William Shakespeare

Hamlet

foto © Daniele Ratti e Mattia Gaido

Ambroise Thomas, Hamlet

Torino, Teatro Regio, 13 maggio 2025

★★★★☆

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Amleto tenore. E che tenore!


Hamlet di Ambroise Thomas torna al Regio nella versione originale per tenore, con John Osborn intenso protagonista. Direzione elegante di Jérémie Rhorer, che valorizza la trasparenza e la ricchezza timbrica dell’orchestrazione. Splendide Clémentine Margaine e Sara Blanch. Regia di Jacopo Spirei, visionaria e coerente. Successo travolgente per uno degli spettacoli migliori della stagione.

Il maggior interesse per questo Hamlet, a parte la rarità di esecuzione, per lo meno qui in Italia, sta nel fatto che il personaggio del titolo non è un baritono, come si è sempre ascoltato, bensì un tenore. 

Infatti, la sera del 9 marzo 1868 all’Opéra Le Peletier, Hamlet fu il baritono Jean-Baptiste Faure, ma il compositore Ambroise Thomas aveva concepito il ruolo del protagonista per tenore, come dimostra la partitura originale scoperta recentemente, ma poi non avendo trovato un tenore che fosse all’altezza di quanto richiedeva, aveva preferito adattare la parte per uno dei più rinomati baritoni dell’epoca e da allora si sono succedute voci gravi per intonare «Être ou non être». Dopo i recenti Sir Simon Keenlyside, Stéphane Degout e Ludovic Tézier, a interpretare il triste principe di Danimarca sulle tavole del Regio sale il tenore americano John Osborn, ammirato dal pubblico torinese ne La fille du régiment esattamente due anni fa. Ma oltre alla curiosità del cambio di registro del protagonista, quello che si rivela è uno spettacolo imperdibile per la direzione orchestrale, l’eccellenza dei cantanti e la travolgente messa in scena, un insieme che fa di questo il migliore spettacolo della stagione fino a oggi.

«Il y a deux espèces de musique: la bonne e la mauvaise. Et puis, il y a la musique d’Ambroise Thomas» (Ci sono due tipi di musiche: la buona e la cattiva. E poi c’è quella di Thomas) è la tagliente battuta di un Emmanuel Chabrier geloso della popolarità presso il pubblico borghese della musica facile e melodiosa del rivale, però ci fu anche la sincera ammirazione di un compositore certo non accomodante come Berlioz. D’altronde Thomas collezionò i maggiori riconoscimenti della sua epoca: Prix de Rome nel 1832, Chevalier de la Légion d’honneur nel 1845, elezione all’Académie des Beaux-Arts nel 1851, professore di composizione al Conservatoire de Musique nel 1856 e poi direttore nel 1871 e infine la Grand-Croix nel 1891, in occasione della millesima rappresentazione della Mignon, l’altra sua opera che ha superato il giudizio del tempo, e anche questa come Hamlet di nobili origini letterarie, il Goethe de Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister.

Dopo la trionfale prima del 1868, l’opéra lyrique di Thomas, naturale evoluzione del genere grand-opéra su temi letterari invece che storici o religiosi, conquistò sempre più i palcoscenici dei teatri mondiali grazie al favore accordatagli da voci mitiche. Un relativo abbandono si ebbe a partire dagli anni ’20, ma dagli anni ’80 del secolo scorso – rimarrà celebre la registrazione con Richard Bonynge, Sherill Milnes e Joan Sutherland del 1984 – ne avviene la riscoperta e da allora innumerevoli sono le riproposte. L’ultima volta di Hamlet a Torino fu nel 2001 con un giovane Tézier nel ruolo eponimo e la Ophélie di Annick Massis, la concertazione e la regia furono dei fratelli Joel, rispettivamente Emmanuel e Nicolas. Per la prima volta l’opera veniva rappresentata in forma scenica in francese nel nostro paese, dove comunemente veniva utilizzata la versione in italiano di Achille de Lauzières.

A parte il suo fascinoso melodizzare – qui il tema del duetto «Doute de la lumière, | doute du soleil e du jour» diventa il rapinoso motivo ricorrente in tutta l’opera – è l’orchestrazione di Hamlet a sorprendere, specialmente nel reparto dei fiati: nel breve preludio che vuole evocare la mente del tormentato principe, bellissimo è l’intervento del corno mentre in quello che precede la scena notturna sugli spalti di Elsinore è il trombone a dipin­gere efficacemente l’atmosfera. Saranno ancora i fiati i protagonisti del­la musica della pantomima, i tromboni al­l’inizio del terz’atto e il clarinetto al quarto. Per non parlare del corno inglese nell’aria di Ofelia o dell’assolo di sassofono che introduce la recita dei guitti, la prima volta che lo strumento, inventato pochi anni prima, è usato in un’opera lirica. Per non parlare dei momenti di gloria delle trombe nelle tante fanfare che introducono le scene di corte.

Grande esperto del repertorio francese sia classico che contemporaneo, Jérémie Rhorer sa mettere in luce le qualità della partitura esaltandone la trasparenza, ma senza rinunciare al taglio drammatico della tragedia scespiriana qui reinterpretata da un francese dell’Ottocento che del Bardo conosceva al più poche opere in traduzioni spesso discutibili. Rhorer ci restituisce il gusto di un’epoca con grande eleganza e una concertazione attenta che evidenzia gli strumentisti del Regio impegnativi in numerosi assoli o in pieni orchestrali dalla sonorità sontuosa e brillante. Alcuni tagli – il coro dei commedianti nel terzo e dei contadini nel quarto – concentra le ragioni del dramma, rende più fruibili le quattro ore di musica e contrastanti i colori dei quadri, ora tragici ora puro divertissement. 

Umbratile, introverso, il carattere di Amleto è stato indissolubilmente legato al timbro di baritono, ma con il registro tenorile il personaggio acquista una maggiore fragilità assieme però a una dimensione di baldanza eroica adatta al brindisi «Ô vin, dissipe la tristesse». Il ruolo non richiede gli acuti spinti in cui eccelle il tenore americano, che qui si può concentrare su un bel suono misto, mezze voci delicate, un fraseggio da manuale e declamati dove ogni parola ha il suo significato espressivo. Specialista del repertorio francese, Osborne sfoggia anche un’ottima dizione. Esaltante è il duetto con la madre, qui Clémentine Margaine, un mezzosoprano di grande temperamento ed eccezionale proiezione vocale con cui delinea il complesso personaggio di Gertrude. Altro pilastro di eccellenza della serata è l’Ophélie di Sara Blanch, che nella attesa e celeberrima scena della pazzia non si trasforma in macchinetta di puri virtuosismi vocali, ma pur eseguendo alla perfezione le agilità richieste mantiene la drammaticità della scena che così non diventa un elemento di discontinuità nel racconto, anche grazie alle scelte registiche di cui parleremo. Riccardo Zanellato è un Claudius corretto ma un po’ incolore, di lusso invece il Laërte di Julien Henric, parte troppo breve per godere del timbro luminoso e della eleganza del tenore lionese. Breve ma decisiva anche quella dello Spettro del re morto, affidata alla voce declinante ma sempre molto personale e qui particolarmente efficace di Alastair Miles. Alexander Marev (Marcellus), Tomislac Lavoie (Horatio), Nicolò Donini (Polonius), Janusz Nosek (Primo becchino) del Regio Ensemble e Maciej Kwasnilowski (secondo becchino) completano il glorioso cast messo insieme per questa produzione. Non ultimo è da segnalare l’esemplare lavoro fatto dal coro, istruito da Ulisse Trabacchin, qui in una delle sue prove migliori.

Il regista Jacopo Spirei legge Hamlet senza cercare di trasformarla nella tragedia di Shakespeare, accettando cioè gli aspetti romantici dati al lavoro dai suoi autori, il che non vuol dire trascurare il carattere tragico della vicenda e gli aspetti psicologici dei suoi personaggi. È un viaggio nella mente del principe danese, quasi sempre in scena, fin dal preludio dove osserva tristemente il cadavere del padre in un obitorio délabré. Subito dopo il sipario si alza sulla sala principale della reggia di Elsinore, elegante ma sontuosa, che lo scenografo Gary McCann adibisce a scena unica grazie a sipari che scendono a definire nuovi spazi. Ma non ci sono gli spalti del castello battuti dal vento: l’apparizione dello spettro avviene con il padre che gioca a palla in un campo di fiori con Hamlet e Ophélie bambini in un tramonto infuocato, questo a sottolineare che quello che vediamo è quanto passa nella mente del giovane principe.

Nella scena della rappresentazione dei guitti, mascheroni da sfilata di carnevale entrano in scena per rappresentare i tre personaggi della pantomima, mentre bianchi veli avviluppano Ophélie nel momento del suicidio. Una schiera di comparse vestite di nero si presentano a sipario aperto con in mano un libro, forse di quella filosofia di Orazio che non vede che «There are more things in heaven and earth», figure che continueranno a frequentare la scena assieme a fanciulle vestite di bianco, quasi a compensare la mancanza del tradizionale balletto. Una sottile vena di humour nero pervade la lettura di Spirei, evidente nella scena del cimitero del quinto atto, qui l’obitorio visto all’inizio, con cinici becchini affacendati attorno a innumerevoli cadaveri, anche quello di Ophélie che ricomparirà nel finale, dove Hamlet trafitto dalla spada si fa guidare dalla mano del padre per uccidere Claudius per poi salire su un cavallo a dondolo, simbolo della sua infanzia in qualche modo negata, per essere incoronato da una corte inorridita. 

Con gli acconci costumi di Giada Masi (dove Ophélie con la gonna di tulle porta anfibi maschili…) e le accorte luci di Fiammetta Baldiserri, Spirei mette in scena uno spettacolo di grande impatto visivo e grandemente apprezzato dal pubblico giovanile della recita a loro dedicata. Un pubblico attentissimo, partecipe, entusiasta e anche competente, che ha coperto di applausi scroscianti gli interpreti di Hamlet, Ophélie e Gertrude e il direttore. Un pubblico a cui manca solo la puntualità per essere perfetto.

 

Macbeth

 

foto © Roberto Ricci

Giuseppe Verdi, Macbeth

Parma, Teatro Regio, 26 settembre 2024

★★★★☆

Il Macbeth di Parigi, in francese, inaugura il Festival Verdi

Sei anni fa ci aveva fatto conoscere Le trouvère, la versione francese de Il trovatore. Quest’anno il Festival Verdi per inaugurare la sua XXIV edizione, intitolata “Potere e Politica”, mette in scena il Macbeth nella versione di Parigi del 1865 e in francese, anche se dal titolo questa volta non si capisce. Era stata eseguita in forma concertistica all’aperto al Parco Ducale nel 2020 durante la pandemia e registrata su CD, mentre nel 2018 al Teatro Regio era stata allestita la versione del 1847.

Dopo aver esaurito le opere del compositore a cui è dedicato, un festival deve approfondirne la conoscenza con le versioni meno popolari o desuete, oltre che metterle in scena in produzioni non banali. Entrambi gli scopi sono raggiunti da questa produzione del Macbeth con la regia di Pierre Audi, la concertazione di Roberto Abbado e un cast di grande livello. La revisione di Candida Mantica si basa sull’edizione critica di David Lawton.

La versione di Parigi, ma cantata in italiano, non è una novità per il pubblico: molto spesso quello che viene proposto sulle scene è un mix delle due versioni, ossia la seconda senza i ballabili e con l’inserimento del finale della prima versione. Oltre a piccoli cambiamenti per adattarsi alla prosodia francese, sostanziali sono le differenze tra le due versioni, quella del 1847 alla Pergola di Firenze e quella di diciotto anni dopo al Théâtre Lyrique di Parigi. Per questa nuova versione Verdi chiede l’intervento del Maffei per poi far trasporre tutto in francese da Charles Louis Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont. Accanto a piccoli cambiamenti di termini, importanti sono la sostituzione della cabaletta di Lady Macbeth del secondo atto «Trionfai! securi alfine | premerem di Scozia il trono» con l’aria «La luce langue» che diventa qui «Douce lumière». Nella versione del 1865 Macbeth si trova accanto la moglie anche nel terzo atto, dove le narra il responso delle streghe e assieme decidono di sterminare Macduff e prole e di cercare il figlio di Banco per ucciderlo. A questo fine la cabaletta di Macbeth solo in scena «Vada in fiamme, e in polve cada» viene sostituita dal duetto tra Macbeth e Lady Macbeth «Heure de mort e de vengence». Sempre nel terzo atto furono inoltre inserite le danze per adeguarsi alle convenzioni teatrali parigine. Nel quarto atto il coro «Patria oppressa» diventa una scena e coro e cambia la morte di Macbeth, che nella prima versione avviene fuori scena dopo che ha cantato «Mal per me che m’affidai | ne’ presagi dell’inferno!», mentre nella seconda abbiamo l’aria «Mais à jamais pourtant | par le crime ma vie | sera flétrie!», poi il duello tra Macduff e Macbeth con la morte di quest’ultimo in scena. Diverso anche il coro finale dei soldati «Un jour brillant rayonne». In questa versione il ruolo propulsivo della Lady, che in quella del 1847 si esauriva a metà del dramma, è molto più evidente: qui la coppia agisce in simbiosi, un organismo indissolubile, e i due coniugi diabolici muoiono in parallelo dopo un flusso di coscienza, irrazionale quello di lei, razionale quello di lui.

Il diverso tono delle seconda versione, la “tinta” come diceva Verdi, è individuato da Roberto Abbado, lo stesso dell’esecuzione del 2020, alla testa della Filarmonica Arturo Toscanini con l’Orchestra Giovanile della Via Emilia per la banda interna, nella corsa inarrestabile verso la catastrofe del protagonista, uno slancio drammatico di grande tensione realizzato con un ampio range dinamico e con l’orchestrale sempre pronta a realizzare le intenzioni direttoriali. Ammirevole è l’impegnativa prova del coro del teatro istruito da Martino Faggiani e particolarmente godibili i ballabili, per la qualità dell’accompagnamento strumentale e la coreografia di Pim Veulings che ha coinvolto in una specie di pantomima i due protagonisti al proscenio, mentre in secondo piano un Macbeth ballerino se la vede con ben tre Lady danzanti.

Il giovane baritono Ernesto Petti, debuttante nella parte, delinea un Macbeth dominato dalla moglie ma dai notevoli mezzi vocali, un bel timbro, un declamato chiaro e una grande espressività. Nella maturazione di questo giovane cantante si prevede un interprete di spessore e la conferma sarà probabilmente lo Gérard del prossimo Andrea Chénier a Torino. Aveva saltato la prova generale per un’indisposizione, ma si è presentata alla prima in piena forma Lidia Fridman, Lady Macbeth dal timbro non particolarmente bello, in linea quindi con quanto richiesto dall’autore, ma di grande temperamento. Qualche modulazione meno aspra, qualche passaggio di registro meno discontinuo sarebbe stato apprezzato maggiormente, ma così il suo fraseggio frastagliato definisce vocalmente quello che la figura scenica del soprano russo, ormai quasi italiano, suggerisce visivamente: una figura imponente che sovrasta il marito, l’elemento dominante di questa coppia senza figli. Luciano Ganci dà grande slancio, forse anche troppo, a Macduff nell’aria finale mentre come Malcom si ascolta un sicuro David Astorga. Bene anche le figure minori della Comtesse di Natalia Gavrilan e il Médecin di Rocco Cavalluzzi. 

E infine Banquo, che smette di cantare già a metà del secondo dei quattro atti, ma Michele Pertusi lascia la sua impronta indelebile anche in questa prova in francese dove ogni parola ha il suo senso teatrale, il fraseggio è senza pari, la presenza scenica imponente. È l’unico italiano del cast che con la sua lunga frequentazione di titoli francesi sembra essere nato sui bordi della Senna. Sarà anche perché è di qui, ma gli applausi più calorosi del pubblico sono proprio per lui.

La messa in scena di Pierre Audi è a dir poco austera e cupa, i movimenti sono quasi stilizzati e la recitazione minimalista. Qualche particolare non convince: far leggere la lettera («Je les vis apparaître au jour de la victoire») dalla Lady in presenza del marito – e nello stesso momento farle dire al servitore che annuncia l’arrivo del Re Duncan: «Macbeth l’amène?» – è un errore anche drammaturgico. Qui la Lady deve essere sola con i suoi propositi criminali nel coinvolgere il marito. Complessivamente comunque lo spettacolo convince ma non trascina, è curato ma freddo, come spesso accade con le produzioni del direttore del Festival di Aix-en-Provence. Nella scenografia di Michele Taborelli dei primi due atti la riproduzione della sala del Regio e le tende rosse ricordano il meta-teatro del Don Giovanni di Carsen, poi l’impianto scenico cambia, con delle grate che suggeriscono la gabbia in cui si stanno rinchiudendo i due assassini. Una piattaforma che sale e scende nel mezzo del palcoscenico aggiunge una dimensione alla staticità dell’impianto: qui si inabissa il cadavere di Duncan e risale già nella bara poco dopo. Senza particolari guizzi la realizzazione della scena delle apparizioni e quella delle ondine e silfidi con i giovani allievi di Professione Danza. Nel finale durante il coro finale Macduff gioca con la sedia facendola ruotare come avevano fatto le streghe. Audi vuole forse suggerire così la precarietà del potere?

Ottimo il gioco luci di Jean Kalman e Marco Filibeck e più che appropriati i costumi di Robby Duiveman, elegantissimi all’inizio, poi più dimessi. Certo che vestire la Fridman è facile: col suo fisico e la sua altezza sembra sempre pronta per una sfilata in passerella. Meno facile per gli uomini, eccetto per Pertusi che sfoggia sempre un’invidiabile eleganza innata.

Il caloroso esito con applausi prolungati per tutti gli artefici dello spettacolo, compreso il regista una volta tanto, dimostra l’opportunità di operazioni come queste nel proporre titoli largamente conosciuto in vesti parzialmente inedite, ma conferma anche che il francese è di rigore solo per le opere di Verdi nate in questa lingua, come Les vêpres siciliennes o il Don Carlos. E non è solo questione di abitudine: l’italiano del Macbeth è ben più incisivo della pur pregevole traduzione di Nuitter e Beaumont.

Amleto

© Ennevi Foto

Franco Faccio, Amleto

Verona, Teatro Filarmonico, 22 ottobre 2023

★★★

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«Essere o non essere! codesta la tesi ell’è»

Tra un mese il Mefistofele di Arrigo Boito aprirà la stagione lirica romana, ma intanto al Filarmonico di Verona è possibile scoprire un altro lavoro di quegli anni, ispirato questa volta non a Goethe ma a Shakespeare, «la grande attualità del melodramma» come scrive Boito nel 1865 pensando al Macbeth di Verdi andato in scena a Parigi ad aprile e al suo libretto dell’Amleto con musica di Franco Faccio presentato a Genova il 30 maggio. Boito ha 23 anni, Faccio 25, entrambi sono veneti e appartengono al movimento della Scapigliatura, sono giovani, irruenti e si arruoleranno entrambi nel corpo dei volontari di Garibaldi in occasione della Terza Guerra d’Indipendenza. Il frutto del loro lavoro non ha però il successo sperato e sei anni dopo viene presentato in una versione piuttosto rimaneggiata alla Scala di Milano il 9 febbraio 1871. Ma è un fiasco ancora maggiore e l’indisposizione dell’interprete titolare, il tenore Mario Tiberini, è la scusa per ritirare il lavoro, che non verrà mai più rappresentato. Per Faccio è anche la decisione di abbandonare per sempre la composizione e dedicarsi solo alla direzione d’orchestra. 

L’Amleto è stato ripreso ad Albuquerque nel 2014 nell’edizione critica di Anthony Barrese e poi a Bregenz nel 2016 in una produzione disponibile in video. Ora ritorna nella città natale del compositore come prima esecuzione italiana in tempi moderni preceduta da un’interessante tavola rotonda ospitata a Palazzo Maffei in Piazza delle Erbe, dove esperti hanno discusso delle peculiarità di un lavoro che rappresenta un unicum nella storia dell’opera italiana nella sua traduzione della drammaturgia scespiriana e nella restituzione teatrale delle teorie della Scapigliatura. Non ultima è la sua difficoltà di esecuzione legata alla parte vocale estremamente impegnativa del personaggio principale per di più quasi sempre presente in scena. 

L’Amleto è opera ambiziosa, velleitaria ma piena di un’energia giovanile che cerca ispirazioni ad ampio raggio – Verdi, Wagner, la grandiloquenza del grand-opéra, ma anche il lirismo di Gounod – con risultati inediti e a loro modo personali. Chi ha voluto l’opera ha dovuto affrontare un primo problema: della versione scaligera si è perso il quarto atto, manca dagli archivi Ricordi. Quella qui proposta è una versione spuria: i primi tre atti sono del 1871 e il quarto del 1865. Il secondo problema era quella del reperimento dell’interprete titolare, ma la scelta del tenore Angelo Villari per la prima e per l’ultima recita (si alterna con Samuele Simoncini nelle altre due recite) ha giustificato questa attesa ripresa grazie alle qualità vocali dell’interprete. Il suo ruolo anticipa quelli della Giovane Scuola (soprattutto Giordano) e il cantante, che ha in repertorio Ponchielli, Mascagni, Cilea, Respighi, affronta con agio una tessitura che si può definire sadicamente impervia. Villari esibisce una voce sonora, un timbro squillante e di grande proiezione, uno scavo della parola e un fraseggio efficace, ma diversamente dall’Amleto introverso e straniato di Pavel Černoch dell’edizione di Bregenz, il suo è virile e deciso, anche troppo, la figura quasi mussoliniana e il turbamento del personaggio di Shakespeare, la sua cinica ironia qui sono assenti. Per contrasto, ancora più intensa, trepidante ed emozionante è l’Ofelia di Gilda Fiume che domina perfettamente la lunga scena della pazzia. Anche lei si alterna nelle recite con un altro soprano, Eleonora Bellocci. 

La regina Geltrude nel libretto di Faccio ha un momento di pentimento assente in Shakespeare, «Ah! Che dissi? Io rea, che il padre | spensi al figlio e tolsi il trono, | non son madre, ah non son madre!…», che Marta Torbidoni intona con grande intensità e voce ricca di risonanze gravi. Dei molti altri interpreti alcuni sono più convincenti di altri, ma tutti dipanano con efficacia teatrale la lingua artificiosissima di Boito, qui più scapigliato che nelle successive opere di Verdi. Nel suo Amleto tocca le vette dello sperimentazione e della ricercatezza linguistica: «Con impaziente foja abbandonava la sposa del magnanimo defunto nell’adre braccia di quel drudo! […] All’arsiccio gorgozzule bramoso una felice innaffïata […] Eccovi tutto grullo e incamuffito!». Fortunatamente il cast è interamente italiano è una sbirciata al vocabolario risolve il problema di comprensione.

L’orchestra della Fondazione Arena di Verona dà ottima prova sotto la guida di Giuseppe Grazioli che ha sostituito il previsto Alessandro Bonato. Senza nulla togliere dell’esuberanza a tratti ingenua della partitura, ne fornisce una lettura antiretorica che ha i momenti migliori nelle pagine puramente strumentali dei preludi e della marcia funebre di Ofelia, un lungo solenne brano che ha preso la strada dei concerti sinfonici ed è la pagina più conosciuta dell’opera. Anche il coro, istruito da Roberto Gabbiani, si è dimostrato all’altezza della prova.

Alla sua prima regia lirica Paolo Valerio non delude ma neanche esalta: il suo è un impianto minimalistico che fonde elementi tradizionali, quinte, tende, frange, con le proiezioni di Ezio Antonelli in modo sobrio. Se i movimenti del coro sono impacciati, meglio vanno i personaggi principali e gli attori della pantomima trasformati in marionette. Efficaci le luci di Claudio Schmidt mentre poco caratterizzati si rivelano i costumi di Silvia Bonetti, che rimandano agli anni tra le due guerre in cui il regista sembra voler ambientare la storia. Ma lo spettro del padre di Amleto si presenta in un’incongrua armatura!

Un pubblico molto partecipe e generoso di applausi a scena aperta ha decretato col suo entusiasmo che l’Amleto di Faccio può entrare nel repertorio. E si sa, il pubblico ha quasi sempre ragione…

   

Falstaff

Giuseppe Verdi, Falstaff

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 20 agosto 2023

★★☆☆☆

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Falstaff a Salisburgo: tutti gabbati, soprattutto il pubblico

Sono due i titoli verdiani in programmazione al Festival di Salisburgo quest’anno ed entrambi tratti da Shakespeare: del Macbeth si è scritto, il Falstaff è affidato a una coppia di collaudata scuola tedesca: Ingo Metzmacher e Christoph Marthaler. Il primo non è propriamente un direttore verdiano, il secondo un regista apprezzato in passato in alcune produzioni. Ma non in questa.

Nei recenti allestimenti dell’ultimo ineffabile capolavoro di Verdi, le letture hanno oscillato tra la comicità e la malinconia. Un esempio della prima è stata la produzione di Barrie Kosky con la sua irresistibile comicità teatrale, della seconda la messa in scena di Damiano Michieletto ambientata nella casa di riposo per artisti di Milano. Marthaler sceglie una strada diversa, quella della decostruzione cara al Regietheater con una drammaturgia del tutto aliena all’opera e criptiche citazioni, qui cinematografiche, che solo le note di regia possono rivelare. Il programma di sala dunque come libretto d’istruzioni per decrittare una regia? Grazie, no.

Dopo che il sipario si è aperto – e impiega quasi mezzo minuto sullo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus – si vedono i tre distinti ambienti della scenografa Anna Viebrock che ha disegnato anche i costumi. A sinistra le poltrone di una sala di proiezione, al centro uno stanzone/set cinematografico con pareti mobili, a destra un esterno di motel con sedie a sdraio e una piscina, senz’acqua ma con prevedibili materassi sul fondo per attutire le continue e ripetute cadute di personaggi. Nella piscina/Tamigi non cadrà però Falstaff, bensì il regista del film, un tipo che la pancia ce l’ha – il vero Falstaff invece si rifiuta di portare l’orrenda protesi – e che ha le sembianze di Orson Welles. Infatti di questo si tratta: il regista americano nel 1965 gira il suo Falstaff e lo interpreta rivestito di un’armatura con cui appare alla fine dell’opera. Un esercizio intellettualistico che non porta però da nessuna parte. Che cosa c’entra con Verdi e la sua musica? Per di più la realizzazione è tutt’altro che ben fatta, con i personaggi che si muovono a caso – quando si muovono e non stanno impalati con le mani in tasca. In modo alieno all’umorismo della vicenda si accumulano gag inutili e distraenti: oltre a quelle delle cadute, davvero troppe, ci sono quelle delle ceste; quella della acrobata che si avviluppa nel cavo elettrico; della coppia Cajus e Bardolfo i quali dopo il matrimonio che li ha uniti non la smettono di abbracciarsi e sbaciucchiarsi felici. Se non è umorismo di bassa lega questo…

Dopo un prologo muto, vediamo i personaggi leggere le loro battute ai leggii ma una telecamera li riprende (?) senza costumi (?) in un ambiente anonimo mentre il regista dalla sua sedia dà ordini. Presto però le macchine da presa spariscono ma gli interpreti agiscono come se stessero continuando a provare, anche se con sempre minor convinzione. Se all’inizio l’idea poteva avere uno spunto di qualche interesse, poi però il giochino si sfalda, diventa noioso e il finale, inconcludente, totalmente privo di magia fiabesca e ironia, è tra le cose peggiori.

Non tanto meglio va la parte musicale, con un direttore corretto ma lontano dallo spirito del lavoro, i concertati non hanno rilievo, i passaggi polifonici sono torbidi, le voci sono spesso coperte: Falstaff nel primo atto quasi non si sente travolto dal volume orchestrale. Dov’è la leggerezza della partitura? Persa è la trasparenza del gioco strumentale che accompagna gli arguti dialoghi di Boito. Qui è tutto greve, piatto, senza ironia. Regista e direttore riescono a distruggere l’impalcatura con cui si regge la mirabile costruzione dell’ultima opera di Verdi.

Sulla carta c’era un cast di prim’ordine, con due tra i più intelligenti interpreti di oggi: Gerald Finley, nella parte eponima, e Simon Keenlyside, due artisti di area anglosassone a loro agio nel teatro di Shakespeare. Il primo però sembra spaesato in tutto questo bailamme e per di più ha accusato dei problemi alla gola che non sembrano del tutto risolti, e infatti la voce sparisce dietro il muro di suono innalzatogli contro dall’orchestra. Il secondo è più a suo agio e riesce a dominare meglio la scena, ma non è un Ford memorabile, manca il gusto della parola tagliente nel monologo «È sogno o realtà?». Meglio le donne che a un certo punto cercano di prendere in mano la situazione con Alice (una bravissima Elena Stikhina) che si installa sulla sedia del regista. Assieme a Tanja Ariane Baumgartner (Quickly) e Cecilia Molinari (Meg) si forma un terzetto ben affiatato vocalmente. I due giovani, Nannetta e Fenton, trovano nella fresca voce di Giulia Semenzato e Bogdan Volkov due interpreti efficaci. Così come lo sono il Bardolfo di Michael Colvin e il Pistola di Jens Larsen. 

Nota finale: la political correctness è arrivata, inesorabilmente anche qui: le parole del libretto «Affiderei | la mia birra a un tedesco, | tutto il mio desco | a un olandese lurco, | la mia bottiglia d’acquavite a un turco» nelle traduzioni tedesca e inglese dei sopratitoli sono totalmente ignorate per non urtare le rispettive  sensibilità nazionali!

Delle reazioni finali del pubblico allo spettacolo non so dire: mi sono alzato e me ne sono andato appena è stato possibile. Uscendo ho sentito applausi frammisti ad alcuni buu.

Macbeth

Giuseppe Verdi, Macbeth

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 19 agosto 2023

★★★★☆

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La scossa del Macbeth di Warlikowski al Festival di Salisburgo

Mentre qui in Italia ci trastulliamo in provinciali polemiche su regie “tradizionali” e regie “moderne”, il più blasonato festival del mondo impiega solo i più “discussi” registi di oggi: Martin Kušej (Le nozze di Figaro), Christof Loy (Orfeo ed Euridice), Christof Marthaler (Falstaff), Simon Stone (The Greek Passion), Krzysztof Warlikowski (Macbeth). Certo non sono tutti spettacoli memorabili, anzi qualcuno è proprio brutto (due su cinque…), ma c’è comunque chi paga 465 € per una poltrona in platea e le sale sono sempre piene – e parliamo di oltre 5200 posti ogni sera nei tre teatri principali. Alla faccia della crisi dell’opera! 

Molta era l’attesa per la nuova produzione del “polacco terribile” dell’opera di Verdi: quelle di Warlikowski sono come un ottovolante: una corsa mozzafiato tra alti e bassi da cui non si esce indenni, come in questo Macbeth, che a momenti di grande teatro fa seguire altri meno convincenti, ma nel complesso è un’esperienza che lascia il segno. Che è quello che dovrebbe sempre fare il teatro.

Lo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus sembra ancora più esteso orizzontalmente nell’impianto scenografico di Małgorzata Szczęśniak, con una lunghissima panca di legno, come nella vecchia sala d’attesa di una stazione ferroviaria. Un video mostra in bianco e nero una madre che allatta un bambino. Una donna, la Lady, siede sulla panchina a destra, un uomo, Macbeth, all’altra estremità. Poi da sinistra entra una stanza dove donne bendate formulano oracoli, mentre da destra entra la cabina di un medico e una videocamera accompagna la donna nella cabina su una sedia ginecologica. La visita sembra stabilire la sua impossibilità di avere figli. 

La mancanza di figli – e quindi di una discendenza – è il tema centrale nella drammaturgia di Christian Longchamp, ancor più della brama di potere: se non hai qualcuno di tuo a cui lasciarlo, a che cosa serve? E sono molti i bambini che affollano la scena: quelli delle profezie, certo, ma anche i figli di Macduff, vittime di una strage degli innocenti allorché la madre decide di avvelenarli tutti, compresa sé stessa, per non consegnarli «fra gli artigli di quel tigre».

Anche Michieletto aveva puntato sulla mancata maternità della Lady, ma qui di diverso c’è la forte relazione di coppia dei due coniugi che mai si spezza. Neanche alla fine, quando vengono legati assieme, ormai dementi e fisicamente sfatti, prima di essere linciati dal popolo: lei era stata salvata dal suicidio e ha vissuto gli ultimi istanti assieme all’amato marito, amato forse anche più del potere. Molti sono i momenti nello stile di Warlikowski, ad esempio quello del banchetto, dove la Lady canta il suo brindisi al microfono, mentre Macbeth è ossessionato dalla visione di Banco che egli stesso ha disegnato su un palloncino. O quando viene servito il piatto finale e sotto la cupola c’è un bambolotto guarnito con broccoli. Appena incoronati dopo l’assassinio di Duncano, in piena regalia, una volta che la musica si ferma e la folla si disperde i due scoppiano a ridere per la facilità con cui l’hanno fatta franca, poi però subito dopo si rendono conto di non poter desiderare altro e da quel momento inizia il loro dramma e conseguente decadimento: lei inizia a bere, a delirare per inesistenti macchie di sangue; lui soffre del complesso di castrazione da parte della moglie/madre o delle streghe – sullo schermo della televisione erano intanto apparse le immagini dell’Edipo Re di Pasolini – e da quel momento vive su una carrozzina a rotelle, aiutato/dileggiato dai servitori.

Questa azzardata drammaturgia non sarebbe convincente senza la presenza di due interpreti che facciano propria la particolare visione del regista e Asmik Grigorian e Vladislav Sulimskij lo fanno. Lei lituana, lui bielorusso, si impadroniscono entrambi della parola verdiana, oltre che della psicologia dei personaggi, creando una coppia magnetica teatralmente e vocalmente notevole. È proprio qui da Salisburgo che la Grigorian ha iniziato la sua straordinaria carriera rivelandosi come Salome nella produzione di Castellucci. Le doti sceniche dell’artista sono eccelse, quelle vocali quasi altrettanto, e anche qui in questo temibile ruolo non delude le aspettative creando un personaggio umano e tragico allo stesso tempo, senza l’eccesso di malvagità che di solito viene attribuito al personaggio. Non perché la Lady non sia malvagia, ma perché qui prevale la sua nuda umanità. Il canto è espressivo, ma non espressionista e le note sempre perfettamente intonate. Non so se sarebbe piaciuta a Verdi che voleva dei suoni «aspri, soffocati, cupi», ma al pubblico è piaciuta senza riserve. Vladislav Sulimskij è un Macbeth tormentato che presto perde l’aggancio con la realtà e piomba negli abissi della quasi demenza. La voce è molto elastica ed espressiva e il suo «Pietà, rispetto, amore» è del tutto convincente, così come il conclusivo momento «Mal per me che m’affidai», l’aria recuperata dalla versione del 1847.

Macbeth è un lavoro dove predominano le due voci principali, ma anche Malcom e Macduff hanno a disposizione momenti importanti. Il primo con «Ah, la paterna mano» dove Jonathan Tetelmann ha riscosso un grande successo di pubblico con la sua voce dal bel timbro e dalla enorme proiezione, forse anche troppa: “less is more” vale anche per il fascinoso tenore cileno-americano. Il secondo sparisce presto dalla scena, ma ha modo di farci apprezzare Tareq Nazmi nella sua drammatica aria «Come dal ciel precipita» eseguita con le generose risorse vocali e interpretative del basso tedesco. Caterina Piva (la Dama della Lady), Evan LeRoy Johnson (Malcom), Aleksei Kulagin (il Dottore), Grisha Martirosyan (Domestico di Macbeth) e Hovhannes Karapetyan (Assassino e Araldo) hanno completato in bellezza l’eccellente distribuzione. Il coro poteva fare meglio, mentre meglio non potevano fare i Wiener Philharmoniker sotto la guida di Philippe Jordan che ha sostituito il previsto Franz-Welser Möst, che si è dovuto sottoporre a un urgente intervento ortopedico. Non sono il primo a dire che nella sostituzione tutti ci abbiamo guadagnato: la concertazione di Jordan è risultata trascinante pur nel rispetto delle voci in scena, con dinamiche spedite ma non affrettate, una grande forza teatrale con colori e luci (e ombre) mirabilmente realizzati dagli straordinari strumentisti.

In definitiva si è trattato di uno spettacolo di grande impatto salutato dalle ovazioni del pubblico. Fino al 27 ottobre la registrazione video è disponibile su arte.tv.

Hamlet

Ambroise Thomas, Hamlet

Parigi, Opéra Bastille, 14 marzo 2023

★★★★☆

(video streaming)

Amleto al manicomio? Non una novità

Tre anni dopo la prima parigina del Macbeth di Verdi, un altro compositore ottocentesco si misurava con un’opera del Bardo, conosciuto allora soprattutto attraverso adattamenti: quello di Hamlet, il lavoro di Thomas del 1868, era infatti di Alexandre Dumas padre che aveva eliminato alcune scene, tra le quali quella iniziale delle sentinelle sulle mura del castello, aveva aggiunto una scena d’amore tra Amleto e Ofelia, e aveva fatto riapparire nel finale il fantasma del re assassinato per fargli dire: «Vis pour ton peuple, Hamlet! C’est Dieu qui te fait Roi!».

I librettisti Barbier e Carré, dal canto loro, avevano ridotto i personaggi e incentrato l’attenzione sui quattro principali (Hamlet, Ophélie, Claudius, Gertrude), concedendo largo spazio alla storia d’amore tra i primi due. Concepito inizialmente in quattro atti, su richiesta dell’Opéra di Parigi Hamlet fu diluito in cinque, con l’aggiunta del ballo inserito prima della scena della follia di Ophélie. Nella versione per Londra del 1969 un nuovo finale prevedeva la morte del protagonista, ma non fu sufficiente a mitigare le critiche degli inglesi, come quella su The Pall Mall Gazette del 1890: «No one but a barbarian or a Frenchman would have dared to make such a lamentable burlesque of so tragic a theme as Hamlet» (Nessuno, se non un barbaro o un francese, avrebbe osato fare di un tema così tragico come quello dell’Amleto una così deplorevole parodia».

Il lavoro di Thomas conobbe grande successo fino agli anni ’30 del secolo scorso, per poi scomparire dalle scene. Un frequente ritorno del titolo è invece avvenuto dagli anni ’80 con pregevoli recenti produzioni al Grand Théâtre di Ginevra nel 2003 con Simon Keenlyside e Nathalie Dessay; al Met (2010), ancora Keenlyside e Marlis Petersen e una grande Jennifer Larmore; An der Wien e poi La Monnaie (2013) con Stéphane Degout e la intrigante messa in scena di Olivier Py e l’Opéra Comique (2108), ancora con Degout e Sabine Devieilhe. Ora alla Bastille il titolo viene riproposto in una ricca produzione che vede sul podio Pierre Dumoussaud, un cast importante e una discussa regia.

Con Hamlet di Thomas, Krzysztof Warlikowski firma uno dei suoi più complessi e ambiziosi allestimenti, 22 anni dopo la sua lettura del dramma di Shakespeare al festival di Avignon del 2001 – ma lo spettacolo era stato creato a Varsavia nel 1999. Inizialmente la sua messa in scena può risultare fastidiosamente spiazzante, addirittura indisponente, poi però il suo indubbio istinto prevale in scene di grande teatralità. L’abbondanza di allusioni sia teatrali che cinematografiche e la loro realizzazione un po’ confusa possono disturbare la leggibilità dello spettacolo, però restituiscono l’essenza di un rapporto con la realtà e la memoria disturbato da allucinazioni e sensi di colpa che inducono a un’azione impotente, com’è quello del principe danese.

L’ambientazione costruita dalla scenografa Małgorzata Szczęśniak è quella di una casa di riposo o centro psichiatrico – non un’idea originale ma plausibile dato il numero di disturbati mentali in scena. All’alzarsi del sipario vediamo un Hamlet signore di mezza età e Gertrude una vecchia sulla sedia a rotelle mentre alla televisione trasmettono Les Dames du Bois de Boulogne, il film di Robert Bresson del 1945. Due i livelli temporali: il primo e l’ultimo atto si svolgono nel presente della vicenda, gli altri tre atti formano un unico lungo flashback che ci mostra i traumi del protagonista vent’anni prima, ed ecco infatti i costumi virare verso gli anni ’20. Hamlet qui è un adulto mal cresciuto che gioca con una macchinina radiocomandata e sembra piuttosto disturbato, fuma in continuazione e ha vari tic. È evidente che non ha superato la morte del padre e meno ancora il secondo matrimonio della madre, verso la quale dimostra un forte complesso edipico. Nel primo atto il Re, Laërte e Ophélie (o il suo fantasma?) sono dei visitatori. Quando compare lo spettro del padre è vestito come un clown bianco, chiaramente un frutto della realtà distorta di Hamlet, così come lo sarà il ballo del quarto atto, assieme alla morte di Ophélie, due dei momenti migliori dello spettacolo. Nel quinto atto Hamlet ha acquisito lo status di fantasma del padre, lo stesso costume da clown, ma nero. E si capisce finalmente perché la folla era in lutto nel primo atto: era per il funerale di Ophélie!

Per un beffardo caso di contrappasso, un cantante che un anno fa aveva stigmatizzato le regie “moderne”, si trova ora a lavorare con uno dei registi più iconoclasti del nostro tempo! È il caso infatti di Ludovic Tézier che in un’intervista aveva detto di preferire le regie “tradizionali”, ma non sembra abbia avuto difficoltà a lavorare con Krzysztof Warlikowski: dal punto di vista attoriale la sua è un’interpretazione pienamente convinta della lettura non proprio ortodossa del regista polacco con cui recupera l’aspetto psicologicamente complesso di una figura semplificata dai librettisti. I colori e le intenzioni espressive sotto tutti presenti in una vocalità in stato di grazia che ha scatenato le ovazioni del pubblico parigino. Ovazioni che sono state estese anche alla Ophélie di Lisette Oropesa, di cui sono state ammirate sia la purezza d’emissione sia le precise agilità nella scena della pazzia. Grande performance anche quelle di Eve-Maud Hubeaux, una Gertrude torturata, John Teitgen (Claudius) e Julien Behr (Laërte). Clive Bayley, l’espressionista Fantasma del Re, e Frédéric Caton (Horatio) sono tra gli altri efficaci interpreti. Lodevole sopra ogni misura il coro, istruito da Alessandro di Stefano, a cui è chiesto di travestirsi, ballare, muoversi e recitare – cosa impensabile da pretendere dai cori nostrani. A capo dell’orchestra del teatro, il giovane Pierre Dumoussaud, che ha sostituito il previsto Thomas Hengelbrock, ha rivelato mature doti mettendo in luce le qualità di questa partitura che a distanza di tempo conquista sempre più il favore dei pubblici.

 

Falstaff

foto © Michele Monasta

Giuseppe Verdi, Falstaff

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 23 giugno 2023

★★★☆☆

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Falstaff a Firenze, uno spettacolo d’emergenza

A Firenze, non previsto inizialmente, va in scena Falstaff di Verdi. Le recenti vicissitudini del Maggio Fiorentino – dimissioni del sovrintendente Alexander Pereira e commissariamento a causa dei debiti accumulati dal teatro – non hanno potuto non avere una conseguenza sulla programmazione e il titolo previsto a chiusura della stagione, il wagneriano Die Meistersinger von Nürnberg,  è stato cancellato per i costi della produzione ed è stato ripescato un allestimento della passata stagione mettendo insieme in tutta fretta un cast dignitoso ma non memorabile, sostenuto per fortuna dalla concertazione sopraffina del direttore musicale del Maggio, Daniele Gatti.

Ecco quindi che Michael Volle lascia i previsti e consueti abiti di Hans Sachs e Markus Werba quelli di Beckmesser per indossare quelli di Falstaff e Ford rispettivamente nella ripresa dell’allestimento di Sven-Eric Bechtolf visto qui a Firenze  nell’autunno 2021. Un allestimento che era stato giudicato “inoffensivo” in cui la regia non propone nulla di nuovo se non le solite vecchie gag, realizzate comunque con ritmo appropriato nella ripresa di Stefania Grazioli. Piacevole l’impianto scenico di Julian Crouch, un’ambientazione tutta in legno che vuole riprendere il teatro elisabettiano, con quinte scorrevoli, silhouette di alberi di legno che scendono dall’alto, onde del Tamigi mosse a mano “come una volta”, piccoli vascelli illuminati in balia dei flutti (del fiume?). E un panorama realizzato in video da Josh Higgason che segue il trascorrere del tempo: dai camini fumanti, al trascolorare del cielo al tramonto, allo sfavillio delle stelle notturne. Mooolto carino. 

Ineccepibili i costumi d’epoca di Kevin Pollard, compreso quello giustamente flamboyant di Falstaff che si prepara all’incontro galante con Alice, e quelli deliziosamente fantasiosi del finale nella foresta. Giustamente appropriato il gioco luci di Alex Brok ripreso da Valerio Tiberi.

Il cantante tedesco Michael Volle dopo tanti drammi straussiani e wagneriani sembra per una volta divertirsi in un personaggio comico, ma al suo Falstaff manca quel pizzico di malinconia che rende il personaggio così grande. Verdi scrive che «si potrebbe cantare tutta a mezza voce» a proposito della parte di Jago,  ma si potrebbe riferire anche a Falstaff, ruolo che scrisse per Victor Maurel – lo stesso interprete dell’anima nera dell’Otello –, un baritono francese che detestava «fare la voce grossa». Da lui, come dagli altri cantanti delle sua ultima opera, Verdi richiedeva «elasticità di voce, sillabazione chiara e facile, accento e fiato». Volle è interprete indiscutibilmente autorevole ma quando si tratta di usare appunto la mezza voce, il timbro si sbianca, ricade nel falsetto, il legato diventa parlato. Meglio il Ford di Markus Werba, vocalmente a suo agio, anche se non del tutto sottilmente caratterizzato. Meno bene invece la parte femminile con l’Alice corretta ma niente più di Irina Lungu e la Mrs Page di Claudia Huckle e la Mrs Quickly di Adriana di Paola, entrambe abbastanza anonime. I servi di Falstaff, Bardolfo e Pistola, trovano in Oronzo d’Urso e Tigran Martirossian interpreti adeguati. La sorpresa è però quella di Rosalia Cid, giovane soprano spagnolo che ha debuttato quattro anni fa qui a Firenze come Lauretta nel Gianni Schicchi e nel suo percorso all’Accademia del Maggio si è poi fatta notare come Gilda (Rigoletto) e Liù (Turandot) e ora come Nannetta incanta il pubblico con il suo timbro delizioso e la grande sensibilità espresse nelle struggenti pagine scritte per il suo personaggio dal vecchio compositore. La affianca il Fenton di Matthew Swensen (l’unico presente della passata produzione), tenore di non grande proiezione ma di bello ed elegante stile. Un’accoppiata perfetta questa dei due giovani innamorati.

Ma, come si diceva, il bonus della serata è dato dalla direzione di Daniele Gatti. Falstaff è opera complessa e leggibile da multi punti diversi: chi la considera l’ultima della grande tradizione comica italiana, chi il punto di partenza della musica italiana del secolo nuovo che sarebbe iniziato sette anni dopo, un lavoro quindi oltre la tradizione del melodramma. Verdi sembra infatti divertirsi qui a parodiare o citare quella gloriosa tradizione, autocitandosi magari nel «Povera donna!» de La traviata o nell’«Immenso Falstaff!» che fa il verso all’«Immenso Fthà!» dell’Aida. L’unico momento in cui si percepisce la presenza di un vero e proprio “numero chiuso” è il monologo di Ford, che qui è la parodia dell’aria del baritono geloso, topos ineludibile dell’opera buffa italiana. Diverso è poi il rapporto tra canto e orchestra: il primo non è più predominante, la seconda raggiunge complessità sinfoniche. Daniele Gatti sembra propendere per la modernità profetica della partitura: gli interventi ironici degli strumenti che commentano le comiche vicissitudini del panzone sembrano preludere agli sberleffi musicali del Petruška stravinskiano e certe trasparenti e impalpabili atmosfere addirittura Debussy. Nessun’altra opera, comunque, sarà se non simile nemmeno riferibile all’ultimo capolavoro di Verdi, che rimane un unicum insuperabile. 

Il pubblico ha tributato le sue maggiori ovazioni proprio al Maestro Gatti, forse anche per confortarlo dell’incerto futuro che attende il massimo ente lirico della Toscana di cui è il Direttore Principale. 

Béatrice et Bénédict

foto @Marcello Orselli

Hector Berlioz, Béatrice et Bénédict

★★★★☆

Genova, Teatro Carlo Felice, 30 ottobre 2022

L’Italia scopre per la prima volta l’ultima opera di Berlioz

Béatrice et Bénédict, opéra-comique en deux actes imité de Shakespeare è il titolo completo della terza e ultima opera lirica di Hector Berlioz, un lavoro che aveva visto il concepimento nel 1833, era stato accantonato e poi ripreso nel 1852, accantonato ancora una volta e finalmente completato nel 1862 per inaugurare l’allora nuovo teatro di Baden-Baden. Inizialmente pensato in un atto e solo più tardi, con l’aggiunta dei numeri 11 e 12, in due atti, questo «caprice écrit sur la pointe d’une épingle», secondo la definizione dell’autore, è una comédie lyrique, un breve scherzo leggero con tenere fantasticherie notturne, languide elegie e momenti di schietta allegria.

Musicalmente Berlioz in questo lavoro mette in atto una sorta di «poetica del ripensamento», come la definisce Laura Cosso nel bel saggio sul programma di sala. Il compositore assimila nella nuova partitura caratteri e stili sperimentati nel passato ma proiettati in una scrittura volta al futuro. È il caso ad esempio del duetto notturno di Ursule e Hero alla fine del primo atto, «Nuit paisible et sereine», che riprende l’atmosfera del duetto «Nuit d’ivresse et d’extase infinie» tra Didon ed Énée di Les Troyens. Invece col personaggio di Somarone, che riprende alla lontana il Balthasar scespiriano, Berlioz sembra burlarsi ancora una volta degli accademici della musica utilizzando un dotto contrappunto nell’“épithalame grotesque” indirizzato ai novelli sposi su un testo cinicamente sardonico: «Mourez, tendres époux | que le bonheur enivre! | Mourez, pourquoi survivre | à des instant si doux?» (Morite, teneri sposi che la felicità inebria. Morite, perché sopravvivere a momenti così dolci?). L’alternanza di toni lirici e comici è il carattere specifico di Béatrice et Bénédict la cui storia è liberamente tratta da Much Ado about Nothing (Molto rumore per nulla), ma talmente liberamente che si stenta a riconoscere nel libretto, di Berlioz stesso, il complesso intreccio di storie della commedia di Shakespeare. Qui la vicenda è lineare, semplificata, ridotta alla trama secondaria della commedia originale, i personaggi “cattivi” del tutto eliminati, quelli “drammatici”, Hero e Claudio, ridimensionati al ruolo di comprimari. La drammaturgia è così tenue che è sempre stato un problema per i registi mettere in scena l’ultima opera del sulfureo e visionario autore della Symphonie fantastique, del Benvenuto Cellini o de La damnation de Faust.

Richard Brunel a Bruxelles e Laurent Pelly a Glyndebourne sono stati tra quelli che recentemente (entrambi nel 2016) hanno presentato una loro lettura di Béatrice et Bénédict che ora qui a Genova per l’inaugurazione della nuova stagione dell’Opera Carlo Felice viene fatta conoscere per la prima volta al pubblico italiano nella produzione che Damiano Michieletto aveva creato a Lione nel dicembre 2020. Allora, in piena pandemia, lo spettacolo fu rappresentato una volta sola, senza pubblico e a favore delle telecamere di Antenne 3, l’emittente televisiva francese che ne mise poi a disposizione la registrazione sul suo sito. Attualmente si può vedere su youtube.

Non ha aiutato molto la fortuna di questo lavoro, soprattutto all’estero, il fatto di essere nella forma di opéra-comique, ossia con i dialoghi recitati. Tant’è che spesso questi stessi dialoghi sono accorciati o modificati, e non solo nei paesi non francofoni. Michieletto sceglie di concentrare la sua lettura sul contrasto tra le due coppie di amanti: quella più convenzionale di Hero e Claudio, e quella più istintiva di Béatrice e Bénédict, questi ultimi riflessi nella presenza di un Adamo ed Eva nudi e liberi nel giardino dell’Eden costretti poi a vestirsi e a finire in una teca di cristallo come le farfalle che erano state catturate all’inizio.

Visivamente il contrasto è realizzato efficacemente dalla scenografia di Paolo Fantin che al lussureggiante Eden, ahimè molto precario, alterna una scatola bianca che riflette la luce abbagliante della Sicilia in cui è raccontata la vicenda, un ambiente asettico e sollevato rispetto al proscenio, uno studio di registrazione ingombro di microfoni: le parole rubate, invece che su carta, sono incise su nastro magnetico che l’intrigante Somarone ha captato con il suo registratore. Quello di Béatrice e Bénédict è un esperimento sull’amore e dopo l’iniziale contrarietà al matrimonio, in seguito al viaggio in cui scoprono i loro sentimenti, alla fine si piegano alle convenzioni sociali pur con i possibili distinguo dettati dai loro accesi caratteri. Precedentemente anche il giardino dell’Eden è stato distrutto: la griglia su cui erano posate le piante in vaso si è sollevata ed è diventata una gabbia per lo scimpanzé, il lato istintivo e animale della specie umana libera dalle convenzioni.

L’abilità di orchestratore di Berlioz – meglio sarebbe definirlo creatore di prospettive orchestrali in cui la distribuzione degli strumenti è sempre inventiva e avveniristica – è evidente fin dalla briosa ouverture in cui si intrecciano molti spunti melodici dell’opera. A capo dell’orchestra del teatro il direttore italiano Donato Renzetti dipana con mano sicura la musica di tale «opéra italien fort gai» concertando abilmente un cast di buon livello. Julien Behr, assieme a Ève-Maud Hubeaux (Ursule) già presente nella produzione originale di Lione, è un Bénédict di non enorme volume sonoro ma bel timbro ed elegante fraseggio. Assieme a Cecilia Molinari, una Béatrice convincente anche nella dizione francese, i due cantanti formano una coppia di grande padronanza sia vocale che scenica. Affronta con qualche titubanza ma risolve poi in modo soddisfacente le agilità della sua grande aria Benedetta Torre (Héro), ma è nel momento lirico del duetto notturno con la sua dama di compagnia che fa apprezzare maggiormente le sue qualità liriche. Nicola Ulivieri veste con autorevolezza ed eleganza il ruolo di Don Pedro, mentre Yoann Dubruque esibisce la sua aitante presenza come Claudio. I baritoni francesi Gérald Robert-Tissot e Ivan Thirion, rispettivamente Léonato e Somarone, completano una distribuzione che assieme al coro e al direttore ha ricevuto i calorosi applausi del pubblico genovese che ha scoperto un titolo nuovo. In sala non si è sentito nessun mugugno per la mancata ennesima Traviata o Bohème.

Béatrice et Bénédict

  

Hector Berlioz, Béatrice et Bénédict

★★★★☆

Lyon, Opéra Nouvel, 15 dicembre 2020

(registrazione video)

La lettura concettuale di Michieletto compensa l’assenza di drammaturgia dell’ultima opera di Berlioz

Nel 1600 dagli editori Andrew Wise e William Aspley viene stampato l‘in quarto di Much Ado about Nothing (Molto rumore per nulla) di William Shakespeare, una tragicommedia in cinque atti in cui si tessono inganni attorno a due coppie amorose (Hero e Claudio, Beatrice e Benedick) e una folla di altri personaggi.

Berlioz nel 1862 rappresenta su libretto proprio la sua versione depurata di molti personaggi, Béatrice et Bénédict, un’opéra-comique in due atti. Del testo scespiriano mantiene solo la vicenda amorosa tra i personaggi del titolo e inventa tutto il resto, eliminando l’elemento drammatico del personaggio di Don Juan, il fratello di Don Pedro, che come Jago in Otello, trama contro una coppia, qui quella di Claudio e Hero. La composizione della musica era avvenuta dopo Les Troyens, in un periodo difficile per Berlioz, periodo che sarebbe culminato con la morte della seconda moglie Marie.

All’Opéra di Lione nel 2020 viene avviata la quarta produzione scenica di Béatrice et Bénédict in questo teatro, affidata ora a Daniele Rustioni per la direzione musicale e per la messa in scena a Damiano Michieletto. Previsto nel cartellone per il mese di dicembre, lo spettacolo fu cancellato a causa della recrudescenza dei contagi da Covid-19, ma una registrazione video è stata realizzata da Antenne 3 ed è disponibile su operaonvideo.com.

Due storie, due modi di vivere l’amore. Uno (quello di Hero e Claudio), più defilato, segue le convenzioni sociali; l’altro (Béatrice e Bénédict) è la forza dell’istinto. Berlioz «più che sulla narrazione si concentra sul lato sentimentale. Io ho approfondito il parallelo tra la coppia che rappresenta l’amore più domestico, le nozze come nido, e quello istintivo tra Béatrice et Bénédict, che in un giardino-foresta senza giudizi né peccato si ritrovano con Adamo ed Eva, i loro alter ego che entrano nudi. E lottano contro la società che vorrebbe soffocarli e ingabbiarli», dice il regista che realizza visivamente la sua idea «con una scatola bianca che si riempie di segni: farfalle meccaniche, col loro senso di libertà, che però vengono catturate e messe in una teca; uno scimpanzé, che ha dentro un mimo, costruito con calco realistico, a simboleggiare il lato primordiale di Bénédict» e, appunto, un Adamo ed Eva nudi che sono costretti a vestirsi e anche loro finiranno in due teche di cristallo.

Somarone, il personaggio inventato di sana pianta da Berlioz, è un cinico che distrugge l’Eden e gira con un registratore per captare i discorsi dei personaggi, che recitano i loro dialoghi parlati al proscenio davanti a dei microfoni, uno spazio nero che contrasta col bianco abbagliante della scatola che si apre dietro e su cui viene effettuato un esperimento sull’amore che ruota attorno alla coppia Béatrice e Bénédict. Nonostante la loro posizione contraria al matrimonio, alla fine si impegneranno l’uno con l’altra dopo un viaggio in cui scoprono i loro veri sentimenti. Nella quasi totale mancanza di drammaturgia del lavoro, Michieletto e il suo team creano una lettura concettuale e visionaria realizzando uno spettacolo che ha il ritmo della musica di Berlioz e incanta visivamente lo spettatore. Come sempre geniale la scenografia ideata da Paolo Fantin in cui il cubo bianco si divide a metà per mostrare un paradiso terrestre montato su una rete che alzandosi lo distruggerà e lo trasformerà in una gabbia.

Molto precisi i movimenti degli attori-cantanti e curata la recitazione in cui vengono impegnati interpreti di eccellenza sia attoriale che vocale: Julien Behr è un Bénédict di bellissimo timbro ed elegante fraseggio; Michèle Losier come Béatrice dimostra ancora una volta la sua statura di interprete autorevole ed espressiva; Hélène Guilmette è una Héro sensibile e bella; Thomas Dolié un efficace Claudio. Eve-Maud Hubeaux (Ursule) e Frédéric Caton (Don Pedro) completano la distribuzione vocale. Daniele Rustioni coglie le qualità di quest’ultima partitura in cui Berlioz riesce sempre a sorprendere per l’originalità delle melodie e del trattamento strumentale.

Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori

Davide Livermore, Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori

Genova, Teatro Gustavo Modena, 3 aprile 2022

Con Adelaide Ristori Livermore celebra il teatro stesso

Ma quando un attore/attrice muore, che cosa ne rimane? Liberamente tratto da Macbetto di Giulio Carcano, con la drammaturgia di Andrea Porcheddu in collaborazione con Sara Urban, il nuovo spettacolo di Davide Livermore Lady Macbeth, suite per Adelaide Ristori cerca di rispondere alla angosciosa domanda. Per un attore/attrice del nostro tempo rimangono le testimonianze audio e video, ma per un attore dell’Ottocento, a parte qualche ritratto, se va bene fotografico, che cosa resta della sua arte se non le parole di chi ha assistito a un suo spettacolo?

Adelaide Ristori è stata una delle maggiori artiste di teatro della sua epoca. Nata  nel 1822 a Cividale del Friuli, figlia d’arte ha respirato l’aria del teatro fin dalla nascita. Divenuta la più celebre attrice italiana, fu anche promotrice degli ideali patriottici risorgimentali vedendo i suoi spettacoli spesso interrotti dalla polizia. Molto nota anche all’estero, dove recitava correntemente in francese, spagnolo e inglese, il suo matrimonio con il marchese Giuliano Capranica del Grillo destò molto scandalo in una società che considerava le attrici al limite della morale. Prima nella storia, la Ristori si occupò personalmente dei costumi e della regia dei suoi spettacoli. Visse gli ultimi anni nel palazzo Capranica a Roma dove morì nel 1906.

Alla figura di questa artista è dedicato lo spettacolo che celebra il bicentenario della sua nascita nella città che ne accoglie il lascito nel Civico Museo Biblioteca dell’Attore e che ha fornito la preziosa documentazione. In scena la grande Elisabetta Pozzi rivive la parte di Lady dal Macbetto del Carcano grazie alla realtà aumentata ideata da Davide Livermore e realizzata dalla D-Wok, con la partecipazione in video di Alberto Mattioli e i trucchi ed effetti speciali di Edoardo Pecar. Livermore ha immaginato uno studio televisivo in cui inserire l’intervento dell’attrice. «Un contenitore, un caleidoscopio, un accumulatore di immagini e di esperienze visive. Un meccanismo scenico che ci offre il pretesto per un gioco ironico e auto-ironico». Si passa quindi dall’investigazione storica alla performance ardimentosa affidata a una delle più grandi attrici del nostro teatro. «È come fare una seduta spiritica collettiva per godere ancora della luce di Adelaide e celebrare il teatro tutto» dice il regista.