Mese: agosto 2024

L’idiota

foto © SF/Bernd Uhlig

Mieczysław Weinberg, L’idiota 

Salisburgo, Felsenreitschule, 23 agosto 2024

(video streaming)

★★★★★

Dostoevskij a Salisburgo, #2

Le seconda incursione dostoevskiana del Festival di Salisburgo include il romanzo L’idiota. In fuga, incalzato dai debiti, tormentato dagli attacchi di epilessia, morbosamente attratto dal gioco: è in queste condizioni che Fëdor Dostoevskij scrive il suo grande capolavoro iniziato sul lago di Ginevra nel settembre del 1867, proseguito a Milano e terminato nel gennaio del 1869 a Firenze. Il suo romanzo “polifonico” è messo in musica e costituisce la settima e ultima opera di Mieczysław Weinberg, il compositore russo-polacco di cui si è conosciuto e apprezzato La passeggera, lavoro terminato nel 1968 ma messo in scena solo nel 2010.

Anche L’idiota, scritto da Weinberg nel 1986/1987, ha dovuto attendere il 9 maggio 2013 per vedere la prima assoluta, a Mannheim, diciassette anni dopo la morte dell’autore, diretto da Thomas Sanderling, amico del compositore. Il testo in quattro atti e dieci scene del musicologo e librettista Alexandr Medvedev, lo stesso de La passeggera, condensa abilmente le vicende del lungo e complesso romanzo in una narrazione dal taglio quasi cinematografico in cui le scene talora si sovrappongono.

Atto primo. Scena I. Incontro in treno. Di ritorno da un lungo soggiorno in un sanatorio in Svizzera, dove ha trascorso diversi anni a causa della sua salute cagionevole per curare le sue crisi epilettiche, il principe Myškin o “l’Idiota” come viene chiamato da alcuni, un giovane appartenente ad un’altolocata ma ormai decaduta famiglia nobile, sta per arrivare a San Pietroburgo dopo aver attraversato l’Europa in treno. Sul treno incontra Rogožin e Lebedev. Nonostante le differenze sociali e le storie di vita incomparabili, Myškin, e Rogožin stringono subito una sincera amicizia. Rogožin gli racconta del suo amore sfrenato per Nastas’ja Filippovna. Lebedev, un personaggio che apparirà più volte in quest’opera per introdurre o commentare gli sviluppi della storia, sostiene di conoscere tutti e offre i suoi servizi a Rogožin. Scena II. A casa degli Epančin. Il Principe non conosce nessuno a San Pietroburgo. Va a trovare la famiglia Epančin. La madre è una lontana parente che non ha mai incontrato. Lei e suo marito hanno tre figlie: Aleksandra, Adelaida e Aglaja. Il generale Epančin e Totskij discutono del loro progetto segreto. Totskij, un uomo di mezza età, ha cresciuto Nastas’ja, un’orfana che ha reso sua amante qualche anno fa. Ora vuole sposare una donna con una buona reputazione. Dal canto suo, Nastas’ja ha promesso di rendere pubblica la sua decisione la sera della sua festa di compleanno: accetterà di sposare Ganja Ivolgin, un giovane a cui Totskij ha dato una grossa somma di denaro per convincere la giovane donna. L’altro piano di Totskij è quello di sposare la figlia più giovane di Epančin, Aglaja. Con grande sorpresa di Epančin, quando Ganja gli mostra una fotografia di Nastas’ja, il principe non solo rimane affascinato dal suo viso, ma dice di conoscerla per nome grazie a un certo Rogožin incontrato sul treno. Il principe racconta poi alla signora Epančin e alle sue figlie del suo soggiorno in Svizzera e sottolinea l’importanza fondamentale per lui dei bambini e delle montagne. In cima alle montagne si trova la verità, dice. Gli Epančin sono tutti sorpresi e affascinati dalla personalità del giovane. Da parte sua, Rogožin, con l’aiuto di Lebedev, cerca di raccogliere più denaro possibile per convincere Nastas’ja, alla sua festa, a partire con lui e non con un altro.
Atto secondo. Scena III. A casa degli Ivolgin. Il Principe riflette sulla bontà e sul male. Si è trasferito dagli Ivolgin e cena con i coniugi, il figlio Ganja e la figlia Varya. Tutti attendono la decisione di Nastas’ja Filippovna, che Varya detesta a causa della sua reputazione e dei suoi rapporti poco chiari con gli uomini. Con grande sorpresa di tutti, Nastas’ja Filippovna visita casa Ivolgin senza essere invitata. Per la prima volta, il Principe si trova faccia a faccia con Nastas’ja Filippovna. È profondamente commosso. Arrivano Rogožin e i suoi usurai. Rogožin attacca Ganja. Assicura a Nastasya che raccoglierà una somma molto più grande del suo rivale. Indignato, il Principe interviene e chiede a Nastas’ja Filippovna se non si vergogna del suo comportamento e di aver accettato di essere trattata come una merce volgare. Colpita dalle parole del Principe, Nastas’ja Filippovna si avvicina alla madre di Ganja, le bacia la mano e se ne va. Scena IV.
Il giorno del Santo. A casa di Nastas’ja la festa è in pieno svolgimento. Tutti attendono l’annuncio della decisione di Nastas’ja. Anche se nessuno lo aspettava, né la padrona di casa né i suoi ospiti, appare il Principe. Dice a Nastas’ja che tutto ciò che la riguarda è perfetto. La donna è divertita da parole che non le sono mai state rivolte prima. Nastas’ja chiede al Principe se deve accettare di sposare Ganja. Lui risponde: «No». Nastas’ja dice agli ospiti che ora è una donna libera. Rogožin arriva con un’enorme somma di denaro. Scopre che l’uomo che gli impedisce di sposarla non è più Ganja, ma il Principe. Il Principe dice a Nastas’ja che la ama, che è una donna onesta che ha sofferto e che vuole prendersi cura di lei. C’è una nuova sorpresa per tutti: un documento che il Principe ha ricevuto e portato alla festa afferma di essere l’erede di una notevole fortuna. Nastas’ja ripete che nessuno le ha mai parlato come il Principe. Ma alla fine decide di lasciare la festa con Rogožin e di sposarlo. Dice che il Principe è così innocente che lei lo macchierebbe. Non vuole essere per lui quello che Totskij è stato per lei. Per lei, il Principe deve sposare Aglaja. Prima di partire con Rogožin, getta nel fuoco il denaro raccolto da Rogožin. Se ne vanno. Epančin dice al Principe che è una donna perduta. Lui risponde che deve essere salvata.
Atto terzo. Scena V. Dai Rogožin. Cinque mesi dopo. Veniamo a sapere che Nastas’ja e Rogožin dovevano sposarsi, ma poco prima della cerimonia lei fuggì dal Principe, chiedendogli di salvarla. Poi ha lasciato il Principe per tornare da Rogožin a San Pietroburgo. Per questo motivo il Principe si reca in visita a Rogožin. Il Principe vuole dirgli che questo futuro matrimonio sarebbe un disastro, sia per Nastas’ja che per lui, Rogožin. Gli dice che non è un suo rivale, perché lui, il Principe, ama Nastas’ja non per amore ma per pietà. Rogožin sostiene che entrambi amano la stessa donna, ma che lei lo odia e che è scomparsa da cinque giorni. Dichiara che la pietà del Principe per Nastas’ja è maggiore, ma peggiore, del suo amore per lei. Aggiunge che Nastas’ja è innamorata di lui ma che non lo sposerà perché non vuole rovinargli la vita. Su invito di Rogožin, i due uomini si scambiano le croci che portano al collo. Alla fine annuncia che si arrende, che Nastas’ja deve andare con il Principe, che è il suo destino. Una volta in strada, il Principe è sopraffatto dalla forza dell’amore di Rogožin per Nastas’ja. Dice che arriverà a capirla, che anche lui proverà pietà per lei. La compassione, dichiara, è la più potente delle leggi. Il Principe ha un attacco epilettico proprio quando Rogožin appare con un coltello. Di fronte al Principe a terra, Rogožin fugge. Scena VI. Il povero cavaliere. Il Principe è immerso in un sogno. Si sta riprendendo da una violenta crisi epilettica. Lebedev gli dice che Nastas’ja ha paura di Aglaja. A casa Epančin. Davanti ai genitori, alle sorelle e al principe, Aglaja canta il poema del povero cavaliere, che parla di un uomo e dell’ideale che persegue. Conclude con le lettere N. F. B., che stanno per Nastas’ja Filippovna Baraškova, una provocazione al Principe. Egli dice ad Aglaja che lei è la sua luce e la sua gioia, ma lei risponde che non lo sposerà mai. Il principe è confuso perché non le ha mai chiesto di sposarlo. Aglaja scoppia a ridere e porta il principe a un concerto. La signora Epančin parla delle sue tre figlie nubili e delle sue preoccupazioni per loro. Scena VII. Due incontri. Il Principe ha ricevuto una lettera da Aglaja che gli chiede di incontrarla per discutere di una questione che lo riguarda. Una volta insieme, lei gli dice innanzitutto che sta cercando un senso alla sua vita, che sogna di studiare. Il Principe le dice ancora che per lui lei è la luce. Questo provoca un violento rimprovero da parte di Aglaja, che rivela di sapere che il Principe ha vissuto in segreto con Nastas’ja per un mese intero. Il Principe reagisce dicendole che non ama Nastas’ja, ma che prova un’infinita pietà per lei. Aglaja allora gli dice che Nastas’ja le ha scritto, implorandola di sposare il Principe. Aggiunge che è sicura che il Principe sia l’unico uomo che Nastas’ja ama, ma che sposerà Rogožin e si ucciderà se lei, Aglaja e il Principe si sposeranno. Il Principe le dice che è pronto a dare la vita per salvare Nastas’ja, ma che non può più amarla. Aglaja minaccia di rivelare al padre l’esistenza di queste lettere e dice di essere pronta a far rinchiudere Nastas’ja. Il Principe è sconvolto. Si sente incapace di portare gioia al mondo. All’improvviso appare Nastas’ja. Si inginocchia davanti a lui, gli chiede se è felice e giura che il giorno dopo sparirà dalla sua vita. Rogožin appare e vuole sapere perché non ha risposto alla domanda di Nastas’ja. Il Principe risponde che no, non è felice.
Atto quarto. Scena VIII. La confessione di Lebedev. Gli Epančin discutono dei meriti di Aglaja che sposa il Principe. La signora Epančin si oppone fermamente. Davanti ai genitori e alle sorelle, Aglaja provoca il Principe e gli chiede quando finalmente le farà la proposta. Il Principe è sconcertato, le dice che lei è l’unica persona per cui prova amore. Lebedev rivela al Principe che Aglaja ha deciso di incontrare Nastas’ja. Il Principe è sconvolto e dichiara di aver intuito che il destino sarebbe intervenuto e che Nastas’ja sarebbe apparsa all’ultimo momento. Scena IX. I rivali. A casa di Rogožin. Le due coppie sono nella stessa stanza. Aglaja dice a Nastas’ja che le deve delle risposte alle sue lettere. Accusa violentemente Nastas’ja di egoismo e le proibisce di amare il Principe. Aglaja sostiene di sapere come dargli l’amore di cui la sua anima unica ha bisogno. Nastas’ja le risponde violentemente, dicendo che è gelosa e spaventata e le chiede di andarsene. Se non se ne va, Nastas’ja dichiara che chiederà immediatamente al Principe di lasciare Aglaja per sempre e dice a Rogožin che non ha più bisogno di lui. Il Principe è sconvolto. «È così infelice», dice di Nastas’ja. Aglaja se ne va, convinta che la sua relazione con il Principe non sia più possibile. Anche Rogožin se ne va. Nastas’ja e il Principe rimangono soli. Lebedev commenta ciò che accadrà in seguito. Il matrimonio previsto tra il Principe e Nastas’ja non ha avuto luogo. Poco prima della cerimonia, Nastas’ja scappò con Rogožin, che aveva notato tra la folla, gridando: «Salvami! Portatemi via! Dove vuoi tu!». Scena X. La riconciliazione. Il Principe vuole rivedere Rogožin. Si reca a casa sua. Non ha più visto Nastas’ja da quando ha abbandonato la cerimonia nuziale. Rogožin gli dice che Nastas’ja è a casa sua. Il Principe capisce cosa gli sta dicendo Rogožin: ha ucciso Nastas’ja. Il Principe viene poi a sapere che Rogožin l’ha uccisa usando lo stesso coltello che avrebbe usato per uccidere lui, il Principe Myškin. Rogožin e il Principe decidono di passare la notte accanto al corpo di Nastas’ja.

La presente produzione salisburghese de L’idiota è quella che potrebbe confermare il nome di Weinberg nella trilogia dei russi della seconda metà del Novecento, assieme a Prokof’ev e Šostakovič cioè. Lo fanno prevedere la qualità dello spettacolo affidato per la parte visiva a un altro polacco, Krzysztof Warlikowski che ambienta la vicenda nella Russia del passato presente. La scenografia della moglie Małgorzata Szczęśniak copre le arcate della Felsenreitschule con una lunghissima parete di legno in cui si inserisce uno schermo per la proiezione dei video di Kamil Polak e un ambiente aggettante chiuso, per le scene più intime. Pochi altri elementi occupano lo spazio immenso del palcoscenico che permette la compresenza di scene diverse. Concepito prima dell’invasione dell’Ucraina, lo spettacolo ha assunto un ulteriore significato, come scrive il regista: «Dostoevskij è una figura pericolosa. Non ha mai nascosto il suo lato antisemita, razzista, nazionalista, panslavo e, alla fine della sua vita, zarista. È la grande mente dietro l’immagine della Russia eterna, forte, dominante e oscura. Oscura e in conflitto con i valori dell’Europa occidentale. Sorprendenti sono le analogie con quanto sta accadendo dal 24 febbraio 2022, o più precisamente dall’occupazione di parte del Donbass e della Crimea nel 2014. Se il genio di Dostoevskij non fosse stato al servizio del nazionalismo, forse i russi non sarebbero diventati gli autori di tutto ciò che hanno commesso nel corso del XX secolo e di ciò che vediamo oggi in Ucraina». 

A contrasto di tutto ciò è la figura dell’“idiota”, che non ha nulla in comune con gli altri, che siano persone fondamentalmente oneste o irrimediabilmente malvagie. Candido, incorrotto, incapace di mentire, Myškin è convinto di poter cambiare le persone e salvare il mondo: «Non entro in gioco», scriverà a un certo punto sulla lavagna e dirà che la bellezza non è morta, è solo passata di moda. La sua diversità solitaria è la stessa del compositore, ebreo polacco perseguitato sia dal nazismo che dallo stalinismo, un uomo che a causa delle proprie vicissitudini ha ragionato sulle questioni esistenziali e filosofiche poste dal romanzo di Dostojevskij. «L’idiota è Cristo?» si chiede Warlikowski, e prima di lui molti altri. La risposta è positiva secondo il regista, che a un certo punto mostra il Principe dopo un attacco della sua malattia disteso come Il corpo di Cristo morto nella tomba nel realistico dipinto di Hans Holbein il Giovane del 1521. 

Nell’opera di Weinberg i cantanti non hanno a disposizione arie o ariosi, tutto è affidato a un canto declamato e di conversazione e alla qualità attoriali degli interpreti che sono adeguatamente guidati dal regista, com’è il caso del viscido e inquietante Lebedev, anche prestigiatore e onnipresente in scena, a cui il baritono ucraino Iurii Samoilov presta la sua sorprendente personalità. Personalità che non manca neppure a Ausrine Stundyte, una intensa Nastas’ja Filippovna, in cui il soprano lituano ha sviluppato un suo particolare stile espressivo perfettamente consonante con il personaggio di femme fatale, ma anche fragile donna che sarà uccisa dal suo uomo. Un vero tour de force è quello di Bogdan Volkov, tenore russo di bellissimo timbro e grande resistenza in quanto quasi sempre in scena nella sofferta parte del titolo. Il ruvido personaggio di Rogožin trova un efficace interprete nel baritono bielorusso Vladislav Sulimskij. Il basso inglese Clive Bayley e il mezzosoprano russo Margarita Nekrasova formano la coppia degli scafati Epančin, la cui figlia Aglaja deve al mezzosoprano australiano Xenia Puskarz Thomas le noti dolenti della “ballata del cavaliere povero”. Ben caratterizzato vocalmente e attorialmente il Ganja del tenore slovacco Pavol Breslik, mentre il tenore ucraino Alexander Kravets dà voce al surreale personaggio dell’arrotino, un’invenzione del librettista.

La musica di Weinberg ricorda quella del maestro Šostakovič, ma con una personalità distinta. Tonalità, atonalità, politonalità, complessità di ritmi, sono abilmente utilizzate dal compositore per costruire una partitura ricca di momenti teatralmente spiazzanti come l’assolo alla tastiera di Lebedev o le note dell’ambulanza nella musica che accompagna l’attacco epilettico del Principe, mentre le pagine più turgide stanno accanto a quelle più rarefatte per costruire una sicura tensione narrativa. Una paletta di colori e sensazioni messe in chiara evidenza e perfetto controllo dalla bacchetta della giovane lituana Mirga Gražinytė-Tyla alla guida dell’orchestra dei Wiener Phiharmoniker. Appropriati sono risultati gli interventi del coro maschile del Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor istruito da Pawel Markowicz. Il grande successo di pubblico fa sperare che lo spettacolo possa essere ripreso altrove. La registrazione video è disponibile su medicitv.

Il giocatore

foto © SF/Ruth Waltz

Sergej Prokof’ev, Il giocatore

Salisburgo, Felsenreitschule, 22 agosto 2024

★★★★☆

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Dostoevskij a Salisburgo, #1

Due le opere in programma quest’anno al Festival di Salisburgo tratte da Dostoevskij: L’idiota di Weinberg e Il giocatore di Prokof’ev, entrambe rappresentate nel particolare spazio della Felsenreitschule.

Opera scritta nel momento sbagliato e per un pubblico sbagliato, quella di Prokof’ev è entrata in repertorio solo due decenni dopo la morte del suo autore e non è mai stata messa in scena, lui vivente, nel suo paese. Scritta con ansia febbrile dal novembre 1915 al gennaio 1917 non può essere presentata a causa della Rivoluzione Russa e dell’arresto a marzo del direttore dei teatri imperiali. Dieci anni passano e Prokof’ev ne appronta una versione per essere messa in scena da Vsevolod Mejerchol’d al Teatro dell’Accademia di Stato di Mosca, ma la produzione viene cancellata. Il compositore accenta con riluttanza l’offerta del Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles e il 29 aprile 1929 vede finalmente la prima, anche se in lingua francese (1). Le critiche non furono positive e nessun altro teatro fu disposto a metterlo in cartellone. A parte una suite in cinque parti (Quattro ritratti e un finale da “Il giocatore” op. 49, 1931), l’opera fu ascoltata in Russia in forma orchestrale solo nel 1963, cinque anni dopo la morte di Prokof’ev, e nel 1975 finalmente messa in scena al MET di New York dal Bol’šoj Teatr, ma lo stesso MET ne montò una sua produzione solo nel 2001, lo stesso anno in cui fu data la prima volta a Mosca diretta da Gennadij Roždestvenskij. Ha ragione quindi il regista Peter Sellars a dire nel programma di sala della produzione salisburghese che «Stiamo ancora imparando ad ascoltare questo lavoro: ormai è sicuramente musica del nostro presente, ma forse per la nostra generazione incombe ancora come musica del futuro». 

Ed è Timur Zangiev, il giovane direttore che all’ultima Dama di picche della Scala aveva egregiamente sostituito Valerij Gergiev, allora allontanato dal teatro perché politicamente esposto col leader russo, a dare vita a questa partitura, una stilizzata musica da cartoni animati per sequenze comiche evocanti l’età d’oro della musica del teatro d’avanguardia, sferragliante ad imitazione della meccanicità, del roteare delle roulette, dei clicchettii delle palline. Un ritmo che incalza l’azione come nelle accelerate pellicole dei film muti. Con la sua concertazione puntuale e appassionata i Wiener Philharmoniker diventano una macchina che non perde un colpo, che avanza inesorabile alternando brevi oasi liriche a momenti di grande umorismo, con gli scintillanti colori che il sapiente gioco di luci di James F. Ingallis echeggia visivamente.

 

L’elemento visivo dello spettacolo congegnato da Peter Sellars è affidato al sempre geniale George Tsypin che trasforma lo spazio scenico della Felsenreitschule in una sala da gioco che più che la Roulettenburg della Germania del 1865 sembra un’allucinata Las Vegas di oggi, ma con roulette che alzandosi ed abbassandosi diventano una flotta di astronave aliene da videogame di un tempo. rutilanti di luci. Un ulteriore tocco straniante è dato dalle chiazze di muschio che coprono il pavimento, le arcate dello sfondo, ma anche le “astronavi”, rispecchiando il senso di tragica irrealtà in cui è immersa la vicenda: raramente la consonanza tra musica e aspetto visivo ha raggiunto un risultato così felice come in questo allestimento. Peter Sellars con la sua consumata abilità gestisce i cammini incrociati di un generale russo indebitato fino al collo, della vecchia straricca ma presto indigente per la frenesia del gioco, dell’ambiguo Marchese des Grieux, della spregiudicata M.lle Blanche, della figliastra Polina e del precettore Alexei Ivanovich. Tutti dominati dalla sete di denaro e dalla vanità, tanto da sacrificare affetti e amori. I personaggi sono persone di oggi, negli abiti contemporanei di Camille Assaf, e si muovono freneticamente sul vasto spazio del palcoscenico ma con fluidità e con gustosi effetti umoristici.

Affiatatissimo il cast: Peixin Chen è un Generale dalla voce autorevole, solo un pochino monotona; Sean Panikkar (Alexeij Ivanovič) riempie con facilità la strana sala con la grande proiezione del suo mezzo vocale; Asmik Grigorian ritorna nella parte di Polina dopo averla cantata nella produzione del marito al Teatro Nazionale Lituano e riesce a dare significato a un personaggio così complesso con la sua magnetica presenza scenica e il nervoso fraseggio; il Marchese di Juan Gatell è giustamente caratterizzato così come il Mr.Astley di Michael Arivony e il Barone Wurmerhelm di Ilia Kazakov, mentre Nicole Chirka delinea efficacemente l’arrivista Blanche. Menzione a parte per Violeta Urmana, che calamita l’attenzione fin dalla sua prima apparizione come la Babulenka che sperpera al tavolo da gioco il suo ricco patrimonio. Il palcoscenico si affolla all’inverosimile con l’arrivo dei tanti giocatori al quarto atto e qui la Konzertvereinigung Wiener Staatsopernchor preparata da Pawel Markowicz si dimostra perfettamente all’altezza della situazione nel frenetico bailamme degli interventi solistici.

Grande è il successo dello spettacolo con particolari ovazioni per Grigorian, Urmana, Panikker e il direttore Zangiev.

(1) Due anni fa l’opportunità di conoscere questa versione è stata data dal Festival di Martina Franca.

Les contes d’Hoffmann

foto © SF/Monika Ritterhaus

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 21 agosto 2024

★★

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Estetica della bruttezza

Nell’intervista riportata sul programma di sala Mariame Clément afferma che la vicenda narrata ne Les contes d’Hoffmann «è paradossale».

«È l’Opera, mia cara!» verrebbe da risponderle. L’opera è per definizione paradossale, assurda: degli artisti che fingono di essere altri personaggi e che esprimono i propri pensieri cantando su un palcoscenico lontano dal mondo reale e illuminato dalla luce artificiale! E che cosa fa la regista francese per risolvere il “problema”? Costruisce sulla “astrusa” vicenda una drammaturgia, firmata da Christian Arseni, ancora meno convincente, dove il poeta Hoffmann è un regista fallito a causa dell’abuso di alcol e stupefacenti e le tre storie che racconta sono altrettante riprese di film. Un’idea non solo non nuova, ma la stessa che l’anno scorso aveva fatto del Falstaff di Christoph Marthaler lo spettacolo più brutto del festival – e anche la produzione di questa “opéra fantastique” di Jacques Offenbach si candida a essere lo spettacolo più brutto prodotto dal Festival di Salisburgo di quest’anno, ma probabilmente anche della stagione finora trascorsa.

Nel Prologo, all’apertura di sipario sullo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus, ai piedi di squallidi muri grigi vediamo un barbone che dorme sotto un carrello di supermercato pieno di bottiglie e pellicole – quelle dei suoi fallimentari film – mentre nella buca dell’orchestra il coro canta «Glou! Glou! Glou! Je suis le vin! | Glou! Glou! Glou! Je suis la bière!». Da un bidone dell’immondizia – vabbè, nell’originale era una botte – esce la Musa che si cambia in Nicklausse. Entrano comparse in costumi di varie epoche e la taverna di Mastro Luther diventa la caffetteria della scalcinata produzione cinematografica. Il senzatetto si alza e inizia senza molta logica la “chanson e scène” di Kleinzach mentre i suoi ricordi amorosi diventano spezzoni di pellicole esaminate con curiosità dagli avventori che si sistemano sulla destra – tanto c’è spazio sul palcoscenico – per assistere alla proiezione (?) di quello che vediamo rappresentato sulla sinistra, ossia l’atto di Olympia. Qui non è una bambola meccanica ma l’attricetta di un filmaccio di fantascienza, la quale si atteggia a Jane Fonda in Barbarella, tra continue e interminabili gag. Non migliorano la triste esibizione della sua “chanson d’Olympia” i volgari costumi anni ’60 di Julia Hansen, che firma pure la scenografia.

Anche Antonia è un’attrice di un film, questo sembra di fantasmi, in costumi ottocenteschi, ma la ragazza qui non muore di consunzione, fugge con un altro regista mentre è Hoffmann a stramazzare per terra colpito da un infarto dovuto anche alle droghe di cui continua fare abuso. Diverso è il caso di Giulietta, la cortigiana veneziana, di cui non è chiara la situazione. Ovviamente di Venezia e dei suoi canali qui non c’è traccia: gli squallidi muri grigi ruotano e mostrano delle scaffalature di legno altrettanto brutte e costellate di tubi al neon azzurrini. Che la barcarola cantata al tavolaccio della solita cantina sfogliando dei copioni non susciti nessun applauso non sorprende, come non sorprende che le più belle e commoventi pagine dell’ultimo capolavoro di Offenbach non causino la minima emozione, eseguite come sono in mezzo al traffico di operatori, inservienti, segretarie di produzione, comparse, con Hoffmann che finge di dare istruzioni in continuazione, senza quasi interessarsi alle sue “amate”. L’operazione di de-emozionalizzazione della Clément non si sa a che cosa voglia mirare. Certo non a farci apprezzare le divine musiche del Mozart degli Champs-Élysées.

Lo squallore visivo deve aver contaminato anche la spenta concertazione di Marc Minkowski che riesce ad ottenere dai Wiener Philharmoniker solo un’esecuzione a livello di minimo sindacale. Immeritati sono comunque i buu a lui indirizzati alla fine della rappresentazione. In parte saranno dovuti alla versione scelta da Minkowski: come si sa Offenbach ci ha lasciato il suo canto del cigno senza una versione che si possa definire definitiva. Come per le leggi della fisica, nessuna è definitiva fino a che non ne viene scoperta una nuova, ma nel ginepraio di versioni più o meno diverse si è affermata quella di Michael Kaye e Jean-Christophe Keck (2009), la più vicina alle intenzioni dell’autore. Rispetto alla consueta Choudens, ancora imperversante soprattutto nei teatri italici, è il terzo atto quello più diverso dal solito e probabilmente è questo che ha spiazzato qualcuno del pubblico.

Non molto meglio vanno le cose sul piano dei cantanti. L’affidare le tre parti femminili di Olympia, Antonia e Giulietta (qui quattro: anche Stella) alla stessa interprete è un atto rischioso che funziona (ma anche così con risultati non sempre eccelsi) solo quando si ha un’interprete di eccezione e pensare di farlo con Kathryn Lewek è per lo meno azzardato: il soprano americano sarebbe convincente come Antonia se la regia non cercasse di renderle la vita più difficile, ma come Olympia la sua performance, pur priva di falle, è la più noiosa tra quelle che abbia mai ascoltato. Infine, come Giulietta manca della seduzione del personaggio qui reso incomprensibile dalla regia che non la aiuta certo in una presenza scenica che non è la sua dote migliore. Christian van Horn è l’esempio di come il regista possa esaltare o sminuire un personaggio: nel suo recente Don Chisciotte nella spettacolo di Michieletto il basso-baritono americano aveva raggiunto un’interpretazione eccelsa, nella quadruplice parte di Lindorf/Coppélius/Miracle/Dapertutto non lascia traccia nella memoria pur con gli stessi mezzi vocali. La Musa/Nicklausse di Kate Lindsey è spesso coperta dall’orchestra e quando non lo è la voce del soprano di Richmond, spesso in ruoli en travesti, soffre di un eccesso di caratterizzazione e di una dizione non proprio irreprensibile. Anche con lei la regia non fa un buon servizio. Negli altri ruoli non si distinguono per particolari doti Marc Mauillon (Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinaccio), Michael Lorentz (Spoalanzani) e Jérôme Varnier (Crespel/Luther). Bene invece nel suo breve e intenso cammeo della madre di Antonia il mezzosoprano Géraldine Chauvet. Resta infine Benjamin Bernheim, che supera tutti per eleganza, stile, dizione, fraseggio e controllo dei fiati. Certo la voce nell’immensità della Großes Festspielhaus un po’ si perde, ma avercene di Hoffmann come lui.

Alla fine, a parte gli sparuti buu per il direttore, applausi per tutti. In questi casi quello che determina il buon esito di uno spettacolo a Salisburgo è quello che chiamo “effetto 465”, dove 465 è il prezzo in euro di una poltrona di platea e chi li ha sborsati fa di tutto per farsi piacere quello che ha visto.

Innsbrucher Festwochen der alten Musik

foto © Amir Kaufmann

Rondeau

Jean Rondeau, clavicembalo

Innsbruck, Schloss Ambras, Spanischer Saal,  8 agosto 2024

Orlando Perera è stato a questo inedito concerto. Qui la sua cronaca.

Il cembalo magico di Jean

Un concerto per clavicembalo, anzi un concerto tout-court, così non si era mai sentito. Senza programma, come una cena gourmet senza menu: «Non è un programma ma una performance musicale», era infatti l’enigmatica indicazione delle note di sala. Con curiosità forse mai provata nell’ordinario rituale concertistico, abbiamo così ascoltato una sorta di ardito piano-sequenza musicale di quasi un’ora e mezzo, senza pause di sorta. L’inizio è un lungo silenzio, che s’intuisce però già scandito su battute musicali, appena incrinato dopo diversi minuti da una sommessa nota ribattuta, e sviluppato poi morbidamente per linee ignote, in un universo sonoro continuamente mutevole e quasi inquietante, se non fosse per il sorprendente affiorare qua e là di lacerti riconoscibili.

Un esperimento davvero intrigante, un dono singolare quello che Jean Rondeau 33enne, parigino, talento prodigioso, ha voluto offrire nella rinascimentale Spanischer Saal del Castello di Ambras, alle Festwochen di musica antica di Innsbruck. Un percorso musicale che procede per analogie misteriose, sprezzante di ogni titolo o riferimento. Ma poi come per magia, in quella nube argentea di suoni affiorano a rassicurarci presenze conosciute, Couperin, uno dei suoi Pièces pour clavecin, autore di un trattato di riferimento anche per questo concerto, “L’art de toucher le clavecin”, Bach, e le Variazioni Goldberg. L’incisione di Rondeau di questo celebre passo bachiano per Erato può ricordare per l’acutezza quasi tormentosa, per la lettura prosciugata fino all’essenza suprema, quella leggendaria, al pianoforte, di Glenn Gould. Ma anche una passacaglia trascritta per clavicembalo di un virtuoso del violino come il salisburghese Ignaz Franz Bieber, e ancora Bach, la celebre “ciaccona per violino solo”, nella trascrizione di Brahms.

Dopo di che la sequenza si avvicina a generi e autori più vicini nel tempo, come György Ligeti con la sua Passacaglia ungherese, per approdare infine allo stile jazzistico, l’altra metà dell’ispirazione binaria di Rondeau. Del resto ciò che tipicamente accomuna il repertorio barocco a quello jazzistico è l’improvvisazione. Una sorta di geniale fluidità che sovverte ogni superstite certezza sulla definizione dei generi, anche quelli musicali. In questo modo, Rondeau, con la sua chioma ribelle, il suo aspetto da troll scontroso, proietta uno degli strumenti più antichi, il clavicembalo, nella modernità, anzi nel futuro. L’unico riferimento che viene in mente è Avi Avital, il mandolinista israeliano, che sembra aver travolto ogni limite fisico dello strumento. Cos’hanno in comune clavicembalo e mandolino? Semplice, sono entrambi strumenti a pizzico, che sminuzzano inevitabilmente la musica in frammenti staccati. Ma non è più vero quando a suonarli sono talenti come Rondeau e Avital, che a una tecnica trascendentale, a un legato prodigioso, uniscono una visione cosmica della musica, una dimensione visionaria e sconfinata, nel senso letterale di “senza confini”, dove appunto il suono da intermittente diventa continuo, e la penna di corvo o il plettro che pizzicano le corde, possono imitare un violino, o un flauto o un sassofono…

Quello che s’intuisce di questa sperimentazione, per la prima volta proposta in una prestigiosa sala da concerto (forse, detto tra noi, fin troppo ampia per la delicata voce del clavicembalo), quello che s’intuisce è l’anelito a “smaterializzare” completamente le partiture, la ricerca di un suono assoluto, “puro”. Il raffinato pubblico di Innsbruck ha mostrato di capire molto bene la modernità dell’operazione e la platea stracolma ha poi tributato un vero trionfo a Rondeau. Come bis l’artista ha proposto – ma secondo noi poteva legittimamente chiudere il cerchio del concerto – l’aria tematica che apre e conclude le 30 Variazioni Goldberg, evidentemente una sua spirituale ossessione, proprio come per il citato Glenn Gould – e uno dei capolavori di Jean Philippe Rameau “Les Sauvages”, che ispira il balletto del quarto atto de Les Indes Galantes. Una serata di fascino inaudito, che ha accarezzato le orecchie con le sue squisite sonorità, e l’intelligenza per la sua carica dirompente.

Arianna in Creta

foto © Birgit Gufler

Georg Friedrich Händel, Arianna in Creta

Innsbruck, Haus der Musik, 19 agosto 2024

★★★★☆

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Teseo non perde il filo

Dopo il fallimento per debiti della Royal Academy of Music, la vita teatrale londinese era in fermento con la nascita della compagnia rivale di Händel, la Opera of the Nobility, che nel 1733 debuttava con l’Arianna in Nasso di Nicola Porpora, il Senesino e Farinelli gli interpreti principali. Chissà se Händel aveva scelto l’argomento della sua opera come sfida diretta al lavoro della nuova compagnia o sia arrivato al soggetto indipendentemente dal Porpora.

Il cast della prima dell’Arianna in Creta il 26 gennaio 1734 comprendeva il gotha lirico dell’epoca: il soprano Anna Maria Strada (Arianna), forse la cantante preferita da Händel; il contralto castrato Giovanni Carestini (Teseo), detto il Cusanino; il contralto Maria Caterina Negri (Carilda), specializzata in ruoli maschili en travesti; il soprano castrato Carlo Scalzi (Alceste), paragonato da Metastasio al Farinelli; il soprano Margherita Durastanti (Tauride) prima donna nei maggiori teatri; il basso Gustavus Waltz (Minos), come Händel tedesco naturalizzato inglese; il tenore John Beard (Sonno), creatore di molti personaggi delle opere e degli oratorii del Sassone. Questo dimostra l’importanza che aveva per il suo autore questa Arianna, opera seria in tre atti, adattamento di Francis Colman della Arianna e Teseo di Pietro Pariati, un testo precedentemente intonato oltre che dal Porpora (1727) da Leonardo Leo (1729). Arianna è la 32esima opera di Händel, segue Orlando e precede Ariodante. L’opera ottenne un buon successo con sedici rappresentazioni e venne ripresa nella successiva stagione al Covent Garden.

Antefatto. Il re Minosse di Creta aveva combattuto una guerra con il re Egeo di Atene, che aveva ucciso il piccolo figlioletto di Minosse e rapito la sua bambina che era stata allevata da un alleato del re di Atene, Archeo di Tebe, nella convinzione che fosse suo figlia. Atene fu obbligata a pagare un terribile tributo a Creta come accordo per porre fine alla guerra: una volta ogni sette anni sette giovani ateniesi e sette fanciulle ateniesi dovevano essere inviati a Creta per essere divorati dal Minotauro, un mostro mezzo uomo e mezzo toro che si celava in un labirinto da cui la fuga era praticamente impossibile. Il sacrificio umano degli Ateniesi poteva essere terminato solo da un eroe che uccidesse il Minotauro e sconfiggesse Tauride, un invincibile guerriero di Creta. L’eroe ateniese Teseo decise di farlo e porre fine alla sofferenza dei suoi popoli e anche per unirsi con Arianna, che amava e che Minosse aveva chiesto come ostaggio per garantire che i giovani ateniesi fossero inviati per il sacrificio.
Atto I. Gli Ateniesi si imbarcano a Creta, con accanto una tavoletta di pietra recante inscritti su di essa i termini del tributo dovuto. Il Re Minosse accetta la richiesta di Teseo che Arianna sia liberata. Tra le fanciulle ateniesi inviate per essere sacrificate c’è Carilda, la cui bellezza viene notata dal campione di creta Tauride che di colpo si innamora di lei. Carilda però è segretamente innamorata di Teseo e non è interessata né a Tauride né al giovane ateniese Alceste, anch’egli innamorato di Carilda. Teseo dice alla sua amata Arianna che egli è determinato a uccidere il Minotauro, cosicché lei ha paura per la sua sicurezza e dice anche ad Alceste che vuole salvare Carilda da una morte crudele e che lui è il più adatto a farlo. Nel tempio di Giove Re Minosse ordina ad Alceste di estrarre il nome della prima vittima da un’urna. Alceste è disperato quando vede che il nome tratto dall’urna è quello della sua amata Carilda. Teseo si offre di andare nel labirinto per incontrare il Minotauro al suo posto e Minosse accetta, ma questo rende gelosa Arianna, credendo che Teseo lo faccia per amore di Carilda.
Atto II. In un bosco, Teseo medita se debba continuare con il suo piano per cercare di uccidere il Minotauro, o astenersi per riguardo alla sua amata Arianna. Si addormenta e ha una visione del suo destino come liberatore del suo popolo dalla crudele sofferenza. Quando si sveglia è determinato a uccidere il mostro. Alceste, come Arianna, è preoccupato del fatto che Teseo agisca per amore di Carilda, ma Teseo gli assicura che lui non potrà mai amare nessun’altra che Arianna e rivela ad Alceste che Arianna è in realtà la figlia del re Minosse, ma che né lei né il re sanno di questo fatto. Arianna ascolta una conversazione tra Minosse e il campione di Creta Tauride: per avere successo Teseo dovrà tagliare la gola del Minotauro, trovare la via d’uscita del labirinto, usando una palla di corda per segnare la strada, e sottomettere Tauride a dispetto della sua magica cintura che gli dà una forza sovrumana. Anche se è ancora turbata dal pensiero che Teseo stia tentando questo per salvare Carilda che egli ama, Arianna passa queste informazioni a Teseo. Ulteriori incomprensioni rafforzano Arianna nella convinzione che Teseo è innamorato di Carilda, e lei lo accusa di infedeltà. All’ingresso del labirinto, Carilda sta per essere fatta scendere per essere divorata dal Minotauro, quando appare Tauride e la prega di fuggire con lui. Lei rifiuta. Appare anche Alceste, uccide le due guardie e porta via Carilda. Minosse è furioso perché lei è sfuggita e accusa Teseo per questo. e ordina ad Arianna di prendere il posto di Carilda come primo sacrificio al mostro. Arianna si lamenta per il suo cattivo destino.
Atto III. Teseo scende nel labirinto, segnando la strada con un gomitolo di spago e uccide il Minotauro tagliandogli la gola. Salva Arianna e le giura di amarla. Fuori dal palazzo Teseo e Tauride si incontrano in singolar tenzone. La prima azione di Teseo è quella di strappare a Tauride la cintura magica dalla cintola, dopo di che Teseo lo sconfigge facilmente. Il re Minosse annuncia che Teseo ha soddisfatto le condizioni per porre fine al tributo dovuto dagli ateniesi. Teseo chiede il permesso di sposare Arianna e Minosse accetta, a condizione che il padre della giovane dia il suo consenso. Allora Teseo rivela che Minosse stesso è il padre di Arianna, dopo di che Minosse con grande felicità concede alla coppia la sua benedizione. Arianna e Teseo celebrano con gioia il loro amore. All’interno del palazzo un doppio fidanzamento è stato annunciato: l’eroe Teseo sposerà la sua Arianna e Alceste ora è stato accettato da Carilda. Tutti celebrano la svolta fortunata di eventi.

Eseguita nella raccolta sala Kammerspiele della Haus der Musik di Innsbruck, l’Arianna in Creta di Händel perde i connotati mitici della celebre vicenda per acquistare valori più intimi, da Kammerspiel, appunto. Se sullo sfondo c’è il fatto del terribile tributo delle fanciulle date in pasto al mostro Minotauro chiuso nel suo Labirinto, sono le vicende amorose di due coppie, come spesso avviene nell’opera settecentesca, a dominare la scena: quelle di Teseo innamorato di Arianna  e quelle di Alceste e Carilda, la quale inizialmente è tutt’altro che ben disposta verso gli affetti del greco in quanto gli preferisce Teseo. Le diverse storie amorose intrecciate alla vicenda del mostro sono lo spunto per numeri musicali diversissimi e di grande bellezza (1) che l’istinto teatrale di Händel trasforma in una partitura di grande impatto messa in evidenza nei suoi tesori musicali dalla concertazione di Angelo Michele Errico, anche al clavicembalo. La sua è una lettura fluida ed efficace nella scelta dei tempi. La smilza compagine della Barockorchester:Jung – 11 archi, clavicembalo, tiorba, due oboi, fagotto e due corni – risponde con entusiasmo, grande precisione, intonazione ineccepibile dei fiati, cosa non scontata negli strumenti storicamente informati, colori smaglianti ed espressivi interventi solistici, come il violoncello obbligato nell’aria di Alceste «Son qual stanco pellegrino». Errico aveva accompagnato le esibizioni dei partecipanti del concorso Cesti e ora si ritrova a dirigerne i vincitori in questa impegnativa prova che, diciamolo subito, è superata a pieni voti. La qualità dei concorrenti al concorso è sempre elevatissima ed è spesso difficile scegliere i vincitori che si rivelano così la crème de la crème, un’eccellenza nell’eccellenza come è per la voce della protagonista, il soprano Neima Fischer, perfettamente a suo agio nelle agilità richieste dalla parte con luminose incursioni nel registro acuto e sovracuto e variamente espressiva nel tono un po’ lamentoso del personaggio che soffre della sindrome dell’abbandono e solo alla fine si convince dei sentimenti dell’eroe – anche se poi, come sappiamo, sarà dallo stesso piantata in asso… 

Come s’è detto, per la parte di Teseo Händel aveva a disposizione un favoloso artista, il castrato Giovanni Carestini, per il quale scrive pagine di grande impegno che il giovane controtenore Andrea Gavagnin rende con facilità, eleganza e musicalità: le sue sei arie solistiche sono un concentrato di agilità e colorature perfettamente funzionali alla definizione del personaggio, eroico e glorioso. Se non fosse per una carriera già affermata, si potrebbe dire che a star is born, una stella di grande presenza scenica e prestigiosa vocalità che aggiunge il Gavagnin al glorioso manipolo di controtenori italiani, ormai folto e di eccezionale qualità. I soli duetti presenti nell’opera sono affidati alle voci di Teseo e Arianna e in questi numeri si ammirano le diverse personalità dei due giovani cantanti. Anche lei finalista al concorso Cesti dell’anno passato, il mezzosoprano Ester Ferraro veste la parte più commovente della vicenda, quella di Carilda, che la cantante, uscita dal conservatorio di Perugia e scelta da Sebastian Schwarz e Fabio Luisi per l’Accademia del Belcanto Rodoflo Celletti, delinea con grande sensibilità, impeccabile fraseggio e un timbro caldo e armonicamente sontuoso. Una parte limitata ma importante è quella di Tauride, affidata al contralto Mathilde Ortscheidt, intensa nell’espressione e stilisticamente impeccabile. Del soprano Josipa Bilić si ammira la tecnica più che il timbro e la dizione mentre il baritono Giacomo Nanni, che prende su di sé i personaggi di Minos e del Sonno in una delle pagine magiche dell’opera, dimostra la sicura presenza vocale dell’unica voce grave.

La parte visiva dello spettacolo è gestita dal regista Stephen Taylor con sobrietà e intelligenza: l’ambientazione scelta è quella di una prigione in uno stato totalitario del secolo scorso connotato dagli appropriati costumi di Nathalie Prats. La semplice scenografia di Christian Pinaud, che cura anche il gioco luci, delinea un ambiente chiuso le cui pareti in parte ruotano e si possono trasformare nel labiritnto dove avviene il confronto di Teseo col Minotauro, qui un ruolo muto. La regia di Taylor si concentra giustamente sui personaggi esaltandone la psicologia, ma non rinuncia a un momento ironico quando fa vestire Teseo con il traje de luz di un torero dopo l’uccisione della bestia. È il tocco finale che allenta la tensione con il coro che canta «Bella sorge la speranza |  lusinghiera al nostro seno».

Se il Cesare in Egitto di Giacomelli non aveva rivelato un tesoro nascosto, questa Arianna in Creta dimostra una volta di più la genialità teatrale del Caro Sassone. Gli applausi del pubblico sono calorosamente e indistintamente distribuiti tra tutti gli artefici di uno  spettacolo che meriterebbe di essere ripreso.

(1) Struttura dell’opera:
Ouverture. Menuetto.
Atto I
Sinfonia
1. Mirami, altero in volto (Tauride)
2. Dille, che nel mio seno (Carilda)
3. Deh! Lascia un tal desio (Arianna) 
4. Nel pugnar col mostro infido (Teseo)
5. Tal’or d’oscuro velo (Alceste)
6. Quel cor ch’adora vago sembiante (Carilda)
7. Sdegnata sei con me (Teseo)
8. Sdegno, amore (Arianna)
Balli.Gavotta
Atto II
9. So che non è più mio (Arianna)
10. Qual leon che fere irato (Teseo)
11. Narrargli allor saprai (Carilda)
12. Al fine amore m’irriti un core (Teseo)
13. Che se fiera poi mi nieghi (Tauride)
14. Son qual stanco pellegrino (Alceste)
15. Se ti condanno (Minos)
16. Bell’idol amato (duetto Arianna e Teseo)
17. Se nel bosco resta solo (Arianna)
Atto III
Sinfonia
18. Un tenero pensiero (Carilda)
19. Par che voglia il ciel sereno (Alceste)
20. Recitativo e aria Ove son? Quale orrore? – Qui ti sfido, o mostro infame (Teseo)
21. Turbato il mar si vede (Arianna)
22. In mar tempestoso (Tauride)
23. Mira ad esso questo seno (duetto Arianna e Teseo)
24. Bella sorge la speranza (Teseo e coro)

Cesare in Egitto

foto © Birgit Gufler

Geminiano Giacomelli, Cesare in Egitto

Innsbruck, Tiroler Landestheater, 11 agosto 2024

★★★

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L’altro Cesare

Quasi lo stesso titolo, grosso modo la stessa vicenda ma su testo diverso, il Cesare in Egitto di Geminiano Giacomelli vide la luce undici anni dopo il Giulio Cesare in Egitto di Georg Friedrich Händel. Se si fosse tentati di fare un confronto fra i due lavori il risultato sarebbe impietoso per il Cesare del compositore italiano, soprattutto per quanto riguarda il libretto di mano di due sommi, Carlo Goldoni e Domenico Lalli che però confezionano un testo manchevole dal punto di vista drammaturgico – cosa che si riflette anche nell’intonazione del Giacomelli che inanella una serie di arie belle sì, ma che raramente costruiscono una progressione drammatica della vicenda e l’azione rimane sempre in fase di stallo. Sintomatico di questa mancanza di tensione è il momento di massima suspence per la tragica sorte del figlioletto di Cornelia la quale invece non trova di meglio che rivolgersi a Lepido: «Tu m’ami, lo vedo, | fedele ti credo»…

Gli otto personaggi di Händel qui sono ridotti a sei, tre Romani e tre Egizi: Lepido sostituisce Curio ma manca Sesto, il figlio di Cornelia, qui un bambino in un ruolo muto; dalla parte egizia manca il confidente Nireno. Diversa anche la distribuzione delle voci: Giulio Cesare è un soprano, Cornelia un contralto, Lepido un sopranista, Tolomeo un tenore, Cleopatra un mezzosprano e Achilla un controtenore. Tutti i numeri musicali sono formati da arie soliste non molto differenziate le une dalle altre, non ci sono duetti o altri ensemble, a parte il tutti finale, e molto meno sfumati sono i caratteri: Cornelia è una furia vendicatrice senza mezzi termini che arriva a sacrificare il figlio per non cedere alle profferte di Tolomeo («Più ch’acconsenta | all’indegno imeneo, | quest’innocente vittima s’uccida») mentre Cleopatra si dimostra infida e non suscita empatia quando viene presa prigioniera dal fratello – situazione ben diversa invece nell’opera di Händel!

Anche in questo libretto sono presenti le tipiche arie di metafora, ora del torrente, «Scende rapido spumante | dalla rupe, fiume altero» che chiude il secondo atto (analogo a «Quel torrente che cade dal monte» di Händel), ora della nave, «Son qual nave da due venti» del terzo atto, che però non ha nulla a che fare con la famosissima aria del Broschi con lo stesso incipit e colorature ancora più pirotecniche. Questi sono due momenti dove la musica del Giacomelli assume maggiori tinte drammatiche, altrimenti è la piacevolezza melodica della scuola napoletana a prevalere nelle 26 arie solistiche, quasi equamente ripartite tra i personaggi, in cui è strutturata l’opera. (1)

Antefatto. Dopo la sconfitta nella battaglia di Farsalo (48 a.C.) nella guerra civile romana, il generale romano Pompeo fugge in Egitto con la moglie Cornelia e il figlio Sesto. Lì cerca l’aiuto di Tolomeo e di sua sorella Cleopatra, che governano insieme il Paese, per combattere contro Cesare. Tuttavia, Tolomeo teme un attacco di Cesare all’Egitto e fa prigionieri Pompeo e la sua famiglia.
Atto primo. Cesare ha inseguito Pompeo in Egitto. Nel porto di Alessandria, il generale di Tolomeo, Achilla, accoglie festosamente la flotta romana. Come “regalo di benvenuto”, consegna i prigionieri a Cesare. Quest’ultimo è sconvolto dal fatto che i cittadini romani siano trattati come schiavi e concede loro la libertà. Achilla ha un altro regalo: la testa di Pompeo! Cornelia incolpa Cesare dell’omicidio del marito. Giura di vendicare la morte del suo ex amico. Achilla si vanta con Lepido della superiorità dell’Egitto su Roma. Lepido ama Cornelia e vede l’opportunità di conquistarla. Tolomeo e Cleopatra discutono sugli ultimi sviluppi politici. La donna è convinta che la morte di Pompeo abbia messo l’Egitto in una situazione pericolosa e che lei stessa avrebbe fatto meglio a risolvere la situazione con Cesare. Achilla riferisce anche della sua inaspettata reazione ai “regali” di Tolomeo. Cornelia cerca Tolomeo e lo accusa della morte del marito. Tolomeo si offre di sposarla, ma lei lo rifiuta indignata. Anche Lepido confessa il suo amore per Cornelia. Anche lui viene respinto. Cesare minaccia Tolomeo, infuriato per l’ordine di uccidere Pompeo. Cleopatra implora Cesare di essere clemente. Egli la vede per la prima volta ed è sopraffatto dalla sua bellezza. Cornelia chiede giustizia a Cesare, mentre Tolomeo lo accusa di essere ingrato. Cesare ritiene che Tolomeo abbia commesso un crimine contro lo Stato romano e che quindi debba essere processato a Roma. Cornelia, invece, che detesta sia Cesare che Tolomeo, chiede che entrambi siano chiamati a rispondere dell’omicidio del marito. Ma Cesare, accecato dalla sua infatuazione per Cleopatra, perdona Tolomeo. Cleopatra trionfa.
Atto secondo. Achilla aiuta Tolomeo ad attirare Cesare in un’imboscata. In cambio, chiede la mano di Cleopatra. Tolomeo accetta, perché questo gli permetterebbe di governare l’Egitto da solo. Tolomeo si offre nuovamente di sposare Cornelia, ma lei lo rifiuta. Quando Lepido le chiede di nuovo di sposarlo, lei accetta ma a condizione che uccida sia Tolomeo che Cesare. Lepido a realizzazione dei suoi sogni. Cleopatra avverte Cesare della congiura di Tolomeo. Lui le dice che ne è già a conoscenza e si addormenta. Cleopatra si nasconde quando vede avvicinarsi Cornelia e Lepido. Cornelia esorta Lepido a uccidere Cesare addormentato, ma Cleopatra interviene. Quando Cesare si risveglia, Lepido si prende l’unica colpa. Cesare capisce che dietro il tentato omicidio c’è Cornelia. Cleopatra e Lepido cercano di calmare la furiosa Cornelia, ma il suo odio non conosce limiti. Cleopatra chiede a Lepido di riunire tutti i Romani in un esercito per proteggere Cesare da Tolomeo. Achilla si vanta con Cleopatra che Cesare sarà presto catturato e lei diventerà sua moglie. Ma Cleopatra preferisce morire piuttosto che sposarsi. Tolomeo rassicura Achilla: non appena Cesare sarà morto, Cleopatra sarà sua e lui stesso sposerà Cornelia. Gli eserciti di Cesare e di Tolomeo si scontrano. L’esercito di Cesare è in inferiorità numerica e viene respinto verso la costa. Cesare si getta in mare.
Atto terzo. Il vittorioso Tolomeo rivendica il potere esclusivo sull’Egitto e chiede l’obbedienza di Cleopatra e Cornelia. Entrambe rifiutano. Achilla chiede ora la sua ricompensa, ovvero la mano di Cleopatra. Ma Tolomeo ha altri piani: Cleopatra deve morire. Achilla è furioso, ma Cleopatra lo tranquillizza. Promette di sposarlo se lui ucciderà Tolomeo. Tolomeo è furioso perché Cornelia continua a rifiutare di sposarlo. Minaccia di uccidere il figlio se lei non si adegua. Ma lei è disposta a sacrificare il figlio per il suo onore. Lepido, che nutre ancora speranze per Cornelia, le rivela che lui e Achilla stanno progettando di uccidere Tolomeo. Cesare è sopravvissuto alla caduta in mare. Lui e altri soldati romani si sono travestiti da egiziani e si sono riuniti segretamente al tempio. Cornelia è in lutto sulla tomba del marito quando Tolomeo arriva con i sacerdoti per celebrare la cerimonia nuziale. Achilla e Lepido attaccano Tolomeo, ma Cesare e i suoi seguaci intervengono. Cornelia incita Lepido a eliminare entrambi gli uomini, ma Lepido non vuole alzare la mano contro un romano. Amareggiata e piena di odio per Cesare, Cornelia lascia l’Egitto. Tolomeo implora Cesare di avere pietà e lascia il trono alla sorella. Romani ed egiziani festeggiano la pace faticosamente raggiunta.

Il Cesare in Egitto è il lavoro più noto di Geminiano Giacomelli (anche noto come Jacomelli), compositore emiliano della prima metà del XVIII secolo molto popolare all’epoca con circa venti titoli che vanno dalla Ipermestra (Venezia, 1724) all’Achille in Aulide (Roma, 1739). Ma la composizione più famosa è l’aria «Sposa, non mi conosci» dalla sua Merope (1734) “prestata” a Vivaldi quattro anni dopo dove divenne, nella versione «Sposa, son disprezzata», uno dei momenti più drammatici del Bajazet.

Ispirato alla lontana dal Cesare in Egitto messo in musica nel 1728 da Luca Antonio Predieri su libretto anonimo, il Cesare di Giacomelli fu ideato per il Teatro Ducale di Milano nel gennaio 1735. Sfortunatamente il manoscritto di quella produzione è andato perso ma era sicuramente molto diverso dalla versione che fu messa in scena a Venezia al Teatro di San Giovanni Grisostomo il 1 luglio dello stesso anno. Il libretto di Domenico Lalli era stato adattato dal giovane Carlo Goldoni e nella produzione ci fu anche l’apporto di Antonio Vivaldi che caldeggiò la sua pupilla Anna Girò per la parte di Cornelia.

Esordio alle 48esime Settimane di Musica Antica di Innsbruck come direttore musicale è quello di Ottavio Dantone che nel 2019 qui aveva concertato La Dori del Cesti. Il Cesare è un titolo da lui scelto: «Quest’opera era nella mia mente da tempo e cercavo il momento e il luogo giusto per portarla in scena. Le Innsbrucker Festwochen sono perfette perché hanno un pubblico intelligente, attento e curioso, desideroso di scoprire il nuovo repertorio barocco. Il Cesare in Egitto era considerato il capolavoro di Giacomelli all’epoca, quindi ho studiato la partitura originale e l’ho trovata la scelta ideale per il mio debutto al Festwochen». Quella che ascoltiamo è infatti la sua versione critica. Alla testa del suo ensemble l’“Accademia Bizantina” Dantone evidenzia la scrittura strumentale della partitura dalle soluzioni ritmiche e armoniche innovative. Con tempi brillanti e volumi sonori attenti all’equilibrio tra buca e scena – come quella di Porpora anche l’orchestra di Giacomelli è sempre al servizio delle voci – Dantone ottiene ottimi risultati. 

I lunghissimi recitativi sono opportunamente ridotti dando ai numeri solistici spazio maggiore, com’è giusto. Anche se è il personaggio eponimo, Cesare ha solo quattro arie (come Achilla, Cleopatra e Lepido) mentre Tolomeo e Cornelia ne hanno cinque. Arianna Vendittelli le interpreta con stile e sicura vocalità. È sua la dichiarazione finale del personaggio «A un cor forte, a un’alma grande | sorte ria non fa spavento» prima di trasformarsi in un Tito clemente che dispensa perdono a tutti, anche a Tolomeo qui risparmiato assieme ad Achilla, che invece sono uccisi nel libretto del Bussani rivisto da Haym per Händel.

Margherita Maria Sala è una Cornelia molto incisiva, destinata anima e corpo alla vendetta del marito ucciso e suoi sono i recitativi più drammatici. Assieme a un’ineccepibile resa vocale, il contralto plurivincitore al Premio Cesti 2020 qui a Innsbruck rivela una forte presenza scenica in cui cerca di sfumare il carattere monodimensionale del suo personaggio, come quando sembra cedere alle offerte dei suoi due spasimanti dimostrando la nostalgia per una vita serena. Il soprano ungherese Emőke Baráth è una Cleopatra seducente che dimostra belle doti di agilità nelle sue arie, soprattutto nella succitata aria di bravura del terzo atto «Son qual nave da due venti». Il trio di voci maschili vede in Achilla il contraltista Filippo Mineccia che con la sua intelligenza e il fraseggio accurato delinea un personaggio che in questo Cesare di Giacomelli acquista particolare spessore psicologico. Il tenore Valerio Contaldo è Tolomeo, voce dal timbro un po’ nasale ma che si rivela a suo agio nelle agilità richieste dalla parte. Ancora più virtuosistiche le richieste di Lepido, affidato qui alla voce chiarissima del sopranista Federico Fiorio, richieste pienamente risolte dalla tecnica del giovane cantante che conclude la prima delle due parti in cui è divisa l’opera originariamente in tre atti.

Lo stesso Dantone aveva voluto che alla messa in scena della sua “scoperta” ci fosse Leo Muscato, con cui aveva lavorato a Torino per il vivaldiano L’incoronazione di Dario. Il regista di Martina Franca ha dunque l’ingrato compito di fornire una drammaturgia a un lavoro che non ce l’ha e per questo il risultato non è del tutto convincente. I costumi disegnati da Giovanna Fiorentini rivelano i tempi dell’ambientazione, quelli delle colonizzazioni del XIX e XX secolo, mentre la scenografia di Andrea Belli ripropone per l’ennesima volta – bisognerebbe imporre una moratoria decennale sul suo utilizzo… – la solita piattaforme rotante con ruderi di casermette dalle pareti ricoperti di geroglifici. Completano la scena quattro enormi statue in lacca rossa di soldati in armatura. Pregevole il gioco luci di Alessandro Verazzi che cerca di diversificare le atmosfere. I personaggi si muovono entrando e uscendo dalle aperture come giocando a rimpiattino evidenziando così la loro inazione.

Il lento girare a mo’ di giostrina, unitamente alle cullanti melodie, ha un effetto tra l’ipnotico e il soporifero. Insomma, non è stato il disvelamento di un tesoro sepolto questo Cesare in Egitto di Geminiano Giacomelli. Il pubblico reagisce comunque positivamente con calorosi applausi verso gli artefici dello spettacolo.

(1) Struttura dell’opera:
Sinfonia
Atto I
1. Cadrà quel disumano (Cesare)
2. Alla festosa superba Roma (Achilla)
3. A me basta la mia bella (Lepido)
4. Fier leon di sdegno acceso(Cleopatra)
5. Questa destra, che ti guida (Tolomeo)
6. Palpita nel mio petto (Cornelia)
7. Vibrano i Dèi talora (Lepido)
8. Lusinga un tiranno (Cornelia)
9. A quelle luci irate (Tolomeo)
10. Bella, tel dica amore (Cesare)
11. Chiudo in petto un core altero (Cleopatra)
Atto II
12. Al vibrar della mia spada (Achilla)
13. Se il sangue mio tu brami (Tolomeo)
14. Se provi nel cuore (Cornelia)
15. Vendetta mi chiede (Lepido)
16. Con vincitor mio brando (Cesare)
17. Oppressa, tradita (Cornelia)
18. Spose tradite, se m’ascoltate (Cleopatra)
19. Quell’agnellin che seco (Achilla)
20. Scende rapido spumante (Tolomeo)
Atto III
21. Taci, non v’è più speme (Tolomeo)
22. Nel sen mi giubila (Achilla)
23. Son qual nave da due venti (Cleopatra)
24. Tu m’ami, lo vedo (Cornelia)
25. Scorre per l’onde ardito (Lepido)
26. A un cor forte, a un’alma grande (Cesare)
27. Dal seno di Giove (Coro)

Don Giovanni

foto © SF/Monika Ritterhaus

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Salisburgo, Großes Festspielhaus, 9 agosto 2024

★★★★☆

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La solitudine del Cavaliere

Il Don Giovanni di CC – non Chanel, ma Currentzis & Castellucci… – tre anni fa era stato lo spettacolo di punta del Festival di Salisburgo che riprendeva dopo la pandemia. Ora viene riproposto con gli stessi artefici, un cast in parte modificato e alcune variazioni nella messa in scena. 

La versione scelta da Teodor Currentzis è quella di Vienna senza il duetto Zerlina-Leporello del secondo atto, ma col finale di Praga. Tra i numeri mozartiani sono inserite altre musiche, particolarmente lunghe quelle che precedono la scena del cimitero. Dopo aver abbassato il diapason a 430 Hz, le scelte dinamiche del direttore greco-russo sono portate all’estremo, con recitativi molto “recitati” e lunghe pause, ma la loro dilatazione ha un corrispettivo con le dilatazioni visuali adottate dal regista. Le arie che seguono i recitativi hanno un attacco repentino e ricche sono le variazioni nelle riprese. Con le improvvisazioni di Maria Shabashova al fortepiano, Currentzis non fa che riattivare una pratica musicale del tempo di Mozart: quella di Currentzis è pura filologia da questo punto di vista – anche se spesso improvvisazioni e variazioni non sono esattamente in stile settecentesco. 

Anche Romeo Castellucci reintroduce nella pratica teatrale di oggi quella del Settecento, ridando senso teatrale a quella che è spesso la pratica museale di molte esecuzioni moderne. Come scrisse a suo tempo Dino Villatico, le sue messe in scena non sono mai un’illustrazione più o meno avvincente del dramma, ma una sorta di discorso parallelo o sotterraneo che commenta il testo rappresentato. Castellucci si prende la libertà di trasportare sulla scena un’interpretazione che riveli lati nascosti o poco indagati del testo. Il regista italiano è a Salisburgo per la seconda volta dopo la sua Salome del 2018 e affronta un lavoro di Mozart per la terza volta dopo Die Zauberflöte (Bruxelles, 2018) e il Requiem (Aix-en-Provence, 2019). Nel Don Giovanni la vicenda è talmente nota che nella sua lettura Castellucci – che cura come sempre tutti gli aspetti della parte visiva: regia, scenografie, costumi e luci – ne rovescia tutti i meccanismi narrativi grazie alla drammaturgia di Piersandra di Matteo. Qui la solitudine del cavaliere è assoluta, la sua serenata è un numero totalmente solipsistico e nel finale completa la sua autodistruzione, disperatamente cercata fino a quel momento, rimanendo solo e nudo, ricoperto di bianco al pari di una statua classica o come i gessi di Pompei in cui si trasformano anche gli altri personaggi. In questa visione del tutto pessimistica del “dramma giocoso” il regista privilegia il primo termine e nel finale «l’antichissima canzon», intonata dal coro in buca invece che dai personaggi in scena, diventa una cantata che conclude con solennità una tragedia. L’aspetto “giocoso” è affidato alle innumerevoli trovate che costellano lo spettacolo: i figli di Donna Elvira che terrorizzano Don Giovanni; la gag comica che segue il «Lasciar le donne» di Leporello; i sempre diversi outfit con cui si presenta Don Ottavio il cui carattere fatuo e svirilizzato viene evidenziato da travestimenti femminilizzanti al limite del ridicolo, ed eccolo quindi ammiraglio, con annesso modellino di nave radiocomandato e ventaglio di piume, Pierrot con barboncino, crociato etc. Nella sua ansia di stupire il regista riesce a stupire il pubblico quando durante “l’aria dello champagne” tutta l’orchestra viene sollevata in alto con effetto entusiasmante.

La scena fissa rappresenta l’interno di una chiesa che all’inizio, nel silenzio, viene completamente spogliata dei suoi arredi: i banchi, le tele, le statue, l’altare. Nel momento in cui il grande crocifisso viene calato dal muro attacca la musica dell’ouverture. Una capra che attraversa il palcoscenico e una donna nuda che si nasconde dietro i pilastri confermano che quello che rimane è uno spazio “sconsacrato”, non c’è dimensione spirituale in questo dramma tutto esistenziale. Nella sua prima apparizione Don Giovanni entra in scena minacciosamente con un martello in mano, ma non per il Commendatore – quello morrà di un attacco cardiaco – , il martello è per sottolineare la figura iconoclasta del Cavaliere. Ben presto scende un velatino e la garza rende le immagini sfocate, oniriche; tutto è in un bianco abbagliante, i particolari sono poco distinguibili, come avvolti in una nebbia. Leporello sarà l’unico a uscire fuori da questo velatino nel finale: libero dal padrone lo può osservare con distacco attraverso questo diaframma. Don Giovanni e Leporello sono uguali nei vestiti e nei movimenti, l’unica differenza essendo la catena che Leporello porta a mo’ di cintura, quella con la quale il padrone tiene “incatenato” il servo. Loro sono in bianco, Donna Elvira osa qualche colore negli abiti, Donna Anna è in nero, una figura tragica che porta con sé la maschera della tragedia, infatti, e incarna una delle furie («Come furia disperata | ti saprò precipitar») che la accompagnano. E sono furie in nero quelle che come le Baccanti fanno a pezzi il corpo del povero Masetto. Il «Vedrai carino» di Zerlina è infatti rivolto ai pezzi di un manichino, non al martoriato corpo dello sposo: la sessualità è deumanizzata e Don Giovanni sogna il «ristoro» che gli può procurare la bella alla finestra accarezzando una scala di alluminio. L’elemento femminile è presente con una folla di 150 cittadine salisburghesi di ogni età, genere e (dis)abilità, che creano una massa intimidatoria, come il coro giudicante della tragedia greca. Sono ancora i loro corpi, coperti di veli neri, a formare il cimitero del secondo atto. 

La messa in scena di Castellucci non è priva di simbolismi e autocitazioni: il pianoforte che cade dall’alto e si sfascia – ma ancora è possibile strimpellarci sopra le note del basso continuo – o la carrozza nera che perde una ruota quando Don Giovanni capisce che il suo gioco di seduzione con Zerlina viene messo in crisi da Donna Elvira, o il catalogo di Leporello che diventa non una ma due fotocopiatrici, la seconda calata dall’alto come il registratore Revox nel suo Moses und Aron. Altre sono più criptiche, come l’immondizia che riempie il palcoscenico nel finale primo con il vecchio barbuto in bikini a fiori.

Nel suo horror vacui per riempire lo sterminato palcoscenico della Großes Festspielhaus, Castellucci affastella gag e oggetti in quantità talora eccessiva, ma nel complesso il suo è uno spettacolo altamente intrigante, anche se non col ritmo che ci aspettiamo dalla folle journée di un libertino. La prima parte è decisamente più riuscita della seconda e bellissimo l’ingresso dei giovani sposi Zerlina e Masetto con le infinite mele che rotolano sul palcoscenico e una di queste ritornerà sull’albero della tentazione. 

Currentzis nella sua concertazione si prende le solite libertà, ma mette in luce particolarità della partitura come i suoni quasi materici e sporchi di certi interventi dei fiati, la trasparenza degli archi e dei legni, l’impeto trascinante dei tempi vivaci, il tono sognante di quelli lenti. Il suo Mozart, come aveva dimostrato col Requiem eseguito a marzo a Torino, è sempre sorprendente e spesso illuminante.

Un Don Giovanni seducente ma interiorizzato è quello di Davide Luciano, lo stesso interprete della produzione originale, che dà prova di grande resistenza – è quasi sempre in scena – e sensibilità: il bel timbro caldo si piega a sottigliezze che raramente abbiamo ascoltato e la presenza scenica è sicura ma non strabordante. Tutti nuovi gli altri interpreti maschili, ma se il Commendatore di Dmitrij Ul’ianov è autorevole fisicamente e vocalmente, Kyle Ketelsen, cantante raffinato e intelligente che è stato il Don Giovanni di Barrie Kosky a Vienna nel 2021, qui è un Leporello un po’ sotto tono e vocalmente spesso coperto dall’orchestra. Anche il Masetto di Ruben Drole non brilla per particolari doti vocali col suo timbro spento. Troppo esangue e poco convinto del ruolo assegnatogli dal regista il Don Ottavio di Julian Prégardien, che risolve eccellentemente le difficoltà della sua prima aria, mentre nella seconda è meno convincente. 

Meglio il reparto femminile, dove Nadežda Pavlova, che tre anni fa aveva avuto qualche incertezza di intonazione, qui dimostra invece grande sicurezza nelle agilità vocali e nella impervia tessitura della parte di Donna Anna di cui privilegia comunque l’elemento belcantistico più che quello tragico, ma così trascina il pubblico che la acclama. Ritorna nella parte di Donna Elvira Federica Lombardi e qui sembra un po’ affaticata pur disegnando una Donna Elvira passionale e decisa, pur non sempre vocalmente controllata. Bene la vivace e luminosa Zerlina di Anna el-Khashem.

Alla fine standing ovation del pubblico. Nella città natale di Mozart non si ha il timore di mettere in scena i suoi capolavori interpretandoli e facendoli diventare uno spettacolo di oggi: choccante e da discutere – come sempre dovrebbe essere il teatro. Anche il teatro musicale.

La clemenza di Tito

foto © SF/Marco Borrelli

Wolfgang Amadeus Mozart, La clemenza di Tito

Salisburgo, Haus für Mozart, 8 agosto 2024

★★★★★

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Eterni giochi di potere

Il libretto de La clemenza di Tito di Pietro Metastasio era stato scritto nel 1734 per Antonio Caldara in occasione dell’onomastico dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo. In seguito fu intonato da oltre quaranta compositori, tra cui Leo, Hasse, Gluck, Jommelli, Galuppi e Mysliveček. Quando viene preso in considerazione da Mozart il testo è vecchio di quasi sessant’anni e ha bisogno di una rinfrescata: ne viene incaricato Caterino Mazzolà che lo  trasforma «a vera opera» riducendone di molto la verbosità, introducendo pezzi di insieme – del tutto assenti nell’originale metastasiano – e cori mentre gli atti sono ridotti da tre a due. L’occasione ora è l’incoronazione a re di Boemia dell’imperatore d’Austria Leopoldo II. La data prevista è il 6 settembre 1791, ma solo l’8 luglio, quando è nel pieno della composizione del Flauto magico, Mozart riceve il prestigioso incarico. Con il numero d’opus K621 sarà la sua ultima opera poiché morrà tre mesi dopo la rappresentazione. 

Per la prima furono ingaggiati il tenore Antonio Baglioni (Tito), che era stato Don Ottavio nel Don Giovanni di Praga, il soprano Maria Marchetti Fantozzi (Vitellia) e il castrato Domenico Bedini (Sesto). Nelle intenzioni di Mozart quest’opera divenne un omaggio e nello stesso tempo una rivitalizzazione delle forme della gloriosa opera seria: lo dimostrano l’inizio audacemente affidato a un duetto o l’innovativa sequenza di numeri musicali dei finali. Dopo la freddezza iniziale – sorvoliamo sulla definizione di «porcheria tedesca in lingua italiana» profferita a suo tempo da Maria Luisa di Borbone moglie di Leopoldo II d’Asburgo e futura imperatrice del Sacro Romano Impero –  l’opera a partire dal 1795 incontrò sempre più il favore del pubblico, diventando una delle sue più eseguite nei teatri di area germanica, dove veniva spesso cantata in tedesco e dove i recitativi, composti dall’allievo Süßmayr, venivano drasticamente ridotti o trasformati in dialoghi parlati. Fu anche la prima opera di Mozart a essere data a Londra.

Nell’Ottocento sul destino dell’opera pesò l’ingeneroso giudizio espresso da Wagner, ma ancora nel secolo scorso la valutazione de La clemenza di Tito non era del tutto positiva e anche Mila la considerava «un’opera mancata», soprattutto se confrontata con l’altra opera seria, l’Idomeneo. Solo recentemente la fortuna del lavoro si sta ripren­dendo con una serie di produzioni che sono riuscite a metter­ne in luce la singolare bellezza di opera di transizione.

La clemenza di Tito è ora riproposta nel festival estivo di Salisburgo. La concertazione di Capuano mette mirabilmente in luce le preziosità della partitura evidenziando i momenti in cui l’orchestrazione sembra guardare al futuro con impasti sonori materici e una tensione già protoromantica. L’ensemble “Les Musiciens du Prince” risponde con lo smalto dei suoi colori e il suono pastoso degli strumenti. Grande prova la danno il cembalista Davide Pozzi, Andrea del Bianco al fortepiano e Antonio Papetti al violoncello per la realizzazione del sontuoso tappeto sonoro del continuo mentre Francesco Spendolini incanta con le note del clarinetto e del corno di bassetto. La riduzione dei recitativi fornisce un ritmo serrato al racconto musicale che progredisce con fluidità, mentre certi lividi squarci sonori costruiscono un’atmosfera quasi da thriller quando Sesto sta per mettere a frutto i suoi propositi omicidi. 

Direttrice artistica da dodici anni del Festival di Pentecoste, Cecilia Bartoli nel 1994 aveva interpretato il personaggio di Sesto in una produzione  discografica con la direzione di Christopher Hogwood. Nel 2021 c’era stata a Salisburgo un’esecuzione in forma di concerto diretta dallo stesso  Capuano e ora la rappresentazione scenica che ha debuttato al Festival di Pentecoste. L’immedesimazione in Sesto della Bartoli è totale e il personaggio ne esce in tutte le sue mille sfaccettature; la linea di canto è quanto di più sensibile ed espressivo si possa trovare, gli abbellimenti magistralmente realizzati e i piani sonori esprimono un’inesauribile gamma di sentimenti tanto che il pubblico ne rimane soggiogato. Una lettura tesa e affilata è quella di Alexandra Marcellier, Vitellia di grande temperamento mentre Mélissa Petit e Anna Tetruashvili danno vita ai personaggi di Servilia e Annio, rispettivamente, con grande efficacia, l’una per la morbidezza del timbro, l’altra per la sicurezza di emissione. Artefice occulto di intrighi è il personaggio di Publio, qui affidato al timbro ricco di armonici di Ildebrando d’Arcangelo, quasi un Commendatore per la grande proiezione vocale e la profondità delle note. Nel personaggio del titolo splende fulgidamente Daniel Behle, un tenore dalla voce smagliante, la signorilità del porre,  le sicure agilità, il fraseggio perfettamente calibrato nell’esprimere il contrasto di sentimenti tra il dovere di condannare e il desiderio di concedere il perdono all’amico. Un’interpretazione da manuale la sua. Ai fini dell’esecuzione si è rivelato ottimo l’apporto del coro  “Il canto di Orfeo” istruito da Jacopo Facchini.

Nella sua messa in scena Robert Carsen punta sull’elemento del potere quale motore inarrestabile della storia, ambientando la vicenda nei luoghi di potere della nostra contemporaneaità: il Senato, le stanze e i corridoi dove vengono prese le decisioni. La scena di Gideon Davey, che firma anche i costumi, presenta un ampio ambiente di colore grigio scuro – lo stesso del boccascena e delle pareti della sala del teatro, inglobando così idealmente gli spettatori nella vicenda – con una galleria per il pubblico che vuole assistere agli atti politici. Sesto e Annio non sono donne en travesti, sono delle donne a tutti gli effetti anche se in pantaloni. Nella fluidità dei generi oggi, come nel Settecento, che Vitellia assecondi le pulsioni di Sesto-donna, come Servilia quelle di Annio-donna non fa scalpore.

Il culmine della storia è il momento dell’attacco al Campidoglio e il tentativo di assassinio di Tito: se nel 1791 gli spettatori vi vedevano le recenti vicende della Rivoluzione Francese, quelli di oggi non possono non fare riferimento all’assalto a Capitol Hill del gennaio 2021 quando seguaci di Trump irruppero nelle sale del Congresso degli Stati Uniti. Sono infatti le immagini di quell’assalto che vediamo proiettate, e mescolata in quella folla c’è Sesto che porge il pugnale per assassinare Tito spinto dal suo amore per Vitellia. Un fermo immagine di quella scena rivelerà all’imperatore il tradimento dell’amico. Nessun potente è al sicuro, ma non lo è neppure la democrazia minacciata ai giorni nostri: «Credo che per una persona come Tito – che è un vero umanista – sia molto difficile sopravvivere nel clima politico di oggi», scrive il regista nel programma di sala, «dobbiamo riconoscere con stupore che tutti gli orrori del XX secolo non sono stati in grado di impedire che intere società tornassero ad atteggiamenti di intolleranza, divisione e disponibilità a ricorrere alla violenza. La nostra produzione è ambientata in una sorta di parlamento, apparentemente in un sistema democratico. Ma ho voluto rendere tangibile l’attuale minaccia che proviene dai partiti di estrema destra in vari paesi democratici – partiti che assumono posizioni sempre più estreme, che invadono tutte le sfere della vita sociale e che, se non sono già al potere, mirano a prenderlo il prima possibile. E quando si tratta di liberarsi degli avversari politici, non si fanno scrupoli a usare tutti i metodi che ritengono necessari». Amarissimo il finale della regia di Carsen:  dopo essersi sbarazzata di Sesto, Annio e Servilia, Vitellia prende il potere anche grazie alle occulte trame di Publio. Trionfante, ai suoi piedi giace il cadavere di Tito assassinato.

Anche oggi lo spettacolo conferma il grande impatto che aveva avuto mesi fa: la direzione di Gianluca Capuano, il cast eccezionale e la messa in scena di Robert Carsen ne hanno fatto un avvenimento operistico memorabile, salutato dall’entusiasmo del pubblico accorso alla Haus für Mozart.

Hubička (Il bacio)

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Bedřich Smetana, Hubička (Il bacio)

Ostrava, Národní divadlo moravskoslezské, 1 luglio 2021

★★★★☆

(video streaming)

Felicità melodica e orchestrazione raffinata per il lavoro del compositore sordo

Nel 1924, a 100 anni dalla nascita di Bedřich Smetana, il Teatro Nazionale della Moravia-Slesia di Ostrava aveva messo in scena per la prima volta tutte le sue otto opere. All’avvicinarsi del 2024 si ripeterà l’impresa nel 200° anniversario, dichiara Jiří Nekvasil, direttore del Teatro Nazionale di Ostrava, l’unico al mondo a prepararsi per l’avvenimentio in questo modo. Il muro del diavolo (nel 2014), I Brandeburghesi in Boemia (2016) e Il segreto (2017), sono già stati messi in scena. La sposa venduta sarà presentata a Ostrava nel dicembre 2022, ma sono in programma anche Le due vedove (2022), Dalibor (2023) e una doppia rappresentazione celebrativa di Libuše nel 2024. 

Ora è il momento de Il bacio. Nel 1871 fu pubblicato sul mensile Osvěta il racconto Hubička (Il bacio) di Karolína Světlá con il sottotitolo “Una storia umoristica della vita della nostra gente di montagna”. L’idea di adattare la novella a libretto d’opera fu di Eliška Krásnohorská, che per Smetana scriverà anche i testi de Il segreto (1878), Libuše (1881), Il muro del diavolo (1882) e Viola (1882). La sordità di Smetana le rese impossibile parlare di persona con il compositore, ma paradossalmente la sfortuna del musicista divenne una benedizione per la storia: esiste un carteggio superstite sulla collaborazione tra la librettista e il compositore e sebbene Krásnohorská abbia distrutto molte delle lettere, quello che rimane fornisce una visione approfondita del loro processo creativo. Anche in questo libretto, come negli altri scritti dalla Krásnohorská, i personaggi non sono giovanissimi e hanno problemi di comunicazione. La partitura non è divisa in numeri: la scrittura è senza soluzione di continuità del flusso musicale fra le diverse scene e senza divisione fra recitativi e arie. Sono molto rari i temi derivati dal repertorio tradizionale poiché quasi tutte le melodie sono state scritte ex novo da Smetana, anche se nello stile dei canti popolari boemi.

Atto I. I monti dei giganti. Il giovane Lukáš fu costretto dai genitori a sposare una donna che non amava. Ora è vedovo e corteggia Vendulka, il suo primo vero amore. Il padre di Vendulka dà loro la sua benedizione, ma avverte Lukáš che il loro matrimonio non sarà felice perché entrambi sono testardi e irascibili. Lukáš non riesce a immaginare di poter discutere con Vendulka. Tuttavia, quando il padre di Vendulka presenta la sposa a Lukáš, i due litigano subito per un bacio. Vendulka non vuole baciare Lukáš prima del matrimonio per paura di turbare la moglie defunta. La discussione continua anche dopo che tutti hanno lasciato la cerimonia. Dopo uno sfogo d’ira, Lukáš si reca in una locanda dove raccoglie un gruppo di ragazze e musicisti e li conduce a casa del padre di Vendulka. Lì, sotto la sua finestra, tutti ballano e si scatenano, prendendola in giro. Vendulka si sente imbarazzata e fugge dalla casa paterna. Corre dalla vecchia zia, Martinka, e decide che farebbe di tutto per non stare vicino a Lukáš, fino al punto di andare nei boschi di notte a fare da corriere per i contrabbandieri.
Atto II. La foresta vicino al confine. Il capo contrabbandiere Matouš guida la sua banda nel bosco di notte e mentre aspetta il suo portatore Martinka ascolta Lukáš che si sente in colpa per il suo comportamento e vaga confuso nel bosco buio. Lukáš piange sulla spalla del cognato Tomeš, che lo ha seguito per assicurarsi che non si faccia del male per la disperazione. Tomeš gli consiglia di invitare come testimoni alcuni vicini virtuosi per implorare il perdono di Vendulka. Lukáš, di buon umore, se ne va con Tomeš. Martinka si avvicina a Matouš per ritirare la merce di contrabbando. Si accorge che Vendulka è nervosa accanto a lei e capisce che è lì con Martinka solo per nascondersi. Poiché prova simpatia per Lukáš, decide di dirgli dove si trova e di condurlo lì. Martinka cerca di convincere Vendulka a riconciliarsi con Lukáš, ma lei è arrabbiata come prima. Il cottage di Martinka. Al mattino, quando Martinka e Vendulka tornano a casa, vedono Lukáš con i vicini che li aspettano. Vendulka è così commossa dalla sua visita che gli corre incontro con affetto e vuole dargli un bacio di riconciliazione. Tuttavia, lui non vuole accettare il bacio, non prima di averle chiesto perdono. Infine, si baciano appassionatamente; lì finiscono la lite e l’opera.

Krásnohorská inviò il libretto a Smetana nel novembre 1875 e insieme discussero piccole modifiche. Dopo l’esperienza con La sposa venduta e Le due vedove, Smetana conosceva il genere e Il bacio divenne la prima opera comica ceca interamente composta senza dialoghi in prosa. Opera senza balletti, ma dalla prima all’ultima nota è trasportata da ritmi di danza, melodicamente fresca e piena di tenerezza lirica e umorismo. La prima del 7 novembre 1876 al Teatro Provvisorio di Praga deve essere stata una grande soddisfazione per Smetana e una conferma che le sue capacità creative non erano state scalfite dalla perdita dell’udito. Smetana superò l’incomprensione di alcuni critici, che ridicolizzarono la disputa su un bacio come punto di partenza della trama drammatica e non compresero il tono di “balletto spensierato”. Nella Repubblica Ceca, Il bacio ha un posto popolare nel repertorio insieme a La sposa venduta.

Il maestro concertatore e direttore musicale del teatro Marek Šedivý riesce a illuminare di luce i gioielli musicali di questa partitura che è seconda solo a La sposa venduta per felicità di invenzione e raffinatezza orchestrale. Soprattutto nel secondo la scena notturna nella foresta e i contrabbandieri da operetta con i richiami di Matouš e quel suo ripetuto «Jen dál» (andiamo) creano un’atmosfera di grande magia conclusa poi dal wagneriano sorgere del sole che sembra riecheggiare l’inizio del Rheingold di sette anni prima.

Un cast di prim’ordine dà voce ai simpatici personaggi della vicenda: il timbro fresco e luminoso del soprano Veronika Rovná (Vendulka), la sicura baldanza tenorile di Martin Šrejma (Lukáš), il tono virile e bonario del baritono František Zahradníček (il padre di Vendulka), la sicura presenza scenica di Jiří Rajniš (Tomeš), e Josef Kovačič (Matouš) e della Martinka di Lucie Hilscherová.

Lo spettacolo è stato diretto da Jiří Nekvasil che si è reso conto che quest’opera non poteva essere affrontata in modo realistico o storico e ha cercato un modo per renderla più interessante ricorrendo a un teatro ingenuo e favolistica in cui c’è spazio per l’umorismo ben presente nel libretto. La scenografia di Jakub Kopecký è fondamentalmente di un neutro grigio-azzurro, con il profilo di una collina che si può abbassare per rendere oniricamente efficace il sorgere del sole, un grande pallone gonfiabile giallo che viene prima tenuto in mano da una bambina e poi trasportato da un’altra, sempre come una grande palla da ginnastica gialla, su un carrello attraverso il palco. Nel primo atto il pavimento inclinato somiglia a un enorme tavolo, attorno al quale ci sono stilizzate sedie intagliate. Ma poi improvvisamente non è più un tavolo, è un pavimento. Nel secondo atto, invece di un tavolo, ci sono panche longitudinali, con corridoi che corrono tra di loro. L’allodola canterina su un filo e che si libra su un lungo bastone fa sorridere, ma l’apice dell’ingenuità è la guardia vestita di celluloide colorata del costume di Simona Rybáková.

La produzione ha avuto un destino movimentato: dopo diverse anteprime al Teatro Antonín Dvořák, c’è stata una prima online il 1° luglio 2021 su TV NOE, cui si riferisce la registrazione trasmessa su OperaVision, e poi il 10 luglio è stata eseguita allo Smetana Litomysl. La prima effettiva è stata annunciata per il 23 settembre con replica il 25 settembre 2021.