Salvadore Cammarano

Lucia di Lammermoor

26223663961_bb12940893_b

Gaetano Donizetti, Lucia di Lammermoor

★★★☆☆

Londra, Royal Opera House, 25 aprile 2016

(live streaming)

Lucia di Horrormoor

Katie Mitchell, che aveva realizzato l’indimenticabile messa in scena di Written on Skin e l’anno scorso ad Aix-en-Provence aveva visualizzato con genialità gli amori dell’Alcina händeliana, ora affronta a Londra un’opera di repertorio qual è la Lucia di Lammermoor di Donizetti e lo fa ovviamente a modo suo. Già un’altra regista, Mary Zimmerman al MET nel 2009, aveva spostato l’ambientazione all’epoca vittoriana, ma qui la Mitchell vede la vicenda come un caso dell’allora emergente femminismo (una donna che rifiuta un matrimonio di interesse) rintracciabile non tanto nell’opera dello Scott da cui è tratto il libretto di Cammarano, quanto nei romanzi coevi di Jane Austen, Mary Anning e delle sorelle Brontë.

Assieme a Vicki Mortimer, che ha disegnato il Victorian Gothic della scenografia, la Mitchell ha l’idea di illustrare anche i buchi narrativi della vicenda e tutto si svolge in due ambienti distinti e adiacenti: la cripta con le tombe e il salotto di Lucia, la sua camera da letto e la stanza da bagno e così via.

Ancora una volta in un suo spettacolo la scena si divide in più parti per realizzare una contemporaneità di azioni di cui in verità qui non si sente sempre la necessità. Nel suo zelo di realismo la Mitchell ci fa vedere quello che né la musica né il libretto del Cammarano prevedono e questa sua regia è sintomatica, molto più di tante altre, apparentemente più scandalose, del predominio della drammaturgia scenica su quella musicale.

A parte alcune scene rese in maniera indiscutibilmente magnifica, come quella del matrimonio e l’utilizzo della follia, ci sono nel suo allestimento due momenti a vario modo discutibili invece: il primo è il rapporto sessuale durante il duetto di Lucia ed Edgardo, una sveltina a fianco della tomba della madre, apparentemente inutile, ma che avrà le sue conseguenze; l’altro è quello dell’uccisione di Arturo che, nonostante gli sforzi congiunti di Lucia e di Alisa, non ne vuol sapere di morire ammazzato, una scena splatter di una comicità irresistibile che avviene nella stanza a sinistra mentre contemporaneamente a destra i due uomini discutono vanamente di onore e duelli.

Nella visione femminista della Mitchell la vicenda è nettamente distinta tra universo maschile e universo femminile, quest’ultimo rinforzato dalla presenza di ben due fantasmi: quello dell’ava che «un Ravenswood, ardendo di geloso furor […] trafisse» e quello della «madre di recente estinta». Dopo la suddetta scena dell’uccisione dello sposo portata avanti con lucida freddezza, la “pazzia” di Lucia viene giustificata da un accadimento che solo una regista donna poteva inventare: dopo l’amplesso nella cripta Lucia è infatti rimasta incinta e durante l’omicidio di Arturo ha un’emorragia il cui sangue copioso si mescola a quello dell’uomo così faticosamente ammazzato. E così si presenta agli sbigottiti uomini che stanno festeggiando gli sponsali. Tra questi c’è il “fantasma” di Edgardo con cui Lucia si unisce in un immaginario matrimonio tra i dolori lancinanti dovuti all’aborto spontaneo – così si spiegano i vocalizzi in cui indulge Lucia.

In questa scena ascoltiamo gli spettrali suoni della glasharmonica, opportunamente recuperata dopo tanti flauti che hanno sostituito l’originale strumento previsto da Donizetti. Una glasharmonica di veri bicchieri, non le coppe coassiali rotanti di cristallo dello strumento comunemente utilizzato, suonata da un vero esperto. Qui la rarefazione della partitura letta da Daniel Oren è magistrale, ma altrove l’orchestra ha un tono bandistico e sgraziato, pesante e non sempre rispettoso del canto degli interpreti in scena.

Nel tempo Lucia è passata dall’essere un’opera per tenore (l’originario mitico Duprez) all’opera per soprano per antonomasia, grazie a figure come la Melba e la Sutherland, fra le tante. Qui abbiamo una Damrau in grande spolvero e con una capacità attoriale che farebbe sfigurare più di un’attrice di prosa. Colorature espressive, acuti luminosi, fiati e fraseggio, tutto è praticamente perfetto. Di fianco a lei sembrano meno all’altezza l’Edgardo di Charles Castronovo e Ludovic Tézier, vocalmente impeccabili ma con presenza scenica più modesta, soprattutto l’impacciato baritono marsigliese. Ottima la prestazione del “buon” Raimondo di Kwangchul Youn per il quale è stata ripristinata l’aria della prima parte spesso tagliata in passate produzioni.

In conclusione, si è trattato di uno spettacolo di notevole interesse e impatto: con le sue scelte registiche la Mitchell ha voluto ripetere lo scandalo che aveva avuto 180 anni fa la vicenda di amore e morte della sfortunata “bride of Lammermoor”. La tensione non lascia mai lo spettatore che abbandona il teatro con un ricordo indelebile di quello che ha visto e ascoltato. La recitazione è quanto di più intenso ed efficace si sia visto in scena ultimamente e musicalmente si sono raggiunte qui delle vette difficilmente superabili. Lo sta a dimostrare l’attenzione del pubblico londinese che, nonostante lo scandalo preannunciato, non ha reagito con le intemperanze che avevano invece accolto il peraltro bellissimo Guillaume Tell dell’italiano Michieletto. Forse neanche nell’isola di Albione è assente un certo sciovinismo.

Nella prossima produzione torinese di Lucia – affidata per la regia a Damiano Michieletto – avremo nuovamente il sommo piacere di ascoltare Diana Damrau, ma ahimè per una sola delle recite in cartellone.

Lucia-Di-Lammermoor-ROH-740.jpg

Il faticoso assassinio di Lord Arturo

 

Roberto Devereux

48 roberto devereux

Gaetano Donizetti, Roberto Devereux

Genova, Carlo Felice, 29 marzo 2016

★★★★☆

(live streaming)

«Chi regna, lo sai, non vive per sé»

«E gnente, semo in Inghiltera, alla corte de quer vecchio troione pittato de Elisabbetta che però c’ha l’urtime vampate de calore e s’è invaghita der tenore Robberto Deveré co’ tutto che è tenore, ma lui se la fila giusto pe’ diventa’ quarcheduno a corte, sto fijo de ‘na mignotta, perché in realtà quello ama Sara. Senonché Robberto se ne va in campagna, no a fa’ er picnic ma a stermina’ un po’ de Irlandesi: ma per via der fatto che l’Inghiltera co’ l’Irlanda c’ha sempre sbattuto er grugno se ne ritorna a corte come er cerasaro e la corte lo vo’ vede’ morto». Così inizia il racconto della trama come forse non sarebbe dispiaciuto scrivere ad Alfonso Antoniozzi, ma lui non è romano, è viterbese e qui al Carlo Felice è ritornato non come cantante, bensì come regista.

Stavolta non si cimenta in uno di quei personaggi buffi in cui è insuperabile (non ultimo il suo don Magnifico proprio qui a Genova dieci anni fa) e nelle note di regia ci rivela la sua lettura del dramma donizettiano: «È stanca, Elisabetta. Gli anni di regno gravano su di lei come il suo manto ogni giorno più pesante, i giorni sempre uguali passati a recitare la parte della regina rinunciando ad essere donna sono come una maschera che è diventata troppo stretta; quella maschera, da zattera di salvataggio per navigare in un mare incerto come quello dell’esser donna e regina in un mondo di uomini e di re, ora è diventata limite, condanna, prigione. […] In questo gioco delle parti, nulla di quanto si crede e si percepisce è in realtà accaduto: Devereux non ha mai tradito Elisabetta, non ha mai disonorato Sara, non è mai venuto meno all’amicizia sodale con Nottingham, Sara non ha mai deliberatamente ritardato la consegna dell’anello, la serica sciarpa non era un pegno d’amore ma un pegno d’addio, Elisabetta non è stata mai amata, Sara non ha mai amato Nottingham, Nottingham si vendica del vuoto».

Ecco, con queste premesse Antoniozzi allestisce la sua messa in scena piena di tocchi intelligenti. Nessuna ambientazione moderna: Gianluca Falaschi disegna sontuosi abiti d’epoca in cui tutti sono nobilmente addobbati. I gonnelloni dei cortigiani contrastano con le braghe a palloncino a spacchi che sembrano macchiate di sangue del duca di Nottingham, ma è su Elisabetta che il lavoro del costumista raggiunge il massimo della teatralità. Durante la sinfonia assistiamo alla solenne vestizione della regina: un abito con ampia gonna a ricami d’oro in rilievo che la veste per tutto il primo atto, quella in cui ostenta il suo potere e ancora si illude dell’amore del conte di Essex. Nel secondo interviene la delusione e l’abito ha un che di luttuoso e di ingombrante. Nel terzo la vestaglia ha un mantello con chilometrico strascico su cui è disegnata una mappa dell’Europa in cui la Gran Bretagna è più grande del reale mentre è la regina che si è come rimpicciolita: niente più parrucca rosso-dorata, ma i capelli sfatti e biancastri di una vecchia mentre la maschera di biacca sta per sfaldarsi per rivelare la donna sola e disperata che c’è sotto.

E una maschera ce l’hanno pure quattro figure in nero onnipresenti che spiano il duetto degli sfortunati amanti, o diventano le guardie che imprigionano Devereux, o assistono nel finale la cadente sovrana. E che si accasceranno come marionette cui hanno tagliato i fili nel finale. Come onnipresente è un irriverente giullare cui solo è permesso stravaccarsi sul trono della regina. Trono che con il suo rigido schienale a grata sta al centro di un palco quasi circolare che ricorda le tavole del Globe Theatre di Londra su cui si sono rappresentati per tanto tempo i drammi elisabettiani. Le scarne scenografie di Monica Manganelli sono sapientemente illuminate dalle luci di Luciano Novelli e sobrie ma efficaci sono le indicazioni recitative – troppo spesso si è vista Elisabetta trasformata in una marionetta impazzita. Ogni personaggio qui mantiene invece la sua composta nobiltà.

La quinta e ultima recita del Carlo Felice è trasmessa live con il secondo cast. Manca la prima donna Mariella Devia (presente invece nell’edizione DVD come nella produzione di Campanella e Talevi) sostituita dalla moldava Natalia Roman, brava ma dal timbro un po’ acidulo e dalla strana dizione. Gli acuti sono comunque sicuri e le agilità precise. Il Devereux del titolo è un eccellente William Davenport dal bel colore pavarottiano, di stile perfetto, grande musicalità e pronuncia inappuntabile. Il punto forte della serata senza dubbio. Efficaci i due Nottingham, Elena Belfiore e Marco di Felice anche se forse un po’ sopra le righe quest’ultimo. Giorgio Bruzzone sostituisce Francesco Lanzillotta in questa recita e non credo abbia cambiato l’originale corretta impostazione musicale.

Qualità della immagine piuttosto scarsa: l’alta definizione è riservata forse a una eventuale uscita in DVD? Nel qual caso si spererebbe in una regia video meno piatta. Non meglio è l’audio, molto secco e metallico e con una non ottimale sistemazione dei microfoni.

Luisa Miller

71SBXGLHdOL._SL1024_

★★★★☆

Due padri

Se erano state le Metamorfosi di Ovidio una fonte inesauribile per l’opera in musica dalla sua nascita fino a buona parte del Settecento, uno degli autori più saccheggiati dai librettisti del XIX secolo fu invece Friedrich Schiller: il solo Verdi si basò sulle trame dello scrittore tedesco per almeno quattro delle sue opere. Qui è Kabale und Liebe (Intrigo e amore) lo spunto per il libretto di Salvadore Cammarano della Luisa Miller andata in scena al San Carlo di Napoli l’8 dicembre 1849.

Spartiacque tra i lavori giovanili e quelli della “trilogia popolare”, l’opera è un dramma della borghesia che scava nella psicologia di pochi personaggi principali e ha una sola protagonista su cui il compositore concentra l’attenzione. Inizia poi qui quella innumerevole serie di padri amorevoli o autoritari (e qui abbiamo entrambe le specie) che contraddistingue l’opera di Verdi. Il compositore non conobbe mai le gioie della famiglia essendo morti a due anni i figli e la moglie poco tempo dopo e il tema del rapporto padre/figlio o padre/figlia riaffiorerà continuamente nelle sue opere quasi a voler sublimare quella lontana tragedia.

Sul valore dell’opera è complesso il giudizio di Massimo Mila: «Proprio nei passi più aridi di dialogo serrato, assolutamente privi di effusioni sentimentali, ritroviamo Verdi più esperto e più accurato, padrone di un recitativo flessuoso ed espressivo, integrato efficacemente nell’orchestra. […] Non di rado l’orchestra svolge un compiuto pensiero musicale, adatto alla situazione, mentre le voci recitano parole indispensabili allo svolgimento dell’azione, ma impossibili ad essere compiutamente musicate. Invece nelle arie della Luisa Miller è più facile trovare l’antica faciloneria, lunghe ed inutili ripetizioni di parole, spunti melodici ovvii e banali, piattamente ricalcati sul metro del verso, e di scarsa e generica espressione. Non si può dire che il soggetto di quest’opera abbia molto appassionato Verdi; la vera ispirazione vi è frammentaria, e si restringe alla famosa aria di Rodolfo “Quando le sere al placido” ed alcuni accenti dell’ultimo atto: come al solito, nella esplosione dei più intensi e tragici affetti, Verdi ha trovato le note più vive e commosse dell’opera, ma in complesso questa pare essergli rimasta alquanto estranea e indifferente, una delle poche ben fatte, almeno relativamente alle sue consuetudini in quel tempo».

Molto più benevolo il giudizio di Michele Girardi: «Sono profondamente convinto che Luisa Miller si debba contare tra le opere maggiori di Verdi, e ho cercato di darne alcune motivazioni nel saggio che apre questo volume». Così esordisce il musicologo veneziano sul programma di sala per la ripresa dell’opera al Teatro La Fenice nel 2006.

Atto I. L’azione ha luogo nel Tirolo, nella prima metà del XVII secolo. Il giovane Rodolfo, figlio del conte di Walter, e Luisa, figlia del vecchio soldato Miller, si amano ma il loro amore è ostacolato dal padre di Rodolfo, che vorrebbe il figlio sposo della duchessa Federica. Il figlio non vuole separarsi dalla sua Luisa così che arriva a opporsi violentemente al padre minacciandolo di rivelare che per impossessarsi della contea ha ucciso il signore legittimo suo cugino.
Atto II. Quando Miller finisce agli arresti per essersi ribellato alle angherie del conte, il subdolo castellano Wurm promette a Luisa, della quale è invaghito, di liberare suo padre a condizione che la giovane scriva una lettera in cui confessi falsamente di aver raggirato Rodolfo per ambizione. Luisa accetta e Wurm fa in modo che la lettera finisca nelle mani di Rodolfo che, amareggiato, si rassegna alle nozze combinate dal padre.
Atto III. Luisa decide di uccidersi e racconta tutta la verità in una lettera-testamento che viene in possesso del vecchio Miller. Mentre Luisa e il padre stanno per mettersi in viaggio con il proposito di rifarsi una vita altrove, Rodolfo, al colmo del furore, avvelena la ragazza e sé stesso per scoprire troppo tardi gli inganni di cui i due amanti sono stati vittime. Le grida dell’agonizzante Luisa richiamano i contadini, il conte e Wurm; in uno scatto d’ira Rodolfo uccide Wurm e muore accanto all’amata.

Un direttore e un regista poco noti, cantanti quasi sconosciuti, il teatro della terza città della Svezia: dal punto di vista del marketing un caso perdente dall’inizio. Eppure, la produzione che nel dicembre 2012 viene portata all’Opera di Malmö si rivela interessante per molti aspetti.

Innanzitutto la messa in scena semplice ma efficace di Stefano Vizioli (regista) e Christian Taraborrelli (scenografo) che ci mostra all’inizio un prato verde sostenuto come un tappeto da due mani gigantesche. (La stessa mano schiaccerà la povera casa dei Miller all’ultimo atto). Sotto il cielo azzurro Luisa sonnecchia e i suoi amici del villaggio la svegliano per un allegro picnic. Il padre e il fidanzato amorevoli presto si uniscono al gruppo. In questo ambiente minimalista si sviluppano la violenza psicologica e i conflitti di classe su cui si basa la vicenda di Schiller.

Di buon livello il cast internazionale degli interpreti: ci sono infatti una russa, un bielorusso, un ukraino, un canadese e uno svedese nei ruoli principali, e la mancanza di un interprete di lingua italiana è qui un vantaggio (non ci sono confronti con la dizione, comunque accettabile).

Fresca e seducente la Luisa di Olesya Golovneva, intensamente nella parte e vocalmente eccellente. Luc Robert dà una lettura molto convincente dell’aria «Quando le sere al placido | chiaror d’un ciel stellato» (“appassionatissimo” dice la partitura con un ansante accompagnamento del clarinetto) e degno di nota è il magnifico effetto del suo pianissimo su «“Amo te sol” dicea» (che Corelli cantava invece fortissimo), ma a parte una presenza scenica non tra le più trascinanti, il suo Rodolfo è vocalmente di buon livello. Vladislav Sulimsky e Taras Shtonda sono i due padri, di Luisa e Rodolfo rispettivamente, entrambi convincenti, mentre l’autoctono Lars Arvidson dall’alto dei suoi due metri di altezza sprizza con efficacia la sua malvagità.

Michael Gütler dirige con trasporto e attenzione la partitura e quasi ci mette d’accordo con Michele Girardi: Luisa Miller non è un’opera minore di Verdi, tutt’altro.

Poliuto

A1Lpl9k58aL._SL1500_

★★☆☆☆

Amor sacro e amor profano

Due vicende di ottusa censura sono legate alla storia del Poliuto: la prima per il suo debutto e la seconda per la sua ripresa alla Scala nel 1960. Per non parlare di un suicidio. Ma andiamo per ordine.

Nel 1837 la stella dell’osannato primo tenore dell’Opéra Adolphe Nourrit sembrava appannarsi: quell’anno nel Guillaume Tell di Rossini Gilbert-Louis Duprez aveva entusiasmato il pubblico parigino con uno stile elettrizzante e acuti presi a piena voce (“di petto”) e non in falsettone. Per rinverdire i suoi fasti Nourrit si trasferisce a Napoli affidandosi a Donizetti, l’operista più in auge al momento, «pour me faire chanter italien», per insegnargli cioè lo stile del bel canto e magari farsi scrivere una nuova opera a misura della sua voce. Il 3 marzo 1838 iniziano le lezioni e tutto fila come previsto: il tenore viene scritturato dal San Carlo per un’opera da rappresentare in autunno tratta dalla “tragédie chrétienne” Polyeucte martyr (1642) di Pierre Corneille, una tragedia del grand siècle perfetta per i teatri francesi e con quel tono religioso allora inedito per quelli italiani.

Donizetti, di fronte a quel modello letterario “alto”, costruisce architetture musicali complesse come i finali secondo e terzo o gli sviluppi di scuola austro-tedesca degli allegri strumentali. Il librettista Cammarano imbastisce il tipico triangolo romantico con Poliuto (tenore) diviso tra gelosia e zelo religioso, Paolina (soprano) lacerata tra l’antico amore e la fedeltà coniugale e Severo (baritono) contrastato tra un amore impossibile e il desiderio di vendetta. La vicenda che si intuisce da queste enunciazioni si sviluppa in tre atti che hanno sintetici titoli da feuilleton.

Atto I. Il battesimo. A Melitene, in una grotta, i cristiani si apprestano a battezzare il magistrato Poliuto. Nearco, capo della comunità cristiana, lo introduce nella caverna, mentre Paolina, sposa di Poliuto, li segue di nascosto. La donna teme che il marito si sia convertito al Cristianesimo, soprattutto ora che l’imperatore Decio ha cambiato la legge stabilendo la pena di morte per tutti coloro che abbraccino il culto proibito. Lo stesso Poliuto conferma alla moglie di aver abbracciato la fede cristiana. A turbare Paolina c’è anche il ritorno in patria del proconsole Severo, suo antico amante e da lei creduto morto. Severo infatti ama ancora Paolina e come viene a sapere del suo matrimonio con Poliuto ne rimane avvilito.
Atto II. Il neofito. Per vendicarsi di Paolina, che l’aveva respinto, il gran sacerdote di Giove, Callistene, organizza nella casa di Felice un incontro tra Paolina e Severo, dopo aver fatto credere a lui che la donna lo ama ancora. Severo conferma a Paolina il suo amore, ella è combattuta, ma non cede. Intanto, condotto dal perfido Callistene, giunge Poliuto che riesce ad ascoltare le ultime parole dell’incontro tra Paolina e Severo, convincendosi del tradimento della moglie. Poliuto giura vendetta, ma, alla notizia dell’arresto di Nearco, sceglie di confessare la sua fede cristiana e morire. Durante l’interrogatorio Nearco rifiuta di fare il nome del neofita, anche sotto la minaccia di tortura. Poliuto allora compare e rivela che lui stesso è il neofita. Paolina supplica Callistene, Felice e Severo di non arrestarlo e condannarlo, ma Poliuto sdegnato rovescia l’ara del Nume maledicendo questo e la moglie.
Atto III. Il martirio. Nel bosco sacro di Giove, Callistene annuncia ai sacerdoti che i cristiani si sono consegnati per essere martirizzati con Poliuto e Nearco e li invita a mischiarsi tra la folla per incitarla alla strage, qualora Paolina convinca Severo a risparmiare i condannati per salvare il marito. La donna intanto si reca al carcere e confessa a Poliuto di aver amato Severo in passato, ma nega il tradimento e chiede al marito chi lo abbia indotto a sospettare il contrario. Poliuto fa il nome di Callistene e Paolina rivela che l’empio sacerdote da lei rifiutato ha voluto perderla. Poliuto a questo punto si riconcilia con la moglie che lo prega di abiurare in cambio della vita, ma egli non può rinnegare Dio. Colpita dalla sua fermezza, ella decide allora di convertirsi. Infine, ignorando le suppliche di Severo, Paolina si avvia al supplizio assieme a Poliuto. Callistene esulta per la vendetta compiuta.

Ma erano stati fatti i conti senza l’oste, pardon il censore. L’undici agosto il Ministro dell’Interno degli Stati Borbonici scriveva al soprintendente dei teatri napoletani: «rassegnato a Sua Maestà il rapporto della Commissione di revisione de’ libri teatrali […] la M. S. si è degnata co’ suoi sacri caratteri dichiarare che i fasti de’ Martiri si venerano nelle chiese e non si pongono sulle scene». Insomma, Ferdinando II ribadiva il detto popolare «scherza co’ fanti, ma lascia stare i santi». Nourrit spiega in una lettera alla moglie che «l’Italie n’est peut-être pas disposée à accepter des émotions graves et élevées: le théâtre n’est ici qu’une simple distraction, un besoin d’émotions faciles; mais tout ce qui ressemble à de la morale ne lui va guère».

Il Poliuto non andrà quindi in scena a Napoli che dieci anni dopo, il 30 novembre 1848, senza il compositore, morto sette mesi prima, e senza il tenore Nourrit che, vittima di una forte depressione, si era suicidato gettandosi da una finestra di palazzo Barbaja nel 1839. Donizetti aveva potuto assistere solo al rifacimento francese, Les Maryrs (in quattro atti) a Parigi nel 1840 cantato, ironia della sorte, proprio dal Duprez.

L’opera non aveva mai smesso di essere rappresentata (Francesco Tamagno l’aveva cantata nel 1898, Beniamino Gigli nel 1940), ma la ripresa del 1960 alla Scala era molto attesa per la presenza di Maria Callas, assente dal teatro milanese da due anni. Ma anche qui, seppure per cause esterne all’ambiente scaligero, le cose non andarono come il previsto: il regista dello spettacolo, Luchino Visconti, ritirò la propria firma dallo spettacolo in segno di protesta contro l’intervento della Questura che aveva bloccato le recite della sua messa in scena dell’Arialda di Testori, spettacolo della compagnia Morelli-Stoppa reduce da un mese di repliche indisturbate a Roma. Le tensioni non pregiudicarono comunque l’esito trionfale della rappresentazione in cui oltre alla Callas cantarono Corelli e Bastianini.

Nel 2010, invece, al Teatro Donizetti di Bergamo alla quinta edizione del Festival dedicato al suo illustre cittadino, tutto fila liscio, o quasi. Il regista Marco Spada evita il peplum all’italiana e mette in scena la vicenda trasponendola agli anni Trenta del secolo passato con divise militari parafasciste che coesistono con finti gladiatori e centurioni pronti per le fotografie al Colosseo e una Paolina che sembra una vamp del cinema di quegli anni. Le scene minimaliste di Alessandro Ciammarughi sono eleganti, ma le teche in plexiglas proprio non si capisce che cosa ci stiano a fare.

Sul podio Marcello Rota evidenzia quanto di verdiano già ci sia nella partitura, ma con volumi sonori talora preponderanti sulle voci. Certo non su quella di Gregory Kunde qui nella sua fulgida maturità, Poliuto di grande presenza vocale e prestanza negli acuti. Gli arabeschi vocali di Paolina nelle mani di Paoletta Marrocu perdono un po’ della loro caratteristica di bel canto di inizio Ottocento per tendere a risultati più in là nel tempo, quasi da verismo o addirittura espressionismo (Santuzza e Lady Macbeth erano a quel tempo i suoi ruoli più recenti). Di indubbia efficacia comunque la sua presenza scenica. Il Severo di Simone del Savio è convincente anche se un po’ aspro nel registro acuto. Appropriati gli altri interpreti.

Il DVD Bongiovanni è una prima mondiale di questo lavoro di Donizetti che precede di trent’anni il Polyeucte di Gounod e di 160 il Polieukt di Zygmunt Krause debuttato quattro anni fa a Tolosa. Un esauriente opuscolo in tre lingue (italiano, inglese e giapponese) accompagna opportunamente il disco.

Pia de’ Tolomei


71uDR+bITUL._SL1024_

★★★☆☆

«Siena mi fé, disfecemi Maremma»

Ecco in un solo verso la parabola della sfortunata donna che Dante incontra nel canto V del Purgatorio. L’identificazione con Pia de’ Tolomei comunemente accettata è quella della prima moglie di Nello dei Pannocchieschi, capitano ghibellino e possidente del Castel di Pietra in Maremma dove nel 1297 avrebbe fatto assassinare la moglie forse per la scoperta della sua mai provata infedeltà, forse per liberarsi di lei desiderando un nuovo più conveniente matrimonio con una Aldobrandeschi. Così andavano le cose prima della civile istituzione del divorzio.

«Di famiglia guelfa e moglie di un ghibellino, Pia de’ Tolomei porta alla mente sia la Juliet shakespeariana sia, traducendo in rivalità scozzese quella italiana, la Lucy di Scott, sua parente operisticamente più prossima […]. Da Juliet la distanzia, se non altro, il matrimonio che sancisce la pace tra le parti avverse, unione sponsale e famigliare, pratica e de iure […]. Con Lucia (quella cammaraniana, più che la Lucy dell’ipotesto), invece, Pia condivide sì il tragico conflitto di due affetti, quello per Edgardo e quello per Enrico, ma in condizione rovesciata, essendo alla mercé del marito e non del fratello» (Emanuele d’Angelo). La vicenda della moglie ingiustamente accusata d’adulterio proprio da chi ne ha insidiato l’onestà è un topos sia della letteratura che dell’opera lirica e il libretto di Salvadore Cammarano oltre che ai versi danteschi si rifà all’omonima “leggenda in versi” di Bartolomeo Sestini (1882) e probabilmente anche al dramma di Giacinto Bianco andato in scena a Napoli nel 1836.

Atto primo. Ghino è innamorato di Pia, moglie di suo cugino Nello, ma ne è respinto. Ghino crede di aver trovato la prova del di lei adulterio in un messaggio scoperto dal servitore Ubaldo: per vendicarsi, informa Nello che potrà verificare l’infedeltà della consorte recandosi presso il luogo di un appuntamento notturno. In realtà Pia si incontra con il guelfo Rodrigo, suo fratello, che ella ha aiutato a evadere dal carcere dei ghibellini comandati da Nello. Rodrigo riesce a fuggire e la donna, creduta colpevole, viene condannata dal marito a una perpetua prigionia in un castello della Maremma.
Atto secondo. Qui Ghino, che le offre inutilmente la libertà in cambio del suo amore, apprende la sua innocenza e si pente. Ferito mortalmente, Ghino incontra Nello, che è stato sconfitto dai guelfi in battaglia. Il marito si precipita da Pia, ma il servo Ubaldo la ha appena avvelenata secondo le sue disposizioni. La protagonista muore dopo aver evitato che Rodrigo uccida Nello, che ella giustifica e perdona.

Con Rossini a Parigi e Bellini morto nel 1835, Donizetti rimaneva, con Mercadante, la punta del teatro musicale italiano dell’epoca, ma la genesi di questa 52esima opera di Donizetti è tra le più travagliate. Nel 1836 Donizetti stava seguendo le prime recite della sua ultima opera per il San Carlo, L’assedio di Calais, quando un’epidemia di colera colpisce il centro-sud dell’Italia e il compositore si deve imbarcare per Genova dove resta quasi tre settimane in quarantena e dove gli giunge notizia che La Fenice, in cui si sarebbe dovuta rappresentare la prevista Pia de’ Tolomei, era stata distrutta dal fuoco – non il primo e non l’ultimo incendio di questo teatro.

L’opera fu trasferita dunque in un’altra sala veneziana, l’Apollo ex Teatro San Luca, dove debuttò il 18 febbraio 1837. Secondo la “Gazzetta”: «L’opera del Donizzetti [sic] ebbe un esito buono, ma non d’entusiasmo, e alcuni pezzi musicali sono piaciuti più ancora alla seconda che alla prima rappresentazione. Ciò però che certo non è piaciuto è il finale [dell’atto primo], in cui non si riconobbe la solita vena del Donizzetti. Ora si dice che innanzi di partire il chiaro e fecondo maestro cambierà questo final disgraziato».

Oltre agli inevitabili assestamenti durante il corso delle repliche, l’opera subì almeno tre diversi importanti interventi nel tempo, rendendo problematica la scelta della versione. Nel 2005 comunque l’opera di Donizetti approda per la prima volta finalmente al teatro per cui era originariamente destinata nella edizione critica di Giorgio Pagannone della Fondazione Donizetti.

Il palcoscenico è diviso per la lunghezza da un doppio scalino e schermi scorrevoli e stendardi che scendono dall’alto con stampate lettere e parole in caratteri bodoniani graficamente eleganti costituiscono la scenografia di Thierry Leproust. Il regista Christian Gangneron è troppo impegnato a schierare il coro in armature e alabarde in pugno in gruppi simmetrici di fronte, di profilo, di spalle per occuparsi del lavoro attoriale sui cantanti maschi, che infatti si piazzano a gambe larghe in proscenio e raramente interagiscono fra di loro. Paolo Arrivabeni sul podio offre una prestazione incolore e senza vita della partitura e non sempre trova il giusto equilibrio tra buca, cantanti e coro.

Come protagonista titolare Patrizia Ciofi fa tutto bene quel che fa, ma è sempre un po’ la prima della classe e non commuove veramente. Il baritono Andrew Schroeder ha una limitata paletta di colori nel timbro ma delinea comunque un convincente Nello. Bello il timbro del tenore porteño Darío Schmunk, Ghino, arrivato però affaticato al secondo atto. Ruolo en travesti quello di Rodrigo, affidato a una sicura Laura Polverelli. Nell’ingrata parte di Ubaldo un giovane e promettente Francesco Meli.

Un esauriente saggio sulla genesi dell’opera è contenuto nell’opuscolo allegato. Tre tracce audio e sei lingue per i sottotitoli.

Il trovatore

il-trovatore-dvd-001

★★★☆☆

Un’edizione tutt’altro che memorabile

Secondo sportello del trittico popolare, dopo il Rigoletto del 1851 e precedente di pochi mesi La Traviata del 1853, è la meno eseguita delle tre, seppure altrettanto familiare al pubblico dell’opera.

Il libretto di Cammarano e Bardare è tratto da quel drammone romantico El trovador (1836), opera prima del fecondo Antonio García Gutiérrez, che fu il più grande successo della storia del teatro spagnolo. La vicenda è la cosa più strampalata che ci si possa inventare, con quella folle di Azucena che scambia il proprio figlio per quello dell’odiato conte e lo getta nel fuoco, con le conseguenze che si possono immaginare. L’opera di Verdi supera tutte queste assurdità con la sua vitalità, le sue trascinanti melodie e i ritmi incalzanti e da subito eclissò il dramma spagnolo che da allora non fu mai più rappresentato se non come curiosità archeologica.

Atto primo. Il duello. Ferrando narra agli armigeri del conte di Luna la storia di un zingara, condannata al rogo per stregoneria, la cui figlia, per vendicarsi, aveva rapito uno dei due figli del conte – un bambino ancora in culla – e l’aveva bruciato. Nella scena successiva una nobile dama, Leonora, narra a Ines, sua cameriera e confidente, di amare uno sconosciuto cavaliere, incontrato in un torneo, il quale viene nottetempo a trovarla, accompagnando con il liuto i canti con i quali si annuncia. Nella terza scena compare il conte di Luna, figlio dell’omonimo conte al quale era stato rapito il bambino; ama Leonora ed è quindi rivale dello sconosciuto trovatore. Quando questi giunge, il conte di Luna lo sfida a rivelare il proprio nome e l’altro (tenore) dichiara d’ essere Manrico, seguace dell’eretico Urgel. I due si allontanano per battersi.
Atto Secondo. La gitana. Su un monte della Biscaglia alcuni zingari, intenti al lavoro, cantano battendo ritmicamente i martelli sulle incudini. Azucena si tiene in disparte con Manrico, al quale narra che una zingara, bruciata perché accusata di stregoneria, le aveva chiesto, prima di morire, di vendicarla. Quella zingara era sua madre e Azucena aveva rapito un bambino, figlio del conte di Luna, con l’intento di bruciarlo. Ma, frastornata, aveva gettato tra le fiamme il proprio figlioletto e non il bambino rapito. Manrico è sorpreso e turbato, ma Azucena lo rassicura: se non fosse sua madre non avrebbe curato amorosamente le ferite da lui riportate in una vittoriosa battaglia. Ma perché, quando il conte di Luna era piombato su di lui con i suoi, non l’aveva ucciso? E perché, quando si erano battuti in duello, lo aveva risparmiato? Manrico non sa spiegarselo. Gli era parso che una misteriosa voce giungesse dal cielo, imponendogli di non colpire. Azucena gli fa allora giurare che, se in futuro dovesse ancora battersi con il conte, non avrà pietà. Giunge poi un messo e narra che Leonora, credendo morto Manrico, sta per farsi suora. Manrico, ignorando le preghiere di Azucena, che gli ricorda le ferite dalle quali non è ancora guarito, balza a cavallo e piomba sul conte di Luna, che si accingeva a rapire Leonora: l’arrivo di Manrico sventa il suo piano.
Atto terzo. Il figlio della zingara. Sfilano gli armigeri del conte di Luna, il quale assedia Castellor, difesa da Manrico e dai suoi; subito dopo è catturata una zingara sorpresa in attitudine sospetta. In lei Fernando riconosce chi che aveva rapito e dato alle fiamme il fratellino del conte. Torturata, Azucena invoca l’aiuto del figlio Manrico, ciò che rende ancor più feroce Luna. La successiva scena si svolge in Castellor. Manrico e Leonor sono sul punto di sposarsi allorché Ruiz avverte Manrico che il conte di Luna ha già fatto accendere le pira sulla quale Azucena sarà bruciata. Manrico, disperato, decide una sortita per salvare la madre.
Atto quarto. Il supplizio. Leonora si aggira nottetempo nei pressi del palazzo dove il conte ha imprigionato Manrico, da lui catturato in battaglia. Al suo orecchio giunge la voce di Manrico, che, invocando la morte, le invia l’estremo saluto e il Miserere di un coro di prigionieri. Leonora promette allora al conte il proprio corpo in cambio della salvezza di Manrico. Il finale dell’opera è ambientato nella prigione che rinchiude Manrico e Azucena, che alterna momenti di delirio ad altri di sopore. Sopraggiunge Leonora e annuncia a Manrico che è libero; ma quando Manrico apprende a quali condizioni, inveisce contro di lui, ravvedendosi tuttavia quando Leonora, che continua a esortarlo alla fuga, gli rivela d’essersi avvelenata. Il conte di Luna trova Leonora morente e ordina che Manrico sia giustiziato. A esecuzione avvenuta, Azucena, morente, gli rivela che Manrico era suo fratello, da lei rapito bambino.

Proveniente da Chicago, nel 2009 approda al MET questa produzione di David McVicar che prende del tutto sul serio l’assurda vicenda (sarebbe infatti facile cadere nella farsa di A night at the Opera dei fratelli Marx!) e ne dà una versione estremamente tradizionale, quasi didascalica, unica libertà l’ambientazione, che dal quindicesimo secolo è trasposta all’inizio del diciannovesimo, durante la guerra d’indipendenza spagnola (1808-1814), con i visi contratti dei Desastres de la guerra di Goya dipinti sul sipario. Le scenografie di Charles Edwards sono giustamente cupe e condensano tutte le numerose scene in cui si sviluppa la vicenda su una piattaforma girevole che di volta in volta mostra l’accampamento degli zingari, il cortile del castello, il chiostro, la prigione, con grande vantaggio alla fluidità dell’azione scenica e alla comprensione della vicenda. Entrambe le interpreti femminili hanno problemi di dizione: la Azucena di Dolora Zajick canta con i denti serrati e si capisce meno della metà di quello che dice (ah, quelle parole scolpite nel bronzo di Fedora Barbieri…). Qualcuno poi avrebbe dovuto avvisarla che deve cantare «Mi vendica!», non «Mi vendico!» come ripete per ben tre volte. Anche la Leonora di Sondra Radvanovsky ha difetti analoghi, per di più ha un’intonazione non molto stabile e un vibrato eccessivo. A dispetto del cognome sono entrambe americane e di casa al MET, da qui gli applausi fragorosi loro tributati dal generoso pubblico.

Russo è ovviamente Dmitrij Hvorostovskij. Il suo è un conte di Luna di gran classe ma gelido. L’unico con la nazionalità “giusta” è il Manrico di Marcelo Álvarez – vabbè è argentino. Elegante nel suo costume (si capisce subito che è il fratello del conte…) e vocalmente in forma è l’unico con il declamato “italiano” adatto all’opera e lo squillo potente, anche se la sua «Pira» è abbassata di un semitono e senza ripresa. Direzione spavalda, ma talora scoordinata, di Marco Armiliato, che ha sostituito all’ultimo momento James Levine.

Come extra le interviste della Fleming agli interpreti durante gli intervalli della trasmissione live.

Roberto Devereux

71wYMzQciQL._SL1024_

★★★☆☆

Trilogia Tudor, parte terza.

L’ultima opera della trilogia donizettiana delle regine Tudor dopo Anna Bolena e Maria Stuarda è su un libretto di Salvadore Cammarano tratto sì dalla Élisabeth d’Angleterre di Jacques-François Angelot, ma è derivato in parte anche da Il conte di Essex scritto dal Romani per Mercadante. L’opera debutta con grande successo il 28 ottobre 1837 al San Carlo di Napoli dopo le solite traversie con la censura borbonica – ma non è che negli altri staterelli della penisola le cose andassero meglio in quanto a libertà d’espressione artistica. L’ultimo anno di regno di Elisabetta I fa da sfondo storico della vicenda che vede contrapposta alla regina la duchessa di Nottingham nell’amore per Roberto Devereux conte di Essex.

Atto I. Le dame osservano Sara, la duchessa di Nottingham, sola in un angolo a piangere mentre legge un libro e afferma di essere commossa dalla storia che sta leggendo, mentendo. Ella infatti pensa all’amato Roberto. Entra la Regina, che si rivolge con fare amichevole a Sara e acconsente ad ascoltare il marito di lei, il Duca di Nottingham, e la sua difesa a favore di Devereux. Elisabetta teme che questo la tradisca, ma Sara la rassicura. Entrano Lord Cecil e Gualtiero, che riferiscono il responso del Parlamento: Devereux è condannato per tradimento. Elisabetta dice che rifletterà sulla condanna e in quel momento arriva Roberto che si difende delle accuse subite. Elisabetta gli ricorda i bei giorni vissuti da innamorati e chiede a Roberto se ama una qualche fanciulla. Roberto dice di no ed Elisabetta parte sospettosa. Entra Nottingham che abbraccia l’amico, promettendogli che lo difenderà fino alla morte. Negli appartamenti della duchessa nel palazzo di Nottingham Sara attende Roberto che la accusa di tradimento. Lei risponde che dopo essere partito dalla guerra la regina l’aveva data in sposa al Duca. Roberto allora le giura eterno amore, dandole l’anello che prima Elisabetta gli aveva donato e parte.
Atto II. I lord e le dame attendono il responso del Parlamento. Elisabetta entra ed apprende da Cecil la decisione: morte. Gualtiero di ritorno dalla casa di Devereux le  spiega che dopo essere tornato fu arrestato e cercò di nascondere una sciarpa che aveva al collo. Elisabetta prende la sciarpa certa del tradimento di Roberto. Nottingham viene informato dalla Regina del responso del Parlamento. Dapprima rimane turbato, ma quando Elisabetta mostra al Duca la sciarpa, capisce che egli è l’amante della moglie.
Atto III. Sara attende il ritorno del consorte e un parente del Duca le reca una lettera. È da parte di Roberto e le comunica di essere stato condannato a morte, e che può essere salvato solo se porterà l’anello alla regina. Sara fa per partire ma viene raggiunta dal Duca, che l’accusa di infedeltà, legge la lettera, e ordina alle guardie di custodirla, affinché raggiunga il palazzo solo a condanna eseguita. Roberto attende il suo destino: arriverà Sara con l’anello in tempo per salvarlo? Le sue speranze sono distrutte dalle guardie che lo conducono al patibolo. Elisabetta ha mandato Gualtiero al palazzo di Sara perché, impaurita dagli eventi, vuole la sua compagnia. Poi si rivolge all’amato Roberto, augurando che si salvi, anche se dovesse vivere nelle braccia dell’ignota amante. Giunge Cecil che la informa: Roberto sta andando al patibolo ed Elisabetta chiede se egli avesse chiesto l’anello da dare alla regina, ma Cecil risponde di no. Gualtiero introduce Sara, pallida e sfinita, che dà l’anello ad Elisabetta. Finalmente la regina capisce chi è l’amante di Roberto, ma Sara la supplica di salvare la vita al conte. È inutile: un suono funebre fa tremare i presenti e Nottingham al colmo della gioia entra gridando che Roberto è morto. Elisabetta, sconvolta e furente, accusa Sara di tutto, ma il Duca si assume tutte le responsabilità. La regina condanna a morte i due coniugi e, ossessionata dalle visioni del fantasma dell’amato, abdica a favore di Giacomo I.

Anche se non è nel titolo, è Elisabetta la vera protagonista di questo dramma in cui il potere di sovrana e la vulnerabilità come donna sono in un conflitto acerrimo che suscita continui contrasti emotivi. La cupa, inesorabile ma statica tragedia è rivestita da Donizetti di una musica ricca di momenti di grande intensità lirica ed emotiva. «Ciascun numero di Roberto Devereux, salvo la romanza di Sara all’inizio, è dotato di cabaletta, il che produce un senso di prevedibilità strutturale particolarmente accentuato nel primo atto, prima che il dramma pervenga al suo pieno sviluppo; ma la pertinenza degli spunti melodici e il modo felice in cui Donizetti modifica le convenzioni e varia le forme interne fa di questa una delle sue opere più vigorose ed emozionanti. E in Elisabetta ha creato un ritratto tragico e complesso che può tranquillamente essere accostata alla Norma belliniana». (William Ashbrook)

La produzione del 2005 di Monaco si avvale della messa in scena di Christof Loy. Diversamente da molti altri registi che compensano la mancanza di azione del dramma puntando alle elaborate scenografie e ai ricchi costumi d’epoca, Loy pone invece molta attenzione ai dettagli e alla psicologia dei personaggi e traspone la vicenda al giorno d’oggi passando quindi da Elisabetta I a Elisabetta II. Durante l’ouverture, quasi una serie di variazioni sul tema dell’inno britannico, il sipario si apre svelando un moderno ufficio di Westminster: poltrone di cuoio, il boccione dell’acqua, l’espositore dei tabloid che hanno in prima pagina gli scandali di corte, gli ultimi addetti delle pulizie che escono. Edita Gruberová si presenta come una Thatcher in tailleur grigio e fili di perle (il regista vuole porre l’accento sull’aspetto umano più che regale del personaggio). La cantante rinverdisce a modo suo i fasti del personaggio portato al successo prima di lei da Leila Gencer, Beverly Sills e Montserrat Caballé e da questo elenco si capisce come il ruolo possa essere di appannaggio soltanto di interpreti eccezionali per vocalità e temperamento. La voce della Gruberová è ancora perfettamente in grado di dipanare quelle stratosferiche colorature che fanno di lei il personaggio principale e la sua performance, compreso il suo atto di autodistruzione alla fine dell’opera, scatena il delirio del pubblico bavarese esaltato dalla interpretazione spesso sopra le righe della “divina” che il Giudici accosta a quella di Bette Davis in What ever happened to Baby Jane

Aronica offre la sua prestanza vocale al ruolo del titolo, senza però renderlo più convincente. Il suo è un personaggio indifendibile che non solo gestisce al peggio la relazione con le due donne (ma come si fa a regalare alla seconda l’anello avuto dalla prima o farsi scoprire con la sciarpa avuta dall’altra?), ma ricambia pure l’amicizia dell’unico che vuole salvarlo e crede alla sua innocenza insidiandogli la moglie! Ottima la prestazione di Albert Schagidullin e giustamente sofferta quella di Jeanne Piland, infelici duchi di Nottingham.

Friederich Haider nel documentario accluso definisce Roberto Devereux come l’Elektra del belcanto e con la stessa attenzione al dramma e al colore della partitura dirige la Bayerische Staatsorchester.

Lucia di Lammermoor

512H4YGYjPL

★★★★☆

Una Lucia moderna quasi di riferimento malgrado la regia

Mancato prematuramente Bellini, con Rossini inoperoso a Parigi e un Verdi che ancora doveva debuttare con la sua prima opera, per Donizetti è il momento giusto per dare alle scene la sua 54esima opera, Lucia di Lammermoor, tratta, come La donna del lago di Rossini, da un romanzo di Walter Scott, autore estremamente alla moda allora (1), su libretto di quel Salvadore Cammarano che fornirà a Donizetti i testi per altre sette opere: «La promessa sposa di Lammermoor, istorico romanzo dell’Ariosto scozzese, mi parve subbietto più che altro acconcio per le scene: però non deggio tacere, che nel dargli la forma drammatica, sotto di cui oso presentarlo, mi si opposero non pochi ostacoli, per superare i quali fu mestieri allontanarmi più che non pensava dalle tracce di Walter Scott. Spero quindi, che l’aver tolto dal novero de’ miei personaggi taluno di quelli che pur sono fra i principali del romanzo, e la morte del Sere di Ravenswood diversamente da me condotta (per tacere di altre men rilevanti modificazioni) spero che tutto questo non mi venga imputato come a stolta temerità; avendomi soltanto a ciò indotto i limiti troppo angusti delle severe leggi drammatiche».

L’azione si svolge in Scozia, alla fine del XVI secolo, nel castello di Ravenswood. Antefatto. La nobile famiglia Asthon, alla quale appartengono i fratelli Enrico e Lucia, ha usurpato i beni e il castello della famiglia Ravenswood, il cui unico erede è Edgardo. Edgardo e Lucia si amano segretamente.
Parte prima (La partenza). Durante una battuta di caccia, Lord Enrico Asthon viene a sapere dell’amore di Lucia per l’odiato Edgardo e giura di ostacolarlo con ogni mezzo. Nel parco del castello, Lucia attende Edgardo e racconta ad Alisa, sua dama di compagnia, l’antica lugubre storia di un Ravenswood che in quello stesso luogo uccise per gelosia la propria amata il cui fantasma, da quel giorno, si aggira inquieto presso la fontana. Lucia le confessa di aver visto ella stessa il fantasma. Alisa interpreta il racconto come un cattivo presagio e mette in guardia Lucia dal rischio di subire la stessa sorte. Arriva Edgardo che annuncia a Lucia di dover partire per difendere le sorti della Scozia, ma prima intende stendere la mano in segno di pace al fratello di lei chiedendola in sposa. Lucia, consapevole dell’odio serbato dal proprio fratello nei confronti di Edgardo, chiede a quest’ultimo di attendere ancora. Edgardo e Lucia si scambiano gli anelli nuziali e si congedano giurandosi amore e fedeltà eterni.
Parte seconda (Il contratto nuziale I). Quadro primo. Le lotte politiche che sconvolgono la Scozia indeboliscono il partito degli Asthon e avvantaggiano quello di Edgardo. Enrico, per riequilibrare le sorti e salvare la sua casata, impone alla sorella di sposare un uomo ricco e potente, Lord Arturo Bucklaw. Al rifiuto della fanciulla, che non ha mai ricevuto lettere di Edgardo poiché le stesse sono state intercettate ed occultate da Enrico e da Normanno (armigero della casata Asthon), egli le dice che Edgardo ha sposato un’altra donna, offrendole quale prova una falsa lettera e la convince ad accettare le nozze con Arturo. Quadro secondo. Arturo attende trepidante la promessa sposa all’altare. Lucia viene, ma la cerimonia nuziale è sconvolta dall’inattesa irruzione di Edgardo. Alla vista del contratto nuziale firmato da Lucia il giovane maledice l’amata e le restituisce l’anello.
(Il contratto nuziale II). Quadro primo. Enrico ed Edgardo si incontrano presso la torre di Wolferag e decidono di porre fine ad ogni discordia con un duello, che viene fissato per il giorno dopo, all’alba. Quadro secondo. Al castello la lieta festa nuziale viene interrotta da Raimondo, che tremante comunica agli invitati la notizia che Lucia, impazzita dal dolore, ha ucciso Arturo durante la prima notte di nozze. Lucia, fuori di sé, compare tra gli invitati con un pugnale tra le mani e gli abiti insanguinati. Ella crede di vedere Edgardo, immagina le sue nozze tanto desiderate con lui e lo invoca. Mentre il coro la compiange, entra Enrico, che saputo del misfatto, fa per uccidere la sorella, ma Raimondo e Alisa lo fermano, mostrandogli in che stato è ridotta. Lucia si scuote: crede di aver sentito Edgardo ripudiarla e gettare a terra l’anello che si erano scambiati. Lucia non regge al dolore, e muore nello sconcerto generale. Enrico fa portare via Lucia, mentre Raimondo accusa Normanno, il capo degli armigeri, di essere il responsabile della tragedia. Quadro terzo. Giunto all’alba tra le tombe dei Ravenswood per battersi in duello con Enrico, Edgardo medita di farsi uccidere. D’improvviso è turbato dall’arrivo di una processione proveniente dal castello dei Lammermoor piangente la morte di Lucia. Edgardo si trafigge con un pugnale.

Dal suo debutto a Napoli nel 1835 l’opera non ha mai cessato di essere in repertorio, soprattutto grazie alla grande scena della pazzia della protagonista, cavallo di battaglia di tutte le voci d’usignolo della lirica e occasione per le più spericolate variazioni. Lunga 432 battute e strutturata in quattro parti che spaziano dal do minore al mi bemolle maggiore, la scena era stata pensata dall’autore per glasharmonica (quello strumento formato da coppe di vetro strofinate dalle dita bagnate dell’esecutore) per sottolineare l’aspetto spettrale della scena, ma per ragioni pratiche non fu mai utilizzata. Solo nel 2008 Roberto Abbado alla Scala ha integrato l’insolito strumento all’orchestra, così come avviene in questa edizione del 2009 al Metropolitan.

Diretta da Marco Armiliato con precisione ed eleganza, merito suo è anche l’aver ripristinato l’aria di Raimondo e il duetto seguente (atto secondo, quadro primo) e la scena con cui i due rivali si sfidano a duello (atto terzo, quadro primo). Entrambe queste scene vengono generalmente tagliate.

Questa produzione si avvale di un cast formato da quattro interpreti tutti provenienti da quello che una volta era l’est d’Europa: un soprano e un basso russi, un tenore e un baritono polacchi. Lucia è una beniamina del teatro newyorkese, Anna Netrebko, che si conferma eccezionale interprete della parte. La sua follia non ha la spettacolarità irreale cui ci hanno abituato altre cantanti, ma il suo canto non conosce difficoltà di sorta. La parte di Edgardo prevedeva Rolando Villazón che, indisposto nel periodo della registrazione, viene sostituito da un Piotr Beczała che ha qui il suo trampolino di lancio nel firmamento della lirica fino ad approdare alla recente Traviata scaligera. Sempre generoso con le sue doti vocali, dipinge un Edgardo umanamente credibile. Anche Mariusz Kwiecień, altra star del momento, è un cantante e attore di gran livello. Raimondo di lusso è poi quello di Il’dar Abdrazakov che sfoggia con innegabile eleganza la sua sontuosa voce di basso.

La regista Mary Zimmerman traspone la vicenda in epoca vittoriana e con le scene naturalistiche di Daniel Osling sposta la vicenda dalle brume delle rovine scozzese agli interni di una dimora borghese per dimostrare che la condizione della donna, i matrimoni di interesse e i duelli d’onore non sono cambiati per nulla nel corso di tutto il secolo XIX. Magnifico il suo trattamento del rapporto di Lucia e del fratello Enrico. Inutile e fastidiosa invece la presenza del fantasma della donna uccisa che poi diventa il fantasma di Lucia stessa. Questa caduta di gusto francamente la regista ce la poteva evitare così come la fotografia di gruppo.

Come extra le solite interviste agli interpreti negli intervalli presentate qui dalla Lucia della stagione precedente, una perfettamente anglofona Nathalie Dessay.

(1) La pubblicazione in italiano del romanzo di Walter Scott avvenne nel 1824 a Milano  con la traduzione di Gaetano Barbieri. I melodrammi sull’argomento che in un breve volgere di anni precedono la Lucia di Donizetti sono cinque (ma i libretti sono solo quattro, perché uno è musicato due volte da compositori diversi) ed esattamente: Le nozze di Lammermoor di Michele Carafa su libretto di Luigi Balocchi (1829); La fidanzata di Lammermoor di Luigi Rieschi su libretto di Calisto Bassi (1831); Bruden fra Lammermoor di Ivar Frederick Bredal su libretto in danese di Hans Christian Andersen (1832); Ida di Giuseppe Bornaccini sul libretto del Bassi (1833); La fidanzata di Lammermoor di Alberto Mazzuccato su libretto di Pietro Beltrame (1834). Di alcuni è andata perduta la musica.