Mese: marzo 2025

Mosè in Egitto

Gioachino Rossini, Mosè in Egitto

Modena, Teatro Comunale Pavarotti-Freni, 18 ottobre 2024

★★★★☆

(video streaming)

Tra tradizione e tecnologia: il Mosè di Modena

Mosè in Egitto (Napoli, 1818 e 1819) e Moïse et Pharaon (Parigi, 1827) sono due stesure così diverse che è lecito considerarle due opere distinte. D’accordo che hanno in comune un 60% di musica, ma la lingua, i nomi dei personaggi, la sequenza dei numeri musicali e la presenza di balletti in quella francese fanno della versione napoletana un “oratorio sacro” – questo per aggirare il divieto di mettere in scena opere nel periodo quaresimale – e di quella parigina un grand-opéra. Quest’ultima è la versione che ritradotta in italiano viene talora data in Italia col titolo abbreviato Mosè.

Ora a Modena, al Teatro Comunale Pavarotti-Freni e coprodotto con i teatri di Piacenza e Reggio Emilia, viene messa in scena la versione napoletana del 1819. Il regista Pier Francesco Maestrini costruisce uno spettacolo in linea con il suo stile, minimalista nei mezzi e con una sua grandiosità nei risultati, grazie a un doppio schermo, un velatino al proscenio e uno sul fondo, su cui vengono proiettate le immagini video di Nicolás Boni con effetto 3D. Ecco allora il cielo plumbeo solcato da fulmini, la pioggia di fuoco, il mare che si divide, ma anche gli interni della reggia del faraone o la grotta del secondo atto. Essenziali le scenografie realizzate dal Laboratorio di scenografia del Teatro Comunale di Modena che si adattano alla scelta iconografica del regista. I costumi di  Stefania Scaraggi rimandano all’epoca biblica e distinguono i due popoli antagonisti, con ampio uso dell’oro per gli egizi. Grazie alle luci di Bruno Ciulli i momenti clou della vicenda raggiungono la loro giusta dose di spettacolarità. Con la profondità affidata alla prospettiva delle immagini video, la scena si rivela appiattita e i movimenti delle masse corali piuttosto limitati, il che sottolinea la formula oratoriale che era nelle intenzioni dell’autore. Anche la gesticolazione è lasciata alla buona volontà degli interpreti, quasi esagitata quella di Osiride, totalmente statica quella di Amaltea.

Niente da dire invece sul fronte musicale, dove Giovanni Di Stefano alla direzione dell’Orchestra Filarmonica Italiana dà il giusto tono a questa opera seria di Rossini, con i suoi momenti di intimità alternati a quelli più grandiosi, qui ottenuti senza esagerare con la magniloquenza. Ottimo l’equilibrio sonoro con la scena calcata da sicuri professionisti. Primo fra tutti Michele Pertusi che del personaggio del titolo delinea con grande autorevolezza la figura solenne eppure umana. La voce è ancora gloriosamente ben proiettata, la parola magistralmente scolpita come sempre, magnifici i colori e le mezze voci esibiti nei due maggiori numeri musicali di Mosé: l’aria Tu di ceppi, composta da un collaboratore ignoto di Rossini e la meravigliosa preghiera Dal tuo stellato soglio, bissata a furor di popolo. Molto bene l’Elcìa di Aida Pascu (allieva di Rajna Kabaivanska) dal timbro affascinante e dal fraseggio elegante. Brillante e perfettamente a suo agio nella tessitura l’Osiride di Dave Monaco, il personaggio portato al successo nel Rossini Opera Festival del 1985 da Rockwell Blake. Statica scenicamente e abbastanza monotona vocalmente, Mariam Battistelli risolve invece efficacemente la sua aria con coro La pace mia smarrita, su musica del Ciro in Babilonia. Grande attenzione alla parola anche per il Faraone di Andrea Pellegrini. Particolarmente squillante l’Aronne di Matteo Mezzaro, mentre Angela Schisano e Andrea Galli si distinguono nelle parti secondarie di Amenofi e Mambre. Ottima prova quella fornita dal Coro Lirico di Modena istruito da Giovanni Farina.

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Salome

 

Richard Strauss, Salome

Napoli, Teatro di San Carlo, 20 marzo 2025

 ★ ★ ★

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Una Salome nuova nell’impatto ecologico ma vecchia nella concezione 

L’altro ieri a Roma Alcina, questa sera a Napoli Salome. Un’altra donna incantatrice e altrettanto pericolosa, un altro caso di seduzione mancata. 170 anni separano la maga di Händel dalla ragazzina necrofila di Strauss, Una respinta da Ruggiero che aveva ammaliato con i suoi incantesimi, l’altra respinta da Jochanaan, profeta illuminato dal divino.

Altri 120 anni e siamo all’oggi, con una produzione non nuova per il San Carlo: è la ripresa infatti della messa in scena di Manfred Schweigkofler del novembre 2014, uno spettacolo nato tre anni prima per i teatri di Bolzano, Modena e Piacenza. E ci sarebbe stata anche la ripresa del 2021 se non ci fosse stato di mezzo il Covid a cancellarla.

Non era uno spettacolo particolarmente nuovo neanche allora, però. Negli anni successivi Van Hove, Castellucci, Warlikowski, Michieletto, Loy, Černjakov e Kosky, quest’ultimo proprio un anno fa a Roma, avrebbero fornito la loro versione. Quella di Schweigkofler non risulta particolarmente originale e delle sue intenzioni espresse nell’intervista pubblicata sul programma di sala ben poco rimane in una lettura che non è neppure illuminante sulla psicologia dei personaggi e sulle morbose relazioni con la principessa di giudea dei tre uomini: Jochanaan, Erode e Narraboth. La vicenda è trattata in maniera didascalica in un’ambientazione senza tempo: il disegno scenico di Nicola Rubertelli, illuminato dalle fredde luci di Claudio Schmid, mostra una scalinata racchiusa tra due alte mura, mentre uno specchio a 45° riflette dall’alto il palcoscenico – rivelando un disegno che ricorda una tela di Chagall – così come l’interno della cisterna, una prosaica botola con scaletta che porta al sotto palco. Un elemento questo dello specchio del tutto inutile nell’economia dello spettacolo se non quello di mostrare anche al pubblico della platea il pavimento della scena.

Se i registi predetti hanno tutti evitato in un modo o nell’altro l’immagine grandguignolesca della testa mozza – nascosta in una scatola per Warlikowski, trasformata in testa di cavallo per Castellucci… – Schweigkofler non rinuncia invece a mostrare il capo sanguinante per il facile raccapriccio del pubblico. Anche la danza dei setti veli, che ha spinto la fantasia degli altri metteur en scêne a soluzioni inedite, qui è invece banalmente eseguita da sette fanciulle, una per ogni velo… La morbosa sensualità della danza rimane però tutta nella musica, certo non nella ingenua coreografia di Valentina Versino in cui si inseriscono anche i movimenti della cantante, con risultati non propriamente esaltanti.

Nuovi rispetto alla produzione del 2014 sono i costumi, qui disegnati con tocchi orientali da Daniela Ciancio e confezionati con un nuovo materiale, lo ScobySkin, un tesssuto bio-based che non utilizza né alberi, né animali, né sostanze chimiche artificiali, ma è realizzato a partire da fogli di nanocellulosa ottenuta con un processo di fermentazione batterica a partire da scarti di frutta a chilometro zero. Un esempio virtuoso di riduzione dell’impatto ambientale in tutto il ciclo, dalla produzione allo smaltimento, come riporta il programma di sala.

La concertazione dell’opera è affidata al direttore musicale Dan Ettinger che della lussureggiante partitura più che la sensualità accentua i toni barbarici, brutali, con livelli sonori tali da coprire le voci in scena, ma grazie all’orchestra del teatro in gran forma, si dimostra molto abile a districarsi nella fitta rete tematica e nei subitanei cambi di ritmo e rendendo appieno i colori ora rutilanti ora lividi di questa musica.

La parte del titolo è affidata alla voce di Ricarda Merbeth che non ricrea esattamente la figura di un’adolescente viziata e manipolatrice, ma di una donna ossessionata fino alla follia dalla figura del profeta, probabilmente il primo uomo che ha risvegliato le sue pulsioni sessuali che non più represse esplodono nel raccapricciante finale. Cantante che ha sviluppato nel tempo una carriera molto diversificata, da soprano coloratura a soprano wagneriano, Ricarda Merbeth ha uno strumento poderoso espresso in un’impegnativa estensione, ma non riesce a ricreare la complessa personalità della figliastra di Erode e la sua presenza scenica sembra volersi rifare a modelli del passato quale la Theda Bara del film di Edwards del 1918, con gran roteare di mantelli e sguardi intensi, piuttosto che a più moderne interpretazioni.

Il baritono americano Brian Mulligan sarà nuovamente Jochanaan tra un mese per l’inaugurazione del prossimo Festival del Maggio Musicale fiorentino. Voce dal timbro chiaro e dall’elegante canto declamato, forse a causa della regia non ha l’autorevolezza che ci si aspetta dal personaggio e anche scenicamente la sua figura non emerge con la dovuta evidenza. Sarà anche per il fatto che tutto vestito com’è non si capisce come Salome possa innamorarsi del suo corpo: «Ton corps est blanc comme les neiges qui couchent sur les montagnes, de Judée, et descendent dans les vallées. Les roses du jardin de la reine d’Arabie ne sont pas aussi blanches que ton corps. […] Il n’y a rien au monde d’aussi blanc que ton corps. — Laisse-moi toucher ton corps !» (Il tuo corpo è bianco come le nevi che si stendono sui monti della Giudea e scendono nelle valli. Le rose del giardino della regina d’Arabia non sono bianche come il tuo corpo. […] Non c’è nulla al mondo che sia bianco come il tuo corpo. – Fammi toccare il tuo corpo!), come dice il testo originale di Oscar Wilde.

Erode è spesso connotato in maniera caricaturale, non qui dove Charles Workman ridà al monarca la sua dignità regale anche se la voce è spesso coperta dall’orchestra e si perdono le sottigliezze della sua interpretazione. Lo stesso avviene per l’Erodiade di Lioba Braun, ma qui c’è da prendere in considerazione una certa usura dello strumento vocale. Buone si dimostrano le parti secondarie di Narraboth con un lirico John Findon e del Paggio di Štěpánka Pučálková. Nella complessità della trama teatrale sono efficaci i membri del quintetto di litigiosi ebrei: Gregory Bonfatti, Kristofer Lundin, Sun Tianxuefei, Dan Karlström e Stanislav Vorobyov. Apprezzabili anche gli altri cantanti, tra cui due artisti del coro del teatro.

Applausi non fragorosi hanno salutato dopo il cruento finale gli artefici dello spettacolo. Molti spettatori sembravano ansiosi di passare al guardaroba.

Alcina

foto © Fabrizio Sansoni

Georg Friedrich Händel, Alcina

Roma, Teatro dell’Opera, 18 Marzo 2025

★★★★★

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La prima volta di Alcina a Roma

Ci sono voluti 290 anni, ma alla fine l’Alcina di Händel è approdata a Roma e – spoiler alert – in una produzione che ha compensato l’attesa. 

Nata 25 anni fa sulle tavole del barocco Slottsteater di Drottningholm in Svezia, la messa in scena di Pierre Audi era passata prima ad Amsterdam e poi a Bruxelles. Per portarla a Roma si sono dovuti ricostruire scenografie e costumi che erano stati distrutti, ma con le maestranze e i laboratori dell’Opera di Roma non ci sono stati problemi, anzi, mi ha detto il regista, questi nuovi sono ancora migliori.

E belli lo sono di certo: nel primo atto le quinte dipinte inquadrano con fitte fronde verdi una scena fissa per ricreare il «luogo deserto» e il «picciol antro» sull’isola mentre gli eleganti costumi settecenteschi sono in sete dai sobri colori pastello. Nient’altro in scena: tutto è lasciato alla recitazione degli attori, volevo dire cantanti, ai loro sguardi, ai calcolatissimi movimenti. La dinamica psicologica dei personaggi è chiara fin dal primo momento: l’amore possessivo di Alcina per Ruggiero; la passione di Oronte per Morgana, che invece si è innamorata di Ricciardo, Bradamante en travesti; la devozione di Bradamante per il suo Ruggiero; il sincero affetto di Oberto per il padre scomparso. Gli intrecci personali si specchiano negli spostamenti dei personaggi che si muovono velocemente tra quinte e scena, creando o disfacendo relazioni. 

Nel secondo atto c’è lo svelamento dell’inganno. Appena Ruggiero indossa l’anello che gli ha dato Melisso, crolla il castello magico costruito da Alcina con un effetto semplicissimo ma geniale: le quinte dipinte sono sostituite dalle stesse viste da dietro, la falsità teatrale è così messa allo scoperto e ora Ruggiero vede la realtà e riconosce in Ricciardo l’amata Bradamante.

L’operazione di svelamento è completata nel terzo atto. Alcina scopre che i suoi poteri l’hanno abbandonata e la scena si svuota, se possibile, ancora di più: rimangono solo delle casse e la sedia, che costituiva l’unico elemento dell’ambientazione. Il finale di Audi è pieno di tristezza e non è chiaro chi ha vinto e chi ha perso. Ruggiero e Alcina si scambiano ancora un ultimo sguardo: era davvero frutto di un inganno il loro amore?

Con tese pause di silenzio, il flusso drammaturgico si dipana con efficacia, cadenzato dalla musica di una partitura letta da Rinaldo Alessandrini con competenza e sensibilità, tempi perfetti e un equilibrio mirabile tra buca e cantanti in scena. Alessandrini torna al Costanzi dopo il Giulio Cesare in Egitto dell’ottobre 2023 e sotto la sua direzione la preziosa orchestrazione di Händel trova una magistrale realizzazione, con gli strumenti solisti brillare nell’accompagnamento delle voci nelle sublimi arie di cui è costellata quest’opera. 

Quello originale fu un cast di eccellenza, ma non inferiori sono gli interpreti di oggi. Mariangela Sicilia, per la prima volta in un lavoro di Händel, è l’Alcina creata per la voce e la personalità della mitica Anna Maria Strada del Po. Si stenta a credere che la Sicilia debutti in questo repertorio, data la sicurezza e la personalità con cui affronta la parte sia nei suoi aspetti più virtuosistici sia nei momenti più drammatici, come la straziante scena formata da recitativo «Ah! Ruggiero crudel, tu non m’amasti!» – dove il libretto è ricco di indicazioni espressive: “concitata… guarda intorno sospesa… sdegnata… infuriata…” – e la successiva aria «Ombre pallide» con cui si conclude il secondo atto. Mancano qui le tre danze (Entrée de songes agréables, Entrée de songes funestes, Entrée de songes agréables effrayés) che assieme a quelle del primo atto costituiscono l’unico taglio a una partitura resa in tutta la sua completezza.

II controtenore Carlo Vistoli ha già frequentato invece la parte di Ruggiero scritta per il castrato Giovanni Carestini da un Händel che gli ha affidato ben sette numeri musicali che spaziano dal lirico «Verdi prati» agli appassionati «La bocca vaga» e «Mio bel tesoro» al pirotecnico «Sta nell’ircana», resi tutti con tecnica magistrale, belle variazioni nei daccapo, fiati interminabili. Ma è sulla emotività del personaggio che scava Vistoli con un sorprendente controllo della voce e della espressività.

Il contralto Maria Caterina Negri creò la parte di Bradamante nel 1735. Qui è Caterina Piva a impersonare con sensibilità ma anche temperamento questo Fidelio ante litteram. Solo tre arie solistiche, una per ogni atto, ma ben interpretate dal mezzosoprano milanese. Curiosamente, come al Covent Garden Händel aveva avuto due cantanti inglesi (Cecilia Young e John Beard), anche qui sono inglesi i due interpreti delle stesse parti: Mary Bevan (Morgana) e Anthony Gregory (Oronte). La prima è stata Cleopatra nel Giulio Cesare di cui s’è detto e nella stessa stagione si era fatta ammirare come Euridice nell’opera di Gluck a Venezia. La sua Morgana all’inizio ha un che di vocalmente stucchevole, poi però migliora nella definizione del personaggio fino al brillante «Tornami a vagheggiar» con cui si conclude l’atto primo. Qualche problema di dizione per il secondo, anche se l’Oronte di Gregory è complessivamente convincente.

Talora nelle produzioni di Alcina viene soppresso il personaggio di Oberto o viene affidato a un ragazzo che non canta: qui invece il figlio in cerca del genitore ha la convincente presenza fisica di Silvia Frigato che ci fa ascoltare le sue pregevoli arie «Chi mi insegna il caro padre», «Tra speme e timore» e «Barbara, io ben lo so», spesso tagliate. Melisso, che con Händel fu Gustavus Waltz – il suo cuoco, dissero – qui ha la voce di Francesco Salvadori, non convincente nei recitativi, ma apprezzabile invece nella sua unica aria del secondo atto «Pensa a chi geme d’amor piagata». Limitato ma preciso l’intervento del coro istruito da Ciro Visco.

Il pubblico romano delle prime, non molto abituato a quattro ore di barocco, ha risposto comunque con calore alla proposta applaudendo insistentemente cantanti, direttore e responsabili della messa in scena: oltre al regista Pierre Audi lo scenografo e costumista Patrick Kinmonth e Matthew Richardson alle luci. Sembra quindi pronto per gli altri 43 capolavori del Caro Sassone…

Der Prozess

Gottfried von Einem, Der Prozess

Vienna, Theater an der Wien, 12 dicembe 2024

★★★★☆

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Kafka in musica

Gottfried von Einem nasce a Berna il 24 gennaio 1918 in una famiglia di diplomatici austriaci di grande nobiltà. Cresciuto nello Schleswig-Holstein prussiano, dopo le scuole secondarie nel 1937 si reca a Berlino per studiare musica con Paul Hindemith, il quale tuttavia si era appena dimesso per protesta contro le autorità naziste. Nel 1941 inizia a prendere lezioni di contrappunto con Boris Blacher e in quel periodo risale la composizione della sua prima opera, Prinzessin Turandot, un balletto iniziato su suggerimento di Werner Egk.

Durante la Seconda Guerra Mondiale Einem aiuta a salvare la vita e la carriera del giovane musicista ebreo Konrad Latte, assumendolo come assistente alle prove della Prinzessin Turandot e aiutandolo in seguito a ottenere altri impieghi. Nel 1943 si trasferisce in Austria e attraverso Blacher, Einem conosce la sua prima moglie, Lianne Mathilde von Bismarckche. Lianne muore nel 1962 e nel 1966 Einem sposa Lotte Ingrisch, la librettista delle sue ultime tre opere. Il compositore muore il 12 luglio 1996.

Einem ha composto principalmente musica per teatro e la sua attività operistica, coronata da grandi successi, risente di un numero eterogeneo di influenze. Compositore molto eclettico, si è dedicato ai più diversi generi musicali. Le sue otto opere sono tratte da Büchner (Dantons Tod), Nestroy (Der Zerrissene), Dürrenmat (Der Besuch der alten Dame), Schiller (Kabale und Liebe) e da Kafka. Der Prozess è un’opera in due parti (nove scene) su libretto scritto da Boris Blacher insieme a Heinz von Cramer e presentata in prima mondiale il 17 agosto 1953 al Festival di Salisburgo sotto la direzione di Karl Böhm e la messa in scena di Oscar Fritz Schuh.

Parte prima. Quadro I: L’arresto. Due stanze. Una mattina, l’impiegato di banca Josef K. viene dichiarato in arresto da due uomini senza che gli venga spiegato il motivo di questo provvedimento. Tuttavia, gli viene anche detto che può ancora svolgere il suo lavoro e muoversi liberamente fino a nuovo ordine. Da quel momento in poi, Josef K. soffre di angoscia mentale perché non si rende conto di ciò che può aver fatto. Quadro II: la signorina Bürstner. Due stanze. Dopo il lavoro, Josef K. va a trovare la sua vicina, la signorina Bürstner, e le racconta del suo strano arresto. Si siede al tavolo e inizia a prendere appunti. Quando bussano alla porta, la signorina Bürstner cerca di convincere l’ospite non invitato a lasciare la stanza. Lui le stampa un bacio appassionato sulle labbra. Quadro III: La convocazione. Strada. Di notte, Josef K. fa una passeggiata in strada. Si sente minacciato da forze invisibili. Uno sconosciuto gli passa accanto senza dire una parola, ma poi si volta e gli spiega che sabato prossimo ci sarà una piccola indagine sul suo caso. Non deve mancare all’appuntamento per nessun motivo. Quadro IV: Prima indagine. Soffitta. Solo con difficoltà e con un’ora di ritardo Josef K. trova il tribunale, che si trova in una soffitta. Gli spettatori attendono con ansia l’inizio del processo. Josef K. protesta rabbiosamente che il tribunale lo sta trattando in modo molto superficiale. Tra il pubblico c’è uno studente che improvvisamente si avvicina in modo indecente alla moglie dell’ufficiale giudiziario. Il giudice istruttore interrompe l’udienza e si ritira con i suoi assessori. La donna molestata assicura a Josef K. che farà tutto il possibile per aiutarlo. Non appena ha parlato, lo studente le si avvicina di nuovo e la porta via. Quando l’indagine sul caso deve essere proseguita, Josef K. maledice l’Alta Corte e fugge.
Parte Seconda. Quadro V: Il battitore. Corridoio. Dal corridoio, in una stanza scarsamente illuminata, Josef K. scopre i due uomini che lo avevano da poco informato del suo arresto. Su entrambi è in corso un pestaggio. Josef K. crede che questo sia il risultato della sua denuncia su questi uomini. Improvvisamente, il passante dell’altro giorno scende le scale e gli ordina di recarsi immediatamente all’ufficio del tribunale. Quadro VI: L’avvocato. Due stanze. Josef K. viene condotto dallo zio Albert da un vecchio avvocato che gode di una buona reputazione, ma invece di interrogare Josef K., l’avvocato preferisce chiacchierare con lo zio. Nel frattempo, il protagonista chiacchiera con Leni, la cameriera dell’avvocato, nella stanza accanto. I due si avvicinano, si abbracciano e si baciano. Quadro VII: Il proprietario della fabbrica. Ufficio in banca. Ancora una volta, Josef K. cerca di svolgere il suo lavoro in banca, ma il processo pesa così tanto sulla sua coscienza che non riesce a concentrarsi. Questo non passa inosservato al cliente che sta servendo. Il cliente, un direttore di fabbrica, gli consiglia di recarsi dal pittore Titorelli per chiedere aiuto. Titorelli ha dipinto i ritratti di quasi tutti i dignitari della città e ha quindi conoscenze importanti. Quadro VIII: Il pittore. Studio. Fuori dalla casa di Titorelli, Josef K. deve farsi strada a forza tra un gruppo di ragazze urlanti per entrare nello studio. Il pittore è un vero esibizionista che sopravvaluta le sue capacità. A Josef K. offre tre opzioni su come potrebbe concludersi il processo: un’assoluzione reale, un’assoluzione apparente o un rinvio, dove quest’ultimo sarebbe meglio per lui di un’assoluzione apparente. Deve valutare attentamente le opzioni e non perdere tempo. – Josef K. è più confuso di prima. Quadro IX: Nella cattedrale e nella cava. L’accusato è talmente disperato che spera nell’aiuto della Chiesa come ultima risorsa. Ma nemmeno una conversazione con un cappellano gli porta consolazione. Al contrario. L’ecclesiastico lo accusa di cercare troppo aiuto dagli estranei, soprattutto dalle donne, e di non essere in grado di vedere due passi avanti a sé stesso. Il set si trasforma in una cava. Due eleganti signori con il cappello a cilindro accolgono il disperato in mezzo a loro. Uno di loro estrae dalla giacca un enorme coltello da macellaio, affilato su entrambi i lati. Con grande cortesia, lo passa sulla testa di Josef K. all’altro uomo. Poi si fa buio completo.

L’opera fa completamente a meno del coro. Le voci dei solisti sono fortemente declamatorie in un’armonia moderatamente moderna con molti ostinati, a volte nell’ambito della tecnica dodecafonica, ma legato sempre al sistema tonale, al pari di Paul Hindemith. La partitura di Von Einem è una cavalcata a perdifiato nella storia della musica moderna, con evidenti reminiscenze di Wagner (Die Walküre), Strauss (Ariadne auf Naxos) e Puccini (La bohème). Ci sono sprazzi di jazz e prestiti dalla tecnica dodecafonica, ritmi martellanti alla Stravinskij e molto altro. 

Tobias Leppert durante la pandemia aveva preparato una versione da camera di Der Prozess ed è questa che viene ora messa in scena nella piccola Wiener Kammeroper durante i lavori di restauro della sala grande dell’An der Wien. Nella scenografia di Silke Bauer oltre i finestroni della camera di Josef K. la vista è quella di Salisburgo mentre i costumi di Nina Paireder suggeriscono un’ambientazione moderna e la regia di Stefan Herheim trasforma il giovane personaggio principale nella figura del maturo compositore – così come aveva fatto ne La dama di picche dando al protagonista Hermann la figura di Čajkovskij. Anche Kafka stesso (l’attore e danzatore Fabian Tobias Huster) è spesso presente in scena. Il resto del cast – burocrati, avvocati, persone dello studio legale e personaggi secondari – è a volte più, a volte meno vestito: vediamo uniformi da ufficio dell’epoca di Kafka, ma anche opulenza sacra (l’ecclesiastico in abito vescovile) e abiti quotidiani degli anni Cinquanta. Ci sono allusioni fetish, lingerie sexy e i pigiami bianchi di Josef K./Gottfried von Einem, in cui l’eroe scompare ripetutamente per andare a letto.

Tutto questo avviene in un rapido susseguirsi di scene, un po’ confusionario ma di efficace valore visivo. Walter Kobéra dirige l’orchestra da camera sul fondo del palcoscenico senza concentrarsi troppo sugli effetti e l’ensemble vocale ha il culmine nel sicuro Robert Murray nel ruolo di Josef K. Anne-Fleur Werner offre al personaggio della Donna presenza scenica e voce convincenti, tutti gli altri interpreti sono perfettamente calati nella parte.

Stagione Sinfonica RAI

Cathy Berberian e Luciano Berio

Luciano Berio, Folk Songs per voce e orchestra
I. Black is the Colour
II. I Wonder as I Wander
III. Loosin yelav
IV. Rossignolet du bois
V. A la femminisca
VI. La Donna Ideale
VII. Ballo
VIII. Motettu de tristura
IX. Malurous qu’o uno fenno
X. Lo Fïolairé
XI. Azerbaijan Love Song (Qalalıyam)

Dmitrij Šostakovič, Sinfonia n. 4 in do minore, op. 43
I. Allegretto poco moderato – Presto
II. Moderato con moto
III. Largo – Allegro

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Robert Treviño direttore, Justina Gringytė mezzosoprano 

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 13 marzo 2025

Berio a un secolo dalla nascita

Il 24 ottobre 1925 a Imperia nasceva Luciano Berio, pioniere dell’avanguardia del XX secolo, riconosciuto per la sua esplorazione innovativa delle tessiture sonore, dell’elettronica e delle tecniche strumentali. Co-fondatore dello Studio di Fonologia a Milano dove ha creato Thema (Omaggio a Joyce) trasformando passaggi dell’Ulisse in paesaggi sonori e sostenitore dell’interdisciplinarità, ha esplorato il teatro, la poesia e il folklore. Come nei suoi Folk Songs, ciclo di canzoni ora riproposto per la stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI a cento anni dalla nascita del compositore.

Commissionato dal californiano Mills College, fu lì eseguito la prima volta nel 1964 con la cantante Cathy Berberian, allora sua moglie, da un’orchestra da camera composta da flauto, clarinetto, arpa, viola, violoncello e percussioni. Si tratta di undici diversi arrangiamenti di canzoni che formano un unicum sonoro molto particolare. Nelle parole dell’autore: «si tratta, in sostanza, di un’antologia di undici canti popolari (o assunti come tali) di varia origine (Stati Uniti, Armenia, Provenza, Sicilia, Sardegna, ecc.), trovati su vecchi dischi, su antologie stampate o raccolti dalla viva voce di amici. Li ho naturalmente interpretati ritmicamente e armonicamente: in un certo senso, quindi, li ho ricomposti. Il discorso strumentale ha una funzione precisa: suggerire e commentare quelle che mi sono parse le radici espressive, cioè culturali, di ogni canzone. Queste radici non hanno a che fare solo con le origini delle canzoni, ma anche con la storia degli usi che ne sono stati fatti, quando non si è voluto distruggerne o manipolarne il senso».

Le prime due, “Black Is the Colour (Of My True Love’s Hair)” e “I Wonder as I Wander”, non sono propriamente temi popolari in quanto sono state scritte dal cantante folk John Jacob Niles. La prima è una canzone d’amore accompagnata dalla viola che suona «like a wistful country dance fiddler» (come un malinconico violinista da ballo country); la seconda un brano di intimo tono religioso dove viola, violoncello e arpa ricreano il suono di una ghironda. Una libera cadenza del flauto prima e poi del clarinetto ci porta in Armenia, il paese d’origine di Cathy Berberian, dove una struggente melodia, accompagnata dall’arpa e poi da clarinetto e ottavino descrive il sorgere della luna nella terza canzone “Loosin yelav” mentre con la quarta, “Rossignolet du bois”, ci spostiamo in Provenza dove un usignolo, prima accompagnato dal clarinetto e poi dall’arpa e dai crotali, consiglia ad un amante di cantare le sue serenate «Deux heures après minuit». Subito attacca con tutti gli strumenti “A la femminisca”, un vecchio canto siciliano delle donne che aspettano i mariti pescatori. Il sesto e il settimo pezzo furono scritti da Berio nel 1947, quando era al Conservatorio di Milano, per voce e pianoforte, come parte delle sue Tre canzoni popolari. “La donna ideale “ è in dialetto genovese eBallo” un antico testo italiano che afferma «Più folle è quello che più s’innamora», entrambi con un accompagnamento strumentale molto complesso. “Motettu de tristura”, l’ottavo pezzo, è invece sardo e anche lui interroga l’usignolo (u passirilanti) su questioni d’amore. Qui le volatine dell’ottavino si distendono sul fondo scuro di viola e violoncello nel registro grave. La lingua occitana è quella dei due successivi. “Malurous qu’o uno fenno” dove la voce, accompagnata dal flauto, canta dell’eterno paradosso coniugale: colui che non ha consorte la cerca, mentre chi ce l’ha vorrebbe non averla; mentre ne “Lo Fïolairé” una ragazza al filatoio canta il suo scambio di baci con un pastore, il tutto commentato da viola e violoncello. Fu la Berberian a scoprire l’ultimo pezzo, una canzone dell’Azerbaijan, “Qalalıyam”, ascoltata su un vecchio disco. La Berberian cantò a memoria i suoni che riuscì a trascrivere da quei solchi rovinati non conoscendo nemmeno una parola della lingua azera. Il tono è ironico e l’accompagnamento saltellante.

Nel 1973 il ciclo fu riarrangiato da Berio stesso per grande orchestra, la versione che si ascolta questa sera. Diciamo subito che è preferibile la versione originale per complesso da camera: il peso orchestrale è talora eccessivo e dà ai songs un tono sinfonico che non è loro proprio. Ma qui conta molto l’interprete, il mezzosoprano lituano Justina Gringytė, dal bel timbro drammatico e dal forte accento slavo che con voce troppo impostata e dizione tutt’altro che cristallina non riesce a ottenere quel magico equilibrio tra musica folk e musica colta che la Berberian, l’interprete dalle «mille voci», o anche altre cantanti sono riuscite invece a raggiungere. Né riesce a far distinguere l’una dall’altra la babele di lingue in cui sono scritti questi mirabili pezzi, più preoccupata a esprimere con i gesti che con la voce le differenti atmosfere.

Eseguita due stagioni fa da James Conlon – erroneamente il programma di sala indica nel 2013 l’ultima esecuzione RAI – la Sinfonia n° 4 di Dmitrij Šostakovič è ora letta dal direttore principale con piglio gagliardo e grande partecipazione. La frammentarietà del lavoro è messa in evidenza dalla sua esecuzione, che esalta il contrasto tra i momenti “mahleriani” e rarefatti e gl’immani cluster che raggiungono livelli sonori al limite della sopportazione acustica: forse, invece dei decibel un suono più secco e livido, meno rotondo e aperto, avrebbe portato a risultati più convincenti in termini di drammaticità. Il lavoro si dimostra comunque come sempre un eccellente banco di prova per la professionalità dei maestri dell’orchestra che ottengono meritati applausi.

Lingotto Musica

foto © Mattia Gaido

Johann Sebastian Bach

Concerto n. 1 in fa maggiore BWV 1046 21’ per due corni da caccia, tre oboi, fagotto, violino piccolo, archi e continuo
(Allegro)
Adagio
Allegro
Minuetto – Trio I – Polacca – Trio II

Concerto n. 5 in Re maggiore BWV 1050 22’ per flauto traverso, violino,
clavicembalo, archi e continuo
Allegro
Affettuoso
Allegro

Concerto n. 3 in Sol maggiore BWV 1048 14’ per tre violini, tre viole, tre violoncelli e continuo
Allegro
Adagio (cadenza)
Allegro

Concerto n. 2 in Fa maggiore BWV 1047 13’ per tromba, flauto, oboe, violino,
archi e continuo
(Allegro)
Andante
Allegro assai

Concerto n. 6 in Si bemolle maggiore BWV 1051 17’ per due viole da braccio, due viole da gamba, violoncello e continuo
(Allegro)
Adagio ma non tanto
Allegro

Concerto n. 4 in Sol maggiore BWV 1049 16’ per violino, due flauti, archi e continuo
Allegro
Andante
Presto

Amsterdam Baroque Orchestra, Ton Koopman direttore

Torino, Auditorium Agnelli, 11 marzo 2025

I Brandeburghesi a Torino

Monumento alla civiltà strumentale e musicale del periodo barocco, i Six Concerts avec plusieurs instruments, così il titolo originale, furono composti da Johann Sebastian Bach per il margravio Christian Ludwig von Brandeburg durante il periodo 1718-1721, quando Bach era Kapellmeister alla corte del principe Leopold di Anhalt-Köthen. Probabilmente mai eseguiti dall’orchestra del margravio in quanto molto sottodimensionata rispetto alle loro esigenze, i concerti furono archiviati con altre opere suddivise poi tra i cinque eredi. Solo nel 1850, a cento anni dalla morte del compositore, furono resi pubblici e stampati.

Sorta di campionario di modelli virtuosistici del tempo, i sei concerti presentano sensibili differenze nell’organico strumentale e nello stile. Tutti in tono maggiore, il che dà loro una particolare maestosità e brillantezza, e ispirati alla forma del concerto grosso, sperimentano combinazioni strumentali innovative.

L’innovazione formale, la maestria contrappuntistica e l’audacia timbrica dei Brandeburghesi sono la sfida che Ton Koopman – direttore, clavicembalista, organista e musicologo – affronta con la sua orchestra per la stagione di Lingotto Musica. Da lui fondata nel 1979, la Amsterdam Baroque Orchestra è una compagine totalmente dedita alla musica barocca – «Pongo il limite alla morte di Mozart», ha detto Koopman riguardo alle sue scelte musicali – con l’unica eccezione della registrazione del Concert Champêtre di Poulenc.

Johann Sebastian Bach è il principale riferimento del direttore olandese, che al compositore di Eisenach ha dedicato l’ambizioso progetto di registrare il ciclo completo delle sue Cantate, sia sacre che profane. Con una carriera di oltre sessant’anni e pioniere della prassi musicale storicamente informata, per Koopman l’obiettivo è quello di raggiungere l’autenticità nell’esecuzione, utilizzando strumenti storici dell’epoca della composizione o copie fedeli, utilizzando temperamenti musicali storici e adottando lo stile esecutivo dell’epoca.

Qui nella doppia veste di direttore e solista al clavicembalo e in un ambiente che non è dei più adatti per sonorità – ma appena capiente per il pubblico che ha gremito fino all’ultimo posto l’Auditorium Agnelli – Koopman ricrea questa straordinaria raccolta di concerti sottolineandone le peculiarità timbriche e l’invenzione formale con un suono morbido e una precisione esecutiva assoluta, anche nel caso di strumenti di intonazione impervia quale la tromba barocca in fa dalla penetrante sonorità, che ha trovato in Sander Kintaert interprete magistrale nel Concerto n° 2 in Fa dove al ripieno degli archi Bach contrappone quest’insolito concertino di tromba, flauto dolce, oboe e violino. Una composizione che non nasconde l’influenza della musica italiana nel modello vivaldiano con il tradizionale taglio in tre movimenti, dopo che invece il Concerto n° 1, anche lui in Fa, si era ispirato al gusto francese. Originariamente portava l’indicazione di Sinfonia essendo il movimento inizialedella Jagdkantate BWV 208, una musica da caccia sottolineata dai due corni che sono assenti solo nell’adagio. Anche il violino piccolo, suonato dal Konzertmeiser Catherine Manson, dà un colore particolare a questo pezzo, l’unico in quattro movimenti essendo il finale un’alternanza di due danze, un minuetto e una polonaise, combinate con la ripetizione ciclica del trio.

I sei concerti vengono eseguiti in due parti separate dall’intervallo. Nella prima si ascoltano quelli dispari, tra cui quindi il famosissimo Concerto n° 5 in Re, un’anticipazione del concerto per tastiera in quanto il clavicembalo, uno dei tre strumenti del concertino assieme al flauto traverso e al violino, qui assume il ruolo virtuosistico di strumento concertante solistico in un lungo intermezzo, un imprevedibile assolo che Koopman esegue con consumata maestria e sonorità talora inedite. Tutto per archi è invece il Concerto n° 3 in Sol che conclude la prima parte: un continuum trascinante in cui gli strumenti qui agiscono su un piano di assoluta parità, con spunti di straordinaria versatilità ritmica in un fitto gioco di incastri contrappuntistici splendidamente realizzati.

Un altro inedito gruppo solistico è quello del Concerto n° 6 in Si bemolle, forse il più antico e risalente a Weimar, dove due viole da braccio, due viole da gamba e violoncello stendono un colore particolare, dove non sono previsti strumenti a fiato e lo spettro timbrico è limitato al registro medio. Altro colpo di scena per il Concerto n° 4 in Sol – rielaborato successivamente per clavicembalo e due flauti come BWV 1057 – qui per «violino principale, due flauti d’echo, due violini, una viola in ripieno, violoncello e continuo» che si apre con un Allegro inusitatamente esteso in cui l’impegnativo ruolo solistico del violino tende al virtuosismo appena temperato dalla morbidezza sonora dei due flauti.

Una lettura quella di Koopman che, anche se non particolarmente originale o rivelatrice, bilancia egregiamente gli aspetti spettacolari dei sei pezzi con le esigenze di una prassi esecutiva rigorosa e attenta, senza sbandamenti di dubbio gusto come talora è capitato ascoltare. Tutti i 28 componenti dell’ensemble meriterebbero una menzione personale per l’eccellenza dimostrata nelle esecuzione di un programma accolto dai calorosi applausi del pubblico. Ed è con una ripetizione del finale del Concerto n° 4 che Koopman risponde alle insistenti chiamate. Domani sarà il Teatro del Monaco di Treviso ad ospitare il programma, giovedì il Ristori di Verona e venerdì il Sociale di Rovigo.

I concerti dell’Unione Musicale

Antonio Vivaldi 

Concerto in fa maggiore per violino, violoncello, archi e continuo RV 544 (Il Proteo o sia il mondo al rovescio)
Allegro
Largo
Allegro

Concerto in re minore per 2 violini, violoncello, archi e continuo RV 565 (da L’estro armonico op. 3 n. 11)
Allegro – Adagio spiccato – Allegro
Largo e spiccato
Allegro

Concerto in si minore per 4 violini, violoncello, archi e continuo RV 580 (da L’estro armonico op. 3 n. 10)
Allegro
Largo
Larghetto – Adagio -Largo
Allegro

Le stagioni, 4 concerti per violino, archi e continuo (da Il Cimento dell’Armonia e dell’Inventione op. 8)
n° 1 in Mi maggiore, “La primavera” RV 269
n° 2 in sol minore, “L’estate”, RV 315
n° 3 in Fa maggiore, “L’autunno”, RV 293
n° 4 in fa minore, “L’inverno”, RV 297

Les Musiciennes du Concert des Nations, Jordi Savall direttore, Alfia Bakieva violino, Olivia Maniscalchi voce recitante

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi, 5 marzo 2025

L’orchestra dell’Ospedale della Pietà

Se “Les Musiciens du Louvre” (l’ensemble fondato da Marc Minkowski) e “Les Musiciens du Prince” (fondato questo da Cecilia Bartoli) sono formazioni di strumentisti dei due sessi, l’ultima creazione di Jordi Savall “Les Musiciennes du Concert des Nations” indica fin dal titolo trattarsi di un ensemble tutto al femminile. Un progetto speciale all’interno dello storico “Concert des Nations” fondato da Savall nel lontano 1989, qui soltanto di donne e di età inferiore ai 39 anni, con strumenti originali. Le intenzioni sono quelle di offrire un repertorio che spazi dal primo Seicento ai primi decenni dell’Ottocento, insomma, da Monteverdi a Beethoven.

Il programma che stanno portando in giro – ieri erano a Ferrara, l’altro ieri a Vicenza, il giorno prima ancora a Voghera, domani saranno a Brescia… – verte sulla figura di Antonio Vivaldi. Non si tratta allora solo di un omaggio al talento femminile in vista dell’8 marzo: Savall vuole anche onorare la memoria delle “putte” dell’Ospedale della Pietà che trecento anni fa intonavano le musiche del Prete Rosso che le istruiva. “Les Musiciennes du Concert des Nations” sono diciotto artiste di varie nazionalità guidate da Alfia Bakieva, violinista di origini tartare residente ora a Salisburgo e specializzata sia nel repertorio classico sia in quello folk. Ha fondato infatti un ensemble dedito alle tradizioni tartare e ha una forte passione per il tango. Suona un Francesco Ruggeri del 1680.

Apre la serata il Concerto in Fa per violino, violoncello, archi e continuo RV 544 (Il Proteo o sia il mondo al rovescio) e si prosegue con due dei concerti de L’estro armonico op. 3, l’undicesimo in re per due violini e violoncello e il decimo in si per quattro violini e violoncello, trascritti entrambi da Johann Sebastian Bach: quello in re per organo (BWV 596) e quello in si per quattro clavicembali, lo spettacolare BWV 1065. Soprattutto per il concerto in Fa l’esecuzione offerta dall’ensemble è in parte deludente per la povertà di colori e la monotonia del fraseggio, un Vivaldi tutt’altro che brillante. Ma anche nei due concerti de L’estro armonico i contrasti tra solisti e pieno orchestrale sono un po’ appiattiti, come se si volessero risparmiare le forze per il pezzo forte della serata, che infatti si risolleva musicalmente nella seconda parte.

Dal 1955, con I Musici diretti da Felix Ayo, migliaia sono state le registrazioni de Le stagioni, tanto da farne la più popolare composizione di musica classica. Nel 1957 fu la volta dei Solisti di Zagabria diretti da Antonio Janigro, seguiti da Neville Marriner con l’Academy of St Martin in the Field (1970), Trevor Pinnock e The English Concert (1982), Christopher Hogwood e l’Academy of Ancient Music (1982); Fabio Biondi e l’Europa Galante (2000) e molte altre. Ogni esecuzione riflette l’interpretazione della musica barocca del periodo e nel 1989 quella di Nigel Kennedy con l’English Chamber Orchestra fu considerata rivoluzionaria per quell’approccio all’esecuzione storicamente informata che poi divenne prassi comune. E certamente questa esigenza è presente anche nella tecnica esecutiva di Savall. Quello che non convince è l’aver previsto una voce recitante per i sonetti che hanno ispirato la composizione, una voce che non solo introduce, ma spesso è sopra la musica per declamare dei versi, anonimi o forse di Vivaldi stesso, di qualità letteraria tutt’altro che eccelsa, fraintendendo le indicazioni originali: i frammenti di testo scritti in partitura erano diretti all’esecutore per indicare il punto preciso dell’effetto, non certo all’ascoltatore, il quale doveva scoprire lui stesso nei virtuosismi strumentali i dettagli stagionali, magari dopo essersi letto, per conto proprio, i testi. Ogni tappa della tournée di questo concerto, già fissato su disco, prevede una voce recitante femminile e a Torino tocca a Olivia Manescalchi realizzare il collegamento tra le parole del sonetto e quello che si ascolta. Un espediente del tutto pleonastico, quasi come spiegare una barzelletta e l’effetto che si ottiene è quello di trasformare l’esecuzione vivaldiana in Pierino e il lupo, ma senza il pubblico di scolaresche.

Peccato, perché l’esecuzione è trascinante e a suo modo spettacolare: la solista dimostra una tecnica prodigiosa che le permette di affrontare gli effetti speciali con agilità e fantasia, creando suoni inediti e connotati da uno spirito quasi zigano. La violinista sottolinea nei gesti e nei movimenti quelli suggeriti dalle note, eccola quindi accennare passi di danza sull’Allegro finale de “La primavera”, quelli barcollanti dell’ubriaco de “L’autunno” o quelli incerti sul ghiaccio del Largo de “L’inverno”. A questo proposito non si può non ricordare lo Stabat Mater di Tiziano Scarpa dove la giovane Cecilia, “putta” dell’Ospitale, commenta l’esecuzione delle Stagioni del nuovo maestro Vivaldi: «Ha scritto un pasticcio di suoni che imitano i rumori delle stagioni. […] È un continuo gioco a mascherarsi, a fingere di non essere ciò che siamo, a imitare strumenti che non abbiamo mai sentito e non possediamo. […] Facciamo sembrare i nostri violini cose e paesaggi, animali e rumori, e perfino altri strumenti, e perfino altri violini, stravolti, suonati male da contadini che li strimpellano saltellando da una gamba all’altra, dopo aver bevuto troppo. […] Se vi dicessi che io ero tutte quelle cose, che ero gli uccellini e la tempesta e tutto il resto, non sarei sincera. […] Io ero la traduzione musicale di quelle cose, ero tutto il mondo in versione violinistica».

È con questo spirito che hanno suonato le Musiciennes e il pubblico lo ha capito e ne è stato coinvolto. Ai calorosi applausi Savall ha risposto con un fuori programma di lusso: le variazioni dell’Andante del Concerto per violino e archi in Si bemolle, RV 583. 

Rigoletto


foto © Mattia Gaido

Giuseppe Verdi, Rigoletto

Torino, Teatro Regio, 28 febbraio 2025

★★★★☆

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Rigoletto nella Belle Époque

Febbraio, mese di Rigoletto? In queste settimane la Fenice di Venezia riprende l’intrigante produzione di Michieletto, il Maggio Fiorentino quella di Livermore, e ora al Regio di Torino è la volta della nuova lettura di Italo Muscato, che già lo aveva messo in scena a Roma nel 2016. 

Se poi uno avesse voglia di varcare le Alpi, questo mese potrebbe vedere dei Rigoletti in Bielorussia, Moldavia e Ucraina, a Danzica, San Pietroburgo, Praga, Berna e due diverse produzioni in Germania. Giusto per avere ulteriore conferma dell’indiscussa popolarità del titolo verdiano, secondo solo a La traviata, stabilmente al primo posto assoluto per numero di rappresentazioni nel mondo.

Nella stagione del teatro torinese Rigoletto non solo rappresenta al meglio il grande repertorio, quello più amato dal pubblico – che infatti ha esaurito i posti disponibili in tutte le recite – ma è anche, nelle parole del sovrintendente Mathieu Jouvin, «un’opportunità per ribadire il valore di un teatro che incarna i principi culturali europei. Con questa produzione, infatti, aggiungiamo un nuovo tassello al dialogo tra la cultura francese e quella italiana, suggellato dall’incontro tra due “miti”: Giuseppe Verdi e Victor Hugo. Entrambi dovettero confrontarsi con problemi di censura, ma mentre il dramma di Hugo fu a lungo interdetto perché venivano contestati apertamente i facili costumi della monarchia, e dunque si trattava di un testo di natura politica, l’opera di Verdi […] si concentra sull’umanità dei protagonisti e conferisce valore universale ai loro sentimenti e alle loro fragilità».

 

Nelle fasi del lavoro di composizione di questo dramma destinato a quel teatro, la Fenice di Venezia, dove due anni dopo fallirà La traviata, scriveva Verdi: «Io trovo […] bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore». Primo pannello di quella che sarà definita la “trilogia popolare”, Rigoletto segna la piena maturità del compositore e un punto di svolta nella sua carriera, dove musica e dramma si fondono in un’unità potente ed emotivamente travolgente. Rivoluzionario è l’irrompere del “vero” nel teatro in musica: protagonisti di un’opera sono un uomo fisicamente deforme (Rigoletto) e una donna moralmente compromessa (Violetta). 

Un’operazione di tale rottura aveva bisogno anche di una musica “diversa”, e quella del Rigoletto lo è in molti punti. Qui Verdi integra musica e dramma in modo innovativo, superando la struttura tradizionale di arie e recitativi e le convenzioni del bel canto: le transizioni tra scene sono fluide, viene privilegiata una narrazione musicale continua e unitaria, in cui i numeri chiusi sono funzionali alla progressione drammatica. L’orchestra commenta l’azione e amplifica le emozioni, come il temporale nell’atto III che riflette il caos interiore dei personaggi. Il tema oscuro e minaccioso associato alla maledizione di Monterone ricorre come un filo conduttore, un uso che anticipa i Leitmotive wagneriani, pur senza la loro sistematicità. Anche nell’orchestrazione Verdi introduce innovazioni usando gli strumenti in modo espressivo, con colori che accentuano le atmosfere: gli archi gravi per la maledizione, i legni per l’ingenuità di Gilda. Tutto è chiaro ed evidente nella concertazione di Nicola Luisotti, uno dei due i punti di forza di questa produzione torinese. 

Interprete raffinato e assiduo frequentatore del repertorio verdiano, Luisotti legge la partitura con grande slancio drammatico, ma altrettanta attenzione alle esigenze del palcoscenico con tempi sempre equilibrati che si dilatano con sensibilità nei momenti lirici e diventano giustamente più incalzanti nelle svolte drammatiche. Mai come sotto la sua bacchetta la strumentazione e la melodia di Verdi mostrano la loro raffinatezza – quanto sono lontani i tempi dello zum-pa-pà con cui veniva eseguito con stanca tradizione il suo repertorio più popolare –, qui tutto è trasparenza ed eleganza, dominano gli equilibri espressivi, le sfumature delicate. L’orchestra non accompagna le voci: ne è l’alter-ego strumentale, il sostegno sonoro ed emotivo di quanto viene espresso nel canto.

Come quando in scena c’è Giuliana Gianfaldoni, l’altro punto di forza di questa produzione, una Gilda memorabile per bellezza di emissione e di timbro. Un canto legato che incanta l’ascoltatore con la soavità dei mezzi suoni, le celesti smorzature, la fluidità delle note, che non sono più solo note, ma suoni di immacolata purezza. Il «Caro nome» fa venire giù il teatro dagli applausi e non viene bissato solo perché si comprometterebbe la continuità dell’azione.

La misura e la perfetta dizione sono due delle qualità del baritono George Petean, un Rigoletto espressivo che sfoggia un bello strumento sonoro impiegato con gusto. Ritorna nella parte che ha interpretato frequentemente Piero Pretti, un Duca di Mantova vocalmente solido ma non attraente, sicuro ma non al massimo dell’espressività. Espressività di cui è ricca invece la Maddalena di Martina Belli, che sfoggia altresì una presenza scenica di tutto rilievo. Doverosamente cavernoso è lo Sparafucile di Goderedzi Janelidze, ma la dizione è un po’ problematica, mentre autorevole è il conte di Monterone di Emanuele Cordaro. Cinque artisti del Regio Ensemble prestano la loro ormai sicura presenza: Siphokazi Molteno (Giovanna), Janusz Nosek (Marullo), Daniel Umbelino (Matteo Borsa), Tyler Zimmerman (Il conte di Ceprano) e Albina Tonkikh (La contessa di Ceprano). Chiara Maria Fiorani come Il paggio della duchessa e Mattia Comandone come Un usciere di corte, completano il cast. Particolarmente convincente il coro del teatro istruito da Ulisse Trabacchin.

Nelle sue intenzioni, il regista Leo Muscato vuole «restituire al pubblico l’essenza archetipica e dolente di Rigoletto. La sua doppia identità, la tensione tra sacro e profano e il mondo di specchi in cui si muove riflettono una società in disfacimento, ancora incredibilmente attuale. L’atmosfera decadente richiama anche suggestioni cinematografiche [dove] il mondo appare distorto, quasi onirico, e la realtà si mescola con l’illusione. È questa la suggestione attraverso la quale racconto il terzo e ultimo atto di Rigoletto: la taverna di Maddalena e Sparafucile diventa un luogo rarefatto, permeato da un senso di attesa sospesa; qui Gilda osserva il Duca attraverso un velo di fumo, in un contesto dove i contorni della realtà si dissolvono». Che queste intenzioni non si colgano nella effettiva messinscena sarà probabilmente una mia insufficiente attenzione. L’ambientazione scelta dal regista e dai suoi collaboratori – Federica Parolini per le scene, Silvia Aymonino per i costumi e Alessandro Verazzi alle luci – è quella di un mondo primo novecento gaudente e incosciente, ma visto con la lente deformante di un cauto espressionismo. La vicenda è narrata linearmente a parte qualche variante non del tutto comprensibile: Monterone muore di un attacco di cuore dopo la sua invettiva e appare quindi come “fantasma” quando dovrebbe invece entrare in carcere; la reclusione di Gilda avviene in un educandato femminile gestito da suore che però mal controllano il via vai di uomini all’interno; poco credibile è anche la «casa mezzo diroccata sulle sponde del Mincio» qui diventata fumeria d’oppio e bordello di lusso molto frequentato. Oltre che lineare il racconto messo in scena da Muscato è spesso ridondante: si parla del Duca, ed eccolo lì in carne e ossa; una scala serva al rapimento? qui ce ne sono ben cinque, mentre i rapitori si muovono come il Gatto Silvestro…

Nei saluti finali l’applausometro premierebbe nell’ordine Giuliana Gianfaldoni con ovazioni, il Maestro Luisotti con altrettanto entusiasmo, subito dopo George Petean e infine Piero Pretti. Applausi al minimo sindacale per la regia.