vitaliano, Andronico, che è innamorato di Leocasta. Mentre Giustino, anche grazie ai buoni uffici della sorella dell’imperatore, è diventato soldato agli ordini di Anastasio e parte per il campo intonando la sua prima aria eroica, sull’altro lato della barricata Vitaliano è riuscito a fare prigioniera l’improvvida Arianna, la quale resiste tuttavia sdegnosa a tutte le sue profferte amorose ed è quindi condannata ad essere legata su una roccia e data in pasto ad un mostro marino. L’atto si chiude con il mesto e tenero canto di addio della ragazza.
Atto secondo. Nel corso di una burrasca, la nave che porta Anastasio e Giustino fa naufragio su una spiaggia deserta e, mentre Anastasio piange la perduta Arianna, i due si mettono in cerca di un riparo. Un mostro terribile sorge allora dalle acque e si dirige verso la misera ed incatenata Arianna, l’eco delle cui grida disperate giunge però fino a Giustino, il quale si precipita ad affrontare ed uccidere il mostro. Anastasio e Arianna sono così riuniti e tutti possono riprendere il mare a seguito del calmarsi della tempesta. Quando Vitaliano, pentito, sopraggiunge in cerca di Arianna, trova soltanto il cadavere del mostro e si ripropone quindi di conquistare il cuore della ragazza grazie al suo sincero pentimento. A palazzo Arianna cerca di riprendersi dalle disavventure che le sono capitate, assistita da Leocasta, quando Anastasio, cinto di lauri, annuncia la sua vittoria e la cattura di Vitaliano, e loda pubblicamente il grande valore di Giustino, il quale è stato determinante per la vittoria e che ottiene ora di tornare in campo per finire il lavoro. Le sue fortune destano però l’invidia del generale cortigiano e traditore, Amanzio, il quale decide di usare contro di lui l’arma della calunnia, lasciando intendere ad Anastasio che il giovane abbia delle mire sul trono e sulla stessa Arianna. L’imperatore, inizialmente del tutto incredulo, comincia ad essere roso dal dubbio quando Arianna tesse davanti a lui le lodi sperticate del suo presunto rivale. Intanto Leocasta e Flavia/Andronico decidono di travestirsi da soldati per seguire Giustino al campo, ma durante la strada Flavia si rivela alla principessa e tenta di forzarne i favori. Leocasta viene salvata da Giustino e i due si dichiarano reciproco amore. L’atto si chiude con un’aria di Giustino accompagnata da archi e salterio solista, forse concepita per un virtuoso dello strumento e per un tipo molto particolare di salterio.
Atto terzo. Mentre Vitaliano e i suoi soldati riescono a fuggire dalla prigione, Anastasio viene vinto definitivamente dalla gelosia quando nota Giustino indossare una cintura che lui stesso aveva donato ad Arianna, e che poi la ragazza aveva a sua volta offerto al giovane vittorioso in premio per il suo valore. Giustino viene condannato a morte e Arianna accusata di adulterio; Leocasta, per parte sua, decide di liberare il giovane o di morire con lui. Approfittando della caduta in disgrazia di Giustino, Amanzio decide di tentare la sorte e detronizza Anastasio mettendolo in prigione e prendendo il suo posto sul trono. Leocasta però riesce a far fuggire il suo amato, che, addormentatosi in una zona selvaggia e montagnosa, viene peraltro successivamente sorpreso nel sonno da Vitaliano: questi è sul punto di ucciderlo quando, anche per l’intervento ultraterreno della voce del padre, riconosce in Giustino un fratello perduto rapito nella culla da una tigre. I due si abbracciano e Vitaliano accetta di aiutare Giustino a restituire il trono al deposto Anastasio. Nel palazzo imperiale, Amanzio condanna il suo infelice predecessore e Arianna alle più crudeli torture, quando un suono di trombe e le grida della folla annunciano l’arrivo degli armati di Giustino e Vitaliano. Amanzio è vinto e catturato, Anastasio restituito al trono e all’amore di Arianna, Vitaliano riconosciuto come amico, mentre Giustino ottiene la mano di Leocasta e l’incoronazione a co-imperatore a fianco di Anastasio. Tutti si ritrovano in un gioioso coro finale.

Dal punto di vista della composizione musicale, Vivaldi ricorre largamente alla tecnica dell’autoimprestito, impiegando cioè una notevole quantità di musica preesistente, riadattando quasi metà dei numeri e allestendo così una specie di ‘antologia personale’ a uso del pubblico romano (1). Il compositore utilizza il motivo principale di quello che sarà il primo movimento de La Primavera per l’ingresso in scena della Fortuna che predice a Giustino il futuro glorioso che lo attende. Ma ci sono tanti nuovi bellissimi numeri musicali dalla strumentazione particolarmente variegata: «Bel riposo de’ mortali» di Giustino ad esempio è un’aria pastorale in ritmo di siciliana orchestrata con violini, oboi e flauti all’unisono sopra un bordone di viola, violoncello e basso, mentre l’aria di Giustino «Ho nel petto un cor sì forte» con cui si conclude il secondo atto, è un’aria eroica con salterio solista e archi in pizzicato. Con timpani e trombe è la fanfara che precede l’aria con il coro di Arianna «Viva Augusto, eterno Impero» o quella di Vitaliano «All’armi, o guerrieri», tipica aria eroica con tromba solista. Non mancano nemmeno le arie barocche a imitazione della natura caratteristiche di Vivaldi: l’aria di Vitaliano «Quel torrente che s’innalza», in cui gli archi con le loro figure imitano un impetuoso torrente (aria che, tra l’altro, comparirà anche nel Farnace, trasposta però per la voce di baritono) o «Augelletti garruletti», con l’ottavino che imita il canto degli uccelli, o infine l’aria di Anastasio «Sento in seno ch’in pioggia di lacrime», dove i violini sono ripartiti in una sezione suonata in pizzicato e un’altra con l’archetto, a imitazione del suono della pioggia che cade.

La vicenda politica ricca di amori, guerra, erotismo, violenza, agnizioni, mostri marini, interventi soprannaturali, burrasche di mare e naufragi richiede una partitura ricca di colori esaltati dalla direzione di George Petrou, specialista di questo repertorio, il quale anche senza la sua Armonia Atenea, con l’orchestra del teatro riesce a rendere la grande varietà della musica vivaldiana e la maestria strumentale realizzata dagli ottimi musicisti. Sei dei quasi cinquanta numeri musicali sono omessi, cosa comprensibile per gli autoimprestiti, un po’ meno per quelli che si possono sentire solo qui come «Viva Augusto, eterno impero», il coro con Arianna con cui si apre l’opera, l’aria «Non si vanti un’alma audace» di Anastasio o «Candida fedeltà | che regna» di Amanzio. Ampiamente sforbiciati i dialoghi, scelta del tutto legittima per un pubblico non parlante l’italiano.

Da tempo Petrou si occupa anche della regia, come in questo caso, con eccellenti risultati: sembrerebbe una regia tradizionale, ambientata com’è in epoca settecentesca con i bei costumi e la scenografia di Paris Mexis, ma ha arguti momenti di metateatro, i macchinari sono esibiti con discrezione ma sfruttati con intelligenza, i caratteri sono precisamente connotati e il finale riserva una sorpresa: durante la ciaccona i personaggi si presentano a un ballo in maschera e il sipario scende mentre una pistola viene puntata alla testa di Anastasio che si è trasformato così in Gustavo III, il re svedese assassinato nel 1792! Attenta ed efficace anche  la regia video che sbircia dietro le quinte e inquadra spesso, giustamente, il suonatore di tiorba e chitarra barocca Jonas Nordberg.

La parte del titolo è affidata al controtenore Yuriy Mynenko, che con ironia e sicuri mezzi vocali impersona il modesto pastore che in tarda età diventerà imperatore come Giustino I (dal 518 al 527) d.C. Anastasio (Anastasio I, imperatore dal 491 al 518 d.C.) ha la voce di Raffaele Pe, che sottolinea il carattere svagato e incostante del personaggio che al pari di Otello è vittima della gelosia insinuata da Amanzio, lo Iago della situazione. Col suo timbro chiaro e luminoso, Pe non si preoccupa di dare particolare spessore al carattere ma esalta la cantabilità delle sue otto arie. Il carattere disprezzabile di Amanzio è ben espresso da Federico Fiorio, il terzo controtenore, che nella sua aria finale «Or che cinto ho il crin d’alloro» dà sfogo a impervie agilità. Vitaliano è invece il tenore Juan Sancho che con le sue peculiari caratteristiche vocali esprime i più contrastanti e violenti affetti del personaggio. Una cantante assume il ruolo di un uomo che si traveste da donna, ossia Andronico che si presenta a corte come Flavia: il mezzosoprano Linnea Andreassen rivela temperamento e una grande personalità. Femminili sono i personaggi di Arianna e Leocasta. Il primo fu tenuto a battesimo dal castrato Giacinto Fontana, detto il Farfallino, interprete di tutti i principali ruoli femminili nei drammi romani scritti da Metastasio. Qui la sposa ciecamente innamorata del consorte – ma la regia di Petrou la fa per un momento essere preda del fascino dell’eroe eponimo – si esprime in arie dove domina una fluida cantabilità ben realizzata dal soprano Sofie Asplund. Meno monocorde il personaggio di Leocasta che ha l’ultima parola nell’opera in un’aria irta di agilità e colorature «Dopo un’orrida procella» che sostituisce  «Lo splendor ch’a sperar m’invita», in cui eccelle con sicurezza il soprano Johanna Wallroth. Jihan Shin (Polidarte) e Elin Skorup (Fortuna e Voce di dentro) completano il pregevole cast di una produzione che meriterebbe di essere vista anche in altri teatri al di fuori del gioiello svedese.

(1) Struttura dell’opera con gli autoimprestiti in grassetto e la numerazione dello Strohm (The Operas of Antonio Vivaldi) :
Sinfonia
Atto primo
I.01 Viva Augusto, eterno Impero (Arianna e coro)
I.02 Un vostro sguardo (Anastasio)
I.03 Da’ tuoi begl’occhi impara (Arianna) da Tieteberga
I.04 Bel ristoro de’ mortali (Giustino)
I.05 Della tua sorte (Fortuna)
I.06 Nacque al bosco e nacque al prato (Leocasta)
I.08A Sole degli occhi miei (Arianna) da Ottone in villa
I.08B La gloria del mio sangue (Amanzio) da Teuzzone
I.08C Vedrò con mio diletto (Anastasio)
I.10 Non si vanti un’alma audace (Anastasio)
I.11A Allor ch’io mi vedrò (Giustino) da Tieteberga
I.11B No bel labbro men sdegnoso (Leocasta) da Armida
I.12 E pur dolce ad un’anima amante (Andronico) da Tito Manlio
I.13A All’armi, o guerrieri (Vitaliano) 
I.12B Vanne, sì, superba, va’ (Vitaliano) 
I.14 Mio dolce, amato sposo (Arianna)  
Atto secondo
II.01 Sento in seno, ch’in pioggia di lagrime (Anastasio) da Tieteberga
II.02 Ritrosa bellezza | ben poco s’apprezza (Polidante ) 
II.03A Numi che il ciel reggete (Arianna) anche in Dorilla in Tempe
II.03B Per me dunque il ciel non ha (Arianna)
II.04 Mio bel tesoro, duetto (Arianna, Anastasio)
II.05 Per noi soave e bella (Arianna)
II.06 Qual torrente che s’inalza (Vitaliano) anche in Farnace
II.08 Più bel giorno e più bel fato (Andronico)
II.08B Senti l’aura che leggiera (Leocasta)
II.08C Augelletti garruletti (Arianna) da Armida al campo d’Egitto
II.09A Verdi lauri cingetemi il crine (Anastasio)
II.09B Su l’altar di questo nume (Giustino)
II.10A Candida fedeltà | che regna (Amanzio)
II.10B Taci per poco ancora (Anastasio ) da Tieteberga
II.11 Quando serve alla ragione (Vitaliano) da La verità in cimento
II.12A Se all’amor ch’io porto al trono (Anastasio)
II.12B Dalle gioie del core Amor pendea languido (Arianna)
II.13A Sventurata navicella (Leocasta) da Orlando finto pazzo
II.13B Ho nel petto un cor sì forte (Giustino)
Atto terzo
III.01 Il piacer della vendetta (Vitaliano)
III.02A Zeffiretto che scorrer nel prato (Giustino)
III.02B Quell’amoroso ardor (Arianna) 
III.03 Di rè sdegnato (Anastasio) da Tieteberga
III.04A Il mio cor già più non sa (Giustino)
III.04B Senza l’amato ben (Leocasta)
III.05 Sì, vo a regnar (Amanzio) da Tieteberga
III.07 La cervetta timidetta (Arianna) da Orlando furioso
III.08 Or che cinto ho il crin d’alloro (Amanzio)
III.10 In braccio a te la calma, duetto (Anastasio e Arianna)
III.11 Lo splendor ch’a sperar m’invita (Leocasta) da La verità in cimento
III.12 Dopo i nembi e le procelle, coro, anche in Ipermestra

Giulio Cesare in Egitto

foto © Fabrizio Sansoni – Opera di Roma

Georg Friedrich Händel, Giulio Cesare in Egitto

Roma, Teatro dell’Opera, 13 ottobre 2023

★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Giulio Cesare torna a Roma

Anche l’Italia continua a riscoprire i tesori del teatro barocco in musica, che sono al 99% italiani. Grazie al lavoro di specializzazione in questo repertorio di direttori che non sono più soltanto olandesi o tedeschi, e a registi che propongono letture intriganti di quelle vicende spesso più vicine a noi di quanto lo siano quelle di molto teatro dell’Ottocento, i compositori della prima metà del XVIII secolo godono di una nuova popolarità. Primo fra tutti Georg Friedrich Händel, il cui Giulio Cesare in Egitto approda per la quarta volta al Costanzi: nel 1955 c’era Gavazzeni sul podio e un basso (Boris Hristov) nella parte di Cesare; nel 1985 il condottiero romano era un mezzosoprano (Margarita Zimmermann) come nel 1998 (Alice Baker) mentre ora sono ripristinate le voci originali con controtenori nei ruoli dei castrati, qui dove tutto era iniziato con la loro introduzione nell’opera lirica in seguito al divieto alle donne di salire sui palcoscenici dello stato pontificio. 

Nel Giulio Cesare di Händel oltre al protagonista altri tre ruoli furono affidati ai castrati, quello di Tolomeo, Sesto e Nireno; gli altri due maschi, Achilla e Curio sono bassi, Cleopatra è un soprano e Cornelia un mezzosoprano. Non sempre questa distribuzione è rispettata nelle numerose intonazioni della vicenda di Cesare in Egitto: nella prima versione di Antonio Sartorio (1676) Cesare è un soprano, ma Carlo Francesco Pollarolo preferisce la voce più calda del mezzosoprano nella sua opera del 1713 e nel 1728 Luca Antonio Predieri opta per il contralto Paolo Mariani. Dopo il Giulio Cesare in Egitto di Händel (1724, creato per il Senesino) ci saranno ancora quello di Giacomelli (1736, col Carestini) e di Piccinni (1770). Graun nel 1742 aveva intanto presentato il suo Cesare e Cleopatra col castrato Paolo Bedeschi.

I 44 numeri della partitura originale – arie solistiche, ariosi, recitativi accompagnati, duetti, cori, sinfonie, marce – formano una sequenza di pezzi dalla superba scrittura musicale con cui si intrecciano le vicende d’amore tra Cesare e Cleopatra e quelle di vendetta della moglie Cornelia e del figlio Sesto per la morte di Pompeo in uno schema melodrammatico metastasiano di grande forza drammatica ma senza una vera tensione narrativa.

Molte sono le diverse versioni dell’opera di Händel che, secondo le usanze dell’epoca, venivano adattate alle diverse disponibilità del teatro di turno: venivano così cambiate o tagliate arie, eliminati personaggi. Qui a Roma ancora diversa è la versione proposta: i personaggi sono tutti presenti ma molti numeri musicali sono mancanti: vengono infatti tagliati il coro iniziale, due arie di Cesare, ben tre di Cleopatra e due di Achilla, mentre Cornelia e Sesto vengono privati di un’aria ciascuno. In totale ben dieci pezzi, per non parlare dei recitativi decimati. L’esecuzione è suddivisa in due parti invece che nei tre atti previsti e così si toglie risonanza al duetto Cornelia/Sesto «Son nata a lagrimar, | son nato a sospirar» con cui si conclude il primo atto. Anche il finale secondo, pure lui affidato alla voce di Sesto (qui nella variante «L’angue offeso mai non posa») si trova nel mezzo della seconda parte.

La maestosa orchestrazione di Händel è affidata alle esperte mani di Rinaldo Alessandrini, che della partitura restituisce la ricchezza e sontuosità, ma l’orchestra del teatro non si rivela il miglior strumento espressivo in questo repertorio pochissimo frequentato: il suono è preciso, gli attacchi corretti ma non ci sono lo scatto e il colore dell’opera barocca, gli equilibri sonori sono troppo smorzati, le preziosità strumentali non sempre evidenziate. Ottima è invece la concertazione delle voci in scena affidate ai migliori interpreti di questo repertorio e molto belle le variazioni nei da capo, e qui la mano esperta di Alessandrini è evidente. Raffaele Pe è vocalmente autorevole come Cesare e anche se non affronta la spericolata «Qual torrente, che cade dal monte» del terzo atto, dimostra grande facilità nelle agilità richieste dalla parte e una presenza scenica coerente con l’impostazione registica per la quale Cesare è «un uomo goffo, imbranato, che non ne combina una giusta» e s’innamora di una serva che è Cleopatra travestita. Al suo rientro a Roma, di lì a pochi anni Cesare cadrà sotto le pugnalate dei congiurati che qui compaiono dietro un telo traslucido abbigliati in toga come antichi romani.

Ha già interpretato Cesare e lo farà di nuovo tra poco in versione concertistica con Cecilia Bartoli, ma qui Carlo Vistoli veste i panni di Tolomeo, un ruolo ancora più impervio che però il controtenore romagnolo gestisce in maniera impeccabile vocalmente – sin dalla prima aria di furore «L’empio sleale indegno», come nelle seguenti «Sì spietata, il tuo rigore», «Domerò la tua fierezza», le asprezze e i salti di registro delineano con efficacia la crudeltà del personaggio – e scenicamente, con quel parrucchino biondo e i tatuaggi sulla pelle e con Michieletto che sottolinea il rapporto vagamente morboso con la sorella Cleopatra. Il terzo controtenore, ed è la sorpresa della serata, è Aryeh Nussbaum Cohen, un Sesto di grande potenza vocale, espressivo, dal bellissimo timbro e dalla sicura tecnica con cui riesce a dare del figlio di Pompeo un ritratto in evoluzione. Ci sarebbe un quarto controtenore, Nireno, ma qui non ha un’aria per sé e Angelo Giordano deve aspettare un’altra occasione per farsi meglio apprezzare. Tra le varianti inserite in successive versioni Händel aveva scritto per Nireno un seducente numero («Chi perde un momento | d’un dolce contento») che finora, salvo errore, è stato eseguito solo nella produzione di McVicar. Neanche Curio, qui Patrizio La Placa, ha un’aria tutta sua e non molto meglio va per Achilla a cui rimane un solo intervento solistico su tre («Tu sei il cor di questo core») affidato all’ottimo basso Rocco Cavalluzzi.

E infine le interpreti femminili: Mary Ann Bevan, il soprano americano ammirato nel recente Orfeo ed Euridice veneziano, nella parte di Cleopatra qui ha modo di dispiegare le sue doti di sensualità ed agilità vocale in una serie di momenti musicali che vanno dal frivolo «Non disperar, chi sa?» della sua prima aria al tragico «Piangerò la sorte mia» espresso con grande intensità emotiva. La sua è una Cleopatra meno leggera del solito e dal corposo registro medio. Della Cornelia di Sara Mingardo non c’è molto di nuovo da dire: è uno dei suoi ruoli di elezione e quello in cui le sue qualità vocali si sono meglio espresse. Col tempo l’adesione al personaggio ha raggiunto un livello difficilmente superabile.

Guardando sul programma di sala le foto dei vecchi allestimenti del Costanzi si prova un misto di tenerezza e raccapriccio nel vedere le scenografie in cui l’Egitto è stato visto con l’occhio delle varie epoche – e nessuno era il vero Egitto – e si capisce anche come indietro non si possa tornare: da quando nel 1985 Peter Sellars aveva ambientato la vicenda nel moderno Medio Oriente c’era poi stato Sir David McVicar vent’anni dopo a sbarazzarsi della pseudo-archeologia per ambientare la produzione di Glyndebourne nell’India coloniale. All’Egitto era ritornato, ma con il suo spirito dissacrante, Laurent Pelly, che nel 2011 a Parigi aveva allestito la vicenda nei depositi del Museo del Cairo.

Ancora più radicale la lettura di Michieletto che nel 2022 sorprende il pubblico del Théâtre des Champs Elysées con uno spettacolo di rara purezza visuale, in costumi moderni con solo alcuni dettagli egizi. La sua è una lettura rigorosamente drammatica, non prende in considerazione gli elementi di tragico e comico, di alto e basso che si mescolano nell’opera barocca e che McVicar aveva genialmente ricreato nella sua versione stile Bollywood. Qui invece domina il fatum, con le tre Parche che tessono il destino dell’uomo, e la morte: Pompeo, di cui ci è risparmiata la visione splatter della testa mozza (qui c’è solo l’inquietante sottile rivolo di sangue che esce dalla scatola contenente il “regalo” di Tolomeo), è spesso presente in scena come spettro scespiriano che sostiene il figlio a cui presta gli abiti affinché la reincarnazione in lui sia completa. Alla fine, ricoperto di gesso bianco si trasformerà in statua sotto la quale Cesare cadrà pugnalato nelle fatali Idi di marzo. Con Pompeo Michieletto mette in scena il passaggio nell’aldilà secondo la concezione degli egizi, con la “pesatura dell’anima” del Libro dei Morti, mescolata con il mito delle Parche che qui dipanano il filo dalla bocca del defunto. E il rosso dei fili, che limitano la libertà dell’uomo o lo inglobano in una matassa indistricabile, assieme al nero delle ceneri che a un certo punto cadono su Pompeo, sono gli unici colori nel bianco abbagliante della scenografia di Paolo Fantin che costruisce una scatola bianca con un taglio nero orizzontale che collega l’aldilà. Con le luci di Alessandro Carletti e i costumi di Agostino Cavalca lo spettacolo di Michieletto raggiunge una dimensione onirica e fantastica che ricrea in forme moderne il senso del meraviglioso del barocco .

Il pubblico che ha affollato il teatro Costanzi ha risposto con calore alla inedita proposta dell’Opera di Roma applaudendo a lungo e senza eccezioni tutti gli artefici dello spettacolo. Quasi una delusione la mancanza di buu rivolti al regista e alla sua equipe. Che i tempi stiano cambiando anche per l’opera in Italia?

Il prossimo 20 ottobre Pe, Vistoli e Nussbaum Cohen si esibiranno qui in concerto con musiche di Vivaldi, Händel, Vinci, Porpora, Broschi, Gluck e Rossini. Dopo la stagione dei castrati, trecento anni più tardi, a Roma sembra sia arrivata la stagione dei controtenori.

La fida ninfa

photo © Birgit Gufler

Antonio Vivaldi, La fida ninfa

Innsbruck, Haus der Musik, 17 agosto 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

La “favola pastorale” del Vivaldi più maturo

Con la prima de La fida ninfa, il 6 gennaio 1732 veniva inaugurato uno dei più costosi edifici teatrali del XVIII secolo, il Teatro Filarmonico di Verona. La commissione dell’opera era andata ad Antonio Vivaldi, ma solo perché Giuseppe Maria Orlandini, che originariamente avrebbe dovuto mettere in musica il libretto, non fu più disponibile quando finalmente venne il momento di produrre l’opera. Scritta probabilmente in meno di due mesi, l’opera andò in scena con grande successo: furono lodate le scenografie del Bibbiena, i balletti di Andrea Catani, il testo di Scipione Maffei (figura di spicco nella cultura italiana del Settecento e finanziatore della costruzione del nuovo teatro), l’orchestra, «che riuniva eccellenti virtuosi provenienti da diverse parti» e, finalmente, anche le musiche «del signor Vivaldi». Meno plausi ebbero i cantanti, nomi insigni (Giovanna Gasperini, Gerolama Madonis, Francesco Venturini, Giuseppe Valentini) ma svantaggiati dalle poche prove. L’opera sarà poi rappresentata nel 1737 per celebrare la nascita della prima figlia dell’imperatrice Maria Teresa al Theater am Kärntnertor di Vienna, la città in cui Vivaldi avrebbe trascorso il suo ultimo anno di vita.

Con il numero di catalogo RV714, La fida ninfa è la 32esima opera vivaldiana secondo Reinhard Strohm, il massimo studioso del teatro musicale del Prete Rosso. Frutto della sua piena maturità, i tre atti presentano una serie di magnifiche arie con cui Vivaldi trasfigura codici e luoghi comuni dell’opera seria di cui il libretto del Maffei è ricco. Il testo mescola ninfe (intese però come giovani donne associate a pastori e contadini) e pirati in un complesso plot dove rapimenti, scambi di identità, agnizioni, intricate relazioni amorose, finte morti, suicidi annunciati, tempeste di mare e interventi divini sono spiegati solo alla fine dell’opera, come in un thriller di Agatha Christie, tanto da far dire a Narete: «Il tutto è chiaro» mentre Morasto conclude con: «O sommi dèi! | per quali occulte vie | conducete i mortali!». Tutto questo è rivestito di suoni di straordinario livello: i venti numeri musicali comprendono una serie di ensemble (un duetto, un trio, un quartetto e alcuni brevi cori) e pagine solistiche da antologia, tra le più impegnative di Vivaldi e in competizione tra loro per il virtuosismo vocale.

Atto I. Oralto, comandante pirata e signore di Nasso, rapisce un pastore, Narete, e le sue due figlie, Licori e Elpina. Licori era sposa di Osmino, che era stato anche lui rapito da soldati traci. Osmino, ora chiamato Morasto, diventa tenente di Oralto, ma nessuno lo riconosce. Il giovane è angosciato quando scopre che altri suoi compatrioti sono stati ridotti in schiavitù. Il fratello di Osmino, Tirsi, vive anch’egli nell’isola. I suoi genitori gli avevano dato poi il nome di Osmino in memoria del fratello creduto morto. Si innamora quindi di Licori. Ma per attirarne l’attenzione e renderla gelosa, seduce sua sorella. Licori piace anche ad Oralto che chiede aiuto a Osmino/Morasto per aiutarlo a ottenere la ragazza. Nel frattempo, il vecchio Narete trova scolpito su un albero i nomi di Osmino e Licori.
Atto II. Licori crede di aver riconosciuto in Osmino la persona a cui era destinata. Narete, tuttavia, tenta di negoziare con Oralto la redenzione di tutta la famiglia con un pagamento enorme al fine di ritornare in patria. Ma Oralto, irritato dal disprezzo di Licori, vuole venderli come schiavi del sultano. Morasto comincia la corte a Licori. Scopre tutta la verità, ma teme di rivelare il segreto. Osmino dichiara apertamente i suoi sentimenti per Licori. Elpina, profondamente ferita, accusa Osmino di abusare della sua fedeltà. Narete, che indovina le intenzioni di Oralto, chiede l’aiuto di Morasto, il quale accetta di aiutarli.
Atto III. Oralto minaccia Licori di vendere il suo schiavo e la sua famiglia se non acconsente a sposarla. Licori pensa al suicidio e fugge. Nella sua corsa, inciampa e cade in un fiume. Narete trova un velo e lo mostra ad Oralto come prova dell’annegamento della figlia. Il tiranno si assenta e dà il comando dell’isola a Morasto. Questo gli permette di rivelare la sua vera identità: è lui il vero Osmino. Licori, non affogata e fedele ai suoi voti, rinnova le sue promesse d’amore al primo fidanzato. Sono quindi volte le vele a Sciro, quando una terribile tempesta li sorprende in mare. Per fortuna. Giunone, piena di compassione per le miserie e l’amore indistruttibile di due giovani provati dalla sorte per lungo tempo, chiede a Eolo, il dio del vento, di calmare le onde.

Per la 47esima edizione del Festival di Musica Antica, l’ultima affidata al direttore artistico Alessandro De Marchi, il compositore delle due opere in programma è dunque Antonio Vivaldi, di cui vengono messe in scena L’Olimpiade e La fida ninfa. Oltre a vari altri suoi pezzi concertistici, è presentato anche l’oratorio Juditha Triumphans. Gli sforzi produttivi hanno privilegiato soprattutto L’Olimpiade piuttosto che La fida ninfa dell’Opera Young: nella prima sono sfilati cantanti di grido e ha avuto un’apprezzata messa in scena, nella seconda si sono esibiti cantanti promettenti ma un po’ acerbi e lo spettacolo è risultato visivamente bruttoccio. Il regista François de Carpentries non ha fatto alcuno sforzo per rendere più attuale la vicenda e si è limitato a una lettura lineare con una scenografia, di Karine van Hercke, autrice anche dei costumi, eccessivamente cheap per un festival prestigioso come questo di Innsbruck: una pecora di resina a sinistra e una bandiera dei pirati a destra definiscono i due mondi, tronchi o sassi disegnati sul cartone e una sedia in stile Luigi XVI sono i soli elementi della scena unica. Altri tronchi bidimensionali, catene o mostri dipinti scendono dall’alto per definire i diversi ambienti previsti: paesaggio boscoso con vista del palazzo di Oralto nel primo atto; porto di mare nel secondo; rifugio fiorito, aspro paesaggio montano con imbocco di grande caverna, palazzo di Eolo nel terzo. L’affannoso andirivieni dei personaggi non rispecchia una convincente idea registica e i fantasiosi costumi ricchi di piume dei pastori appagano coi loro colori la vista ma non aiutano a definire i personaggi, ad eccezione di Oralto, un Jack Sparrow de I pirati dei Caraibi. La “favola pastorale” prende contorni fiabeschi non solo nei costumi ma anche nella presenza di un bianco unicorno alato e nell’altrettanto incomprensibile passaggio di un personaggio femminile in verde che ricompare come Giunone nel finale.

La preziosa partitura trova una realizzazione accurata nella direzione di Chiara Cattani, una bionda “direttora” che non ha parentele politiche o incarichi istituzionali ma sa concertare con sapienza e riesce a tirar fuori il meglio dall’ensemble strumentale Barockorchester:Jung [sic], giovanile anche nel nome. Precisione negli attacchi, tempi e dinamiche corretti, magari senza particolari guizzi, ma ottimo equilibrio con i cantanti e i momenti solistici degli strumentisti.

La sfida maggiore di questa produzione è stata il voler affidare a giovani e volenterosi interpreti, alcuni provenienti dal Concorso Cesti, un lavoro così impegnativo. Licori è, assieme a Morasto, il personaggio con più numeri solistici, due arie consecutive nel primo atto, una nel secondo e una nel terzo, non particolarmente virtuosistiche ma intense: Chelsea Zurflüh, che ha vinto il secondo premio al Concorso Cesti dell’anno scorso, le risolve con giusto stile e sensibilità. La voce è potente anche se con un che di acerbo, ma la personalità è già presente e il temperamento anche. Molto applaudita è stata la sua aria più famosa «Alma oppressa da sorte crudele» in cui Vivaldi tocca insondabili profondità ben espresse dal soprano svizzero. L’altro personaggio con più arie solistiche è Morasto, in realtà Osmino, pastore di Sciro e ora tenente del pirata, cui dà voce il controtenore ceco Vojtěch Pelka dalle precise agilità e dalla giusta presenza scenica. Le sue sono le arie più virtuosistiche. Un altro controtenore dà voce a Osmino, in realtà Tirsi, anche lui pastore a Sciro, personaggio con una sola aria solistica al secondo atto, ma che è presente in due duetti, con Elpina nel primo atto e con Narete nel terzo, e nel quartetto del secondo: Nicolò Balducci, anch elui proveniente dal Concorso Cesti dell’anno scorso, è cantante dal bel timbro, grande musicalità e ottimo fraseggio ed è forse l’interprete più convincente, anche per la chiara articolazione delle parole. Cosa che di certo non è la qualità maggiore del giovane basso ucraino Yevhen Rakhmanin dallo strumento vocale generoso, dai bassi sonori, ma dalla linea musicale un po’ disordinata e dalla dizione totalmente incomprensibile: per capire quello che dice bisogna leggere i sottotitoli in tedesco – unica lingua presente anche nei programmi, tra l’altro. Nella parte di Narete si aspettava la presenza del vincitore del Concorso Cesti del 2022, Laurence Kilsby, che aveva incantato il pubblico e la giuria con la magistrale resa della commovente aria «Deh, ti piega, deh consenti», aria ripetuta alla fine del concerto finale dello scorso anno e che aveva portato il tenore inglese al meritato primo premio. Qui abbiamo un altro tenore britannico, Kieran White: il suo personaggio ha solo due arie solistiche, entrambe al secondo atto, oltre al duetto con Osmino nel terzo. Interprete elegante e sensibile, è stata apprezzata la sua performance nella suddetta aria che qui ha concluso la prima delle due parti in cui è stata suddivisa l’opera, ma si sarebbe gradita una maggior purezza nella linea vocale e suoni più limpidi. Completa il cast vocale il mezzosoprano Eline Welle, voce dal piacevole colore e buona musicalità esibita nelle due arie solistiche e nei due ensemble in cui si esprime il suo personaggio di Elpina, l’altra ninfa di Sciro.

P.S. Mi ha scritto la moglie (o la madre, il cognome è lo stesso) del regista dicendomi che non ho capito le intenzioni del suo (capo)lavoro. Non mi era mai capitato di essere attaccato direttamente dal regista o dai membri della sua famiglia!

Gli uccellatori

photo © Clarissa Lapolla

Florian Leopold Gassmann, Gli uccellatori

Martina Franca, Teatro Verdi, 2 agosto 2023

★★★★☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Non uno ma tre Papageni (e una quasi Regina della notte)

L’ultimo degli allestimenti in programma al Festival della Valle d’Itria è un titolo settecentesco di Florian Gassmann, compositore austriaco a cavallo di barocco e classicismo, basato sul testo di Li uccellatori di Carlo Goldoni. Messo in scena nel 1759 al Teatro San Moisé di Venezia, la sua partitura manoscritta è stata solo recentemente riscoperta a Vienna dove l’opera era approdata nel 1768. La vicenda si basa sugli intrecci amorosi tra una coppia seria di nobili (il Marchese Riccardo e la Contessa Armelinda) e un gruppo di parti buffe formato da tre cacciatori di uccelli (Cecco, Pierotto e Toniolo) e due servette (Roccolina e Mariannina) in cui il ruspante Cecco è concupito da tutte e tre le femmine.

Allo spuntar dell’aurora gli uccellatori Pierotto, Cecco e Toniolo sono pronti, con quaglie, fringuelli e civette da richiamo, a partire per la caccia, quando vengono raggiunti dalle due servette Mariannina e Roccolina, con le quali si scambiano saluti e sguardi languidi. Entrambe innamorate ma diffidenti l’una dell’altra, le fanciulle preferiscono custodire il proprio segreto d’amore, entrando da subito in competizione. Nel frattempo, la Contessa Armelinda respinge le profferte amorose del Marchese Riccardo: il cuore della donna è infatti piagato da un sentimento inconfessabile, verso qualcuno che non è un suo pari, ma appartiene a una classe inferiore, Cecco. Oggetto del desiderio di ben tre donne, l’uccellatore si troverà, suo malgrado, a dover sventare un attacco omicida nei suoi confronti e a essere testimone di un processo fittizio, in cui giudice e notaio altri non sono che le due servette rivali en travesti. Dopo rinunce e pentimenti, scoppi d’ira e vezzose schermaglie, il lieto fine sancirà, ancora una volta, il ripristino dell’equilibrio sociale ed erotico.

Superato un certo fastidio per l’argomento – la caccia alle povere bestiole e il loro finire in padella – si apprezza l’arguto testo goldoniano in cui cacciatori e cacciati sono gli umani stessi in un gioco di schermaglie amorose interclassiste: la Contessa si dichiara infatuata del popolano Cecco ma non è una novella Lady Chatterly persa per il suo guardacaccia, quanto piuttosto una nobile annoiata che ben presto si rende conto della sconvenienza della sua relazione: «vo facendo il precipizio mio. | Che rossor, che vergogna | amare un uom sì vile» e rientra nei ranghi di una relazione socialmente accettabile accettando la corte del Marchese fino a quel momento bistrattato: «se il Marchese | tornasse a supplicarmi, | forse all’affetto suo potrei piegarmi». Nel finale la morale della storia: «Evviva il dio d’amore | ch’è un bravo uccellatore | e di cuori amanti | sì bella caccia fa».

I personaggi nobili utilizzano un lessico ricercato e cantano in uno stile virtuosistico da opera seria, quelli popolari sono parti buffe che esprimono le pulsioni erotiche con semplice vitalità. Più che il sentimentalismo, la cifra distintiva de Gli uccellatori è l’aspetto ludico e la musica di Gassmann si diverte a richiamare i volatili imitando con oboi e violini i versi della quaglia nell’aria di Pierotto. Ma gli uccelli sono i veri protagonisti fin dalla sinfonia tripartita con le volatine dei flauti nel primo movimento o gli assoli degli oboi che rispondono a quelli dei corni nel terzo. Figurazioni onomatopeiche imitanti cinguettii sono sparse per tutta l’opera e formano una “musica di scena” inserita in un congruo apparato scenico che qui al Teatro Verdi nell’allestimento della regista Jean Renshaw viene realizzato con minimalistica eleganza: i diversi spazi aperti previsti – Piazza con case rustiche e Bosco al primo atto; Giardino e Campagna sparsa di capanne del secondo; il Bosco e Campagna del terzo – sono qui sintetizzati da Christof Cremer, che firma anche i bei costumi, in una scena fissa formata da una tavola inclinata con una botola e pochi altri elementi scenici – due alberelli formano il Bosco, una sedia legata a una scaletta lo scranno del giudice, una panchetta l’unico ambiente chiuso previsto dal libretto etc. La presenza della danzatrice Emanuela Boldetti – Renshaw non si dimentica di essere stata coreografa – richiama con i ventagli le ali dei volatili e con i suoi aggraziati movimenti punteggia i momenti strumentali o si inserisce in modo discreto nell’azione. 

Enrico Pagano a capo dell’Orchestra ICO della Magna Grecia concerta con precisione e gusto una musica che anticipa in alcune pagine quelle che scriverà poi Mozart, soprattutto la prima aria della Contessa che sembra richiamare quella della Donna Anna dongiovannesca. Il giovane direttore romano classe 1995, si è già fatto un nome quale esperto di questo genere e infatti riesce a trascinare la compagine strumentale, per la prima volta impegnata in questo repertorio, in un flusso musicale dove svettano gli interventi strumentali risolti con bello stile. La partitura, come quelle di questo periodo, è scarna di indicazioni e qui è l’inventiva dell’esecutore a rendere vivo quello che in molti casi è appena abbozzato e che poteva variare ad ogni ripresa, un canovaccio da adattare a nuovi teatri, nuovi cantanti, nuove orchestre.

Quasi tutti gli interpreti escono dal progetto dell’Accademia di Belcanto e ben quattro calcano la scena per la prima volta, ma non si nota, vista la sciolta presenza scenica dimostrata dai giovani cantanti. Si diceva che la parte della Contessa anticipa quella della mozartiana Donna Anna, ma qui l’islandese Bryndis Gudjónsdóttir con il suo temperamento e strumento vocale generoso, anche troppo per un teatro minuto come quello di Martina Franca, ricorda quasi più la Regina della Notte quando attacca con vigore l’aria «Palpitare il cor mi sento» che punteggia di vigorosi acuti. Il ruolo del Marchese è irto di agilità che hanno portato in passato ad assegnare la parte a un mezzosoprano o a un controtenore, ma qui il tenore Massimo Frigato riesce a tener testa ai virtuosismi richiesti dalla sua aria di furore «Fremo d’amor, di sdegno». Nel campo dei “comici” qui vincono per qualità le voci maschili su quelle femminili: in Cecco si ammira il bel timbro e la gagliarda presenza del baritono Elia Colombotto; in Pierotto l’entusiasmo e la sicurezza vocale del basso Huigang Liu e in Toniolo l’affermata presenza del tenore Joan Folqué. Vivaci e spigliate sono le servette affidate a Justina Vaitkute (Roccolina) promettente mezzosoprano, e Angelica Disanto, vivace Mariannina.

Un pubblico non numerosissimo ma prodigo d’applausi ha salutato la felice prova dei giovani interpreti e del direttore e la scoperta di questa gemma settecentesca, una delle tante che ancora restano da dissotterrare.