Giuseppe Adami

Trittico

Giacomo Puccini, Trittico

Parigi, Opéra Bastille, 16 maggio 2025

★★★★☆

Un Trittico permutato per la diva

Turandot e Lauretta: quale cantante ha mai avuto in repertorio due ruoli così diversi affrontati negli stessi anni? Asmik Grigorian, la cantante per la quale molte certezze vanno in frantumi.

È costruito su di lei il Trittico proveniente da Salisburgo (2022) e ora all’Opéra Bastille dove cambia l’ordine degli atti unici in relazione all’importanza del ruolo dell’interprete femminile: prima Gianni Schicchi con la giovane Lauretta; poi Il tabarro con il sofferto personaggio di Giorgetta; per concludere Suor Angelica, la parte più impegnativa e lunga dell’atto tutto al femminile. Si realizza così una forte curva emotiva che va dalla commedia alla tragedia passando per il dramma più cupo.

Nel debutto all’Opéra National, col suo timbro un po’ scuro, il suo stile di canto intenso, l’interiorizzazione della parte, i lunghi fiati e gli acuti sempre funzionali all’interpretazione, la Grigorian caratterizza in modo molto personale tutti e tre i ruoli dando a Lauretta una dimensionale meno ingenua e adolescenziale di quella a cui siamo abituati nel magico momento di «O mio babbino caro», di Giorgetta «È ben altro il mio sogno» non lo abbiamo mai sentito così struggente mentre in Suor Angelica accumula una tensione inarrestabile a partire da un «Senza mamma» tutto sul filo della voce. Un’interpretazione che scatena il crescente entusiasmo del pubblico e che termina in una standing ovation non rituale nel teatro parigino.

Efficace il cast. Misha Kiria è un Gianni Schicchi di sapida presenza scenica e un umorismo ben equilibrato tra commedia e farsa; pregevole, con acuti un po’ faticosi il Rinuccio di Alexei Neklyudov; come Zita si fa notare Enkelejda Shkoza che ritroveremo nelle altre due parti; tra i parenti lo Scott Wilde di Simone, autorevole rivela una dizione perfettibile, meglio Dean Power come Gherardo e Lavinia Bini come Nella. Nel Tabarro il Michele di Roman Burdenko punta al tono verista mentre Joshua Guerrero delinea un Luigi di bei mezzi vocali; quasi espressionistico il Tinca di Andrea Giovannini e dolente il Talpa di Scott Wilde in coppia con la sensibile Frugola di Enkelejda Shkoza che ritroviamo come Zelatrice in Suor Angelica. Due glorie del passato per la Badessa (Hanna Schwarz) e la Zia Principessa (Karita Mattila) che compensano con la presenza scenica mezzi vocali non proprio più freschi. Alla testa dell’orchestra del teatro Carlo Rizzi fornisce un’esecuzione trascinante in questo accumulo di tensione drammatica esaltando parimenti la stupefacente abilità orchestrale del Puccini più maturo.

Il regista tedesco Christopher Loy svolge la narrazione di sogni irrealizzati e di occultamento della morte: il cadavere di Buoso e i desideri testamentali in Gianni Schicchi; il figlioletto morto e il delitto nascosto sotto un mantello ne Il tabarro; il figlio, anche lui morto, di Suor Angelica e le sue speranze di ricongiungersi nell’aldilà. La scenografa Étienne Pluss e la costumista Barbara Drosihn ci trasportano negli anni ’50 con una scena fissa formata da una grande stanza spoglia con un letto al centro. Il tono da commedia all’italiana è dato dai parenti seduti a mangiare spaghetti o dei due giovani Rinuccio e Lauretta che alla fine, dopo che tutti i parenti se ne sono andati cercando di arraffare qualcosa, si ritrovano sotto il piumone sul letto. Per Suor Anglica quel poco suggerisce che ci troviamo in un convento anche se nemmeno un crocifisso adorna le pareti tetre, un minuscolo “giardino” di piante in vaso funge da orto e semplici tavoli da superfici di lavoro per le attività quotidiane delle suore. Solo ne Il tabarro lo spazio del palcoscenico è diviso tra la chiatta di Michele sul molo e una serie di mobili che indicano i sogni domestici della moglie Georgetta. Ed è proprio Il tabarro l’atto migliore della regia di Loy, essendo la sua lettura dello Schicchi troppo legato a un’immagine frusta e stereotipata dell’ambientazione italiana come s’era già scritto per la produzione di Salisburgo e poco convincente il finale di Suor Angelica che si cava gli occhi ma “vede” il figlio redivivo. Comunque, come in tutti i suoi spettacoli è la cura nell’interpretazione attotriale il punto di forza, e tutti quanti, trascinati da Asmik Grigorian sembrano voler dare il massimo a questo proposito.

Manon Lescaut


 

foto © Simone Borrasi

Giacomo Puccini, Manon Lescaut

Torino, Teatro Regio, 1 ottobre 2024

★★★☆☆

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Cinéma Lescaut

L’omaggio del Teatro Regio di Torino a Puccini nel centenario della sua morte continua con Manon Lescaut, la sua terza opera dopo Le Villi e l’Edgar e la sua prima grande affermazione. Il lavoro debuttava con un clamoroso successo proprio in questo teatro il 1° febbraio 1893 e da allora è spesso presente nei suoi cartelloni. L’ultima volta fu nella stagione 2016-2017 diretta da Gianandrea Noseda con la regia di Borrelli che riutilizzò le scenografie di Thierry Flamand dello spettacolo del 2006 affidato al regista cinematografico Jean Reno. Alla Scala invece l’ultima fu la produzione di David Pountney (quella dei treni…) con la direzione di Riccardo Chailly nel 2019.

L’Histoire du chevalier des Grieux e de Manon Lescaut dell’abate Prevost (1731) aveva già ispirato la Manon Lescaut di Daniel Auber nel 1856 e la Manon di Jules Massenet nel 1884, per non parlare di un meno conosciuto lavoro del compositore irlandese Michael William Balfe (l’autore di The Bohemian Girl) dal titolo The Maid of Artois del 1836, che ebbe come protagonista Maria Malibran. Una curiosità del lavoro di Balfe è che lì c’è un lieto fine: la coppia nel deserto viene salvata. Nel Novecento c’è invece la riscrittura moderna di Hans Werner Henze, Boulevard Solitude (1952), la sua prima opera, in cui il fulcro della vicenda è però Armand des Grieux.

Note sono anche le vicissitudini del libretto, che alla fine è risultato avere ben sette padri, oltre ai citati Illica, Oliva e Praga ci misero mano anche Leoncavallo, Adami, Ricordi e lo stesso Puccini, tanto che nell’edizione a stampa è riportato «testi di autori vari», ma talora è indicato invece «di anonimo». Quello che ne è uscito fuori è piuttosto raffazzonato e con stucchevolezze settecentesche (il «senso dell’antico» sono state bonariamente definite) che i registi di oggi evitano come la peste. Vedi ad esempio la produzione di Jonathan Kent a Londra o di Hans Neuenfels a Monaco e prima ancora quella di Graham Vick a Venezia, anche allora diretta da Renato Palumbo. Così però l’ambientazione moderna fa a pugni con i cocchi, gli ostieri, i tricorni, i calamistri, la cerussa, il minio, la giunchiglia ecc. citati nel libretto…

E infatti è anche quello che fa Arnaud Bernard in questo particolare progetto “Manon Manon Manon” voluto dal sovrintendente del Regio Mathieu Jouvin di presentare in immediata successione le tre più note opere tratte dal testo di Prévost. 

Si parte dunque da quella di Puccini per risalire a quella di Massenet e infine a quella di Auber, allestite in una mini stagione che precede quella ufficiale che partirà il 23 novembre. Le tre opere hanno interpreti e direttori differenti, ma sono tutte affidate per la messa in scena allo stesso Bernard, che ha scelto come chiave di lettura il cinema, in particolare il cinema francese, in tre epoche diverse. Per la Manon Lescaut di Puccini sono i film degli anni ’30-’40, quelli del “realismo poetico” come Quai des brumes (Il porto delle nebbie, 1938) di Marcel Carné; Les enfants du paradis (Amanti perduti, 1945) ancora di Carné; La bête humaine (L’angelo del male, 1938) di Jean Renoir e ovviamente Manon (1949) di Henri-Georges Clouzot.

I riferimenti cinematografici nella messa scena di un’opera oggi non sono certo una novità: ricordiamo fra le tante le regie di Alessandro Talevi per La Cenerentola, di David Livermore per il geniale Ciro in Babilonia e il felliniano Il turco in Italia, La fanciulla del West di Robert Carsen o di Valentina Carrasco.  Ma lì era ricostruito il mondo della celluloide, lo spirito, più che la mera citazione di immagini cinematografiche – che occorre dosare giudiziosamente perché nella percezione la visione è preponderante sull’udito, ha una maggiore immediatezza e cattura prima l’attenzione dello spettatore.

Nella messa in scena di Bernard dominano, ovviamente, i bianchi e neri nei costumi di Carla Ricotti e nella scenografia di Alessandro Camera illuminata dalle luci di Fiammetta Baldiserri. Nel primo atto il piazzale di Amiens è l’interno di una movimentata stazione di autolinee con il confuso via vai dei tanti viaggiatori e qui l’incontro dei due giovani si perde nella molteplicità di scene e controscene sull’affollatissimo palcoscenico. Il secondo è l’elegante salone della casa di Geronte dove non c’è il letto con le “trine morbide”, ma uno schermo cinematografico per la proiezione di spezzoni di Les enfants du paradis e l’arrivo addirittura di Jean-Louis Barrault “Pierrot”per intrattenere la giovane annoiata.

Poi però le cose cambiano con l’intermezzo orchestrale del terzo atto, durante il quale le immagini di Jean Gabin, che bacia appassionatamente le sue innumerevoli partner cinematografiche, riempiono lo schermo mentre l’orchestra dipana le struggenti note. Tra il terzo e il quarto atto navi in balia delle onde rappresentano il viaggio verso l’America dei due sfortunati giovani, un intermezzo muto per lo meno pleonastico. Che poi la visione del mare in tempesta possa indurre un po’ di nausea nel pubblico non è da sottovalutare, ma di certo sembra avere avuto un effetto devastante su Manon, la quale lascia la piattaforma che rappresenta il deserto col video sul fondo di dune sabbiose a perdita d’occhio, avanza sola verso il proscenio ma appena intona una delle arie più strazianti del mondo dell’opera, riappare lo schermo su cui viene proiettato il film di Clouzot e la musica di Puccini si declassa a colonna sonora delle vicende interpretate dal giovane Des Grieux di Michel Auclair e dalla Manon bionda di Cécile Aubry. Una visione che è dir poco definire distraente: con la loro forza visiva l’attenzione dello spettatore è calamitata a scapito della prestazione del povero soprano al buio e schiacciato dalle immagini. Di certo non il miglior tributo alla musica di Puccini. 

Musica che viene eseguita da Renato Palumbo con tono trascinante, una concertazione precisa nelle animate scene di insieme e intensa negli ampi squarci sinfonici così come nei momenti più drammatici. La non felice acustica del teatro esalta il suono dell’orchestra a scapito delle voci e fa sembrare più sonoramente presente di quanto sia effettivamente la sua lettura, con i cantanti che talora faticano a farsi sentire. Non il Geronte di Carlo Lepore, che ha frequentato spesso la parte che risolve con eleganza, sottile ironia e mezzi vocali di prim’ordine. Il Des Grieux di Roberto Aronica non aveva convinto del tutto cinque anni fa alla Scala e ora il suo timbro non è migliorato e maggiori sono gli sforzi a raggiungere le note acute. Intatto invece è il generoso slancio con cui affronta il personaggio. Erika Grimaldi è una seria professionista con eccellenti doti vocali e intelligenza interpretativa con cui supera senza intoppi una parte altamente impegnativa, ma l’interpretazione manca di sensualità e passione e il suo «Sola… perduta… abbandonata!» non commuove. Sarà magari stata colpa del film che viene proiettato in contemporanea. 

Nel resto del cast si distinguono positivamente il sanguigno Lescaut di Alessandro Luongo, Giuseppe Infantino (Edmondo), Didier Pieri (lampionaio e maestro di ballo), l’Artista del Regio Ensemble Janusz Nosek (Oste e Sergente), Lorenzo Battagion (Comandante di marina), i madrigalisti e il coro istruito da Ulisse Trabacchin.

Pubblico caloroso con tutti gli artefici dello spettacolo e in special modo con la protagonista. Sabato sarà la volta della Manon #2, quella francesissima di Massenet. Riferimento cinematografico: Brigitte Bardot! 

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Bruxelles, Théâtre Royal de la Monnaie, 25 giugno 2024

★★☆☆

(diretta streaming)

Turandot continua a restare senza un finale

Nel 1924 Puccini a Bruxelles, dove era venuto per curare il suo tumore alla gola, moriva lasciando incompiuta Turandot. Cento anni dopo il teatro della capitale belga mette in scena il lavoro del maestro lucchese – l’ultima volta fu nel 1979, durante il regno di Gérard Mortier che non amava Puccini – in una produzione che ha destato qualche perplessità per la drammaturgia e l’ambientazione, non ultima l’aver affidato a una donna la parte dell’imperatore Altoum.

Prima che inizi l’opera con quelle quattro note strappate, sentiamo lontani ritmi da discoteca e vediamo una cameriera pulire il pavimento dal sangue mentre il volto di Liù, anche lei cameriera, è rigato di lacrime. Siamo nel ricco salone di un pent-house di un grattacielo di Hong-Kong – lo sappiamo dalle note del regista – in cui sono mescolati lusso e kitsch di gusto orientale, opere d’arte moderna e antichità cinesi. C’è una festa e gli invitati sono vestiti in modo esagerato, soprattutto le donne che sfoggiano abiti ridicolmente ingombranti. A sinistra una grande vetrata e una scala che porta a un ballatoio superiore. Sulla destra una porta e un salottino rotondo ricavato nel pavimento da cui esce una piattaforma circolare su cui saliranno i personaggi nei momenti topici della vicenda. Alla parete un quadro che sembra rappresentare un sesso femminile sanguinolento. La scritta al neon “entitled cunt” toglie il dubbio. Le mani e le braccia di una scultura in rilievo in alto a sinistra a un certo punto prendono vita mentre una specie di camino a forma di fauci di drago sputa fumo e fiamme aprendosi come una porta dell’inferno. Il regista si rivela un buon decoratore. 

Il “popolo di Pekino” è qui rimpiazzato da una società di miliardari annoiati che aspettano il brivido dell’esecuzione dei pretendenti della figlia della padrona di casa bevendo cocktails. Timur è anche lui uno degli invitati, così come Calaf, entrambi elegantemente abbigliati. I tre ministri di corte prima vestono le livree dei domestici, poi si presentano inopinatamente in smoking. Appare il principe di Persia, che viene spogliato e nudo entra in quella che sembra una camera delle torture dalla intensa luce rossa, ma che si rivelerà invece la camera da letto di Turandot – il che farebbe supporre dei risvolti inediti e imprevedibili della vicenda…

In quella camera si intrufola Calaf e ne esce estasiato dalla bellezza della principessa, che nel finale d’atto scende dall’alto nella sua regale maestà. Nel frattempo abbiamo fatto conoscenza dell’imperatore, o meglio della padrona di casa che sembra la matrigna cattiva che obbliga la figlia a giustiziare i pretendenti, sicuramente per mantenere il potere nelle sue mani – in totale contrasto con quanto però afferma nel libretto: «Un giuramento atroce [… ] basta sangue». Oppure no, la maltratta perché al contrario non cede al matrimonio. Chissà. Non è l’unica incongruenza incomprensibile di questa produzione.

Nel secondo atto la scena degli enigmi è grosso modo quello che ci si aspetta anche se insopportabilmente tutto statica. È nel terzo atto che le cose si complicano. Dopo la morte di Liù, che si getta dalla finestra, attacca il finale di Alfano, quello corto, senza Calaf però: la sua voce esce dal televisore mentre un corpo nudo e coperto di sangue esce dal quadro sulla parete: il principe di Persia, Calaf? Chissà, il mistero è nelle mani della scientifica della polizia che intanto è arrivata e arresta la ragazza, che fino a quel momento ha duettato con lo schermo televisivo. Nel finale ritorna l’enigmatica figura della padrona di casa che accede al piedestallo cilindrico che prima sale e poi si inabissa. Era dunque un ascensore interno?

Il regista Christophe Coppens, che si definisce artista multidisciplinare e designer, firma regia, scenografia e costumi, ma il gioco luci lo lascia al bravissimo Peter van Praet. Il ruolo di decoratore prevale su quello di regista che ha difficoltà a muovere le masse corali e lascia i personaggi senza personalità, gli interpreti sono abbandonati a loro stessi, l’azione è quanto mai inconcludente: quando Liù viene torturata, nessuno si muove per aiutarla, neanche Calaf che rimane al suo solito posto sulla sinistra, rivolto verso il pubblico. E quando Liù attraversa metà del palcoscenico per andare alla finestra nessuno, in una sala affollata di persone che bramano di sapere il nome di Calaf e con tanto di guardie armate, si muove di un centimetro per fermarla.

Rimpiazzando il previsto Kazushi Ono indisposto, il suo assistente Ouri Bronchti spinge un po’ troppo sul volume sonoro e fa perdere all’opera i suoi momenti magici. Quello che prevale è lo slancio teatrale e drammatico e sono sacrificate le mezze tinte. Anche il Calaf di Stefano La Colla esalta il volume, ma gli acuti sono forzati e la linea di canto perde di eleganza. Scenicamente poi è il più inespressivo e il meno convinto. Non molto diversa la situazione vocale della Turandot di Ewa Vesin, mentre come spesso avviene è Liù che vince, qui affidata al legato e al timbro soave di Venera Gimadieva che però stenta a commuovere. Inossidabile, ma scenicamente impacciato, il Timur di Michele Pertusi mentre come “Imperatore” invece di un tenore si ascolta il mezzosoprano Ning Liang. Dei tre dignitari di corte il più convincente è il baritono Léon Košavić, anche Mandarino. Il coro del teatro non è sempre preciso negli attacchi e anche qui si privilegia il forte. 

Si apprezza sempre quando un teatro cerca nuove strada, e il Théâtre Royal de la Monnaie si è sempre distinto in questo, ma questa volta il finale dell’opera incompiuta di Puccini, di per sé problematico, affidato a Christophe Coppens è risultato al di là di ogni plausibilità. Turandot a Bruxelles rimane un’opera aperta.

Turandot

     

Giacomo Puccini, Turandot

Milano, Teatro alla Scala, 4 luglio 2024

★★★☆☆

(diretta streaming LaScalaTv)

Mille lumini e un minuto di silenzio per Puccini

Il 25 aprile 1926 ci fu la prima della Turandot. Puccini era mancato da 17 mesi. Come sappiamo, Arturo Toscanini dopo la morte di Liù posava la bacchetta sul leggio e rivolto al pubblico diceva «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il Maestro è morto».

98 anni dopo nello stesso teatro e nello stesso momento della vicenda l’orchestra tace, sullo schermo circolare appare il ritratto del compositore e coristi e figuranti sul palcoscenico si mostrano con un lumino a led in mano. Lo stesso fanno gli spettatori in sala e nei palchi, ai quali era stato distribuito dalle maschere nell’intervallo tra secondo e terzo atto. Segue un minuto di silenzio e poi riprende il finale, il solito brutto finale di Alfano.

La Scala con questa produzione omaggia Puccini nel centenario della morte affidando la direzione d’orchestra a Michele Gamba che esegue la partitura con grande senso teatrale e drammatico e ampi livelli sonori più che attenzione ai particolari strumentali. Determinante si rivela il ruolo del coro magistralmente istruito da Alberto Malazzi mentre nel cast spiccano le voci femminili di Anna Netrebko e Rosa Feola. La prima è la Turandot di riferimento oggi per le magistrali intenzioni espressive, i formidabili sonori pianissimi, e pazienza se la voce è talora un po’ intubata e l’intonazione perfettibile. La sua presenza scenica e la definizione del personaggio, qui tutt’altro che gelida e ieratica ma donna complessa e tenera figlia, sono al momento quasi uniche nel panorama operistico. Anche la Liù di Rosa Feola è tutt’altro che lacrimevole, una donna di carattere che rende la sua morte ancora più commovente. Il timbro naturalmente d’argento e i legati rendono la sua performance indimenticabile. Il Calaf di Yusif Eyvazov è una presenza costante nell’ultima opera del compositore lucchese, sia che si tratti della tradizionalissima produzione dell’Arena di Verona che della contestata versione del russo Barkhatov al San Carlo di Napoli. Pregi e difetti della sua voce sono già stati ampiamente discussi. Autorevole è il Timur di Vitalij Kowaljow e insolito l’Imperatore, bonario vecchietto che entra in scena a braccetto con Calaf, con la voce cesellata di Raúl Giménez. Vengono invece dall’estremo oriente le tre maschere, scenicamente spigliate ma non sempre con limpida dizione, di Sung-Hwan Damien Park, Chuan Wang e Jinxu Xiahou, rispettivamente Ping, Pang e Pong.

Lo spettacolo di Davide Livermore pullula come al solito di moltissime idee, alcune non portate avanti, come quella delle tre maschere che qui la maschera la portano ed è quella col volto di Calaf poiché ne rappresentano lo sdoppiamento della personalità, ma questo solo la prima volta che entrano in scena. Personaggio muto sempre presente assieme a Turandot è quello di Lo-u-Ling, l’«ava dolce e serena» dalla quale nasce l’odio della «principessa di gelo» per il genere maschile. Nella sua regia Livermore fa dare il bacio fatale all’ava stessa e solo in quel momento Turandot è libera di amare Calaf. Tante altre sono le idee registiche che si esprimono in scene e controscene sviluppate con teatrale efficacia ma con un horror vacui quasi “zeffirelliano”.

Nella sua scenografia Livermore ingloba la tecnologia e la creatività di Paolo Gep Cucco, direttore creativo della D-Wok la società che rende virtuali le scenografie per i palcoscenici operistici fondendo analogico e digitale. Assieme a Eleonora Peronetti Cucco disegna una scenografia dominata da un gigantesco impianto video capace di creare una realtà aumentata sulla scena, in questo caso una Pechino dark in 3D alla Blade Runner proiettata su un ledwall di 12×9 metri. Un altro ledwall circolare serve per proiettare le riprese di materiali in slowmotion: pioggia, polvere, petali, inchiostri, foglie, fiamme, ripresi a 1400 frame al secondo per creare effetti di sospensione e magia e nello stesso tempo dare immagine al personaggio della Luna, tante volte invocata nel libretto. Con i costumi di Mariana Fracasso e le luci di Antonio Castro le simulazioni digitali mescolano corporeità e fantasia con dosi di suggestioni cinematografiche, tutto per ricreare la favola della vicenda ambientata «in Pekino, al tempo delle favole». Indubbia è l’eccellenza tecnica dimostrata dal regista, ma troppo invadenti risultano le azioni coreografiche che interessano il Principe di Persia e gli sgherri dell’Imperatore. E poi di mimi che sdoppiano i personaggi ne abbiamo abbastanza.

Trittico

foto @ Daniele Ratti

Giacomo Puccini, Trittico

Torino, Teatro Regio, 18 giugno 2024

★★★★☆

Coniugare tre volte la morte: il Trittico conclude in bellezza la stagione del Regio

Prima di arrivare al Trittico che conosciamo Puccini aveva preso in considerazione altri progetti. La sua intenzione era quella di accostare alla tradizionale opera in cui un unico soggetto viene sviluppato in più atti, tre atti unici diversi ma sottesi a un’idea unitaria. Era il caso del progetto pensato ai primi mesi del ‘900, ossia quello di mettere in musica i tre titoli della saga umoristica di Tartarin de Tarascon di Alphonse Daudet, o quell’altro preso in considerazione qualche anno dopo utilizzando tre novelle di Maksim Gor’kij, un progetto discusso con Valentino Soldani e Luigi Illica ma poi accantonato, anche se rimase qualcosa dell’ambientazione della prima novella, La zattera (due chiatte sul Volga), per la chiatta sulla Senna del Tabarro e anche la figura di donna fragile e infelice della seconda novella di Gor’kij, Ventisei uomini e una donna, forse lasciò qualche segno su Suor Angelica.

Bisogna arrivare però al 1912, quando a Parigi al Théâtre du Grand Guignol Puccini assiste al dramma in un atto La Houppelande (La palandrana) di Didier Gold – autore tra l’altro nel 1913 di una Histoire de Manon Lescaut – che gli sembrò di grande efficacia teatrale. Il secondo scomparto del trittico avrebbe dovuto essere affidato a Gabriele D’Annunzio e il terzo a Tristan Bernard, per realizzare così le tre parti di uno schema costituito di tre episodi contrastanti: «uno orripilante, uno sentimentale e uno farsesco». Affidato il libretto a Giuseppe Adami, Il tabarro non fu pronto se non alla fine del 1916 – nel frattempo c’era stata La rondine – mentre più veloce fu la composizione degli altri due atti unici, affidati questi alla penna di Giovacchino Forzano. Finalmente il Trittico debuttava a New York il 14 dicembre 1918, assente l’autore: nonostante la Grande Guerra fosse finita i viaggi in mare erano ancora molto difficoltosi e il Maestro preferì rimanere in patria per seguire la prima italiana al Costanzi un mese dopo, l’11 gennaio 1919. Dopo i primi contrastati giudizi, il Trittico di Puccini ha raggiunto una grande popolarità e ancora oggi è tra i suoi lavori più eseguiti, nonostante la difficoltà di mettere in scena in una stessa serata tre opere così diverse e con così tanti interpreti. 

Arriva ora al Teatro Regio di Torino a conclusione della sua stagione la produzione de La Monnaie del 2022 con la regia di Tobias Kratzer ripresa da Ludivine Petit. Rappresentato nella sua completezza, così come voleva l’autore, il Trittico permette di apprezzare tre opere differenti tra di loro ma mutualmente necessarie, tre visioni della vita (e della morte) interconnesse da sottili legami. Uno di questi è appunto la morte, che viene citata quattro volte nel Tabarro, cinque in Suor Angelica, curiosamente mai nel Gianni Schicchi dove il morto è sulla scena! In particolare la morte del bambino di Giorgetta e Michele («l’anno scorso là in quel nero guscio | eravamo pur tre… c’era il lettuccio | del nostro bambino») si lega a quella del bambino di Suor Angelica e questo particolare è messo in evidenza dal regista là quando le suore del monastero sfogliano con avidità le pagine di un giornaletto con la storia illustrata del Tabarro. E sono le immagini della maternità e della vita coniugale a destare la nostalgia delle recluse.

Diversamente da chi ha cercato di unificare l’ambientazione dei tre atti unici – Michieletto nel 2016 a Roma, Lotte de Beer a Monaco l’anno dopo – Kratzer fornisce di ognuno un’immagine visiva e un approccio del tutto differenti l’uno dall’altro: la scenografa Rainer Sellmaier, che firma anche i costumi, ricrea tre mondi completamente diversi per colore, taglio visivo, stile. Per Il tabarro sceglie di dividere la scena in sezioni, un po’ come aveva fatto Philipp Stölzl a Salisburgo per Cavalleria & Pagliacci: il ponte della chiatta, la misera stanza con le pareti di lamiera, la stiva, la riva con il lampione e le prostitute sono i riquadri di una graphic novel dai colori rossi e neri, alla Sin City di Frank Miller, come evidenziato dal carattere tipografico del titolo che campeggia in alto a sinistra.

Tutt’altra atmosfera per Suor Angelica: un palcoscenico vuoto con solo una lunga panca nel fondo che accoglie l’andirivieni delle monache mentre su uno schermo si proiettano le immagini in bianco e nero del monastero, delle celle, dei corridoi, del parlatorio. Immagini che prolungano la scena e dove i personaggi talora continuano in video quello che è iniziato dal vivo, o viceversa. Non proprio mistico, anzi ironico il finale. Nessuna apparizione mariana: il giornaletto trovato nella cella di una suora viene gettato nel caminetto ma una fiamma lambisce una sedia e dà fuoco alla stanza e poi all’intero convento. Ed è su uno sfondo di fiamme che vediamo la figura del figlioletto.

Come in uno zapping televisivo ci troviamo in un’ambientazione totalmente diversa per Gianni Schicchi: una gradinata per parte del pubblico e pochi pezzi d’arredamento moderno. Buoso Donati si versa un bicchiere di vino, rilegge compiaciuto il testamento che firma e nasconde nella busta del disco di Suor Angelica che sta ascoltando per poi essere colpito da un attacco di cuore e rimanerci secco. Invece del letto qui c’è la lounge chair di Charles Eames ad accogliere prima il cadavere di Buoso, poi il corpaccione di Gianni Schicchi per la burla che lo condanna all’inferno dantesco. Con un telecomando trovato per caso dall’alto scende una vasca – a Bruxelles, molto più opportunamente, usciva dal pavimento – piena di schiuma in cui si infilano allegri i personaggi e il crescendo comico è così esaltato a dovere dopo i drammi dei primi due titoli. Il pubblico fa parte dell’azione occupando la gradinata dello sfondo ed è invitato a interagire con «Oh!» di meraviglia, risate e applausi sollecitati da assistenti di scena dello studio televisivo in cui si immagina sia girato il reality show. Anche i testimoni del notaio Ser Amantio sono presi dal “pubblico”. Questo è lo spettacolo che Michele guardava sullo schermo della sua televisione nel Tabarro. Il cerchio così si chiude. Tobias Kratzer riesce a creare una messa in scena contemporanea mantenendo perfettamente leggibile la narrazione e il tono di ogni singola vicenda.

Note positive anche sul piano musicale dove la lettura di Pinchas Steinberg asseconda i pregi di queste tre partiture, che si scoprono ogni volta sorprendentemente moderne. La musica del Tabarro mette in primo piano «la signora Senna», con lo sciabordio dell’acqua sulle pareti della chiatta, qui un lento motivo ondeggiante che avrebbe potuto scrivere Debussy (viene alla mente Nuages, il primo movimento dei suoi Trois nocturnes) che disegna il pigro scorrere dell’acqua del fiume nella calura estiva. Poi i suoni si fanno più materici – i clacson delle imbarcazioni, le voci e i canti dalle rive, i miagolii dei gatti… – e l’orchestra assieme alle voci ci dà il Puccini più amato, quello dell’incontenibile slancio lirico del duetto di Giorgetta e Michele che si lasciano andare alla struggente nostalgia della loro Belleville prima del brusco tragico finale. Cambio d’atmosfera con Suor Angelica dove Steinberg adatta i suoni orchestrali all’ambiente claustrale in cui però scorrono brividi di una vita non vissuta nello struggimento di Suor Genovieffa per un agnellino o di Suor Dolcina per «un panierin di noci. Buone con sale pane!» (nella regia di Kratzer la suora affonda con voluttà le dita in un barattolo di Nutella…). Anche nel momenti più turgidi di possenti sonorità, il direttore israeliano riesce a mantenere la trasparenza dell’orchestra e la varietà dei sette episodi che scandiscono la via crucis di Suor Angelica: La preghiera, Le punizioni, La ricreazione, Il ritorno dalla cerca, La zia Principessa, La grazia, Il miracolo. Ancora cambio di tono per l’episodio di Gianni Schicchi, dove lo humour nero del libretto trova nella musica di Puccini un insolito corrispondente, anche se sono gli squarci lirici di «Firenze è come un albero fiorito» e di «O mio babbino caro» a fissare indelebilmente nella memoria questo gustosa farsa. Momenti adeguatamente sottolineati dalla sapiente direzione di Steinberg. 

Buona parte dei numerosi interpreti è presente in due dei tre titoli come Roberto Frontali che dopo il brusco Michele nel Tabarro, riprende il Gianni Schicchi interpretato nel film di Michieletto, un personaggio costruito per sottrazione, scevro di stucchevoli effetti, ma ancora più efficace. Elena Stikhina, prima Giorgetta, poi Suor Angelica, dimostra grande espressività con il suo strumento vocale messo duramente alla prova nella seconda parte con risultati giustamente premiati dall’entusiasmo del pubblico. Samuele Simoncini è un Luigi introverso dai generosi mezzi vocali piegati a una efficace definizione del personaggio. Annunziata Vespri è una Frugola forse un po’ troppo querula, meglio come Suora zelatrice. Il bel timbro e la presenza scenica di Roberto Covatta si evidenziano prima come Tinca e poi come Gherardo. Gianfranco Montresor (Talpa in Tabarro) diventa lo stralunato Simone anche lui tentato dalla Jacuzzi in Gianni Schicchi. Lucrezia Drei evidenzia il suo chiaro luminoso mezzo vocale in ben tre parti: Una giovane amante, Suor Genovieffa, ma soprattutto come Lauretta riscuote un meritato successo dopo «O mio babbino caro». Matteo Mezzaro dopo essere stato Un giovane amante, interpreta un trascinante Rinuccio col pandoro in mano e l’acuto ben proiettato. E infine tre signore della scena lirica hanno dato il loro prezioso contributo come La gelida zia principessa di Anna Maria Chiuri in outfit di lusso sbattuto in faccia alle povere suore, La badessa riconoscibile fin dalle prime note di Monica Bacelli e la Zita dell’inossidabile Elena Zilio.

Tra gli artisti del Regio Ensemble che ormai hanno raggiunto grande sicurezza vocale e vivace presenza scenica ci sono Irina Bogdanova (in tre parti: Voce di sopranino, Prima sorella cercatrice e Nella; Ksenia Chubunova (Suor Dolcina); Tyler Zimmerman (Betto). Si fanno ancora notare per il bel timbro e l’espressività Enrico Maria Piazza (Venditore di canzonette) e Andres Cascante (Marco).

Solido entusiasmo alla recita degli under 30 con un pubblico attento, partecipe, educatissimo e senza tosse… Innumerevoli le chiamate da parte di giovani che sembrano rivelarsi più preparati di certi abbonati. Chissà, il pubblico di domani forse sarà migliore di quello di oggi.

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Vienna, Staatsoper, 16 dicembre 2023

★★★★

(video streaming)

A Vienna Turandot è vista attraverso gli occhiali di Freud 

Turandot ha aperto la stagione del San Carlo di Napoli, ancora Turandot chiude l’anno dell’Opera di Stato viennese. Nello stesso giorno in cui la Scala inaugura con uno spettacolo che è stato definito un «concerto in costume» per l’assenza quasi totale di regia, Vienna ne mette invece in scena uno in cui la regia, affidata a un regista come Claus Guth massimo esponente del Regietheater, è tra gli elementi più caratterizzanti della produzione. 

Anche se l’ultima opera di Puccini fu presentata a Vienna appena sei mesi dopo la prima della Scala del 1926, non è così frequentemente eseguita nei teatri austriaci – Turandot è stata vista la prima volta a Salisburgo solo nel 2002 – ma ora il teatro sul Ring ha fatto le cose in grande, arruolando i due cantanti più richiesti del momento: Asmik Grigorian, debuttante nel ruolo del titolo, e Jonas Kaufmann, molto atteso dopo il periodo di problemi di salute e anche lui debuttante scenicamente nel ruolo dopo averlo cantato a Roma in forma di concerto. 

Con la scenografa Etienne Pluss, Guth concepisce una pièce da camera di un’attualità senza tempo, lontana da qualsiasi decoro pseudo-cinese: una scatola bianca che diventa anticamera e poi camera da letto di Turandot, la quale non è la principessa mistica e orgogliosa di molte produzioni, ma una donna traumatizzata che è stata vittima di un uomo e ora rivolge la sua aggressività verso l’esterno, diventando lei stessa carnefice. Guth tenta così di decifrare la fiaba dal punto di vista psicologico con un costante riferimento a Sigmund Freund e Franz Kafka, alternando realismo e simbolismo. I video della Rocafilm mostrano una Turandot gigante dietro una lastra di vetro smerigliato su cui viene spalmato sangue e Liù ha quattro sosia nel primo atto mentre Timur, cieco che cammina con un bastone, sembra invece uscito da una produzione più tradizionale. 

Nella camera da letto di Turandot, luogo di politica e di punizione dove una donna delle pulizie cancella la macchia di sangue dell’esecuzione precedente, la principessa è accovacciata nel suo letto, circondata da quattro comparse in abiti rosa e con teste di bambole bianche sovradimensionate che riflettono il suo non voler uscire dallo stato di adolescente. Il fatto che la principessa Turandot ponga tre indovinelli irrisolvibili ai pretendenti e raccolga le loro teste tiene occupata la burocrazia del regno del terrore: le teste mozzate vengono pesate, catalogate e raccolte in scatole. Ursula Kudrna veste la corte di questo regime totalitario con abiti/uniformi che ricordano la Corea del Nord ma anche figure Playmobil, con la stessa parrucca rossa, occhiali, abito verde menta. Figure che si muovono meccanicamente, ingranaggi di una macchina burocratica kafkiana mentre le grandi porte doppie rinforzate in acciaio richiamano quelle dell’appartamento di Freud nella Berggasse.

Turandot è una sposa che non adotta il passato come un mantello protettivo, ma si sente intrappolata in un momento terribile della sua vita, un momento in cui matrimonio e stupro sono una cosa sola. Asmik Grigorian dimostra ancora una volta la sua classe: quello di Turandot può essere un ruolo vocalmente pericoloso per lei ma, come per la sua Salome, l’intelligente interpretazione si avvale di un timbro dai colori luminosi in un insieme del tutto convincente. Delle sue doti di attrice non si discute, così come della sua capacità magnetica di riempire la scena.

Riesce a tenere il passo il Calaf molto umano di Jonas Kaufmann, stralunato in questo mondo grottesco e oppressivo. Più che un conquistatore spavaldo, il suo Calaf si presenta come un compagno sensibile che tende la mano a una donna in lotta con i suoi dèmoni. Kaufmann non si risparmia vocalmente, gli acuti di tradizione ci sono tutti, ma è soprattutto nelle mezze voci che si ammira la sua grande espressività.

Anche il terzo personaggio decisivo dell’opera, la serva Liù, viene reinterpretato dalla prospettiva di Guth: la schiava che si sacrifica per amore non è qui una vittima, a differenza di Turandot, ma una donna forte e fiera, mai lagnosa come talora vien interpretata Liù. Vestita di nero, è anche la controparte della bianca ed eterea Turandot e la voce sontuosa e di grande proiezione del soprano russo Kristina Mkhitarian si conforma magnificamente a questa lettura. Il prezioso cast vocale è completato dal meno decrepito del solito Altoum di Jörg Schneider, dal Timur autorevole di Dan Paul Dumitrescu, dal Mandarino di Attila Mokus e dal vivace trio di maschere formato da Martin Häßler (Ping), Norbert Ernst (Pang) e Hiroshi Amako (Pong).

La sontuosità zeffirelliana che manca nell’aspetto visivo dello spettacolo la ritroviamo a livello sonoro nella magnificenza orchestrale dei Wiener sotto la sicura guida di Marco Armiliato. che ha sostituito il previsto e indisposto Hans Welser-Möst. La bellezza e modernità della partitura è mirabilmente messa in evidenza dagli strumentisti e dal magnifico coro. Armiliato esegue il finale di Alfano originale, non quello ridotto da Toscanini e da lui utilizzato a partire dalla seconda rappresentazione. Il lungo finale chiarisce le varie fasi che il rapporto tra Turandot e Calaf deve ancora superare per raggiungere un’unione credibile e Claus Guth coglie l’occasione per unire psicologicamente i protagonisti: una volta che si sono professati il loro reciproco amore, il matrimonio viene immediatamente celebrato in modo burocraticamente ufficiale, con sedie poste a metri di distanza l’una dall’altra. Calaf è sconcertato, Turandot non ce la fa più, lo afferra e fugge con lui in un gioioso e inaspettato happy ending.

Il conservatore pubblico dello Staatsoper alla prima rappresentazione sembra abbia contestato la regia di Guth, ma questa si è rivelata una delle produzioni più interessanti degli ultimi anni, dove la profondità di lettura è pari all’eccellenza della realizzazione. D’altronde, è piaciuta anche a Enrico Stinchelli!

Lo spettacolo è stato trasmesso in diretta dalla Radio Televisione Austriaca.

Turandot

Giacomo Puccini, Turandot

Napoli, Teatro di San Carlo, 9 dicembre 2023

★★★★☆

(video streaming)

Da Pechino all’abbazia di San Galgano

Quinta inaugurazione di stagione dei maggiori enti lirici italiani: dopo Torino, Venezia, Roma e Milano, c’è quella del San Carlo di Napoli, l’unico teatro a celebrare in apertura il centenario della morte di Puccini mettendone in scena la Turandot. Diversamente dal tempio della lirica milanese di due giorni prima, il teatro napoletano sa osare, sia nella direzione musicale sia in quella registica. Dopo il Rossini di Bieito, quello che fa più scalpore in questo Puccini è infatti la regia di Vasilij Barkhatov, quarantenne moscovita attivo tra i tanti teatri di Mosca, il Mariinskij di San Pietroburgo e la Lituania, dove ha conosciuto e poi sposato la cantante Asmik Grigorian. 

Dopo aver messo in scena con successo Čajkovskij e Prokof’ev, per il suo debutto italiano Barkhatov ha scelto l’ultima opera di Puccini con una drammaturgia che si stacca decisamente dall’ambientazione (invece di Pechino l’interno dell’abbazia in rovina di San Galgano ricreata dallo scenografo Zinoviy Margolin), dall’epoca (siamo nella contemporaneità), dalla mera vicenda suggerita dal libretto. Una drammaturgia che sicuramente può sconcertare ma ha una sua logica: il livello fiabesco della favola del Gozzi (presente nei costumi di Galija Solodovnikova) è solo uno dei due livelli con cui Barkhatov racconta la storia, l’altro è l’universo reale di due innamorati che al ritorno da un funerale (quello del vecchio Timur) discutono sul rifiuto della donna (Turandot) di sposarsi (con Calaf). In auto hanno un incidente e da qui si hanno varie possibili alternative (come nel film Sliding Doors): sopravvive lei (primo atto), oppure lui (secondo atto), oppure entrambi (terzo) e nel video finale si vede che lei sembra accettare la proposta di matrimonio. Dopo tanta morte un vero happy ending.

Ricca di simbolismi (l’abbazia di San Galgano è il luogo dove si svolge il finale di Nostal’gija, il film del 1983 di Andrej Tarkovskij), kolossal e divertente – come quando Altoum entra in scena tempestato di gemme in una bara di cristallo su una barca (simbolo ricorrente della morte) condotta da due guardie in kilt e maschera di Halloween – la lettura di Barkhatov prende strade bizzarre che portano lontano dalla Cina «al tempo delle favole». All’inizio del primo e secondo atto una citazione letteraria – prima il canto III dell’Inferno di Dante, poi il tema di Orfeo ed Euridice da Le metamorfosi di Ovidio – in cui domina il tema della morte, precede un video in cui vediamo gli ultimi istanti prima dell’incidente d’auto. Sospesi tra vita e morte, Calaf e Turandot alternativamente rivivono la storia raccontata dalla fiaba a modo loro. Nella dimensione fiabesca entrano spesso, e talora “a muzzo”, scendendo dall’alto, l’auto dell’incidente a portiere spalancate e la camera di rianimazione nel cui lettino si alternano lui o lei. Che la camera di ospedale richiami quella di Puccini gravemente ammalato dove si era portato la partitura di Turandot senza terminarla è una facile supposizione, così come il suicido di Liù, qui la prima fidanzata sedotta e abbandonata da Calaf, la cui coincidenza con la vecchia vicenda della giovane cameriera Doria Manfredi, probabile amante di Puccini anche lei suicida, fa venire i brividi.

Nonostante tutto, quello che avviene in scena non disturba la musica e la direzione di Dan Ettinger si fa ammirare per la tensione, la lucidità, la modernità esaltata di una partitura che guarda costantemente al futuro nelle scelte musicali che rimandano ad atmosfere ben al di là dell’epoca: quasi stravinskiani sono certi secchi attacchi orchestrali o passaggi dalla dubbia tonalità. Mirabilmente sottolineato è il cambiamento del colore strumentale quando entra in scena Liù nell’ultimo atto: la sua presenza riesce a cambiare il mondo verso la redenzione d’amore, anche se qui è evidente che Turandot aveva finto di non amare Calaf, facendo di tutto per suggerirgli la risposta finale nella scena degli enigmi. 

La proposta del regista russo non mette in imbarazzo gli interpreti, anzi nelle interviste si dichiarano a loro agio. Sondra Radvanovsky dichiara che la produzione «è moderna ma a suo modo tradizionale»… Sovente frequentata, la sua Turandot è sicura, potente, espressiva, a tre dimensioni, una vera donna. Peccato per la dizione: le sue prime parole sono infatti «In questa retta, or son mil’anni e mile». Anche lui habitué della parte, Yusif Eyvazov è un Calaf romantico e particolarmente convincente come personaggio, non fa solo sfoggio di acuti e il suo «Nessun dorma» non scatena un meritato applauso a scena aperta solo perché Ettinger prosegue con decisione. Prima però Eyvazov si era preso il suo momento tenendo a lungo la corona sulla prima o di «e all’alba morirò». Timur di lusso è Alexander Tsymbalyuk, re usurpato di grande nobiltà, ma come avviene spesso gli applausi più calorosi del pubblico vanno a Liù, qui una Rosa Feola di grande sensibilità e linea vocale ineccepibile. Meno soddisfacente il terzetto delle maschere di Ping (Roberto de Candia), Pang (Gregory Bonfatti) e Pong (Francesco Pittari). Glorioso Calaf degli anni passati, l’ottantenne Nicola Martinucci dà voce al vecchio imperatore Altoum. Cori impegnati con buoni risultati, sia quello di voci bianche diretto da Stefania Rinaldi, che quello diretto da Piero Monti.

Pubblico unanime per gli applausi diretti agli interpreti musicali, diviso per il regista e i collaboratori. Come sempre. Il video dello spettacolo è disponibile su RaiPlay e su  youtube. Una bella differenza tra la presentazione televisiva offerta dai soliti Carlucci e Vespa a Milano, meno dilettantesca e “gaffosa” questa di Stefano Catucci ed Elena Biggioggero e senza le interviste ai soliti noti, anche se sarei stato curioso di sentire l’opinione sullo spettacolo del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca presente nel palco reale…

La rondine

 

foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Giacomo Puccini, La rondine

Torino, Teatro Regio, 22 novembre 2023

★★★★☆

La rondine, una riscoperta

La “maledizione” di essere definita un’operetta ha perseguitato La rondine per molto tempo, tanto da farla diventare la meno popolare delle sue opere. È vero che era stato Franz Lehár a presentare Puccini agli impresari del Karl Theater di Vienna per scrivere un’operetta e l’ingaggio era cospicuo, ma il compositore non riusciva ad adattarsi alla forma con i recitativi parlati: in Puccini il flusso sonoro che al momento opportuno diventa una romanza è l’essenza stessa del suo teatro musicale. Con l’approvazione del teatro La rondine poteva diventare un’opera lirica e Giuseppe Adami, il futuro librettista del Tabarro e della Turandot, venne cooptato per scrivere il testo. Ma era il 1914, e la Storia avrebbe reso tutto più difficile, soprattutto per il compositore di un paese che era entrato in guerra contro l’Austria. Tra dubbi e tentennamenti la composizione comunque andava avanti e nella primavera del 1916 l’opera era terminata. Ma dove presentarla in un mondo sconvolto dalla Grande Guerra? La soluzione fu trovata dall’editore Sonzogno, che programmò il debutto nel Principato di Monaco, unica oasi di pace in quel marzo 1917.

In questa “commedia lirica” Puccini si diverte a introdurre motivi musicali come il valzer per alludere all’epoca in cui si svolge la vicenda, il Secondo Impero in Francia, ma essendo compositore attento ai suoi tempi ci sono momenti in cui si avvicina alla pratica jazzista o ai ritmi di fox-trot, per non parlare dell’ironica citazione del corno inglese della Salome di Richard Strauss, quando Prunier elenca le donne ideali degne di lui: «Galatea, Berenice, Francesca, Salomè!…». Quello del rapporto tra Puccini e Strauss è un capitolo molto interessante. Anche se suo rivale, nel maggio 1906 Puccini era andato a sentire la sua Salome a Graz, sedendo in sala assieme a Mahler, Zemlinsky, Schönberg e Berg, praticamente il gotha dei compositori di allora. Ma la musica de La rondine sarà tutt’altra cosa. Come ricorda Guido Marotti nel suo Giacomo Puccini intimo, una sera del 1924 dopo aver suonato al pianoforte il preludio del Tristano, aveva gettato via il volume dicendo: «Basta di questa musica! Noi siamo dei mandolinisti, dei dilettanti: guai a noi se ci lasciamo prendere! Questa musica tremenda ci annienta e non ci fa concludere più nulla!…» e la critica salutò La rondine come il ritorno all’ordine di un «buon toscano, che ha l’aria di sfamarsi a un tratto di cibi paesani […] dopo essersi guastato lo stomaco con dei cibi esotici ed artefatti».

Ora a noi poco importa di queste antiche polemiche e il pubblico accorso al Regio di Torino è uscito soddisfatto da uno spettacolo che ha convinto soprattutto per la direzione di Francesco Lanzillotta che di questa partitura ha messo in evidenza la raffinatezza di scrittura e le soluzioni armoniche à la page per i tempi. La versione scelta è quella originale, mentre al Regio nel 1994 era stata scelta la versione del 1921 con le parti mancanti del terzo atto orchestrate da Lorenzo Ferrero. La rondine è opera famosa quasi solo per un’aria, la prima dell’atto primo, «Chi il bel sogno di Doretta | poté indovinar?» enunciata prima da Prunier e poi fatta sua da Magda, uno dei pezzi per soprano più famosi del teatro pucciniano, modernamente concepito con un’introduzione al pianoforte solo e poi con interventi parlati (un’allusione all’operetta?). Lanzillotta ricrea questa musica con i suoi sublimi ritardandi, gli spunti melodici prima accennati e poi ripresi in tutto il loro trascinante fascino, l’intrecciarsi elegante dei temi. L’orchestra danza sotto le sue mani, gli strumenti fanno a gara in leggerezza e trasparenza, talora sembrano appena sussurrare. Chi aveva dei dubbi sulla qualità di questo lavoro si è dovuto ricredere dopo la resa magistrale del maestro concertatore

E poi c’è il canto di conversazione, che rende naturale il testo tutt’altro che entusiasmante di Adami, che però è perfettamente integrato nella musica. Questa produzione torinese si avvale di due cast. Nella replica del 22 novembre la parte di Magda è affidata a Ol’ga Peretjat’ko, diva che si atteggia a diva con una recitazione manierata e una vocalità in cui il timbro leggermente metallico e un’articolazione della parola che risente dell’accento slavo non riescono a rendere particolarmente empatico il personaggio. La classe e l’eleganza certo non difettano, sulla sicurezza vocale non si discute, ma circola un’aria di freddezza in scena con lei. Non del tutto convincente è il Ruggero di Mario Rojas, voce generosa ma un po’ in difficoltà in certi passaggi acuti. Meglio il Prunier di Santiago Ballerini, spigliato vocalmente e scenicamente, con una sicura linea espressiva e già ammirato nel repertorio della zarzuela. Ottima prova la fornisce Valentina Farcas, vivace Lisette. Il baritono Vladimir Stoyanov è Rambaldo, l’altro baritono Matteo Mollica veste i panni di Périchaud e Rabonnier e negli altri numerosi ruoli ritroviamo gli Artisti del Regio Ensemble: il tenore Paweł Żak (Gobin e Adolfo), il basso Rocco Lia (Crébillon e Maggiordomo), il soprano Amélie Hois (Yvette e Georgette), il soprano Irina Bogdanova (Bianca e Lolette) e il mezzosoprano Ksenia Chubunova (Suzy e Gabriella). Preciso e pimpante si dimostra il coro istruito da Ulisse Trabacchin, che sta portando a un eccellente livello la compagine del teatro.

La vicenda de La rondine può ricordare quella della Traviata, soprattutto nelle situazioni: il dopo festa del primo atto, il rifugio in campagna del terzo, e per l’amore impossibile, ma qui è donna, la mantenuta del marchese Rambaldo, a lasciare volontariamente il giovane. Dopo la sbandata, le attrazioni della vita ricca vincono su tutto e è proprio la lettera della madre di Ruggero, che le prospetta un’esistenza mediocre con pargoli e sotto lo sguardo della suocera, a far decidere Magda per la libertà. Nel secondo atto se l’atmosfera da Bullier ricorda il secondo atto della Bohème da Momus – con le sue grisettes, le fioraie, i camerieri, gli studenti – la servetta Lisette che si reca al ballo con gli abiti della padrona richiama invece l’analoga situazione del Fledermaus, un’altra operetta!

Il regista Pierre-Emmanuel Rousseau sceglie di ambientare la vicenda nel 1973, proprio l’anno dell’apertura del Nuovo Regio. In omaggio all’architetto Mollino la scenografia del secondo atto riprende esattamente lo stile e i particolari del foyer del teatro. Nel primo e terzo atto invece, il decoro in oro e nero si rifà a certi lussuosi ambienti di Yves Saint-Laurent dove non arrivano gli slogan delle manifestazioni studentesche e i personaggi vestono come per una sfilata di alta moda. Scene e costumi sono disegnati dallo stesso Rousseau che per il quadro da Bullier veste come un torero Ruggero (un’altra allusione alla Traviata?) mentre Magda, che secondo il libretto dovrebbe essere travestita da ragazza semplice tanto da non essere riconosciuta neppure dalla sua cameriera, qui sfoggia un sontuoso abito da sera. La trasgressività del Bal Bullier è risolta dal regista pensando al Palace di Parigi, con drag queen e ballerini di vogueing, che però in realtà verrano qualche decennio dopo. Incongrui sono anche i tatuaggi del tenore a torso nudo e braghe corte. Questi scarti temporali non hanno frenato comunque il pubblico dagli applausi.

Con La rondine si concludono i titoli lirici per quest’anno: il dicembre del Regio è dedicato come sempre alla danza.

Turandot

 

Giacomo Puccini, Turandot

Salzburg, Großes Festspielhaus, agosto 2002

★★★☆☆

(registrazione video)

Gli spettatori del Festival di Salisburgo incontrano per la prima volta Turandot

Puccini non è proprio tra i compositori più frequentati dal più blasonato festival del mondo di musica classica e lirica: rinato alla fine della Prima Guerra Mondiale, solo nel 1989 Karajan porterà a Salisburgo la sua Tosca, e ci vorranno altri tredici anni per questa Turandot. Il punto di forza dello spettacolo sta nella messa in scena di David Pountney poiché né la concertazione di Valerij Gergiev né gli interpreti sono all’altezza del loro compito.

Alla testa dei Wiener Philharmoniker Gergiev non sembra voglia dare il meglio di sé: la sua direzione è dura e impostata solo su fortissimi e pianissimi e con agogiche estreme. Uno dei pochi meriti di Gergiev – se è davvero suo e non del regista – è l’aver scelto il finale di Berio, rappresentato pochi mesi prima ad Amsterdam da Chailly e da Lehnhoff, che riproporranno lo spettacolo, con una diversa messa in scena, alla Scala. Dall’ascolto però non sembra che poi sia tanto convinto della scelta.

Turandot è Gabriele Schnaut dai suoni duri, frasi slegate, acuti stremati e una “recitazione” da cinema muto. Di recitazione non si parla certo per Johan Botha, che si sposta da una sedia all’altra ed esibisce una voce sforzata nel registro alto e fioca in quello centrale. Christian Gallardo-Domâs sarebbe una convincente Liù se non fosse per il tono un po’ lamentoso e il vibrato eccessivo. Sul Timur di Paata Burchuladze meglio sorvolare mentre neanche i tre ministri si salvano dal punto di vista vocale. Come Altoum si ascolta un glorioso Robert Tear, per niente efficace il Mandarino di Robert Bork. Per di più la dizione è al limite dell’accettabile e non conta che siano tutti stranieri: ci sono dei cantanti non italiani che possono darci lezione di pronuncia della nostra lingua.

Peccato perché lo spettacolo offerto visivamente da David Pountney è notevole: senza ricorrere a una Cina di maniera, il regista inglese si ispira al film Metropolis di Fritz Lang per elaborare il timore che negli anni ’20 i progressi tecnici sarebbero sfuggiti dal controllo e avrebbero portato all’inghiottimento e sfruttamento dell’individuo in un’enorme massa grigia. Le spettacolari scenografie di Johan Engels trasformano gradualmente uno «stato disumano capace solo di uccidere» in uno stato di umanità. Meccanismi in movimento e ruote dentato coprono l’intera enorme larghezza del palcoscenico del Großes Festspielhaus qui popolato da umani robotizzati, chi con un braccio chi con una gamba trasformata in arto meccanico – sega, o chiave inglese, forbici… In proscenio due grandi robot col viso di maschera cinese, e le cui gambe e braccia sono mosse con pertiche, rappresentano il Mandarino e l’Imperatore. Spettacolare il secondo atto: una moltitudine di statue rosse – il riferimento all’esercito di terracotta di Xian è evidente – con dietro ognuna un corista assiste alla scena degli enigmi con Turandot celata con un velo di nove metri all’interno di una gigantesca testa dorata. Quando Calaf risolve il terzo indovinello, la testa si schianta e la irraggiungibile principessa scende a livello del palcoscenico assumendo un aspetto fragile. Alla morte di Liù si spoglierà della sua veste e resterà con una veste bianca uguale a quella della schiava che si è uccisa mettendo il pugnale nelle mani di Turandot.

Con la morte di Liù cambia tutto: la musica, innanzitutto, con le note di Berio, ma anche perché tutti perdono gli arti meccanici assumendo un aspetto più umano e si abbracciano. La regia di Pountney è piena di momenti felici, come quando Turandot e Calaf lavano il cadavere di Liù, riempiendo così quei lunghi minuti dell’interludio strumentale di Berio. Forse sarebbe uno spettacolo da riproporre, non sembra per niente invecchiato nel tempo.

Turandot

   

Giacomo Puccini, Turandot

Ginevra, Grand Théâtre, 22 giugno 2022

★★★☆☆

(video streaming)

Turandot, femmina castratrice

Ho scoperto (santa ingenuità!) che il finale di Turandot è scelto dal regista, non dal maestro concertatore, ma questa volta sono d’accordo con Daniel Kramer: «Il finale di Alfano è Disney, saccarina, non mi interessa. Non credo che Turandot si sciolga in cinque secondi e “vissero felici e contenti” in un regno macchiato di sangue». Ecco quindi che il regista americano opta per il finale di Berio, molto più adatto alla sua lettura in un mondo distopico con il rituale degli enigmi che diventa un gioco alla Hunger Game in cui uomini cercano di risolvere tre indovinelli e se vincono hanno la principessa, il regno, tutto quanto, me se perdono… beh lo sappiamo, anche se qui non è la testa che viene mozzata, bensì gli attributi virili, ai quali hanno già rinunciato i tre ministri e il mandarino, qui eunuchi, ma non gli energumeni a torso nudo che infestano questa società in cui il popolo è in alto dietro un velino bianco e solo alla fine viene liberato, dopo che i tre si sono accoltellati vicendevolmente e anche gli uomini cattivi sono stati fatti fuori. Per Calaf i tre enigmi formano una specie di viaggio personale dove incoraggiamenti e ostacoli si alternano per fargli conquistare la principessa: lui non è ancora pronto per lei, esattamente come Turandot non è pronta per Calaf.

La regia di Kramer è molto complessa e attenta ai risvolti psicologici e ai rapporti interpersonali: molto tesi quelli tra Calaf e il padre Timur, il quale alla fine lo addita come colpevole della morte di Liù e si trafigge lui stesso, o tra Turandot e Calaf dopo la vittoria di quest’utimo, con lui che guarda con compassione lo smarrimento della donna. Con il finale di Berio diventa drammaturgicamente più accettabile la conversione della principessa di gelo e il loro vivere in pace dopo tanto spargimento di sangue.

La scenografia del Team Lab – un collettivo artistico internazionale, un gruppo interdisciplinare di vari specialisti (artisti, programmatori, ingegneri, animatori di computer grafica, matematici e architetti) la cui pratica collaborativa cerca di navigare alla confluenza di arte, scienza, tecnologia e mondo naturale – restituisce a Turandot quella spettacolarità spesso predominante nelle produzioni dell’ultima opera di Puccini. Qui è coniugata tecnologicamente con raggi laser, luci colorate e proiezioni psichideliche di onde, nuvole e fiori ipercolorati secondo il dominante gusto giapponese. Sulla solita piattaforma rotante una struttura triangolare divisa in scomparti serve vari ambienti mentre in alto un geode cavo dorato serve all’apparizione di Turandot: ad ogni risposta esatta si abbassa e alla fine la donna è costretta a scendere e spogliarsi del manto dorato, uno dei tanti fantasiosi costumi disegnati da Kimie Nakano – tra cui quello di giada di Calaf.

La magnificenza visuale ha un corrispettivi sonoro nella concertazione di Antonino Fogliani alla guida della Orchestre de la Suisse Romande, che esalta la magnificenza strumentale dell’opera con tempi sostenuti e gusto dei particolari. Fogliani riesce a rendere meno evidente la cesura stilistica fra la musica di Puccini e il completamento di Berio: qui le lunghe frasi liriche lasciano posto a un’orchestrazione più frammentata che lascia emergere citazioni tematiche da un pulviscolo sonoro di grande modernità mentre il pathos è ora affidato da Berio a lunghe pagine strumentali. Dopo un avvio un po’ incerto il coro, formato dall’unione di quello del teatro e della Maîtrise du Conservatoire populaire, raggiunge ottimi livelli, aiutato dal fatto di cantare compatto e praticamente fuori scena. Meno esaltante il cast dei solisti con Ingela Brimberg autorevole protagonista titolare ma con acuti talora sforzati e non a suo agio nei salti di registro dei suoi primi interventi, un po’ meglio nel finale. Il Calaf di Teodor Ilincăi è il ruolo meno convincente, nonostante la sicura presenza scenica del tenore rumeno che evidenzia un timbro un po’ ingolato, una certa mancanza di colori risolti tutti in forte e mezzo-forte e incertezze di intonazione. Anche la Liù di Francesca Dotto difetta nei piani, ma il temperamento del soprano compensa largamente nel definire il tono lirico del personaggio. I tre ministri hanno in Simone Del Savio (Ping), Sam Furness (Pang) e Julien Henric (Pong) tre interpreti efficaci, soprattutto vocalmente Del Savio, divertenti e divertiti visto quello che richiede loro il regista. A loro modo importanti anche le tre parti minori di Altoum, a cui dà personalità la figura di Chris Merritt, del Timur di Liang Li e del Mandarino a cui Michael Mofidian presta inusuale rilievo scenico e inusuale potenza vocale.