foto © Brescia e Amisano
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Florian Leopold Gassmann, L’opera seria
Milano, Teatro alla Scala, 6 aprile 2025
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Non c’è nulla di serio nell’Opera Seria
Non è paradossale che per divertirsi lo spettatore debba aspettare il terzo atto, quello “serio”, in quest’opera di Florian Leopold Gassmann: all’Opera non c’è nulla di serio, meno che mai in quella Seria. Siamo nel regno dell’improbabile e dell’eccesso, dove la realtà è sospesa, la Storia si fa inverosimile, la razionalità lascia posto alla fantasia più sfrenata.
Maestro di Salieri, la cui Europa riconosciuta inaugurò il Teatro alla Scala nel 1778, Gassmann fu autore di una ventina d’opere. Nato in Boemia ma affermato a Venezia e poi a Vienna, dove nel 1769 venne rappresentata L’opera seria sul caustico libretto di Ranieri de’ Calzabigi, il librettista delle opere riformate di Gluck. Un metamelodramma, cioè una satira in cui l’opera si fa beffe di sé stessa, dei suoi personaggi, delle sue convenzioni, prendendo di mira la figura dell’impresario teatrale.
Assieme al pamphlet di Benedetto Marcello (Il teatro alla moda, 1720), quello del metateatro è un sottogenere del repertorio buffo che nel Settecento si definirà prima in intermezzi (La Dirindina, Scarlatti, 1715; L’impresario delle Canarie, Sarro, 1724: Il maestro di Cappella, Cimarosa, 1793), poi in dramma giocoso (La bella verità, Piccinni, 1762; L’Impresario burlato, Mosca, 1797) e in farsa in un atto (Che originali, Mayr, 1798). Anche Mozart con lo Schauspieldirektor (1786) dà il suo contributo al genere, così come Salieri, lo stesso anno, con Prima la musica poi le parole. Ma il capolavoro assoluto si ha in pieno Ottocento con Le convenienze ed inconvenienze teatrali di Donizetti (1827). Col tempo il genere finirà per essere relegato a contesti minori come La cantante, “operetta in prosa e musica per fanciulle” di Walter Carlo Graziani del 1899.
L’Opera seria di Gassmann è «un melodramma al quadrato», scrive Lorenzo Mattei sul programma di sala come sempre ricco di interessanti interventi, dove «si ride già dai nomi»: l’impresario si chiama Fallito, il poeta Delirio, il musicista Sospiro, il castrato Ritornello, il maestro di ballo Passagallo e i soprani Stonatrilla, Smorfiosa e Porporina fino alle rispettive madri Caverna, Befana e Bragherona. Nel primo atto c’è la presentazione dell’argomento e dei personaggi con i loro tic, le loro manie, le rivalità tra cantanti, compositore e librettista, le pretese del maestro di ballo. Nel secondo assistiamo alle prove dell’opera seria Oranzebe, dramma tragico la cui ambientazione orientaleggiante e la versificazione sono una chiara parodia del teatro metastasiano, anche se il titolo si rifà alla Aureng-Zebe, “Restoration drama” del 1675 di John Dryden. Qui il ruolo dell’impresario è devastante quando scorcia versi e ritornelli facendo indignare in egual misura poeta e musicista e indispettire i cantanti. Nel terzo vediamo finalmente la messa in scena dell’Oranzebe, presto interrotta però dalle intemperanze del pubblico e dalla fuga con la cassa dell’impresario.
Coprodotta con il Theater an der Wien, arriva al Piermarini la produzione affidata a Laurent Pelly, che a Lione de Le convenienze ed inconvenienze teatrali donizettiane aveva fatto uno spettacolo indimenticabile. Qui la musica è tutt’altra cosa e la drammaturgia piuttosto latitante, i battibecchi fra primedonne, compositore e poeta ripetitivi e il testo non particolarmente brillante. Soprattutto, manca la Mamm’Agata che irrompe con tutto il suo ingombro fin dal primo atto nell’opera di Gilardoni e Donizetti. Qui le madri delle cantanti sono ben tre, ma si presentano solo alla fine e con ruoli limitati.
Pelly risolve con grande eleganza la debole drammaturgia puntando a una regia di precisione cronometria e un raffinatissimo gioco visivo che richiama il bianco e nero di certi spettacoli di Ponnelle, sia nei costumi da Pelly stesso ideati sia nelle scenografie di Massimo Troncanetti illuminate dalle luci di Marco Giusti che danno sfumature pastello al grigio degli abiti. La scena è quasi nuda nei primi due atti, con porte sullo sfondo e sui lati e otto servi di scena che si muovono secondo un meccanismo di assoluta precisione per portare, o togliere, i pochi oggetti necessari al momento – una sedia, un tavolo, uno strumento musicalo, una lancia… Impeccabile la gestualità che sottolinea la personalità di ogni personaggio: la supponenza di Stonatrilla, le paturnie di Smorfiosa, la svagata boria di Ritornello, lo stress di Delirio, e poi le tre madri, un tenore e due controtenori en travesti esilaranti.
Ma è il terzo atto il vero coup-de-théatre con la scenografia dipinta quale una toile de jouy “indienne” nei toni del grigio: palme, arbusti e un gigantesco elefante, che crolleranno miseramente a terra come in A day at the Opera dei Fratelli Marx. È la trovata di Pelly per sostituire le intemperanze del pubblico previste invece dal libretto.
In crescendo è anche la musica, che dopo l’iniziale terzetto «Oh, che bell’opera! Che bella musica! Che stil drammatico! Che stil cromatico!» – la quiete prima della tempesta – già nel finale primo porta a galla astii e gelosie: «Che veleno mi bolle nel petto! Oh teatro! oh mestier maledetto! quanto fiele inghiottire ci fa». Nel secondo atto Ritornello si ostina a cambiare Scilla con Sicilia nella sua aria di gusto metastasiano «Quel nocchier che scioglie a’ venti», con disperazione del librettista e divertimento del pubblico. Nel terzo gli interpreti finalmente vestono i panni previsti dalla Oranzebe: Ritornello da Nasercano («Se con voi do in braccio al vento»), Smorfiosa da Saebe («Saprei costante e ardita | spezzar la tua catena»), Stonatrilla da Rossanara («No, se a te non toglie il fato | quel bell’occhio lusinghiero»), tre pompose arie con daccapo.
Compagnia di canto praticamente perfetta quella raccolta sulla scena della Scala: Pietro Spagnoli, Fallito, si muove con l’agilità vocale e l’elegante presenza scenica che ha sempre dimostrato; Mattia Olivieri dosa con bell’equilibrio le ambasce di Delirio; Giovanni Sala e un inappuntabile Sospiro, compositore piegato ai capricci di impresari e musici dalla parrucca stile colpo di vento mentre Josh Lovell, con cresta quasi punk, è un divertentissimo e vocalmente glorioso Ritornello. Da Julie Fuchs, Stonatrilla, non si poteva non aspettarsi che una performance impeccabile, come è infatti avvenuto; simpatia e vivacità strabordanti contraddistinguono la Smorfiosa di Andrea Carroll e la Porporina di Serena Gamberoni; il costernato maître de ballet Passagallo trova in Alessio Arduini un’efficace definizione. E infine le tre “mamme”, tre cammei di lusso per la Befana di Lawrence Zazzo, la Caverna di Filippo Mineccia e la Bragherona di Alberto Allegrezza. Dalla direzione di Christophe Rousset alla guida dell’orchestra del teatro rimpolpata con alcuni strumentisti dei suoi Talents Lyrique, ci saremmo aspettati un pochino più di verve oltre alla inappuntabile resa musicale di un esperto di questo repertorio.
Come sempre negli spettacoli di Pelly massima è la cura per le coreografie, affidate qui all’ironia di Lionel Hoche e all’esecuzione impeccabile dei suoi ballerini. Al termine grande successo e applausi copiosi di un teatro pieno in ogni ordine di posti in una delle pochissime pomeridiane che il teatro milanese si degna di offrire al suo pubblico.
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