Mese: giugno 2023

Hamlet

Ambroise Thomas, Hamlet

Parigi, Opéra Bastille, 14 marzo 2023

★★★★☆

(video streaming)

Amleto al manicomio? Non una novità

Tre anni dopo la prima parigina del Macbeth di Verdi, un altro compositore ottocentesco si misurava con un’opera del Bardo, conosciuto allora soprattutto attraverso adattamenti: quello di Hamlet, il lavoro di Thomas del 1868, era infatti di Alexandre Dumas padre che aveva eliminato alcune scene, tra le quali quella iniziale delle sentinelle sulle mura del castello, aveva aggiunto una scena d’amore tra Amleto e Ofelia, e aveva fatto riapparire nel finale il fantasma del re assassinato per fargli dire: «Vis pour ton peuple, Hamlet! C’est Dieu qui te fait Roi!».

I librettisti Barbier e Carré, dal canto loro, avevano ridotto i personaggi e incentrato l’attenzione sui quattro principali (Hamlet, Ophélie, Claudius, Gertrude), concedendo largo spazio alla storia d’amore tra i primi due. Concepito inizialmente in quattro atti, su richiesta dell’Opéra di Parigi Hamlet fu diluito in cinque, con l’aggiunta del ballo inserito prima della scena della follia di Ophélie. Nella versione per Londra del 1969 un nuovo finale prevedeva la morte del protagonista, ma non fu sufficiente a mitigare le critiche degli inglesi, come quella su The Pall Mall Gazette del 1890: «No one but a barbarian or a Frenchman would have dared to make such a lamentable burlesque of so tragic a theme as Hamlet» (Nessuno, se non un barbaro o un francese, avrebbe osato fare di un tema così tragico come quello dell’Amleto una così deplorevole parodia».

Il lavoro di Thomas conobbe grande successo fino agli anni ’30 del secolo scorso, per poi scomparire dalle scene. Un frequente ritorno del titolo è invece avvenuto dagli anni ’80 con pregevoli recenti produzioni al Grand Théâtre di Ginevra nel 2003 con Simon Keenlyside e Nathalie Dessay; al Met (2010), ancora Keenlyside e Marlis Petersen e una grande Jennifer Larmore; An der Wien e poi La Monnaie (2013) con Stéphane Degout e la intrigante messa in scena di Olivier Py e l’Opéra Comique (2108), ancora con Degout e Sabine Devieilhe. Ora alla Bastille il titolo viene riproposto in una ricca produzione che vede sul podio Pierre Dumoussaud, un cast importante e una discussa regia.

Con Hamlet di Thomas, Krzysztof Warlikowski firma uno dei suoi più complessi e ambiziosi allestimenti, 22 anni dopo la sua lettura del dramma di Shakespeare al festival di Avignon del 2001 – ma lo spettacolo era stato creato a Varsavia nel 1999. Inizialmente la sua messa in scena può risultare fastidiosamente spiazzante, addirittura indisponente, poi però il suo indubbio istinto prevale in scene di grande teatralità. L’abbondanza di allusioni sia teatrali che cinematografiche e la loro realizzazione un po’ confusa possono disturbare la leggibilità dello spettacolo, però restituiscono l’essenza di un rapporto con la realtà e la memoria disturbato da allucinazioni e sensi di colpa che inducono a un’azione impotente, com’è quello del principe danese.

L’ambientazione costruita dalla scenografa Małgorzata Szczęśniak è quella di una casa di riposo o centro psichiatrico – non un’idea originale ma plausibile dato il numero di disturbati mentali in scena. All’alzarsi del sipario vediamo un Hamlet signore di mezza età e Gertrude una vecchia sulla sedia a rotelle mentre alla televisione trasmettono Les Dames du Bois de Boulogne, il film di Robert Bresson del 1945. Due i livelli temporali: il primo e l’ultimo atto si svolgono nel presente della vicenda, gli altri tre atti formano un unico lungo flashback che ci mostra i traumi del protagonista vent’anni prima, ed ecco infatti i costumi virare verso gli anni ’20. Hamlet qui è un adulto mal cresciuto che gioca con una macchinina radiocomandata e sembra piuttosto disturbato, fuma in continuazione e ha vari tic. È evidente che non ha superato la morte del padre e meno ancora il secondo matrimonio della madre, verso la quale dimostra un forte complesso edipico. Nel primo atto il Re, Laërte e Ophélie (o il suo fantasma?) sono dei visitatori. Quando compare lo spettro del padre è vestito come un clown bianco, chiaramente un frutto della realtà distorta di Hamlet, così come lo sarà il ballo del quarto atto, assieme alla morte di Ophélie, due dei momenti migliori dello spettacolo. Nel quinto atto Hamlet ha acquisito lo status di fantasma del padre, lo stesso costume da clown, ma nero. E si capisce finalmente perché la folla era in lutto nel primo atto: era per il funerale di Ophélie!

Per un beffardo caso di contrappasso, un cantante che un anno fa aveva stigmatizzato le regie “moderne”, si trova ora a lavorare con uno dei registi più iconoclasti del nostro tempo! È il caso infatti di Ludovic Tézier che in un’intervista aveva detto di preferire le regie “tradizionali”, ma non sembra abbia avuto difficoltà a lavorare con Krzysztof Warlikowski: dal punto di vista attoriale la sua è un’interpretazione pienamente convinta della lettura non proprio ortodossa del regista polacco con cui recupera l’aspetto psicologicamente complesso di una figura semplificata dai librettisti. I colori e le intenzioni espressive sotto tutti presenti in una vocalità in stato di grazia che ha scatenato le ovazioni del pubblico parigino. Ovazioni che sono state estese anche alla Ophélie di Lisette Oropesa, di cui sono state ammirate sia la purezza d’emissione sia le precise agilità nella scena della pazzia. Grande performance anche quelle di Eve-Maud Hubeaux, una Gertrude torturata, John Teitgen (Claudius) e Julien Behr (Laërte). Clive Bayley, l’espressionista Fantasma del Re, e Frédéric Caton (Horatio) sono tra gli altri efficaci interpreti. Lodevole sopra ogni misura il coro, istruito da Alessandro di Stefano, a cui è chiesto di travestirsi, ballare, muoversi e recitare – cosa impensabile da pretendere dai cori nostrani. A capo dell’orchestra del teatro, il giovane Pierre Dumoussaud, che ha sostituito il previsto Thomas Hengelbrock, ha rivelato mature doti mettendo in luce le qualità di questa partitura che a distanza di tempo conquista sempre più il favore dei pubblici.

 

Falstaff

foto © Michele Monasta

Giuseppe Verdi, Falstaff

Firenze, Teatro del Maggio Musicale, 23 giugno 2023

★★★☆☆

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Falstaff a Firenze, uno spettacolo d’emergenza

A Firenze, non previsto inizialmente, va in scena Falstaff di Verdi. Le recenti vicissitudini del Maggio Fiorentino – dimissioni del sovrintendente Alexander Pereira e commissariamento a causa dei debiti accumulati dal teatro – non hanno potuto non avere una conseguenza sulla programmazione e il titolo previsto a chiusura della stagione, il wagneriano Die Meistersinger von Nürnberg,  è stato cancellato per i costi della produzione ed è stato ripescato un allestimento della passata stagione mettendo insieme in tutta fretta un cast dignitoso ma non memorabile, sostenuto per fortuna dalla concertazione sopraffina del direttore musicale del Maggio, Daniele Gatti.

Ecco quindi che Michael Volle lascia i previsti e consueti abiti di Hans Sachs e Markus Werba quelli di Beckmesser per indossare quelli di Falstaff e Ford rispettivamente nella ripresa dell’allestimento di Sven-Eric Bechtolf visto qui a Firenze  nell’autunno 2021. Un allestimento che era stato giudicato “inoffensivo” in cui la regia non propone nulla di nuovo se non le solite vecchie gag, realizzate comunque con ritmo appropriato nella ripresa di Stefania Grazioli. Piacevole l’impianto scenico di Julian Crouch, un’ambientazione tutta in legno che vuole riprendere il teatro elisabettiano, con quinte scorrevoli, silhouette di alberi di legno che scendono dall’alto, onde del Tamigi mosse a mano “come una volta”, piccoli vascelli illuminati in balia dei flutti (del fiume?). E un panorama realizzato in video da Josh Higgason che segue il trascorrere del tempo: dai camini fumanti, al trascolorare del cielo al tramonto, allo sfavillio delle stelle notturne. Mooolto carino. 

Ineccepibili i costumi d’epoca di Kevin Pollard, compreso quello giustamente flamboyant di Falstaff che si prepara all’incontro galante con Alice, e quelli deliziosamente fantasiosi del finale nella foresta. Giustamente appropriato il gioco luci di Alex Brok ripreso da Valerio Tiberi.

Il cantante tedesco Michael Volle dopo tanti drammi straussiani e wagneriani sembra per una volta divertirsi in un personaggio comico, ma al suo Falstaff manca quel pizzico di malinconia che rende il personaggio così grande. Verdi scrive che «si potrebbe cantare tutta a mezza voce» a proposito della parte di Jago,  ma si potrebbe riferire anche a Falstaff, ruolo che scrisse per Victor Maurel – lo stesso interprete dell’anima nera dell’Otello –, un baritono francese che detestava «fare la voce grossa». Da lui, come dagli altri cantanti delle sua ultima opera, Verdi richiedeva «elasticità di voce, sillabazione chiara e facile, accento e fiato». Volle è interprete indiscutibilmente autorevole ma quando si tratta di usare appunto la mezza voce, il timbro si sbianca, ricade nel falsetto, il legato diventa parlato. Meglio il Ford di Markus Werba, vocalmente a suo agio, anche se non del tutto sottilmente caratterizzato. Meno bene invece la parte femminile con l’Alice corretta ma niente più di Irina Lungu e la Mrs Page di Claudia Huckle e la Mrs Quickly di Adriana di Paola, entrambe abbastanza anonime. I servi di Falstaff, Bardolfo e Pistola, trovano in Oronzo d’Urso e Tigran Martirossian interpreti adeguati. La sorpresa è però quella di Rosalia Cid, giovane soprano spagnolo che ha debuttato quattro anni fa qui a Firenze come Lauretta nel Gianni Schicchi e nel suo percorso all’Accademia del Maggio si è poi fatta notare come Gilda (Rigoletto) e Liù (Turandot) e ora come Nannetta incanta il pubblico con il suo timbro delizioso e la grande sensibilità espresse nelle struggenti pagine scritte per il suo personaggio dal vecchio compositore. La affianca il Fenton di Matthew Swensen (l’unico presente della passata produzione), tenore di non grande proiezione ma di bello ed elegante stile. Un’accoppiata perfetta questa dei due giovani innamorati.

Ma, come si diceva, il bonus della serata è dato dalla direzione di Daniele Gatti. Falstaff è opera complessa e leggibile da multi punti diversi: chi la considera l’ultima della grande tradizione comica italiana, chi il punto di partenza della musica italiana del secolo nuovo che sarebbe iniziato sette anni dopo, un lavoro quindi oltre la tradizione del melodramma. Verdi sembra infatti divertirsi qui a parodiare o citare quella gloriosa tradizione, autocitandosi magari nel «Povera donna!» de La traviata o nell’«Immenso Falstaff!» che fa il verso all’«Immenso Fthà!» dell’Aida. L’unico momento in cui si percepisce la presenza di un vero e proprio “numero chiuso” è il monologo di Ford, che qui è la parodia dell’aria del baritono geloso, topos ineludibile dell’opera buffa italiana. Diverso è poi il rapporto tra canto e orchestra: il primo non è più predominante, la seconda raggiunge complessità sinfoniche. Daniele Gatti sembra propendere per la modernità profetica della partitura: gli interventi ironici degli strumenti che commentano le comiche vicissitudini del panzone sembrano preludere agli sberleffi musicali del Petruška stravinskiano e certe trasparenti e impalpabili atmosfere addirittura Debussy. Nessun’altra opera, comunque, sarà se non simile nemmeno riferibile all’ultimo capolavoro di Verdi, che rimane un unicum insuperabile. 

Il pubblico ha tributato le sue maggiori ovazioni proprio al Maestro Gatti, forse anche per confortarlo dell’incerto futuro che attende il massimo ente lirico della Toscana di cui è il Direttore Principale. 

Der fliegende Holländer

 

foto © Michele Crosera

Richard Wagner, Der fliegende Holländer (L’Olandese volante)

Venezia, Teatro la Fenice, 22 giugno 2023

★★☆☆

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I mondi paralleli dell’Olandese

Del regista polacco Marcin Łakomicki si legge sul programma di sala che è legato al mondo dell’opera fin da bambino. Laureato in cinema e arti figurative a Łodz e in scenografia a Bologna, ha firmato la sua prima regia nel 2008 al festival di Wexford e ha collaborato con Jürgen Flimm all’Otello di Rossini scaligero del 2015. Nelle sue note di regia sullo spettacolo Łakomicki insiste sulla contrapposizione di due mondi: quello maschile e quello femminile. I desideri dei due personaggi principali sono opposti: l’Olandese desidera ancorare la sua nave e fermarsi, fare della terra il suo ubi consistam; al contrario Senta anela alla libertà da una famiglia opprimente (il padre la considera poco più che merce di scambio) e da una chiusa comunità patriarcale e per questo abbraccia con entusiasmo la proposta di fuga col misterioso marinaio. Senta rappresenta la ribellione al ruolo della donna destinata alle attività del suo sesso: aspettare il suo uomo a casa lavorando all’arcolaio e preparargli il pasto quando arriva affamato. All’uomo appartengono invece il vagabondare, il portare i tesori a casa. Senta è innamorata dell’idea più che dell’uomo, si sente la “prescelta”, è soggiogata dal suo destino di “salvatrice”, si considera diversa da tutte le altre, lei che per di più è figlia del capitano, quello che possiede un vascello e quindi è il più ricco del paese.

La lettura dell’Olandese volante di Łakomicki si avvale della scenografia di Leonie Wolf, dei costumi anni ’20 di Cristina Aceti e di Irene Selka per le luci. Con loro costruisce un mondo inizialmente naturalistico che poi vira verso un ambiente astratto. L’esecuzione dell’ouverture a sipario chiuso fa presagire una messa in scena tradizionale (non c’è il video che ci mostri l’Olandese o Senta bambini…) e infatti all’apertura si vede una prua di nave, anche se schematizzata e contornata di neon. Dietro una tenda nera si cela una scogliera che riprende quella irlandese del Giant’s Causeway con le sue rocce a prismi. Questo lo vediamo attraverso uno schermo incorniciato e semitrasparente che lascia poco spazio in proscenio, ma la poca azione è qui ancora più congelata nei movimenti: non c’è il via vai di marinai, le filatrici non filano, le masse sono pressoché immobili. Dentro la cornice stanno i cori maschili e femminili e si svolge la rappresentazione di quanto viene narrato o sognato da Senta. La scenografia è senza tridimensionalità e per la maggior parte del tempo gli interpreti cantano di fronte allo schermo, profili neri su uno sfondo grigiastro – i colori sono del tutto assenti – e nel finale neanche la fuga di cornici suggerisce qualche profondità. Sono presenti doppi di tutti i personaggi senza una particolare necessità e a un certo punto formano tutti quanti, personaggi “reali” e alias, una specie di “Ultima cena” con Daland Giuda che conta ossessivamente le monete. L’Olandese si porta appresso sei bambine che probabilmente rappresentano le sue precedenti “fidanzate”, «abermals verstrichen | sind sieben Jahr’» (sono passati sette anni ancora), nessuna delle quali però l’ha liberato dalle maledizione. Perché siano presenti e perché siano bambine non si capisce, ma non è l’unico mistero: la regia regala altri momenti inutilmente concettuali senza però offrire un’idea convincente. Lascia poi ancora più perplessi il finale: Senta non si getta da nessuna parte, non muore, non fugge, rimane in piedi lì davanti allo schermo mentre gli altri personaggi si ritirano additandola. 

È un finale che non si riflette nel climax della musica, la quale trova invece nella direzione di Markus Stenz un andamento vigoroso che nelle sue intenzioni dovrebbe compensare il fatto che «ai tempi di Wagner gli spettatori fossero in grado di emozionarsi immediatamente. Oggi invece bisogna a volte ricercare una modalità interpretativa, lavorare sull’agogica, sul tempo, per creare le sensazioni che questa partitura fa scaturire. Dare più velocità a un certo passaggio, oppure al contrario esitare, aspettare, per creare qualcosa di imprevedibile». Ecco quindi che i contrasti sono amplificati, magari a scapito di qualche sottigliezza, ma il respiro del mare, del vento, dei flutti – totalmente assenti alla vista – si ritrovano nell’udito, anche grazie all’orchestra del teatro che si dimostra pronta alle intenzioni del maestro Stenz di cui ricordiamo la sua concertazione di Fin de partie di Kurtág alla Scala cinque anni fa. (Curiosamente di quella produzione è presente il tenore Leonardo Cortellazzi, là Nagg qui Timoniere). Ottima la resa delle masse corali qui doppie: Alfonso Caiani istruisce quelle del teatro ed è affiancato da Bogdan Plish con il Coro Tars Shevchenko dell’Accademia Nazionale di Opera e Balletto dell’Ukraina.

Ne ha fatto il suo ruolo di riferimento, ma per Samuel Youn anche questa volta non si può che confermare quanto già scritto per la sua interpretazione dell’Olandese nella produzione di Py a Vienna nel 2015 o in quella di Ollé a Madrid nel 2016. La voce è indubbiamente potente ma senza colore, gli accenti latitano, l’andamento è spigoloso, gli acuti sono sforzati, prevale il parlato. Per quanto riguarda il carisma poi, lasciamo perdere: del personaggio non si intuisce il mistero, la grandezza della sua figura rimane assente, l’interazione con gli altri personaggi problematica. Qualche buu alla fine è stato comunque coperto dagli applausi di un pubblico contento del volume di voce riversato dal cantante in sala.

Dalla Korea si passa alla Germania per il Daland di Franz-Josef Selig e la Senta di Anja Kampe. Il primo si conferma interprete solido e convincente pur con mezzi vocali che iniziano a denunciare qualche fatica e con un eccesso di vibrato. Anja Kampe ripropone qui il suo temperamento esibito nelle Leonore, Isotte, Minnie con qualche grido di troppo: più che una figura romantica la sua è quella di una donna che ha deciso di far lotta al mondo intero. La problematicità della lettura registica non le permette di arrivare a una lettura pienamente convincente del suo personaggio che rimane quindi in un certo senso incompleto. Il bel timbro di Toby Spence trova qui conferma, ma il suo Erik è vocalmente un po’ corto e il tenore inglese è talora in difficoltà con l’esigente scrittura tenorile di Wagner. Annely Peebo (Mary) e il già citato Leonardo Cortellazzi come Timoniere completano il cast di una produzione che ha raccolto i generosi applausi del pubblico veneziano.

Biennale Teatro di Venezia 2023

Mattias Anderson, Vi som fick leva om våra liv

Venezia, Arsenale – Teatro alle Tese, 21 giugno 2023

Il gioco dei se

Per i pochi che non hanno famigliarità con la lingua svedese la traduzione del titolo suona come Noi che abbiamo vissuto la nostra vita due volte. Si tratta infatti di una teatrale Sliding Doors, il film di Peter Howitt: lo spettacolo nasce sulle risposte a un questionario in cui dei sociologi chiedevano agli svedesi come avrebbero vissuto una seconda vita, se ne avessero avuto la possibilità.

Nato come attore, poi drammaturgo e direttore del Backa Teater di Göteborg, oggi Mattias Anderson è direttore artistico del Dramaten di Stoccolma, la più importante istituzione teatrale dalla cui scuola sono usciti attori del calibro di Greta Garbo, Ingrid Bergman, Max von Sydow, Bibi Andersson… Nel suo docudrama «la fusione delle risposte  dà vita a una performance polifonica, visiva e coreografica insieme, che rivela il potere utopico del teatro: quando le costruzioni sociali e le circostanze esterne mutano, nessuna identità, nessun ruolo nella vita è predestinato o fissato per sempre».

Non c’è palcoscenico: il pubblico è diviso in due di fronte a un quadrato di tela bianca con un ponte in mezzo e uno schermo per la traduzione simultanea. Lo spettacolo inizia in maniera dimessa: degli attori con abiti di tutti i giorni rispondono alla domanda con reticenza, schernendosi. Poi il gioco acquista intensità e vediamo rivivere sotto i nostri occhi molti drammi. La chiave dell’ironia però è sempre presente: lo spettacolo è ovviamente in lingua svedese, e tutti gli attori sono svedesi, ma a un certo punto come testimonianza “sale sul palco” una signora paraplegica: «Ciao, sono Anna» e racconta come il suo sogno sarebbe stato di danzare e invece è su una sedia a rotelle. «Ma ora sono alla Biennale!» e inizia uno struggente balletto con uno degli attori.

Molti sono i momenti di profonda commozione e lieto sorriso dello spettacolo con cui prosegue fino al 1° luglio la rassegna “Emerald” curata da Ricci/Forte.

Aida

bozzetto di Stefano Poda

Giuseppe Verdi, Aida

Verona, Arena, 16 giugno 2023

★★★☆☆

(diretta televisiva)

Aida nel metaverso

Come se non fosse bastato il passaggio delle frecce tricolori, a cantare l’inno nazionale sul palcoscenico sale un coro nei colori della bandiera. Inizia così la celebrazione della centesima stagione del Festival Lirico Arena di Verona nel primo anno dell’E. M. (Era Meloni). L’opera scelta è ovviamente Aida, quella che nel 1913 diede il via con la concertazione di Tullio Serafin, le scene di Ettore Fagiuoli, la direzione scenica (ancora non si parlava di regia) di Napoleone Carottini e con Ester Mazzoleni, Giovanni Zenatello e consorte Maria Grazia come interpreti principali.

Oggi, con un parterre de rois che vede sfilare personaggi del calibro di Jerry Calà, Iva Zanicchi, Lino Banfi, Orietta Berti, Il Volo etc. e con l’ostensione di Sophia Loren che fu Aida al cinema nel 1953, una ripresa televisiva che supera le quattro ore trasmette in mondovisione un’immagine del nostro paese tutta cultura (!) e spettacolarità.

La produzione viene affidata al tuttofare Stefano Poda (regia, scene, costumi, luci, coreografie, drammaturgia) che, come sempre, afferma una sua visione estetica e filosofica in cui la vicenda in oggetto è quasi solo un pretesto. Il palcoscenico è affollato di 500 persone tra coristi, comparse, danzatori: si ha un bel rimarcare ogni volta che Aida è un’opera intimista – i personaggi sono soli, le masse non agiscono – ma se si mette in scena in una arena all’aperto di 7000 posti bisogna tener conto degli spazi e Poda questo l’ha ovviamente capito. Il bianco e l’argento dominano, i costumi sono ricoperti di specchietti che riflettono le luci e i fasci laser. Tutta in oro e altrettanto spettacolare era la produzione dell’Aida di Zeffirelli, il quale però in un teatro di 300 posti come quello di Busseto firmava una delle sue regie più ispirate, ma qui sarebbe del tutto irrilevante chiedersi se Poda saprebbe farlo.

Ambientata in un’epoca imprecisata, la sua Aida diventa lo sguardo su un’umanità senza speranza: sulle immense gradinate una colonna corinzia spezzata a destra e quello che sembra un relitto d’astronave a sinistra affiancano un’enorme mano meccanica – non molto diversa da quella del Rigoletto di Bregenz – che rappresenta la morsa del potere e che nel finale si chiuderà inesorabile sui due amanti. Picche con una mano infissa nella punta fanno riferimento alle mani mozzate ai nemici trovate recentemente in uno scavo in Egitto, ma ricordano anche l’allestimento di un Œdipus Rex di molti decenni fa. Sono assenti delle vere e proprie scenografie: sul palcoscenico sono i corpi umani a ricreare gli ambienti e in questo il regista è maestro nel plasmare i movimenti dei suoi mimi/danzatori. Non mancano certo le solite sfilate al rallentatore, tipica cifra stilistica di Poda, mentre le sue coreografie qui hanno la sincronizzata meccanicità dei saggi ginnici negli stadi cinesi. Si notano anche alcuni riciclaggi dalla Turandot, come i costumi delle sacerdotesse, gli onnipresenti sberluccicanti swarovski, i caschi da motociclista, le mummie sui carrelli…

Algido e statico come sempre, il suo allestimento contiene alcuni momenti di indubbia efficacia teatrale: il finale secondo con l’ingresso dei prigionieri in calzamaglia tatuata con geroglifici che si avvinghiano ad Amonasro o l’inizio del terzo atto con le canne luminose. Ma l’emozione è un’altra cosa: lo stile del suo spettacolo è quello di un evento che avrebbe potuto aprire i giochi olimpici. D’altro canto, l’occasione celebrativa non poteva essere disattesa.

La direzione di Marco Armiliato è efficace ma difficile da giudicare nella ripresa audio, peraltro buona: su equilibri e livelli sonori si impone una verifica sul posto. Più agevole valutare le voci, già verificate dal vivo. Quella di Anna Netrebko (Netrenko per la Carlucci) anche in questa occasione si dimostra per quella meraviglia che conosciamo: è soprattutto nei piani e nei pianissimi, che hanno una proiezione incredibile, che si ammira la sua interpretazione e quasi insuperabile per morbidezza e legati è il suo «O cieli azzurri». Per evitare ogni problema di “black face” sul viso sfoggia un trucco iridiscente, una “rainbow face”.

Abituati ormai al suo timbro non proprio di velluto, il marito Yusif Eyvazov si conferma interprete di valore che riempie con agio l’arena con la sua voce e che, anche se non in pianissimo, riesce comunque a smorzare il si♭finale di «Celeste Aida». Piuttosto caricata la recitazione da film muto, con la bocca deformata in una smorfia di dolore e gli occhi strabuzzati come il Nosferatu di Murnau. La sua dizione dell’italiano è talmente buona che proprio per questo gli consigliamo di perfezionare ancora di più l’espressione e correggere gli accenti di l’arè o comè. Su come scolpire la parola è difficile trovare un altro con la stessa autorevolezza di Michele Pertusi, un Sacerdote da manuale. Dizione al limite dell’accettabile è quella invece di Olesya Petrova, una Amneris senza grandi sottigliezze. Tra i peggiori Amonasro per rozzezza è quello invece di Roman Burdenko mentre elegante e potente il Re di Simon Lim. Il Messaggero di Riccardo Rados e la Sacerdotessa di Francesca Maionchi completano degnamente il cast. Eccellente la performance dell’immenso coro istruito dal Maestro Gabbiani.

Depurato della cornice nazional-popolare televisiva – quest’anno ogni oltre limite di sopportabilità e con le solite gaffe della presentatrice, l’eterna Milly Carlucci – lo spettacolo di Poda magari lascia la voglia di vederlo dal vivo. Non mancherà l’occasione: per ammortizzarne i costi sarà una produzione che rimarrà in cartellone per molti anni. 

 

Rusalka

foto © Brescia e Amisano

Antonín Dvořák, Rusalka

Milano, Teatro alla Scala, 19 giugno 2023

★★★☆☆

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Il grado zero di Rusalka alla Scala

Per la prima volta viene allestito a Milano il titolo più famoso di Antonín Dvořák affidato a Emma Dante, anche lei impegnata per la prima volta in una fiaba romantica. La regista siciliana non si dimostra però nella sua vena più convincente e la lettura si limita al grado zero della vicenda: il suo è un recupero dell’elemento fiabesco della storia al livello più ingenuo e privo delle implicazioni, soprattutto psicanalitiche, che hanno reso intriganti e diversamente appassionanti gli allestimenti di Robert Carsen (2002), Martin Kušej (2012), Stefan Herheim (2012) o Christof Loy (2021), per citare solo i più recenti. L’esuberanza mediterranea dei suoi spettacoli qui è del tutto assente, il racconto lineare e il gioco attoriale latitante rendono lo spettacolo ben diverso dai suoi precedenti. Al calore della Sicilia sono subentrate, senza molta convinzione, le fredde brume di un generico nord che vorrebbe essere inquietante ma non ci riesce. Convenzionale è l’ambientazione scenica di Carmine Maringola, che mostra l’interno diroccato di una chiesa gotica con rosone e una pozza d’acqua – non proprio il lago attorniato dalla foresta di cui parla il libretto di Jaroslav Kvapil. Questo nel primo e terzo atto, perché nel secondo, quando si alza il sipario di foglie animato, siamo invece nel palazzo del Principe Azzurro di Cenerentola. I due mondi, quello acquatico e quello umano, qui non sono nettamente connotati e il dramma della protagonista non risulta straziante come dovrebbe.

Per di più, quello che vediamo sembra maggiormente adatto a un tradizionale balletto romantico che a un dramma del 1901: Rusalka non è La Sylphide del 1832, né la Giselle del 1842, e anche senza scomodare un certo dottor Freud, attivo in quegli stessi anni, nell’A.D. 2023 dalla Scala era lecito aspettarsi qualcosa di più di uno spettacolo adatto ai bambini per un titolo che qui non è mai stato rappresentato. Non aiutano infatti a scrollarsi di dosso questa atmosfera disneyana né i costumi coloratissimi – quanti rossi e rosa in un mondo che dovrebbe essere acquatico – di Vanessa Sannino, né gli invadenti movimenti coreografici di Sandro Maria Campagna affidati agli animali, ai cacciatori, alle ninfe, agli invitati, al corteggio di Ježibaba. Quest’ultimo nella pozza d’acqua esegue delle danze acquatiche nello stile di Esther Williams che forse sarebbero anche ironiche se solo fossero visibili agli spettatori della platea. Il commovente duetto tra la sirenetta che vuole diventare umana e il padre qui non commuove un bel niente se lo spirito dell’acqua si presenta come un calamaro gigante, mentre la scintilla amorosa tra i due giovani non scocca se continuano a tenersi a distanza e il principe dichiara il suo trasporto rivolto al pubblico, a gambe larghe in proscenio. La regista caratterizza ogni personaggio in maniera precisa: Rusalka si presenta su una carrozzella con i suoi tentacoli penzolanti, sembrando più un polipo che una sirena, e anche quando acquista le gambe i suoi passi sono sempre incerti; i cortigiani hanno movenze meccaniche (come quelle dei cari Pupi siciliani!); la Principessa è una figura arrogante come Malefica e Ježibaba una Grimilde, nelle versioni Disney, naturalmente. Il marchio di fabbrica della regista si rivela in pochi punti, come quando le ninfe sciolgono i lunghi capelli e li immergono nell’acqua con grandi spruzzi – una scena ricorrente in tutti i suoi allestimenti – o quando, con grottesca cattiveria, ci mostra gli invitati al banchetto del principe divorare con avidità i tentacoli da polipo che sono stati strappati alla inorridita ninfa dell’acqua.

Per il resto si nota nel suo allestimento una certa carenza di idee con momenti di stanchezza. Idee che sono invece rigogliose nella lussureggiante partitura tardoromantica di un compositore boemo che abbracciava con convinzione la causa della musica tedesca: il sinfonismo di Brahms, i Leitmotive di Wagner, il liederismo di Mahler. La musica della penultima opera di Dvořák procede per un flusso continuo ininterrotto punteggiato da pagine che è arduo definire numeri chiusi se non per l’intenso gusto melodico che traspare da temi come quello della Canzone alla luna del primo atto o dello struggente duetto del terzo. L’orchestra dispiega tutti i suoi fascinosi strumenti negli intermezzi sinfonici di cui Rusalka trabocca e che Tomáš Hanus, alla testa dell’orchestra del teatro, controlla con mano esperta. La sua è una direzione vigorosa, a tratti forse un po’ troppo magniloquente e con una certa predilezione per le ingombranti sonorità degli ottoni, ma anche capace di equilibrare sapientemente i momenti drammatici con quelli più lirici, la buca con i cantanti in scena.

Tutti di buon livello gli interpreti, ma nessuno indimenticabile. Brava e vocalmente pregevole la Rusalka di Olga Bezsmertna, ma proprio la Canzone alla luna non è il suo momento più convincente, forse anche per il tempo troppo lento scelto da Hanus. Mancava quella trepidazione palpabile in Lucia Popp o quel senso di imminente sventura di Asmik Grigorian o la sontuosità vocale di Renée Fleming – ahimè, i confronti sono difficilmente evitabili.

Dmitrij Korčak è un Principe vocalmente gagliardo, elegante e capace di sfumature e mezze voci soprattutto nell’ultimo atto, quando un personaggio non molto consistente si rende finalmente conto dell’amore della donna venuta dall’acqua e si sacrifica per lei: «Baciami, e donami la pace! Non voglio tornare, muoio con gioia». Anche nel suo caso però i confronti sono sempre in agguato… Elena Guseva e Okka von der Damerau sono i due caratteri femminili forti: la Principessa e la strega, entrambe autorevoli e di forte presenza scenica, pur nella staticità della regia. Notevole proiezione e ricchi suoni gravi per il Vodník di Jongmin Park che non brilla però per varietà d’accento ed espressività. Ottimi gli altri interpreti secondari: il guardiacaccia Jiří Rajniš; lo sguattero, Svetlina Stoyanova en travesti; Hila Fahima, Juliana Grigorian e Valentina Plužnikova, ninfe di lusso; il cacciatore Ilya Silčukoū.

Questa era la penultima replica, ma è probabile che la produzione trovi una forma di registrazione per chi se la fosse persa.

Il turco in Italia

Gioachino Rossini, Il turco in Italia

Madrid, Teatro Real, 9 giugno 2023

★★★☆☆

(video streaming)

La prima volta del Turco in Spagna

Una rarità per il teatro spagnolo, Il turco in Italia sbarca al teatro Real di Madrid in una nuova la produzione di Laurent Pelly che andrà anche a Lione e a Tokyo.

Se l’Adina dell’Elisir d’amore è attratta dalla lettura dei romanzi con filtri magici, qui Fiorilla è affascinata più prosaicamente dai fotoromanzi.  Il «naviglio» da cui sbarca Selim è un gigantesco “giornale di fumetti fotografico”, come venne chiamato dai suoi creatori Cesare Zavattini e Damiano Damiani nel 1947 il nuovo mezzo espressivo che tanto successo ebbe presso il pubblico femminile negli anni ’50 e ’60. E l’Italia del Turco è proprio di quell’epoca nella messa in scena del regista francese, dove infiniti dettagli arguti si inseriscono nello svolgimento di uno spettacolo estremamente piacevole. Le scene pop, disegnate dalla fedele Chantal Thomas e illuminate dal gioco luci dell’altrettanto collaudato Joël Adam,  prevedono come sfondo della scena la pagina ingigantita di un fotoromanzo, ma anche le casette e le siepi delle abitazioni di Geronio e Prosdocimo sono resi fotograficamente: è un mondo del tutto bidimensionale quello in cui si fanno realtà i sogni della giovane moglie annoiata in cerca di un’evasione romantica: prima nelle pagine delle riviste avidamente sfogliate, poi nell’apparizione di quell’attraente esemplare di maschio esotico che è Selim, tutto in bianco come lo sceicco di Fellini. Da quel momento realtà e finzione si mescolano in modo inestricabile e le battute in forma di fumetto entrano realmente in scena. L’incantesimo finirà quando Geronio getterà dalla finestra tutti quei fotoromanzi e Selim partirà, con la sua Zaida, a bordo di una pagina di fotoromanzo ora tutta stropicciata.

Nella regia di Pelly ogni personaggio è intelligentemente caratterizzato: Geronio, il «marito scimunito», è un omone buono ma un po’ noioso per gli standard di una sposa giovane e capricciosa;  il librettista Prosdocimo, in cerca di un «intrigo […] per un dramma intero», si presenta in ciabatte fruste e un accappatoio lercio; Don Narciso è un giovane imbranato e peggio vestito. Il desiderio di fuga di Fiorilla si rivela con la sua trasformazione: da casalinga in sciatto chemisier di cotone stampato a fiori, a elegante mannequin nel bellissimo abito nello stile dell’epoca disegnato dallo stesso Pelly. Come nei fumetti, cornici bianche o a zig zag inquadrano i personaggi in primo piano scendendo dall’alto. L’attenta recitazione rende sapida e infallibile dal punto di vista dei tempi la performance degli interpreti suddivisi in due cast entrambi prestigiosi. 

In quello del 9 giugno rifulge Lisette Oropesa, in una parte un po’ inconsueta per lei che frequenta più spesso il repertorio serio, ma oltre alle strepitose qualità vocali – agilità risolte con agio ed eleganza, fraseggio impeccabile, gamma omogenea e timbro fresco – dispiega una verve attoriale di gran livello che fa della sua Fiorilla un personaggio indimenticabile. Sullo stesso piano di eccellenza è il Selim di Alex Esposito, che inizia con una prodigiosa messa di voce su «Cara Italia». Ma i fiati saranno interminabili anche in seguito e la caratterizzazione del personaggio sarà efficace ma elegante.

Prosdocimo è Florian Sempey e questa volta il baritono francese non convince: ottimo attore, i suoni non sono belli, l’espressione eccessivamente caricata. Neppure il Don Narciso di Edgardo Rocha è quanto ci si aspettava e qui forse la fatica della penultima replica ha lasciato il segno e la performance vocale risulta sotto le sue possibilità. Buono invece il Geronio di Misha Kiria dalla bella sillabazione e dizione e ottima la Zaida di Paola Gardina, per di più di bella presenza scenica. Al simpatico Pablo García-López viene tolta l’unica aria di sorbetto di Albazar in quanto spuria in questa versione scelta da Giacomo Sagripanti che, anche al fortepiano, dirige l’orchestra del teatro con risultati non del tutto entusiasmanti. Accettabile la resa del coro, con qualche piccola imprecisione.

RAI Orchestra Pops

Leonard Bernstein, Candide, overture

George Gershwin, Concerto in fa per pianoforte e orchestra

I. Allegro
II. Adagio – Andante con moto
III. Allegro agitato

Aaron Copland, Appalachian Spring Suite

Leonard Bernstein, Divertimento per orchestra

I. Sennets and Tuckets
II. Waltz
III. Mazurka
IV. Samba
V. Turkey Trot
VI. Sphinxes
VII. Blues
VIII. In Memoriam – March: The BSO Forever

John Axelrod direttore, Nicolas Namoradze pianoforte

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 24 maggio 2023

La musica di New York

Innanzitutto una mesta considerazione: se neanche un programma così popolare come questo riesce ad attirare un folto pubblico giovanile, siamo proprio messi male. Un timido applauso tra i due primi tempi del concerto rivela la presenza di qualche neofita, ma ci vuole altro: la platea dell’Auditorium Arturo Toscanini è occupata per poco più di metà,  balconata e galleria sono desolatamente vuote. In una città di 900 mila abitanti meno dello 0,5 ‰ sente il bisogno di frequentare il suo auditorium neppure quando in programma ci sono musiche che sembrano fatte apposta per attirare folle. Come invece avviene quasi dappertutto oltralpe. E non si dica che è colpa dei prezzi: con meno dell’equivalente di un aperitivo, chi ha meno di 35 anni può passare una serata più stimolante di uno spritz sul marciapiedi.

L’Orchestra Sinfonica Nazionale RAI conclude la sua stagione con una serie di concerti, definiti pop, affidati a bacchette di grande prestigio, come quella di John Axelrod che apporta la sua contagiosa vitalità in un programma di compositori americani del ‘900. Ecco quindi Leonard Bernstein ad aprire la serata con un’esecuzione travolgente dell’ouverture della sua opera Candide (1956) e a concluderla con un lavoro del 1980, il Divertimento per orchestra in otto ironici movimenti commissionatogli dalla Boston Symphony Orchestra (da qui la sigla BSO) per celebrare il centenario della sua fondazione. Sono otto piccole miniature orchestrali basate sulle note si e do che nella notazione anglosassone corrispondono alle lettere B e C, iniziali di Boston Centennial. “Sennets and Tuckets” si riferisce invece ai termini che usa Shakespeare per indicare gli squilli di trombe, qui per denotare un festoso pezzo introduttivo. I tre seguenti si affidano a danze: uno sghembo valzer che evoca quello della Patetica di Čajkovskij; una mazurka dal tono mesto; una samba sincopata; un zoppicante turkey trot; i due pezzi Sphinxes e Blues sono lenti e hanno il colore livido di un’alba a New York.

In questo impaginato non poteva mancare George Gershwin, di cui si ascolta il celeberrimo Concerto in fa per pianoforte e orchestra (1925) la cui popolarità è seconda solo a quella della sua Rhapsody in Blue. I temi idiomatici contaminati dal jazz e del blues del pezzo, che doveva inizialmente intitolarsi New York Concerto, sono resi magnificamente dalla bacchetta di Axelrod e dalle mani del pianista Nicolas Namoradze che dopo un’esecuzione raffinatissima deve concedere un bis ed ecco The Man I Love in una versione  quasi schubertiana.

Con Aaron Copland e la sua Appalachian Spring (19449) si entra nel solco del ‘900 più tradizionale: qui le influenze della musica nera sono quasi assenti. Originariamente un balletto per Martha Graham, che suggerì al compositore il titolo tratto da un verso del poeta Hart Crane, per tredici strumenti e quattordici numeri, divenne poi una suite per grande orchestra in otto movimenti.

A furor di applausi Axelrod concede ancora un fuori programma: mancava Scott Joplin all’appello e il direttore texano ci offre una rutilante versione orchestrale del suo Maple Leaf Rag che manda a casa ancora più contento il pubblico.

Carlo il Calvo

photo © Brescia e Amisano

Nicola Porpora, Carlo il Calvo

Milano, Teatro alla Scala, 14 giugno 2023

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(esecuzione in forma di concerto)

Porpora in concerto alla Scala

Coraggio a metà per il Teatro alla Scala che propone sì un titolo barocco mai frequentato, ma in forma di concerto, per una sola sera e drasticamente accorciato – delle tre ore e quaranta minuti di musica eseguite a Bayreuth tre anni fa, un’ora viene eliminata tagliando cinque delle arie originali, alcune scene e molte battute di recitativo. Bastava anticipare alle 19 l’inizio per poter ascoltare nella sua interezza un’opera di rara esecuzione e grande interesse.

Queste le circostanze in cui nacque il lavoro. Nel 1737, dopo il suo soggiorno londinese, Nicola Porpora aveva ripreso il suo incarico all’Ospedale degli Incurabili veneziano sostituendo Johann Hasse, ma già l’anno successivo ritornava nella sua Napoli. Nel passaggio per Roma veniva scritturato per un’opera su un libretto basato su L’innocenza vendicata di Francesco Silvani, vicenda già messa in musica nel 1699. Ulteriori versioni erano seguite nel tempo e quella che arriva in mano a Porpora ha un testo piuttosto differente – mancano due personaggi comici e ne è aggiunto uno serio, Edvige – ed è di mano anonima. Col titolo Carlo il Calvo debutta nella primavera del 1738 al romano Teatro delle Dame, dove però le “dame” in palcoscenico erano bandite da decreto papale e solo cantori maschi, evirati e non, potevano calcare le scene. Per il personaggio femminile di Gildippe, ad esempio, Porpora aveva scelto il suo allievo Antonio Huber (o Uberti), detto per questo il Porporino. Gli altri due personaggi femminili, Giuditta ed Edvige, furono affidati a Geremia del Sette e Giuseppe Lidotti. Giuseppe Galletti, Lorenzo Ghirardi, giovane e avvenente cantante scoperto da Vivaldi, e Francesco Signorili furono rispettivamente Lottario, Adalgiso e Berardo. Per la parte del subdolo Asprando si ricorse a un debuttante Francesco Boschi.

Molto liberi sono i riferimenti alla storia della vicenda. Figlio di Ludovico II il Pio e di Giulietta dei Guelfi di Baviera, nipote quindi di Carlo Magno, pronipote di Pipino il Breve e trisnipote di Carlo Martello, Carlo il Calvo (823-877) sarà Re dei Franchi, poi Imperatore dei Romani e Re d’Italia, ma nell’opera è ancora un bambino di 9 anni immerso in una spietata disputa famigliare in lotta per il potere. Il personaggio del titolo è dunque muto nell’opera mentre gli altri hanno un numero di arie gerarchicamente consono alla loro importanza: Lottario, pretendente al trono e fratellastro del piccolo Carlo, ne ha cinque; il figlio Adalgiso e l’amata Gildippe oltre a un duetto anche loro avrebbero cinque arie, ma in questa esecuzione sono privati ognuno di una; due delle sue tre arie le mantiene il malevolo e subdolo consigliere Asprando; perdono anche loro un’aria su tre il principe spagnolo Berardo e Giuditta, madre di Carlo e vedova di Ludovico il Pio; conserva le sue due arie la figlia Edvige.

La zoppicante coerenza della vicenda e la repentina conversione di Lottario non sono aiutati dalla mancanza di una messa in scena e l’opera diventa una sequenza di stupende arie connesse da recitativi secchi. I numeri musicali solistici dimostrano la particolarità della scrittura di Porpora che nelle sue opere si rivela esperto compositore ma soprattutto maestro di canto: nella sua eleganza ed efficacia il ruolo dell’orchestra è principalmente quello di accompagnamento della voce dove le arie seguono una rigida struttura: la prima sezione è formata da una breve introduzione orchestrale, segue un primo episodio vocale terminante nella dominante, un breve ritornello orchestrale, un secondo episodio vocale variato e modulante alla tonica, un ritornello finale; la seconda sezione è molto più breve e con un tempo e un carattere diversi mentre nel da capo si riprende la prima parte con lussureggianti variazioni e una cadenza finale. Questa struttura tripartita o meglio pentapartita (A, A’, B, A”, A”’) è esemplata nell’aria che conclude il primo atto con Adalgiso che esprime i suoi timori ricorrendo a una metafora marinara frequentissima nell’opera barocca: «Saggio nocchier che vede […] la speme naufragar», un pezzo che vede brillare l’astro della serata, Franco Fagioli, in una girandola di agilità e virtuosismi vocali: trilli lunghissimi, salti di registro vertiginosi, acuti stratosferici e note cavernose, passaggi in legato e in staccato, un intero campionario di prodezze vocali che il controtenore argentino affronta e risolve con una souplesse disarmante e un gusto dello spettacolo che richiamano le mitiche figure degli evirati cantori settecenteschi di cui Fagioli oggi è l’indiscusso e insuperato rappresentante. Quest’aria richiama alla mente un’altra sua mitica esecuzione, quella di «Vo solcando un mar crudele» (un’altra metafora marinara…) dall’Artaserse di Vinci, opera presentata otto anni prima nello stesso Teatro delle Dame e di cui Porpora cita un passaggio orchestrale. Allo stesso Adalgiso/Fagioli è affidato il compito di terminare anche il secondo atto con l’aria «Spesso di nubi cinto […] s’asconde il sole in mar» conclusa da una cadenza strepitosa. Purtroppo la divisione scelta alla Scala di un solo intervallo in mezzo al secondo atto diminuisce in parte l’effetto che ha sulla scena come finale d’atto. Con «Taci, oh Dio! ch’è da tiranno | il rapir con frode un regno», Fagioli mette in mostra una messa di voce e fiati interminabili sorprendenti. Peccato che ad Adalgiso venga tagliata l’aria del terzo atto «Con placido contento», ma l’espressività di cui il vocalista Fagioli sa fare sfoggio la ritroviamo nel lirico duetto con Gildippe «Dimmi che m’ami, o cara», numero di inusitata bellezza dove le sospirose cadenze vedono in gioco anche  l’altra star della serata, Julija Ležneva.

Il soprano russo ha raggiunto un livello di maturità espressiva sorprendente pur con un mezzo vocale se non esile comunque leggero, anche se dotato di grande proiezione. Fin dalla sua prima aria, «Sento che in sen turbato», ammalia il pubblico con trilli interminabili e un porgere della voce che evita il tono lezioso, anzi aggiunge un tocco di elegante ironia. Anche a lei viene tagliata un’aria, «Se veder potessi il core», ma la Ležneva si rifà nel terzo atto, prima dell’immancabile coro finale, con l’inserimento di «Come nave in mezzo all’onde» dal Siface dello stesso Porpora, un pezzo di acrobazie vocali magnificamente realizzate.

Max Emanuel Cenčić è arrivato a un momento della sua carriera in cui lo strumento vocale ha perso un po’ della abilità acrobatiche iniziali, ma ha acquistato in colore ed espressione. Il suo Lottario non è mero sfoggio virtuosistico, il caldo timbro da contralto ora è al meglio e il controtenore croato lo dimostra nelle sue cinque arie che comprendono anche un numero dall’Ezio, sempre di Porpora, «Se tu la reggia al volo», le cui fluide agilità vengono dipanate con suprema eleganza. In tutti i suoi interventi i da capo sono cesellati con variazioni e cadenze di grande raffinatezza.

Il tenore tedesco Stefan Sbonnik è un Asprando non eccessivamente caricato: se non si ascoltassero le sue parole non si direbbe che si tratta di un personaggio spregevole. La sua linea di canto è mantenuta sempre su un tono di grande eleganza e dopo un inizio un po’ incerto il cantante acquista in presenza vocale con agilità ben sostenute. Presente anche a Bayreuth, Suzanne Jérosme presta la sua bella voce sopranile per delineare un’intensa Giuditta e conferma qui il temperamento, già là ammirato, nelle sue due arie che le sono rimaste, in cui si scaglia contro il marito che intende «svenare il caro figlio». 

Edvige è un personaggio, come s’è detto, inserito per equilibrare la parte femminile e fornire anche una seconda coppia amorosa – la donna ama riamata Berardo – a quella di Adalgiso e Gildippe. Ambroisine Bré, mezzosoprano apprezzato anche al di fuori del repertorio barocco (è stata Mallika nella recente Lakmé dell’Opéra-Comique di Parigi), ha solo due arie: una nel primo atto in cui dichiara che «fedele ognor sarò», una nel secondo atto in cui il testo si affida qui a una metafora agricola dove «Il provido cultore […] mira del suo sudore | la speme biondeggiar» ma teme che «la procella e il vento | del suo sudor la speme | gli possa dissipar». È infatti in questa alternanza di speranza e disperazione che vive il personaggio. 

Che nel teatro musicale settecentesco le metafore verbali e le parole diventino un astratto gioco di immagini atte a stupire con la voce è dimostrato anche dall’ultimo personaggio, Berardo, interpretato dal sopranista Dennis Orellana, cantante già di solida tecnica vocale impiegata nelle fioriture delle sue due arie (quella del primo atto è tagliata) entrambe fieramente guerresche, «Per voi sul campo armato | sfidar l’avverso fato» e «Su la fatal arena | dal brando mio trafitto», risolte con giovanile baldanza e perfetto controllo del prodigioso mezzo vocale.

Il tutto è concertato con sapienza e gusto da George Petrou a capo dell’Armonia Atenea, orchestra la cui la bellezza del suono non è forse la qualità migliore, soprattutto per i fiati, ma si sa che gli strumenti originali sono di difficile intonazione. La compagine – formata da due oboi, un fagotto, due corni, due trombe e percussioni, oltre agli archi e al clavicembalo – si è comunque dimostrata un elemento molto duttile e attento alle indicazioni del suo direttore a cui ha risposto con precisione di attacchi e uno slancio ritmico trascinante. I contrasti sonori e i colori sono ricchi, ma mai esasperati, e curatissima è la realizzazione dei recitativi, di cui due accompagnati nei momenti più salienti della storia: il finale del primo atto dominato dalla figura di Adalgiso e la scena del terzo atto del monologo di Asprando, quando l’anima nera della vicenda combatte contro le visioni infernali che intende sfidare.

Un teatro gremito, a parte qualche sparuta defezione durante l’intervallo, ed entusiasta ha decretato un successo memorabile all’esecuzione con lunghi convinti applausi e autentiche ovazioni per Fagioli e Ležneva.

Nabucco

foto © Carole Parodi

Giuseppe Verdi, Nabucco

Ginevra, Grand Théâtre, 11 giugno 2023

★★★★☆

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A Ginevra il coro è il protagonista del Nabucco

La stagione del Grand Théâtre de Genève, intitolata “Mondes en migration”, termina con un’opera emblematica in cui le peripezie di un popolo che anela a una patria ne sono il soggetto principale. Il libretto di Temistocle Solera è tratto da un episodio dell’Antico Testamento in cui si narra del re di Babilonia Nabucodonosor che conquista la città di Gerusalemme e rende schiavo il popolo ebreo. Nell’Italia del 1842, anno in cui Verdi presentò la sua terza opera – poco dopo il fiasco di Un giorno di regno –, il clima politico suggeriva una lettura correlata alla contemporaneità di allora: con Milano occupata dagli austriaci, era facile per i milanesi identificarsi col popolo ebreo soggiogato dai babilonesi.

Particolarmente attenti a vietare ogni manifestazione che potesse minimamente suggerire un pensiero rivoluzionario, gli austriaci quella sera del 9 marzo non riuscirono però a impedire il bis di quel coro che lamentava le sorti di una «patria sì bella e perduta» e qualche anno dopo il cognome di Verdi diventava l’acronimo di “Vittorio Emanuele Re D’Italia” e il «W VERDI», che i patrioti vergavano sui muri delle case, assumeva un significato che andava ben oltre l’amore degli italiani per la musica del suo maggiore compositore.

Questa lettura risorgimentale della vicenda biblica è spesso presente nelle più recenti produzioni italiane di Nabucco – come è stato ad esempio per la messa in scena all’Arena di Verona di qualche anno fa in cui il regista Arnaud Bernard ha trasportato la vicenda biblica al 1848, anno del culmine dei moti rivoluzionari in Italia, e invece del Tempio di Salomone o degli orti pensili di Babilonia sul palcoscenico troneggiava un fedele modello del Teatro alla Scala.

È con grande curiosità quindi che si è attesa la produzione della brasiliana Christiane Jatahy del Nabucco ora in scena a Ginevra, quasi certi che non ci sarebbero state istanze risorgimentale nella sua lettura. Così è stato, infatti.

Artista ad ampio spettro di varie espressioni artistiche, Jatahy è autrice, regista e cineasta. Si è interessata soprattutto alla relazione tra cinema e teatro e, sul piano dei contenuti, ai problemi razziali. Leone d’oro alla carriera della Biennale di Venezia del 2022, il suo spettacolo Depois do silêncio, presentato poco tempo fa al Piccolo di Milano, ha concluso la sua “Trilogia degli orrori”, orrori che contemplano le meccaniche del fascismo, la mascolinità tossica e il potere politico, il legame tra razzismo e capitalismo.

Con le stessa intensità degli altri suoi spettacoli che hanno fatto scalpore nelle ultime edizioni del Festival d’Avignon, ora Jatahy affronta per la seconda volta la prova della lirica con un approccio originale pur ottenuto con mezzi non inediti per le scene dei teatri d’opera. Ecco infatti due grandi specchi che si muovono obliquamente per riflettere gli attori in scena o il pubblico stesso, una pozza d’acqua in cui far sguazzare i cantanti, gli schermi su cui si proiettano le immagini riprese da due steadycam, i video che complementano le già ricche immagini reali, i coristi sparsi in platea. Nonostante si siano già visti tante altre volte, qui questi mezzi espressivi acquistano però una loro convincente, quasi inedita efficacia, come l’enorme specchio che si trasforma in uno schermo per aumentare il numero dei personaggi in scena facendo così del coro il vero assoluto protagonista. Non è poi una novità, ma ha comunque un suo impatto emotivo, il coro in platea. E allora ci si scopre vicini di poltrona di un soprano che si alza e intona «Gran nume, che voli sull’ale dei venti» oppure quando alla fine riecheggia attorno agli spettatori, in platea e nelle gallerie, il coro «Va’ pensiero» intonato a cappella come finale dell’opera! Finale? Su questo ritorneremo.

Per la sua proposta concettuale la regista organizza uno spettacolo che nel suo apparente minimalismo dimostra una grande complessità e lo dimostra la schiera di persone che vi sono state impiegate: oltre alla drammaturgia di Clara Pons, di casa qui al GTG, alle scene di Thomas Walgrave e Marcela Lipiani, ai costumi di An D’Huys e alle luci ancora di Thomas Walgrave, sono state necessarie le presenze di specialisti per il coordinamento audiovisivo, per lo sviluppo dei sistemi video e della creazione sonora e infine di un direttore della fotografia. Il risultato è una sequenza di immagini di grande impatto: una per tutte quella dell’enorme “mantello” inzuppato d’acqua che sostituisce la corona, il simbolo del potere, con cui si avvolge Abigaille, vestita altrimenti in un tailleur azzurro, quello di molte donne di potere di oggi. La presenza del numeroso coro e di un altrettanto folto numero di comparse riempie il palcoscenico di pieni e di vuoti in cui le vicende personali vengono schiacciate dalle vicende politiche che non lasciano posto all’amore di Fenena e Ismaele: «La storia che stiamo raccontando non si concentra solo su Nabucco come personaggio, ma molto più su una riflessione della conquista di un popolo da parte di un altro e sulla ripetizione storica di questa forma di supremazia. La scrittura del potere, la sua iscrizione nel mondo, non è cambiata e la sua trascrizione – la sua ritrascrizione nel caso di Abigaille – si basa su un’energia di potere che si potrebbe dire maschile, di conquista. Per noi, quindi, questo spettacolo non riguarda solo le persone che comandano, ma anche l’equilibrio tra queste persone e la collettività. Qui, questo grande gruppo di persone si chiama coro, ma non è un’entità unica: è una pluralità di individualità che, sebbene spesso ridotte a essere la stessa cosa, creano dei collettivi. Alla fine, naturalmente, si tratta di tutti noi», dice la regista. E infatti il coro non è monolitico: durante la perorazione di Zaccaria «Oh, chi piange?» alcuni se ne vanno sconfortati, non credono alla sua profezia e il grande specchio che riflette le immagini di noi spettatori induce a farci riflettere ancora più sui temi della nostra contemporaneità.

Questa lettura a-trionfalistica della regista trova una sponda perfetta nella direzione di Antonino Fogliani a capo dell’Orchestra della Suisse Romande. Fin dalle prime note della sinfonia si delinea il tono intimo e sommesso che dominerà la serata. Il grande specchio rimanda l’immagine dell’ampio gesto del direttore messinese, dove le braccia hanno un ruolo ben distinto, con il contributo essenziale della sinistra a definire il volume sonoro e il colore di una partitura che nella sua acerbità fa già intravedere il genio che verrà. La concertazione di Fogliani è sempre attentissima all’equilibrio con le voci in scena così da permettere a Nicola Alaimo di delineare al meglio il personaggio eponimo, che qui assume la grandezza di un Re Lear scespiriano, passando dalla arroganza del potere alla follia, che però lo salva. E come nel miglior Shakespeare, la parola si fa suono e il fraseggio diventa un discorso di grande incisività. Una prova magistrale quella di Alaimo, alla quale il pubblico teatro ha tributato meritate ovazioni.

Non altrettanto potente come proiezione della voce, Riccardo Zanellato è riuscito ugualmente a definire un autorevole Zaccaria per la sensibilità e intelligenza con cui ha saputo utilizzare al meglio il suo strumento vocale in favore di un’efficace espressività. Di proiezione vocale non fa certo difetto l’Abigaille di Saioa Hernández, ma qui ancora più che in passato la cantante spagnola ha saputo gestire la potenza sonora e la particolarità del suo timbro per definire un personaggio a cui ha dato grande presenza in tutte le sue apparizioni. L’Ismaele di Davide Giusti ha avuto momenti di rudezza vocale che col tempo sicuramente si risolveranno mentre ottima prova hanno fornito i quattro membri del Jeune Ensemble del teatro: Omar Mancini (Abdallo), Giulia Bolcato (Anna), William Meinert (Gran Sacerdote) e soprattutto Ena Pongrac, una Fenena di temperamento, sicura presenza scenica, timbro personale e già evidente padronanza tecnica.

E infine il coro, il vero personaggio di Nabucco, qui in una prova tra le più impegnative anche per le particolari richieste registiche, ma sotto la guida di Alan Woodbridge la compagine ha dimostrato grande compattezza e precisione. Al coro è poi affidata l’ultima parola in questa versione: non c’è stato il bis del «Va’ pensiero» nella terza parte, “La profezia”, ma il celebre coro si ascolta una seconda volta dopo un intermezzo sinfonico scritto dallo stesso Fogliani che si collega alle parole di Abigaille morente. Sappiamo che Verdi voleva terminare l’opera sul coro «Immenso Jehova», ma Giuseppina Strepponi, la prima interprete di Abigaille, si era rifiutata di morire fuori scena e voleva avere lei l’ultima parola. A questa richiesta della prima donna, e sua futura moglie, il compositore non aveva potuto far altro che accondiscendere scrivendo un finale, originariamente non previsto, con la conversione della donna. Al Grand Théâtre di Ginevra un finale alternativo è messo in atto dalla regista e dal direttore: sulle note che accompagnano le ultime parole che si spengono sulla bocca di Abigaille «te chiamo… o dio… te venero!… | non ma… le… di… re a me!…» nasce una pagina che utilizza il linguaggio della musica moderna – ricorda vagamente nello stile il finale di Berio per Turandot – che traghetta lo spettatore verso il coro a cappella dei coristi sparsi tra il pubblico mentre intonano appunto una seconda volta il lamento degli «ebrei incatenati e costretti al lavoro» sulle sponde dell’Eufrate.

Chissà come avrebbe reagito il pubblico di Milano o di Parma dove quel coro è un secondo inno nazionale e Verdi è per molti “intoccabile”. Qui sul Lago Lemano l’emozione è intensa e l’entusiasmo incontenibile. Verdi stesso ne sarebbe stato contento, forse.