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Leoš Janáček, Výlety páně Broučkovy (I viaggi del signor Brouček)
Brno, Janáčkovo Divadlo, 4 dicembre 2024
★★★★☆
(live streaming)
Viaggi nella Praga del XX secolo
Robert Carsen avrebbe dovuto presentare cinque opere di Janáček al Regio di Torino a partire dalla stagione 2015-2016, ma riuscirono ad andare in scena solo La piccola volpe astuta e Kát’a Kabanová, poi le cose andarono come sappiamo per il teatro torinese. Tra quelle cinque non era comunque inclusa I viaggi del signor Brouček che ora, nel 170esimo anniversario della nascita, inaugura il biennale Festival Janáček di Brno che dal 1 novembre al 4 dicembre presenta il teatro musicale del compositore moravo – tra cui L’affare Makropulos nella produzione di Claus Guth e Jenůfa, nella versione del 1904 – e tanta musica sia orchestrale che da camera.
La scelta dell’argomento – ossia la vicenda del movimento hussita del XV secolo nella seconda parte e il datato intento satirico della prima, in cui il musicista e il librettista prendono in giro gli intellettuali velleitari e fatui della Praga di quegli anni – ha reso I viaggi del signor Brouček l’opera di Janáček meno eseguita, non solo al di fuori della Repubblica Ceca ma persino in patria. Questa di Brno sarà una coproduzione con la Staatsoper Unter den Linden di Berlino e il Teatro Real di Madrid e che cosa ha fatto Robert Carsen per rendere comprensibile questo particolare lavoro alle platee internazionali? Ha scelto di ambientarlo negli ultimi ’60 del secolo scorso: nel 1968 era avvenuta l’invasione russa della allora Cecoslovacchia, mentre nel 1969 il primo uomo aveva posto piede sulla Luna.
Ecco allora che il viaggio sulla Luna di Matěj Brouček, conseguenza di una formidabile bevuta di birra, parte da una vikárka (taverna) praghese dove sullo schermo televisivp del locale si vedono le immagini in bianco e nero di Neil Armstrong lasciare la sua impronta nella polvere della superficie del nostro satellite. Nella mente obnubilata del proprietario immobiliare signor ‘Bacherozzo’ (in ceco brouček vuol dire scherzosamente ‘insetto’), i serbatoi della Pilsner si trasformano nel Saturn V che porta il nostro eroe, dopo un allunaggio nello stile del cinema di Méliès, fra l’estetizzante umanità selenita dove i prosaici personaggi incontrati nella taverna diventano esseri che si nutrono solo di eterei profumi e versi poetici. L’iscrizione ‘Moonstock ’68’ e le copertine psichedeliche degli album di quell’epoca fanno da sfondo alla festa di questi figli dei fiori lunatici che alle salsicce di Brouček inorridiscono non per snobismo ma per convinzioni vegane.
Nella seconda parte si fa un salto all’indietro nel tempo non di secoli durante la rivolta degli hussiti nella Praga del 1419, ma di un solo anno: se David Pountney nel 1992 all’English National Opera aveva messo in scena I viaggi alludendo alla Rivoluzione di velluto che tre anni prima aveva condotto alla dissoluzione dello Stato comunista cecoslovacco, qui Carsen ambienta invece il secondo viaggio di Brouček durante la Primavera di Praga del 1968. Iniziata il 5 gennaio, il 20 agosto dello stesso anno i carri armati del Patto di Varsavia invadevano il paese ponendo termine a quel periodo di riforme democratiche. Le coloratissime atmosfere un po’ lisergiche della prima parte qui, grazie alle scenografie di Radu Boruzescu, ai costumi di Annemarie Woods e alle luci di Peter van Praet e dello stesso Carsen, si trasformano nelle cupe e grigie oscurità della stessa taverna dove Brouček si ritrova solo al buio dopo la chiusura. Unica luce è quella della televisione che mostra il nuovo segretario del Partito Comunista Ceco, Alexander Dubček, uscire poi dallo schermo e declamare l’Inno al sole di Svatopluk Čech, il poeta e autore dei racconti che stanno alla base del libretto. Nell’incontro con i resistenti, si vedono le drammatiche immagini dell’invasione e dei funerali di Jan Palach, il giovane di 21 anni che si diede fuoco per manifestare il proprio dissenso verso il nuovo regime e scuotere le coscienze, mentre copie del suo ritratto ricoprono una parete del locale dove si riunisce la resistenza anti-sovietica. Una piccola rivincita i cechi se la sarebbero presa con la vittoria della loro squadra di hockey su quella russa nel marzo 1969, come vediamo rappresentato in scena. Ma il finale ritorna amaro quando l’atmosfera festante della vikárka è all’improvviso interrotta dall’irruzione di un carro armato mentre scende il sipario. Alla sua settima regia di opere di Janáček, Robert Carsen dimostra tutta la sua intelligenza e grande tecnica teatrale nel dare una vita plausibile a questo difficile titolo. Il risultato è come sempre sorprendente.
Non solo dal Canada, paese natale di Carsen, arriva una dimostrazione dell’interesse per il compositore moravo: anche gli inglesi si sono distinti nel divulgarne e farne apprezzare la musica, come il musicologo John Tyrrell, il direttore Charles Mackerras o il già citato regista David Pountney. Ora a questi si può aggiungere il nome di Nicky Spence, il tenore scozzese che ha sempre dimostrato interesse per l’opera slava di Dvořák e di Janáček in particolare e che qui riesce a delineare in maniera memorabile il personaggio eponimo con una felice vocalità e una gustosa presenza scenica. Gli altri interpreti sono avvantaggiati dal fatto di essere tutti locali, ma devono dimostrare la loro abilità nel trasformarsi da avventori dell’osteria a manierati abitanti della Luna a patrioti. Il cast si rivela all’altezza del compito, sia il secondo tenore Daniel Matoušek (Mazal/Blankytný/Petňik) che Doubravka Novotná (la fidanzata Málinka/Etherea in stile Barbarella del coevo fumetto/la partigiana Kunka). Gran voce più che grande attore quella del basso Jan Šťáva (l’oste Würfl/il Presidente/il Consigliere), più convincente scenicamente il basso-baritono David Szendiuch (il Sagrestano/Lunobor/il Campanaro). Sottolinea l’elemento sinfonico della partitura più che la concertazione delle voci il direttore Marko Ivanović. Efficace l’apporto del coro del teatro spesso presente in scena.
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