Mese: Maggio 2020

Hamlet

Ambroise Thomas, Hamlet

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 27 marzo 2010

(registrazione video)

Dopo oltre un secolo al MET

D’accordo, con Shakespeare c’entra poco, ma che opera affascinante è l’Hamlet di Thomas! Fin dall’assolo del corno nell’ouverture, il tono della vicenda è magistralmente definito e non ci sarà una sbavatura melodrammatica pur nella sontuosa scrittura orchestrale da grand opéra. E Michel Carré e Jules Barbier hanno fatto una riduzione che mantiene le istanze psicologiche dell’originale nella efficace teatralità del libretto.

«Il y a deux espèces de musique: la bonne e la mauvaise. Et puis, il y a la musique d’Ambroise Thomas» (1) è la famosa battuta di Emmanuel Chabrier, forse geloso della popolarità presso il pubblico borghese della musica facile e melodiosa del rivale. A distanza di un secolo e mezzo noi ci godiamo la musica così com’è e non ci interessiamo più alle rivalità tra compositori e alle loro posizioni anti-qualcosa (anti-Wagner e anti-Fauré nel caso di Thomas).

«La rana Thomas e il bue Shakespeare» ironizza Nicolas d’Estienne d’Orves su “Le Figaro” del 7 aprile 2010 all’indomani di questa produzione. Oltre all’Hamlet, infatti, Thomas aveva scritto musiche per il Sogno d’una notte di mezza estate (1850) e per La tempesta (1889). Ma è inutile criticare il suo Shakespeare edulcorato: nell’Ottocento il Bardo era conosciuto in disinvolti “adattamenti” e su queste quanto meno meno discutibili versioni si basarono sia il lavoro di Gounod sia i tre di Verdi. Nel caso dei vari Hamlet ottocenteschi, i librettisti attingevano alla riscrittura di Jean-François Ducis del 1769 e si dovrà aspettare un personaggio quale Arrigo Boito per trasferire in un libretto – l’Amleto di Franco Faccio – il linguaggio di Shakespeare, di cui Boito era profondo conoscitore.

Dopo la trionfale prima del 1868, il lavoro di Thomas conquistò sempre più i palcoscenici dei teatri mondiali grazie al favore accordatogli da voci mitiche. Un relativo abbandono si ebbe a partire dagli anni ’20, ma nel 1985 c’è una riscoperta dell’Hamlet e non si contano le riproposte, tra cui questa del 2010 al Metropolitan, a conferma dell’interesse dei pubblici moderni.

Alla testa dell’orchestra del teatro, Louis Langrée offre una lettura trascinante e dà unità a una partitura suddivisa in cori, trii, duetti, assoli, fanfare e lirici interludi. Il direttore taglia il coro dei commedianti «Princes sans apanages», però c’è in più il duetto fra Gertrude e Claudio di cui si conosceva solo la versione per voce e pianoforte – alla Bibliothèque National de France è stato ultimamente riscoperto il manoscritto originale e in questa edizione è stato giustamente recuperato a profitto della definizione dei due personaggi – come di tradizione è tagliata la prima parte con i contadini della scena della pazzia di Ofelia e mancano i ballabili. Nel finale viene utilizzata la versione abbreviata, con la morte di Amleto e non lo happy ending originale.

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Nella parte del titolo c’è un interprete d’eccellenza quale Simon Keenlyside, di cui s’è già detto per l’edizione discografica, basata sulla produzione di Ginevra del 1996. Sir Keenlyside mantiene intatti i livelli di vocalità e interpretazione, mentre è aumentata la fisicità attoriale a beneficio di un personaggi meno umbratile e più determinato. La musica sembra proprio scritta per la sua voce calda voce baritonale, ma originalmente Thomas aveva pensato a un tenore! La perfetta dizione francese completa una performance magistrale. Di quella produzione faceva parte anche Natalie Dessay, che avrebbe dovuto portare la sua Ofelia anche a New York, ma la malattia gliel’ha impedito e a pochi giorni dal debutto è stata sostituita dalla Lulu che sarebbe arrivata più tardi nella stagione, Marlis Petersen, soprano coloratura dal timbro rotondo e dalla voce ferma, intrepida nei salti di ottava come nelle agilità. La cantante tedesca ottiene un successo personale meritatissimo. Magistralmente caratterizzata è la Gertrude di Jennifer Larmore dalla presenza scenica magnetica fin da quando dopo l’ouverture sembra portare su di sé il peso della colpa e la paura della scoperta del crimine. Laerte gloriosamente giovanile e vocalmente luminoso quello di Toby Spence, autorevole lo Spettro di David Pittsinger. Parte male con una serie si note calanti il Claudio di James Morris, poi le cose vanno meglio ma la prestazione risente della stanchezza vocale.

La messa in scena è quella di Patrice Caurier e Moshe Leiser di Ginevra, i costumi di Christophe Forey si ispirano all’epoca della composizione e la scenografia di Christian Fenouillat consiste in due elementi curvi che con il loro spostamento definiscono, senza pretesa di particolare caratterizzazione, i vari ambienti.

(1) Ci sono due tipi di musiche: la buona e la cattiva. E poi c’è quella di Thomas.

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GRAND THÉÂTRE

 

Grand Théâtre

Digione (1828)

692 posti

L’ Opéra de Dijon amministra sia il Grand Théâtre che l’Auditorium, le due principali sale di spettacolo della città francese. La costruzione di un nuovo teatro d’opera per sostituire la vecchia Salle de Comédie fu affidata al locale architetto Jacques Cellerier che assieme a Simon Vallot fece costruire il nuovo edificio sul sito della demolita Sainte-Chapelle e del suo chiostro. Iniziati nel 1810, i lavori furono interrotti tra il 1814 e il 1823 e l’inaugurazione del teatro avvenne solo il 4 novembre 1828

Le linee architettoniche del teatro si ispirano all’antichità classica  s’inspirent de l’Antiquité classique di modo sotto il Primo Impero ed è un esempio di questa infatuazione per il gusto del sublime, del fasto, della monumentalità. L’imponente edificio ha una pianta rettangolare di 61 m per 22, con un’altezza di 17 m. Il peristilio della facciata conta otto colonne in stile corinzio che sopportano una trabeazione con attico di grande imponenza. Un disegno simile appartiene anche al teatro di Bordeaux. L’interno si ispira nella forma al teatro all’italiana.

 

L’angelo di fuoco

Sergeij Prokof’ev, L’angelo di fuoco

★★★★☆

Monaco, Nationaltheater, 12 dicembre 2015

Servizio in camera con esorcismo

Il problema de L’angelo di fuoco è: bisogna prenderlo sul serio?

Il lavoro di Prokof’ev è basato sul romanzo simbolista di Valerij Brjusov che nel 1909 alla sua pubblicazione non aveva scandalizzato quanto l’opera del compositore russo che, terminata nel 1927 dopo lunga gestazione, debuttò postuma quasi trent’anni dopo perché nessuna osava metterla in scena: la vicenda è un caso patologico di isteria femminile, come quelli analizzati da Freud a fine Ottocento, vissuto tra forti pulsioni sessuali e ossessivi sensi di colpa. Renata, la protagonista, è come Salome ed Elettra frutto della psicanalisi, ma come personaggio drammaturgico è meno convincente.

Incorniciata da un passe-partout bianco, la scena di Rebecca Ringst mostra la junior suite dell’Hotel Belvedere: la valigia da disfare, la bottiglia di vodka comprata al duty free shop, lo schermo al plasma della tv già acceso, la cena in camera. La «sordida mansarda di una locanda» qui è un hotel di lusso (c’è anche un pianoforte!) e si capisce che il cavaliere, dall’aria un po’ mafiosa, è uno avvezzo ai viaggi internazionali. Da sotto il letto esce Renata, la donna invasata che cerca di scacciare il demonio che la tormenta nelle sue visioni. Nella spasmodica ricerca di un appagamento erotico la donna si era innamorata di un angelo, poi del conte Heinrich in cui lo pensava reincarnato, poi dirà di amare anche Ruprecht, prima di finire in convento ed essere bruciata per possessione diabolica – siamo pur sempre nella Germania del Cinquecento. Il viaggiatore osserva dapprima con divertito scetticismo le intemperanze della donna e per un momento pensa anche di approfittarne per un’avventuretta, poi acconsente ad accompagnarla nelle sue ricerche, all’inizio forse per spezzare la monotonia del suo viaggio d’affari, ma poi sarà sempre più invischiato nella spirale delle sue distruttive allucinazioni.

Nel secondo atto le cose si complicano: colpi alle pareti, oggetti che si muovono, un antiquario di libri che sbuca dal letto. Lo scetticismo di Ruprecht deve fare i conti con le visioni di Renata che l’hanno ora completamente contagiato. Siamo entrati in un piano metafisico, ma “à la Koski”: con un coup de théâtre del tutto coerente con la musica sparata in orchestra con una violenza quasi insostenibile, entra un caricaturale Agrippa che invece dei «cani pelosi» citati dal libretto si porta dietro un corteo di ragazzi tatuati in lunghi abiti da sera femminili (i costumi sono disegnati da Klaus Bruns). Non si sa se sia intenzionale la scelta del regista, ma c’era il precedente del tatuaggio sul petto dell’interprete Evgenij Nikitin di una svastica nazista che aveva causato la cancellazione della sua partecipazione nell’Olandese volante a Bayreuth nel 2012 a pochi giorni dal debutto.

Anche l’ingresso di un Mefistofele e un Faust (sì, ci sono anche loro!) ancora più caricaturali è occasione per il regista di allestire un altro momento spettacolare: una sarabanda demoniaca suggerita dal tono della musica. La surreale scena della taverna dà modo a Kosky di esibire il suo lato camp con il personaggio clownesco di Faust, le gag grottescamente sessuali suggerite dalla situazione e i movimenti coreografici del fidato Otto Pichler. Un terzo momento di grande teatralità è ovviamente la lunga – troppo lunga – scena dell’esorcismo finale in cui l’Inquisitore, ma anche le monache, sono dei Cristi da processione con corona di spine e tunica sporca di sangue.

La scelta dell’ambientazione condiziona la drammaturgia: quasi tutti i personaggi appartengono al personale dell’albergo. La scena è sì fissa, ma non troppo: la camera d’albergo si contrae, si dilata, i mobili si muovono da soli, botole si aprono nel pavimento, il soffitto sparisce, tendaggi rosso sangue coprono le pareti, dalla porta entra di tutto e le luci non naturalistiche di Joachim Klein ne cambiano in continuazione l’atmosfera. Rosse, verdi, blu, bianco ghiaccio, danno il tocco espressionistico a una vicenda bizzarra dagli oscuri simbolismi.

A questo punto si può rispondere alla domanda iniziale. Kosky legge la vicenda come un caso di dipendenza patologica da parte di un uomo emotivamente soggiogato dalla pazzia di una donna di cui non siamo nemmeno certi dell’esistenza e continuiamo a chiedercelo anche dopo il delirante finale, dopo oltre due ore di accelerando musicale senza intervalli. Quindi la risposta è sì sul lato psicanalitico, no su quello metafisico.

La vorticosa cavalcata musicale è condotta da Vladimir Jurovski alla testa dell’orchestra del teatro con una tensione spasmodica che non impedisce però la cura del particolare strumentale di questa sorprendente e complessa partitura. Il già citato Evgenij Nikitin è un Ruprecht vocalmente talora affaticato e non del tutto convinto del personaggio, ma in effetti né il libretto né Prokof’ev lo aiutano molto. Totale dedizione è invece quella di Svetlana Sozdateleva nella sfibrante parte di Renata sostenuta fino alla fine senza cedimenti vocali e con bella presenza scenica. Nei tanti personaggi secondari si contano interpreti mediamente efficaci: ecco quindi ad esempio il tenore Vladimir Galouzine (Agrippa), il basso Igor Tsarkov (Faust), il tenore Kevin Konners (Mephistopheles), il basso Jens Larsen (Inquisitore), Elena Manistina (Indovina) e Christian Rieger (servo della locanda).

Les Boréades

Jean-Philippe Rameau, Les Boréades

★★★★☆

Digione, Grand Théâtre, 22 marzo 2019

(video streaming)

L’amore che sfida gli dèi

Un ottantenne Rameau nel 1763 portava a termine la sua carriera di compositore con questo strano lavoro che concludeva anche il periodo dell’estetica barocca nell’opera: l’ultimo intervento di Abaris, l'”air gracieux” con le sue fioriture vocali e la metafora dell’amore come un ruscello che scorre in mezzo ai fiori, sembrava condensare le migliaia di analoghe metafore delle arie barocche.

La storia è quella di Alphise regina di Battria, che per decreto divino deve unirsi in matrimonio con un discendente di Borée, dio del vento del nord, che ha due figli, Calisis e Borilée. Il cuore di Alphise però batte per Abaris, figlio incognito di Apollo stesso, e per amore la regina rinuncia al trono destando l’ira di Borée che scatena gli elementi atmosferici e rapisce Alphise. Abaris però sconfigge il dio con una freccia magica ricevuta da Amore ed è allora che Apollo rivela di essergli padre. Essendo la madre una discendente di Borée, Abaris può sposare Alphise.

L’esilità della vicenda e la mancanza di una vera e propria azione portano Rameau a concentrare l’attenzione sulla caratterizzazione dei personaggi, insolita per l’epoca e prefigurante già Berlioz e Debussy secondo Emmanuelle Haïm che dirige l’opera. Con il suo Concert d’Astrée, orchestra e coro, e la scelta di un diapason a 400 Hz, la fulva direttrice restituisce all’opera i suoi colori e la sua tensione emotiva. Per non parlare del brio delle danze.

In scena ci sono ottimi interpreti tutti specialisti in questo repertorio. Hélène Guilmette è la contesa Alphise, vocalmente sicura e sensibile. A Mathias Vidal tocca la parte più drammatica, che il tenore francese, nel ruolo di haute-contre, disimpegna con grande emozione e proprietà stilistica. Emmanuelle de Negri qui copre ben quattro parti diverse con brio e presenza scenica. Edwin Crossley-Mercer presta con efficacia il suo registro basso ai personaggi di Adamas e di Apollo. Qualche difficoltà vocale non impedisce a Christopher Purves di delineare il malvagio Borée. Non proprio indimenticabili gli interpreti dei due figli Borilée e Calisis.

Dopo i tableaux vivants di Jean-Louis Martinoty a Aix-en-Provence della riscoperta nel 1982 dopo più di due secoli, nel 1999 a Salisburgo ne Les Boréades si erano cimentati i coniugi Herrmann e a Lione Laurent Pelly nel 2004. L’anno prima Robert Carsen aveva portato la sua produzione sul palcoscenico di Palais Garnier, un’edizione memorabile e fortunatamente registrata su disco.

La tenue storia è punteggiata da innumerevoli balletti. Se a Parigi questi erano stati affidati ai La La La Human Steps, qui a Digione in quella che è stata definita dalla critica la miglior co-produzione europea dell’anno, abbiamo gli altrettanto ironici passi di Otto Pichler, abituale collaboratore coreografico del direttore del Komische Theater.

Kosky sceglie una lettura estremamente minimalista assieme alla scenografa Katrin Lea Tag che si occupa anche dei costumi, abiti moderni di tutti i giorni: uno schermo bianco si rivela essere una enorme scatola quando Amour ne alza il coperchio con un dito e rimane una piattaforma, campo d’azione principale dove i personaggi sono risvegliati e mossi dal soffio degli dèi (Apollo, Amore e Borée) che fanno degli umani i loro burattini e sembra che diano loro vita solo per osservarne le reazioni. Anche la rappresentazione era iniziata con il soffio vivificatore di Borée verso la buca dell’orchestra e far partire così la musica. Pochi altri elementi si aggiungono a questa messa in scena estremamente depurata: fiori giganti che pendono a testa in giù per la festa di Aphise, mucchi di terra bruciata dopo le devastazioni degli elementi, una pioggia di stelle dorate per l’apparizione del deus ex machina – qui un lugubre personaggio con testa di corvo e sostenuto lui stesso da corvi neri, proprio il contrario della luminosità che penseremmo abbinata ad Apollo. Spiazzante è anche il finale, quando i due amanti, dopo le peripezie che li hanno finalmente riuniti, vengono privati della freccia da Amore e si separano per poi perdersi nel buio. Il coperchio si abbassa per l’ultima volta e ci troviamo davanti al cubo bianco iniziale. Tutto è ritornato com’era prima, come se non fosse successo nulla.

Tende al minimalismo anche il numero degli interpreti: uno solo per Adamas e Apollon (il sacerdote qui è l’incarnazione del dio) e uno solo per Sémire, Amour, Ninfa e Polymnie, che quindi è quasi sempre in scena.

Digione, patria di Rameau, è la città che ha rivelato Kosky ai francesi, fin dal Castor et Pollux del 2014. Anche allora il regista aveva puntato all’essenziale: una scena unica e spoglia per concentrare l’attenzione sui corpi, dove dai solisti ai coristi tutti si muovono e danzano con convinzione, qui prendendo a prestito i codici della commedia musicale tanto cara al regista.

Evgenij Onegin

foto © Xavi Montojo

Pëtr Il’ič Čajkovskij, Evgenij Onegin

★★★★★ (1)

Berlino, Komische Oper, 31 gennaio 2016

(video streaming)

Si ama una volta sola, il resto è rimpianto

«L’opera è voce e corpo nello spazio» dice Barrie Kosky in un’intervista, «voci e corpi sono il Gesamtkunstwerk». Se non avesse avuto a disposizione Asmik Grigorian e Günter Papendell il suo Evgenij Onegin sarebbe stato completamente diverso, dice: sono giovani e grandi attori che “incarnano” i personaggi, sono Tatjana e Evgenij.

Nel suo allestimento la vicenda si svolge all’aperto con le scenografie di Rebecca Ringst. Su un prato rigoglioso al limitare di un bosco Larina e Njanja raccontano del passato mentre preparano la marmellata, marmellata che è un elemento costante dello spettacolo ed è prevista dal libretto – per una volta Kosky prende alla lettera il testo! Il barattolo passa di mano in mano e servirà anche per consegnare la fatidica lettera. Lo stesso barattolo comparirà verso la fine quale simbolo del rimpianto della dolcezza perduta del passato.

Il prato è anche il luogo dove si fa festa con i vicini amici, dove si incontrano i due giovani e dove si svolge il compleanno di Tatjana. Il centro del prato è una piattaforma che ruota vorticosamente col ritmo del valzer, mai stato così travolgente. Solo per il ballo a casa del principe saremo in un elegante interno di una dimora patrizia, un ambiente piuttosto precario però, come i sentimenti dei personaggi, che infatti viene presto smontato per ritrovarci di nuovo all’aperto per il teso ultimo incontro. Molto espressive le luci di Franck Evin che ricreano il sole delle lunghe giornate estive, l’inquieto mistero delle notti, le brume del mattino, ma il duello avviene nel buio del bosco, noi non vediamo nulla se non Onegin che ritorna e ripete due volte «Morto!» a sé stesso e a Tatjana. Una sottile scelta del regista è quella di presentare i due contendenti ubriachi, come per giustificarne l’incoscienza. La pioggia che scende nel finale sui due disillusi amanti indica invece anche la fine di una stagione della vita.

La polonaise in casa del principe Gremin è eseguita a sipario abbassato, come un’ouverture, e proprio per rafforzare la sua lettura concentrata sui due protagonisti il regista si priva di uno dei momenti più teatrali e attesi dal pubblico. Ma qui non se ne sente la mancanza, con il ritmo trascinante impresso alla musica da Henrik Nánási che alla testa dell’orchestra del teatro non dà tregua dall’inizio alla fine, come le passioni travolgenti dei due giovani, passioni, ahimè, sfasate nel tempo. Efficace è la scelta di rimandare l’intervallo a dopo la quinta scena per non allentare la tensione e lasciare che gli elementi del dramma si accumulino fino a un punto di rottura.

Le mani che si contorcono, i singhiozzi che scuotono le spalle, il corpo minuto nel vestitino di cotone a fiori: questa è la Tatjana di Asmik Grigorian, un’interprete che quando affronta un personaggio lascia una traccia indelebile, così come era successo per la sua Salome di Salisburgo o per la sua Marietta de Die tote Stadt alla Scala. Per dimostrarlo basterebbe il momento da brivido di quando canta «Ah! La felicità era così possibile, così vicina, così vicina!» nel duetto finale con Onegin, o prima, nella scena della lettera cantata in parte con le spalle al pubblico che esplode in un applauso interminabile. Se la voce non ha la maturità di un’interprete più avanti negli anni – come dimenticare Mirella Freni Tatjana sessantacinquenne! – la freschezza e la sensibilità del soprano lituano rendono Tatjana il personaggio principale in questa lettura di Kosky (è sempre in scena anche quando non è previsto dal libretto, come dopo il duello) e forse con un’altra interprete non sarebbe stato così. La sua metamorfosi da vulnerabile teenager a sicura signora dell’aristocrazia ha della perfezione.

Günter Papendell è Onegin. Personalmente non amo il suo timbro ingolato e un po’ legnoso, ma l’interpretazione è convincente e il passaggio da inizialmente cinico a tragicamente innamorato è efficacemente sviluppato. Un Lenski sanguigno e passionale è quello di Aleš Briscein, tenore dalla voce luminosa generosamente proiettata nel primo atto e appassionata nell’aria che precede il duello. Tanto tormentata è Tatjana, quanto è naturale e semplice il personaggio di Ol’ga cui presta ottima voce e vivace presenza scenica Karolina Gumos. Il principe Gremin ha una sola aria, ma memorabile, e Alexeij Antonov se la cava senza demerito. Ottima la Filipp’evna di Margarita Nekrasova ed efficaci i rimanenti interpreti e il coro.

Successo travolgente con innumerevoli chiamate del pubblico commosso.

(1) Ci sono spettacoli per i quali la valutazione ★★★★★ non basta: bisognerebbe passare a ★★★★★+ o ★★★★★★ o ★★★★★★★, come per certi alberghi di Dubai… Questo è uno.

Bastien und Bastienne

Wolfgang Amadeus Mozart, Bastien und Bastienne

Parigi, Amphitéâtre Bastille, 15 maggio 2017

(registrazione video)

«Una comica coincidenza»

Molti sono i teatri che iniziano i giovanissimi all’arte lirica, il pubblico del futuro che soppianterà quello agé di oggi.

Non fa eccezione l’Opéra di Parigi, che con gli allievi della sua accademia allestisce spettacoli come questo Bastien et Bastienne, Singspiel scritto da un dodicenne Mozart. Al tempo non esisteva il genere “opera per bambini”, ma la semplicità dell’impianto e la durata sono adatti a un pubblico non particolarmente abituato ai modi e ai tempi dell’opera.

Con il numero d’opus K 50, Bastien und Bastienne fu composto nel 1768, l’anno trascorso dai Mozart a Vienna attirati dalle nozze di Maria Josepha, figlia dell’imperatrice Maria Teresa, la grande protettrice di Wolfgang bambino. Ma qui dovettero aver a che fare con le ostilità nei confronti del fanciullo e con avversità quali l’epidemia di vaiolo che spinse la famiglia a rifugiarsi a Olmütz. L’unica oasi di serenità è offerta dalla committenza di un Singspiel da parte di Franz Anton Mesmer, medico e pioniere del magnetismo (sì quello parodiato da Despina nel Così fan tutte) da rappresentare nel suo teatro all’aperto sulla Landstraße. Il libretto di Friedrich Wilhelm Weiskern si rifà a Le devin du village di Rousseau di sedici anni prima. Al testo collaborò anche Johann Andreas Schachtner, suonatore di tromba e amico dei Mozart.

L’amore tra i pastori Bastien e Bastienne si sta incrinando per le lusinghe che il mondo esterno esercita sul ragazzo, strappandolo all’idilliaca felicità campestre. Per riconquistarlo, Bastienne si rivolge al mago Colas che, esperto di malizie mondane, le suggerisce di ostentare indifferenza; pentito, il ragazzo ritornerà infatti dalla fedele compagna.

Dai musicologi il breve Singspiel è apprezzato più della successiva La finta Semplice (opera buffa in tre atti K 51): «Alcuni brani rivelano il liederista nato, che sa fondere insieme l’arte colta e quella popolare […] per queste ragioni è molto superiore a La finta Semplice, esteriormente tanto più impegnata» (Hermann Abert); «A Bastien und Bastienne Mozart seppe dare quella candida compiutezza stilistica, quel tono cordiale e popolaresco, per cui l’operina senza pretese si mantiene ancora vitale» (Bernardt Paumgartner); «Anche allora, un critico dotato di intuito avrebbe potuto osservare due tratti diversi che già preannunciano il futuro: la sicurezza con cui viene trattata la piccola orchestra e l’istinto drammatico dimostrato, ad esempio, nel gioviale inizio del terzetto finale» (Alfred Einstein); «Pur nella sua ingenuità, è molto più matura e poetica di una composizione come La finta semplice» (Eric Blom).

«L’ideale di semplicità naturale, propugnato dagli illuministi in musica, viene assunto dal giovane Mozart nell’apparente immediatezza dei sedici numeri di questa partitura. Melodie di incantevole dolcezza e trasparenza si susseguono, nascondendo una maturità di scrittura già notevole, capace di coniugare magistralmente l’arte con la natura; raggiunti a dodici anni, senza apparente sforzo, questi risultati corrispondono al progetto estetico dell’Illuminismo maturo, cui Mozart terrà fede sino alle ultime opere. Tra gli aspetti più rilevanti della partitura si considerino l’invenzione melodica originale e pregnante, l’economia tematica già notevole, la vivacità ritmica e l’eufonia nella scrittura orchestrale (prossima alle sinfonie giovanili), la costruzione di arie ‘in miniatura’ perfettamente chiaroscurate, tramite l’inserimento di una sezione contrastante. Globalmente questo Singspiel rappresenta quanto di più originale il giovane compositore andasse componendo per il teatro in quegli anni, attingendo – nonostante l’apparente semplicità e immediatezza dell’espressione – a un grado di complessità di scrittura già del tutto personale; vi si trovano gesti vocali di carattere buffo degni dei capolavori della maturità, come quello che segnala lo scatto d’orgoglio di Bastienne, quando Colas osa supporre che anche lei possa essere infedele. A un altro luogo della maturità mozartiana, al Flauto magico, rimanda invece la decisione di Bastien di uccidersi, se non potrà avere l’amore di Bastienne: sembra di sentire i propositi di Papageno, e infatti anche in questo caso il suicidio è solo annunciato. Viene quindi descritto l’incedere un po’ vacuo dell’incostante Bastien, mentre poco dopo il mago Colas esibisce i suoi poteri tra le formule esoteriche di un’aria memorabile (“Diggi, Daggi, schurry, murry”), ambientata, in perfetta maniera Sturm und Drang, nell’atmosfera cupa del do minore, e felicemente controbilanciata dal brano seguente, l’intenso, sereno minuetto di Bastien, creando così un dittico inferi/campi elisi omologo all’Orfeo ed Euridice gluckiano». (Raffaele Mellace)

Una curiosità dell’ouverture di Bastien und Bastienne è la sua somiglianza della sua idea musicale con uno dei temi principali della sinfonia “Eroica” di Beethoven. «Una comica coincidenza» la definisce Edward J. Dent.

Nella traduzione francese di Mirabelle Ordinare, che cura anche la messa in scena, il Singspiel è presentato dunque a un pubblico prevalentemente di giovanissimi che all’ingresso nella sala ricavata nell’edificio dell’Opéra Bastille si trova davanti un coloratissimo Luna Park con il gazebo dell’orchestra, il tiro a segno gestito da Bastiana –  e i suoi suoi agnelli sono i peluche che si possono vincere – la baracca dell’indovino Colas e il carrello dello zucchero filato. Una scenografia, quella di Philippine Ordinaire, accattivante per il particolare pubblico (ma contemporaneamente nella sala grande il Wozzeck di Marthaler è anch’esso ambientato in un luna park…) ma la regia non fa molto per animarla. Ancora una stranezza: i primi recitativi sono cantati, gli ultimi parlati. Sotto la precisa direzione musicale di Iñaki Encina Oyón, i cantanti dell’Academie de l’Opéra danno voce ai tre personaggi. Particolarmente efficace è la giovane interprete di Bastienne Pauline Texier. Bastien è Juan de Dios Mateos, Andriy Gnatiuk è Colas.

Il pubblico gradisce. Anche a Parigi si spera che si siano seminati buoni frutti per il futuro dell’opera.

Roberto Devereux

Gaetano Donizetti, Roberto Devereux

★★★★☆

New York, Metropolitan Opera House, 16 aprile 2016

(registrazione video)

Il glamour si addice al MET

Si completa la “Trilogia Tudor” affidata a Sir David McVicar. E  Roberto Devereux arriva al Metropolitan Opera House per la prima volta – la mitica Beverly Sills aveva presentato la sua Elisabetta alla New York City Opera.

«Routine di alta classe» è stato definito il suo allestimento, infatti è prezioso e calligrafico anche questo terzo suo episodio delle regine Tudor, con le eleganti e lugubri scenografie disegnate dal regista stesso e i sontuosi costumi d’epoca di Moritz Junge. Curatissimi come sempre i dettagli, come le figure di morte ai lati del portale, memento mori onnipresente o il manichino con l’abito della regina che, subito dopo l’esecuzione del conte di Essex, entra in scena senza testa.

Ma non solo i particolari scenografici, ben più preziosi sono quelli sui personaggi: Elisabetta che confronta la pelle liscia e fresca di Sara con la sua proprio nel momento in cui parla di una possibile rivale, o lo sguardo di Roberto quando osserva la vecchia regina dall’andatura traballante. Durante la sinfonia, che cita l’inno God save the Queen, vediamo la corte osservare il catafalco della regina lasciare il posto al trono. Lo scambio inverso avverrà alla fine, «Dov’era il mio trono s’innalza una tomba…».

La vera Elisabetta nel 1601, anno della morte di Essex, aveva 67 anni. Sopravviverà ancora due anni lasciando il trono a Giacomo I, come recitano gli ultimi due versi del libretto del Cammarano: «Non regno… non vivo… Escite… Lo voglio… | Dell’anglica terra sia Giacomo il re».

I cortigiani di Elisabetta si trasformano nel plaudente pubblico in costume che non abbandona mai i laterali della scena e la balconata, sempre presente anche nei momenti più intimi. Come se si fosse al Globe. Tutto sembra nascere da una didascalia dell’aria di Elisabetta (III, 6) «(gettando uno sguardo alle Dame, e rammentandosi d’esser osservata)» o dall’ultimo verso del coro: «rammenta le cure del soglio: | chi regna, lo sai, non vive per sé», ma la finzione continua fino al momento degli applausi finali, quando gli artisti si inchinano anche verso questo finto pubblico.

La partitura del Devereux mostra un’orchestrazione quasi cameristica che Maurizio Benini non esalta nella sua trasparenza, privilegiando invece tempi spediti che non sempre favoriscono i cantanti. Sondra Radvanovsky ha interpretato tutte e tre le regine in una sola stagione qui al MET e come Elisabetta gioca le sue carte di volume sonoro e resistenza vocale, vincendo in entrambe. Il timbro non è dei più piacevoli, ma gestisce bene un’estensione amplissima con cui affronta sia i passaggi drammatici che l’espressività dei cantabili. Meno convincente è nei recitativi – qui il fatto di non essere di lingua italiana ha il suo peso – e nei passaggi di coloratura più impervi. Di grande effetto il suo ingresso nell’abito bianco con “ali” inamidate, viso laccato di bianco e parrucca rossa. Nel finale, spogliata di tutti gli orpelli, si rivela con la fragilità e la solitudine di una vecchia signora malata.

Il Roberto Devereux di Matthew Polenzani ha i suoi punti di forza nei fiati, nel fraseggio e nell’articolazione della parola. Sfumature e mezze voce hanno reso mirabile la cavatina della Torre e il duetto con Sara Duchessa di Nottingham, qui una Elīna Garanča dal timbro sontuoso, un’espressività controllata e una fascinosa presenza scenica. Presenza scenica e bella vocalità non mancano neppure a Mariusz Kwiecień, Duca di Nottingham. Più o meno deludenti le parti secondarie per una serata comunque esaltante che manda il pubblico in delirio.