Settecento

La clemenza di Tito

foto © SF/Marco Borrelli

Wolfgang Amadeus Mozart, La clemenza di Tito

Salisburgo, Haus für Mozart, 8 agosto 2024

★★★★★

bandiera francese.jpg  ici la version française sur premiereloge-opera.com

Eterni giochi di potere

Il libretto de La clemenza di Tito di Pietro Metastasio era stato scritto nel 1734 per Antonio Caldara in occasione dell’onomastico dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo. In seguito fu intonato da oltre quaranta compositori, tra cui Leo, Hasse, Gluck, Jommelli, Galuppi e Mysliveček. Quando viene preso in considerazione da Mozart il testo è vecchio di quasi sessant’anni e ha bisogno di una rinfrescata: ne viene incaricato Caterino Mazzolà che lo  trasforma «a vera opera» riducendone di molto la verbosità, introducendo pezzi di insieme – del tutto assenti nell’originale metastasiano – e cori mentre gli atti sono ridotti da tre a due. L’occasione ora è l’incoronazione a re di Boemia dell’imperatore d’Austria Leopoldo II. La data prevista è il 6 settembre 1791, ma solo l’8 luglio, quando è nel pieno della composizione del Flauto magico, Mozart riceve il prestigioso incarico. Con il numero d’opus K621 sarà la sua ultima opera poiché morrà tre mesi dopo la rappresentazione. 

Per la prima furono ingaggiati il tenore Antonio Baglioni (Tito), che era stato Don Ottavio nel Don Giovanni di Praga, il soprano Maria Marchetti Fantozzi (Vitellia) e il castrato Domenico Bedini (Sesto). Nelle intenzioni di Mozart quest’opera divenne un omaggio e nello stesso tempo una rivitalizzazione delle forme della gloriosa opera seria: lo dimostrano l’inizio audacemente affidato a un duetto o l’innovativa sequenza di numeri musicali dei finali. Dopo la freddezza iniziale – sorvoliamo sulla definizione di «porcheria tedesca in lingua italiana» profferita a suo tempo da Maria Luisa di Borbone moglie di Leopoldo II d’Asburgo e futura imperatrice del Sacro Romano Impero –  l’opera a partire dal 1795 incontrò sempre più il favore del pubblico, diventando una delle sue più eseguite nei teatri di area germanica, dove veniva spesso cantata in tedesco e dove i recitativi, composti dall’allievo Süßmayr, venivano drasticamente ridotti o trasformati in dialoghi parlati. Fu anche la prima opera di Mozart a essere data a Londra.

Nell’Ottocento sul destino dell’opera pesò l’ingeneroso giudizio espresso da Wagner, ma ancora nel secolo scorso la valutazione de La clemenza di Tito non era del tutto positiva e anche Mila la considerava «un’opera mancata», soprattutto se confrontata con l’altra opera seria, l’Idomeneo. Solo recentemente la fortuna del lavoro si sta ripren­dendo con una serie di produzioni che sono riuscite a metter­ne in luce la singolare bellezza di opera di transizione.

La clemenza di Tito è ora riproposta nel festival estivo di Salisburgo. La concertazione di Capuano mette mirabilmente in luce le preziosità della partitura evidenziando i momenti in cui l’orchestrazione sembra guardare al futuro con impasti sonori materici e una tensione già protoromantica. L’ensemble “Les Musiciens du Prince” risponde con lo smalto dei suoi colori e il suono pastoso degli strumenti. Grande prova la danno il cembalista Davide Pozzi, Andrea del Bianco al fortepiano e Antonio Papetti al violoncello per la realizzazione del sontuoso tappeto sonoro del continuo mentre Francesco Spendolini incanta con le note del clarinetto e del corno di bassetto. La riduzione dei recitativi fornisce un ritmo serrato al racconto musicale che progredisce con fluidità, mentre certi lividi squarci sonori costruiscono un’atmosfera quasi da thriller quando Sesto sta per mettere a frutto i suoi propositi omicidi. 

Direttrice artistica da dodici anni del Festival di Pentecoste, Cecilia Bartoli nel 1994 aveva interpretato il personaggio di Sesto in una produzione  discografica con la direzione di Christopher Hogwood. Nel 2021 c’era stata a Salisburgo un’esecuzione in forma di concerto diretta dallo stesso  Capuano e ora la rappresentazione scenica che ha debuttato al Festival di Pentecoste. L’immedesimazione in Sesto della Bartoli è totale e il personaggio ne esce in tutte le sue mille sfaccettature; la linea di canto è quanto di più sensibile ed espressivo si possa trovare, gli abbellimenti magistralmente realizzati e i piani sonori esprimono un’inesauribile gamma di sentimenti tanto che il pubblico ne rimane soggiogato. Una lettura tesa e affilata è quella di Alexandra Marcellier, Vitellia di grande temperamento mentre Mélissa Petit e Anna Tetruashvili danno vita ai personaggi di Servilia e Annio, rispettivamente, con grande efficacia, l’una per la morbidezza del timbro, l’altra per la sicurezza di emissione. Artefice occulto di intrighi è il personaggio di Publio, qui affidato al timbro ricco di armonici di Ildebrando d’Arcangelo, quasi un Commendatore per la grande proiezione vocale e la profondità delle note. Nel personaggio del titolo splende fulgidamente Daniel Behle, un tenore dalla voce smagliante, la signorilità del porre,  le sicure agilità, il fraseggio perfettamente calibrato nell’esprimere il contrasto di sentimenti tra il dovere di condannare e il desiderio di concedere il perdono all’amico. Un’interpretazione da manuale la sua. Ai fini dell’esecuzione si è rivelato ottimo l’apporto del coro  “Il canto di Orfeo” istruito da Jacopo Facchini.

Nella sua messa in scena Robert Carsen punta sull’elemento del potere quale motore inarrestabile della storia, ambientando la vicenda nei luoghi di potere della nostra contemporaneaità: il Senato, le stanze e i corridoi dove vengono prese le decisioni. La scena di Gideon Davey, che firma anche i costumi, presenta un ampio ambiente di colore grigio scuro – lo stesso del boccascena e delle pareti della sala del teatro, inglobando così idealmente gli spettatori nella vicenda – con una galleria per il pubblico che vuole assistere agli atti politici. Sesto e Annio non sono donne en travesti, sono delle donne a tutti gli effetti anche se in pantaloni. Nella fluidità dei generi oggi, come nel Settecento, che Vitellia assecondi le pulsioni di Sesto-donna, come Servilia quelle di Annio-donna non fa scalpore.

Il culmine della storia è il momento dell’attacco al Campidoglio e il tentativo di assassinio di Tito: se nel 1791 gli spettatori vi vedevano le recenti vicende della Rivoluzione Francese, quelli di oggi non possono non fare riferimento all’assalto a Capitol Hill del gennaio 2021 quando seguaci di Trump irruppero nelle sale del Congresso degli Stati Uniti. Sono infatti le immagini di quell’assalto che vediamo proiettate, e mescolata in quella folla c’è Sesto che porge il pugnale per assassinare Tito spinto dal suo amore per Vitellia. Un fermo immagine di quella scena rivelerà all’imperatore il tradimento dell’amico. Nessun potente è al sicuro, ma non lo è neppure la democrazia minacciata ai giorni nostri: «Credo che per una persona come Tito – che è un vero umanista – sia molto difficile sopravvivere nel clima politico di oggi», scrive il regista nel programma di sala, «dobbiamo riconoscere con stupore che tutti gli orrori del XX secolo non sono stati in grado di impedire che intere società tornassero ad atteggiamenti di intolleranza, divisione e disponibilità a ricorrere alla violenza. La nostra produzione è ambientata in una sorta di parlamento, apparentemente in un sistema democratico. Ma ho voluto rendere tangibile l’attuale minaccia che proviene dai partiti di estrema destra in vari paesi democratici – partiti che assumono posizioni sempre più estreme, che invadono tutte le sfere della vita sociale e che, se non sono già al potere, mirano a prenderlo il prima possibile. E quando si tratta di liberarsi degli avversari politici, non si fanno scrupoli a usare tutti i metodi che ritengono necessari». Amarissimo il finale della regia di Carsen:  dopo essersi sbarazzata di Sesto, Annio e Servilia, Vitellia prende il potere anche grazie alle occulte trame di Publio. Trionfante, ai suoi piedi giace il cadavere di Tito assassinato.

Anche oggi lo spettacolo conferma il grande impatto che aveva avuto mesi fa: la direzione di Gianluca Capuano, il cast eccezionale e la messa in scena di Robert Carsen ne hanno fatto un avvenimento operistico memorabile, salutato dall’entusiasmo del pubblico accorso alla Haus für Mozart.

Iphigénie en Aulide / Iphigénie en Tauride

Christoph Willibald Gluck, Iphigénie en Aulide / Iphigénie en Tauride

Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, 11 luglio 2024

★★★★☆

(diretta streaming)

Casa Atridi

Cinque anni dividono la composizione di Iphigénie en Aulide da quella di Iphigénie en Tauride: la prima fu creata il 19 aprile 1774 all’Académie royale de musique di Parigi su libretto di François-Louis Gand Le Bland Du Roullet, attaché all’ambasciata di Francia, tratto dall’Iphigénie di Racine di cento anni prima; la seconda nacque il 18 maggio 1779, sempre all’Académie, su testo del giovane poeta e per la prima volta librettista tragico Nicolas-François Guillard, tratto dall’omonima dramma di Claude Guimond de La Touche del 1757 a sua volta ricavata dalla tragedia di Euripide.

Nella prima siamo nella città di Aulide in Beozia dove la flotta greca pronta a partire per Troia è bloccata in porto da una bonaccia. Agamennone deve sacrificare la giovane figlia Ifigenia per placare la dea Diana ed affrontare così l’assedio alla città sull’Ellesponto. Oreste qui è bambino. Nella seconda sono passati 25 anni, siamo nel Chersoneso Taurico, l’odierna Crimea, Oreste ha vendicato su Clitennestra l’uccisione del padre Agamennone ed è Ifigenia ora che, diventata grande sacerdotessa, deve sacrificare a Diana il fratello in quanto straniero sbarcato in quel paese.

Iphigénie en Aulide inizialmente ebbe un successo modesto, ma nei successivi cinquant’anni le quattrocento riprese ne fecero l’opera di Gluck più eseguita, per poi passare in second’ordine rispetto all’Orfeo ed Euridice nella prima metà dell’Ottocento. Fu Richard Wagner a occuparsene nel 1847 con una la versione, Iphigenia in Aulis, per la Semper Oper di Dresda con Wilhelmine Schröder-Devrient nei panni di Clitennestra e Johanna Wagner in quelli della protagonista. La versione di Wagner ebbe grande successo nei teatri tedeschi dove venne rappresentata in luogo della versione originale francese fino ad anni recenti. La fortuna moderna dell’opera inizia nel 1950 al Maggio Musicale Fiorentino con Boris Christoff come Agamennone. Di un anno dopo è la registrazione radiofonica in tedesco con Dietrich Fischer-Dieskau e diretta da Artur Rother.

Iphigénie en Tauride è la penultima delle opere di Gluck, scritta nel pieno della polemica con Piccinni, autore anche lui dello stesso soggetto che venne però presentato quasi due anni dopo. Un’Ifigenia in Tauride era stata nel frattempo messa in musica da Tommaso Traetta nel 1763. L’opera di Gluck riscosse immediatamente un successo mantenutosi poi nel tempo. Una versione in tedesco fu approntata dallo stesso autore per Vienna in occasione della visita nella capitale asburgica del granduca Paolo di Russia e rappresentata nel 1781 al Nationalhoftheater, come l’imperatore Giuseppe II aveva voluto ridenominare il Burgtheater di Vienna dopo il licenziamento dei complessi e dei cantanti italiani e la loro sostituzione con artisti di lingua tedesca. Anche Richard Strauss si produsse in una completa revisione dell’opera andata in scena a Weimar nel 1900 con il titolo goethiano Iphigenie auf Tauris, una versione che si ascoltò a Martina Franca nel 2009. 

Nell’ Iphigénie en Tauride molti sono gli autoimprestiti ricavati da sue opere precedenti:

  • l’Introduzione è tratta dall’ouverture de L’île de Merlin, rappresentante una tempesta seguita dalla calma; nell’Iphigénie, l’ordine è però invertito, cosicché l’opera si apre con un momento di calma che si tramuta subitaneamente in tempesta.
  • l’aria Dieux qui me poursuivez è tratta dal Telemaco («Non dirmi ch’io»).
  • la musica per le Furie nel secondo atto è tratta dal balletto Sémiramis.
  • l’aria «O malheureuse Iphigénie» del secondo atto è tratta da La clemenza di Tito («Se mai senti spirarti sul volto»)
  • il coro sempre del secondo atto, «Contemplez ces tristes apprêts»,è tratto dalla sezione centrale della medesima aria.
  • l’aria «Je t’implore et je tremble» era già apparsa con l’incipit «Perché, se tanti siete» nell’Antigono, ma è ispirata alla giga della Partita n. 1 in si bemolle maggiore (BWV 825) di Bach.
  • una parte della musica della scena finale del quarto atto è tratta, di nuovo, dalla Sémiramis.
  • il coro finale «Les dieux, longtemps en courroux» proviene da Paride ed Elena («Vieni al mar»). 

Nonostante le differenze drammaturgiche e musicali, le due opere di Gluck vengono talora abbinate in un dittico, come succede ora con questa coproduzione con le Opere Nazionali di Atene e Parigi che inaugura il Festival di Aix-en-Provence 2024 diretto da Pierre Audi il quale nel 2011 ad Amsterdam aveva abbinato le due opere.

Alla sua quarta produzione al Festival, Dmitrij Černjakov unifica i due lavori con un’ambientazione moderna e minimalista che mostra uno spaccato della casa degli Atridi con pareti trasparenti e poche suppellettili nella prima parte. Nella seconda di quella casa e di quei mobili si vedono solo i fantasmatici contorni realizzati con tubi al neon. «Cette nuit… j’ai revu le palais de mon père», racconta Ifigenia, e una casa smaterializzata è quella nella scenografia dello stesso Černjakov che le luci di Gleb Filshtinsky rendono ancora più onirica. Con la drammaturga Tatiana Werestchagina, il regista russo imborghesisce la vicenda mitologica, anche Diana più che dea è una figura umana e fragile, sosia di Ifigenia, che offre il suo collo alla lama del carnefice per salvare la ragazza. Più che per placare l’offesa dea, il sacrificio è dettato dalla volontà di affermare il prestigio dei Greci in partenza per la guerra. E ‘GUERRA’ è la parola che campeggia nell’intervallo fra le due opere. E un ricovero per invalidi di guerra è diventata la Tauride, dove lo stesso Thoas si rivela fortemente traumatizzato, mentre Ifigenia, qui invecchiata più del dovuto, è una figura pessimisticamente rassegnata alla rovina della famiglia. Neanche il ritrovamento del fratello minore, che infatti fuggirà con Pilade lasciandola ancora una volta sola con i suoi soldatini giocattolo, riesce a smuoverne l’apatico atteggiamento.

Le numerose danze presenti in partitura vengono rese con movimenti in scena del coro e dei protagonisti principali, come il balletto-pantomima delle Eumenidi con l’apparizione di Clitennestra uccisa più volte da Oreste. Sempre molto attento alla psicologia dei personaggi si dimostra anche questa volta Černjakov. Ad esempio il rapporto bruscamente fisico tra Oreste e Pilade cela una relazione fortemente affettiva che però il regista, gay dichiarato, non rende sentimentalmente esplicita, anche se il libretto ne darebbe l’occasione. La seconda parte en Tauride risulta più convincente di quella en Aulide, ma l’aspetto borghese della vicenda mitologica sembra una soluzione un po’ troppo facile e un po’ scontato l’accento sul dramma di una famiglia così disfunzionale come quella di Agamennone – e qui Elettra è ancora una bambina mite e inoffensiva!

Per la parte musicale nessuna sorpresa con Emmanuelle Haïm a capo del Concert d’Astrée: la sua concertazione è precisa ma con gusto e diversificazione nelle due parti, con momenti particolarmente drammatici nell’Iphigénie en Tauride. Il flusso sonoro si avvale degli splendidi strumenti storicamente informati dell’ensemble fondato 24 anni fa dalla stessa Haïm dove il bel colore degli archi si unisce agli squillanti interventi dei fiati e alle trascinanti percussioni.

Prestazione magistrale è quella di Corinne Winters che si sobbarca il compito raramente realizzato di interpretare entrambe le Ifigenie, malgrado le due diverse tessiture: più lirica e luminosa quella della prima parte, più grave e introversa quella della seconda. Quasi sempre in scena, il soprano americano non dà cenni di affaticamento con momenti magici come quando intona «Ô malheureuse Iphigénie !» con accento sobrio ma proprio per questo più straziante. «Dieux, auteurs de mes crimes» canta invece Oreste, il personaggio più tormentato, che Florian Sempey interpreta con ampia gamma espressiva che talora nella veemenza del racconto va a scapito dell’intonazione, ma la sua è una presenza sonora e scenica di grande impatto. Stanislas de Barbeyrac è un Pilade stilisticamente impeccabile e nella sua aria «Unis dès la plus tendre enfance» molto commovente. Assieme i due cantanti portano in scena un indimenticabile rapporto di amicizia virile giustamente esaltato dal regista. Alexandre Duhamel è il Thoas distrutto dalla guerra di cui s’è già detto e la prova del baritono francese risulta del tutto convincente. Véronique Gens fu Iphigénie nella produzione Minkowski/Audi del 2011, ora è una Clitennestra magistralmente recitata e dalla massima attenzione alla parola, cantata con timbro sontuoso e perfezione stilistica. Russell Braun è un Agamennone di grande spessore drammatico mentre qualche stanchezza si coglie nel Calchas di Nicolas Cavallier. Vocalmente esuberante nel suo registro di haute-contre è il narcisistico Achille di Alasdair Kent, interpretato con ironia e cantato con sicurezza di acuti. Ottimo il coro del Concert d’Astrée istruito da Richard Wilberforce, quasi onnipresente nella partitura anche se in questa edizione è un personaggio spesso invisibile e relegato in buca.

Il video è disponibile gratuitamente su ArteTV.

Alfred, Alfred / La serva padrona

Franco Donatoni, Alfred, Alfred

Giovanni Battista Pergolesi, La serva padrona

Reggio Emilia, Teatro Ariosto, 24 maggio 2024

(diretta streaming)

Intermezzi buffi distanti 260 anni

Una sorta di complementarietà lega queste due opere in questo insolito abbinamento ora in scena a Reggio Emilia. La serva padrona lanciò a metà del ‘700 il genere dell’intermezzo, il precursore dell’opera buffa, su scala europea. Alfred, Alfred è sottotitolata “intermezzo”, nome scelto da Donatoni per sottolineare il potenziale farsesco di una vicenda banale che svolta nel surreale, e questo in un momento in cui la buffoneria nel teatro musicale alla fine del XX secolo non era proprio in primo piano.

Anche la distanza nel linguaggio musicale tra le due opere nasconde corrispondenze nei modi in cui ciascuna evoca la caricatura e l’ironia: la viscosa morbidezza degli archi di Pergolesi trova corrispondenza nello stridente tintinnio asimmetrico di Donatoni, un compositore talmente rigoroso da sembrare anni luce distante dal genere buffo.

Alfred, Alfred è la seconda esperienza teatrale di Donatoni dopo Atem (Teatro alla Scala, 1984) e nasce da un’esperienza autobiografica dello stesso compositore. Rappresentata al Festival “Musica” di Strasburgo nel 1995, ripresa a Parigi e a Nanterre nel 1998 e poi nel 2014 assieme a Gianni Schicchi a Spoleto e in varie città italiane, il protagonista dell’opera è lo stesso compositore il quale, dal letto di una camera d’ospedale perché colpito da una crisi diabetica nel 1992,  assiste in silenzio ad un susseguirsi continuo di avvenimenti surreali che si prestano a tragicomiche riflessioni sulla vita. Un viaggio sospeso tra la surrealtà delle visioni di un malato e la realtà della vita ospedaliera popolata da infermieri spaventose, strani dottori, ancor più strani visitatori.

Suddiviso in sei scene e sei intermezzi, il libretto, dello stesso Donatoni, parte dai dialoghi della quotidianità ospedaliera con il paziente a letto. L’ensemble ha una dimensione ridotta ed ha la caratteristica di una forte presenza di strumenti a pizzico quali chitarra, mandolino e clavicembalo, che donano una connotazione settecentesca alle musiche. Spesso un solo strumento solista accompagna i cantanti: una donna (Tosca Fosca la Formosa) che parla del latte e invece porta al malato del pesce fritto duetta con un flauto in sol; un fagotto con un parente fumatore di pipa; una tromba in scena una visitatrice che porta notizie poco confortanti per il malato: «Anche tuo fratello è stato ricoverato per coma diabetico. È molto grave, dicono che non se la caverà». Il linguaggio musicale è quello dell’avanguardia del tempo ironicamente farcito di citazioni musicali (Verdi, Stravinskij, Wagner, Bellini…) e una vocalità espressionista dove ogni parola, ogni frase è ripetuta varie volte come nelle opere buffe. Un grottesco concertato,  «Il diabete è una burla, ma a me non danno a berla», costituisce il finale.

Cuce assieme le due operine la bacchetta di Dario Garegnani alla testa dell’orchestra Icarus Ensemble, mentre su concezione della Muta Imago, la regista Claudia Sorace e il dramaturg Riccardo Fazi danno vita alle immagini. Nella ideazione della Sorace la corsia d’ospedale è popolata da figure horror e surreali che si affacciano sul malato e i loro volti giganteggiano minacciosi sugli schermi con i video di Maria Elena Fusacchia.

Nella produzione di Spoleto il malato, parte muta, era un gesticolante Paolo Rossi, qui invece è il giovane basso Giuseppe de Luca che dopo l’intervallo vediamo alzarsi dallo stesso letto. Si trattava dunque di un incubo di Uberto, il personaggio de La serva padrona. Dalla corsia di ospedale si passa con continuità all’elegante appartamento con opere d’arte dell’uomo che ha paura di invecchiare, e lo vediamo infatti che si fa iniettare del botulino da Vespone, mentre Serpina in bigodini si dà arie da padrona. «Serpina riesce nell’intento di conquistare Uberto», dice la regista, «proponendogli un altro tipo di mondo, gli impone la sua visione. Infatti quando lei riesce a sposarlo, avviene sulla scena uno stravolgimento temporale. Per questo non apparirà la bella casa borghese ma la famosa immagine di Delacroix della Libertà, per indicare gli anni della rivoluzione, perché i due servi (in scena anche il ruolo muto di Vespone) vogliono rovesciare il mondo. In questo senso la debolezza di Uberto è la debolezza dell’Ancient regime con le fragilità dell’uomo incarnato da Alfred Alfred che non sa vivere».

Anche se azzardato il legame narrativo tra i due lavori distanti 260 anni è ben realizzato e convincente anche grazie alla sciolta presenza scenica dei tanti personaggi della prima parte, ironicamente tratteggiati da film horror, e i tre della seconda, dove si fa notare per freschezza e buona tecnica la giovane Samantha Faina, a suo agio nella musicalità di Pergolesi e nelle variazioni dei dacapo.

Don Giovanni

foto © Andrea Ranzi

Wolfgang Amadeus Mozart, Don Giovanni

Bologna, Comunale Nouveau, 26 maggio 2024

★★★★☆

Don Giovanni, burattinaio a spasso nei secoli

Forse è l’opera di Mozart che ha maggiormente stimolato i metteurs en scène più radicali: da quella “destrutturata” di Dmitrij Černjakov a Aix-en-Provence nel 2010 a quella ancora più recente di Romeo Castellucci a Salisburgo nel 2021, zeppa di simboli non sempre agevolmente decifrabili. 

Risulta quasi una sfida controcorrente quindi quella di mettere in scena in costumi settecenteschi il Don Giovanni da parte di Alessandro Talevi, che a Bologna l’anno scorso aveva ambientato Le nozze di Figaro in epoca moderna e che completerà qui la trilogia dapontiana con il Così fan tutte. Ma la sorpresa non è finita lì: quando, dopo le prime scene, entrano altri personaggi i costumi sono ottocenteschi e dopo ancora moderni!

«Se in quel primo capitolo della trilogia ho voluto dun­que svelare l’eternità delle passioni destinate a non tramontare nel tempo, in Don Giovanni ho deciso di sviluppare ancora di più questo concetto», dice il regista, «tenendo sempre presente che Don Giovanni è un archetipo e di conseguenza si può permettere il lusso di sedurre donne in qualsiasi secolo, attraversando il tempo e lo spazio». Ecco allora un portale passando attraverso il quale il seduttore può andare a spasso nel tempo per sedurre le sue belle. Se Donna Anna e Don Ottavio sono in severi abiti XIX secolo, Zerlina e Masetto vestono abiti cafonal contemporanei mentre lui, Don Giovanni, l’abito lo cambia a seconda dell’epoca. Il massimo si ha durante la festa in casa sua dove alla cacofonia delle tre orchestre in scena si aggiunge quella dei costumi (ideati da Stefania Scaraggi) e delle danze (coreografate da Danilo Rubeca): dietro la coppia in primo piano impegnata in un impeccabile minuetto un’altra coppia si muove sui passi di un tango e a destra gli altri invitati si dimenano in movenze rock. Nella cena finale le vittime di Don Giovanni, che abbiamo visto nei video di Marco Grassivaro dominarne la mente, entreranno dalle finestre, ognuna col suo costume, per condurre il dissoluto “non punito” là dove «c’è un mal peggior».

Ma una seconda forte idea domina la lettura di Talevi di questo “dramma giocoso”. Le relazioni personali in questa vicenda passano tutte solo e soltanto attraverso la figura del Cavaliere, è lui il mediatore unico con cui i vari personaggi si relazionano: Don Giovanni e il Commendatore; Don Giovanni e la coppia Donna Anna/Don Ottavio; Don Giovanni e Donna Elvira; Don Giovanni e la coppia Zerlina/Masetto; Don Giovanni e Leporello. Tra gli altri personaggi non ci sono rapporti particolari, certo a causa delle differenze sociali – di qua i nobili, di là i popolani – ma anche tra i nobili: Donna Anna e Don Ottavio vedono Donna Elvira non come una di loro, ma come una un po’ svitata arrivata dalla lontana Burgos. Insomma, Don Giovanni è il motore e la ragione d’essere degli altri personaggi che gravitano attorno a lui, è un burattinaio che muove e determina le azioni degli altri.

Ecco allora che il “portale del tempo” nel secondo atto si rimpicciolisce per diventare un teatro dei burattini in cui si affacciano in dimensioni ridotte gli altri personaggi. Un’idea non inedita – presente ad esempio nelle produzioni di Robert Carsen a Milano e di Chiara Muti a Torino – ma qui intelligentemente riproposta ed efficacemente realizzata, pur nelle limitazioni logistiche della succursale del Teatro Comunale chiuso per restauri e temporaneamente trasferito nella sala Comunale Nouveau della Fiera, una sala onestamente più adatta alle proiezioni cinematografiche. Un palcoscenico ridotto al minimo delle funzioni ha dettato le esigenze scenografiche che unitamente ai limiti di budget hanno costretto a utilizzare l’impianto scenico de Le nozze dello scorso anno, ossia un insieme di facciate montate su carrelli che formano i vari ambienti richiesti dalla vicenda, come l’esterno su cui si volge il duello col Commendatore o il cimitero dove da un loculo appare il viso dello stesso, defunto. Il tutto abilmente illuminato dalle luci di Teresa Nagel. La regia di Talevi è piena di piccoli sapidi particolari e gesti, sempre correlati alla musica però, con un gusto del teatro e una maestria nell’indirizzare verso una felice interpretazione attoriale e vivace presenza scenica i giovani interpreti che formano un cast omogeneo e di ottimo livello. 

Nella parte del protagonista scende in campo il basso argentino Nahuel di Pierro che dopo aver vestito i panni di Leporello ad Aix-en-Provence nel 2017 ora indossa quelli del padrone. Voce di bella proiezione e ricca di armonici, il suo è un Don Giovanni elegante e nobile, dal carattere un po’ cinico ma senza eccessi. Corretto, insomma, ma non memorabile. Timbro molto simile è quello di Davide Giangregorio, il Masetto della produzione di Livermore a Macerata, qui un Leporello di vivace presenza scenica e grande personalità. Per l’indisposizione di Ol’ga Peretjat’ko è subentrata con breve preavviso la Donna Anna del secondo cast, Valentina Varriale, che ha totalmente conquistato il pubblico con la sua sensibile interpretazione in una parte difficile che passa dai toni drammatici della prima scena al racconto ansimante «Era già alquanto | avanzata la notte» alle agilità della sua ultima aria solistica in risposta alle pressanti richieste dell’impaziente fidanzato, qui un René Barbera in stato di grazia che ha portato in scena uno dei migliori Don Ottavio per eleganza di stile e linea vocale. Molto brava anche Karen Gardeazabal, la Donna Anna di Macerata, tecnica impeccabile e bel fraseggio, ma forse un po’ più di temperamento nella sua Donna Elvira non avrebbe guastato. Efficace è la coppia dei giovani sposi, Zerlina una spumeggiante Eleonora Bellocci, Masetto un sanguigno Nicolò Donini. Il possente e autorevole Commendatore di Abramo Rosolen qualche brivido fra gli spettatori l’ha fatto scorrere.

Dalla stessa produzione de Le nozze di Figaro dell’anno scorso arriva Martijn Dendievel, giovane direttore belga che rifugge dai toni estremi e della partitura dà una lettura fedele, precisa e analitica, ma senza grandi trasporti e con tempi talora fin troppo dilatati – all’ultimo Muti, per intendersi – che trasformano l’Allegretto della serenata di Don Giovanni «Deh vieni alla finestra» in un estenuato Adagio. Qualche guizzo e qualche libertà in più, nelle riprese soprattutto, sarebbero stati graditi. 

Successo cordiale per tutti i fautori dello spettacolo con più insistenti applausi per il Don Ottavio di René Barbera e la Donna Anna di Valentina Varriale che nonostante l’avesse già cantata la sera prima non si è tirata indietro e ha generosamente salvato la recita.

Idomeneo

 

Wolfgang Amadeus Mozart, Idomeneo

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 8 luglio 2022

★★★☆☆

(video streaming)

Da Knosso a Kyoto

«La più bella opera di Gluck». Così è stato definito l’Idomeneo, il lavoro che un Mozart venticinquenne presenta a Monaco nel 1781 e che ora viene affidato da Pierre Audi, Direttore Generale del Festival lirico di Aix-en-Provence, all’attore e regista giapponese Satoshi Miyagi. Nato nel 1959, ha iniziato a realizzare spettacoli che riuniscono grandi opere letterarie e un metodo ispirato alla danza e alla clownerie. Nel 1990 ha fondato la compagnia Ku Na’uka con la quale ha diretto opere antiche e classiche europee e autori moderni giapponesi, basando il lavoro degli attori sulla ginnastica orientale e nel 1995 è stato invitato a dirigere l’Elettra di Sofocle al Teatro Antico di Delfi. Le sue incursioni nel teatro lirico sono al momento concentrate su due opere di Mozart: questo Idomeneo messo in scena al Festival di Aix-en-Provence e un Mitridate a Berlino.

Pedine di una partita a scacchi che non verrà giocata, nella lettura di Miyagi i personaggi sono statue issate su un basamento, sono cioè portati in scena su alti piedistalli in continuo movimento nella scenografia di Junpei Kiz. Il movimento dei piedistalli sul palcoscenico con il gioco luci di Yukkio Yoshimoto crea di tanto in tanto interessanti disposizioni e motivi esteticamente gradevoli come nel nel terzo atto quando si sono uniscono per creare un drammatico ritratto della sofferenza del popolo: uno sfondo di immagini violente e spaventose che ricordavano le pitture nere di Goya diventate rosso sangue. Ma non allontanano l’impressione di trattarsi di una esecuzione in forma di concerto con piattaforme mobili, totale mancanza di slancio drammatico, dove le interazioni personali sono annullate, il dramma d’amore tra Ilia e Idamante perde consistenza e rimane la questione del conflitto tra l’uomo e gli dèi, a cui Idomeneo ha incautamente sacrificato il figlio. Miyagi pensa a una situazione di guerra, quella del Giappone nel XX secolo con l’imperatore Hirohito al posto di Idomeneo, Hiroshima al posto di Troia e i militari nelle loro mimetiche al posto del popolo minacciato dal mostro venuto dal mare. I soldati che spostano i piedistalli sono le anime dei morti, intrappolate in una sorta di prigione, incapaci di raggiungere il Nirvana. Non hanno perdonato a Idomeneo il suo tradimento, sono loro che muovono i personaggi e dettano gli eventi, non Idomeneo, né altri in posizioni di potere. La principessa Elettra, per esempio, essendo stata tradita dalla sua classe, è stata ridefinita come una del popolo, quindi non è fissata su un piedistallo, ma è in grado di vagare liberamente, mentre Nettuno si esprime sotto forma di giradischi – come era successo per la dichiarazione di pace dell’Imperatore del Giappone per annunciare la fine della guerra, con la sua voce trasmessa in un discorso registrato per la radio.

Con i costumi di Junpei Kiz che si suddividono tra abiti occidentali, giapponesi antichi e uniformi moderne e costretti sui loro alti e stretti basamenti, i cantanti sono impegnati a mantenere l’equilibrio e a non farsi venire il mal di mare per il continuo ruotare delle basi. Cantano a loro stessi con gesti stereotipati, i duetti non sono più tali. Il più in difficoltà, e mai si sarebbe detto, con l’intonazione e le agilità della sua aria più impegnativa, «Fuor del mar ho un mare in seno» portata a termine con fatica, sembra sia Michael Spyres. Qualche problema di intonazione l’ha anche l’Elettra di Nicole Chevalier la cui aria finale «Ah! Smania… D’Oreste d’Aiace» in cui si lascia andare a un’esplosione di emozioni, è ricca di coloratura e di effetti vocalmente espressivi. 

Ineccepibile è invece la performance di Sabine Devieilhe che delinea un sensibile ritratto di Ilia con la sua voce ben sostenuta quando aumenta di volume, brillante e chiara, in grado di fornire salti, abbellimenti delicati e passaggi di agilità con consumata facilità e caratterizzata da precisione e gran controllo vocale in un legato senza soluzione di continuità. L’idea di affidare a un mezzosoprano la parte di Idamente – una via di mezzo tra il castrato originale e il tenore utilizzato più frequentemente – convince poco non tanto per la qualità della interpretazione di Anna Bonitatibus, ma perché si perde la necessaria virilità del personaggio che alla fine prende il potere. Linard Vrielink (autorevole Arbace), Krešimir Špicer (sensibile Alto Sacerdote) e Alexandros Stavrakakis (Oracolo) completano il cast dei solisti mentre attenti si dimostrano i coristi spesso impegnati in volenterose coreografie. Alla testa della sua Pygmalion, la famosa orchestra di strumenti d’epoca, Raphaël Pichon dà una lettura da opera seria pienamente informata in una versione ridotta, un compromesso tra quella di Monaco e quella di Vienna del 1786.

Motezuma

Josef Mysliveček, Motezuma

Znojmo, 16 luglio 2011

(registrazione video)

Dopo quello di Vivaldi, il Motezuma boemo

Josef Mysliveček (1737-1781) fu uno dei compositori di maggior successo e più pagati dell’epoca. Acclamato in Italia come «Il divino boemo», fu però presto dimenticato e morì in povertà a Roma. Una recente lapide nella chiesa di San Lorenzo in Lucina lo ricorda così: «In questa basilica è stato sepolto il compositore ceco Giuseppe Misliwecek detto il boemo, amico di Mozart». Aveva infatti incontrato il salisburghese a Bologna nel 1770 e da allora era diventato amico e modello artistico per il quattordicenne compositore. Il padre Leopoldo è inizialmente contento: ««È un uomo d’onore e noi siamo legati a lui da una perfetta amicizia». Poi Josef si ammala ed è lo stesso Mozart che in una lettera al padre da Salisburgo racconta come Mysliveček gli avesse scritto: «in viaggio da Firenze a Monaco sono caduto dalla carrozza e all’ospedale dove sono stato ricoverato, dei medici incapaci mi hanno bruciato il naso», probabilmente per nascondere che si trattava di sifilide. Mozart andò poi a trovarlo all’ospedale di Monaco e in una commovente lettera a sua sorella Nannerl ne racconta il loro triste incontro. Leopold ne scrive invece impietosamente, forse deluso da una mancata promessa di Mysliveček di procurare a Wolfgang un contratto per un concerto al Teatro di San Carlo di Napoli: «A chi dare la colpa se non alla propria vita schifosa, una vergogna così grande davanti al mondo. Come farà quel poveraccio a presentarsi sul palcoscenico di un teatro senza il naso…». 

Il successo, le avventure, la momentanea ricchezza e la vertiginosa carriera musicale di Mysliveček portano i nomi delle sue opere serie, quasi tutte composte nei suoi ultimi 15 anni di vita. Dalla Medea (1764) all’Antigono (1780) con in mezzo: Ipermestra, Bellerofonte, Farnace, Demetrio, Il gran Tamerlano, Romolo ed Ersilia, Artaserse, Adriano in Siria, Demofoonte, Armida, Medonte, L’Olimpiade, La Circe, La Calliroe, Ezio e La Clemenza di Tito, la maggior parte su libretto di Metastasio. Motezuma è invece su libretto di Vittorio Amedeo Cigna-Santi basato su leggende associate al monarca azteco Moctezuma II (1). Un Motezuma precedente si deve ad Antonio Vivaldi che nel 1733 aveva presentato la sua versione su testo di Girolamo Alvise Giusti al Teatro Sant’Angelo di Venezia. Quello di Mysliveček vide la prima al Teatro della Pergola di Firenze il 23 gennaio 1771 – quello stesso anno Mozart presenterà il suo Ascanio in Alba e Il sogno di Scipione. Un’intonazione sullo stesso libretto si vide al Teatro Regio di Torino nel 1765 su musica di Gian Francesco de Majo in una sontuosa produzione. È improbabile che la produzione fiorentina fosse altrettanto ricca e il cast non si distingueva particolarmente, anche se era interessante per la predominanza di cantanti uomini, come avveniva a Roma, dove alle donne era proibito apparire sul palcoscenico. Motezuma è stata la prima opera del compositore a essere ripresa in tempi moderni per una rappresentazione a Praga nel 1931 mentre questa registrazione video si basa sulla ripresa che nell’estate 2011 ha avuto luogo a Znojmo, città della Moravia a sud di Brno. Allestita nel quadro dello Hudebni festival Znojmo, l’Orchestra del Czech Ensemble Baroque è diretta con slancio garibaldino senza troppe sottigliezze da Roman Válek. La regia di Michael Tarant utilizza tutti gli spazi disponibili e si avvale della scenografia di Jaroslav Milfajt, una ripida piramide a gradoni come quelle di Teotihuacan, e dei fantasiosi costumi di Klára Vágnerová, con sfoggio di copricapi piumati per il personaggio eponimo, e visi abbondantemente truccati. Nel cortile del castello si esibisce un cast di interpreti di accettabile livello: il controtenore Jakub Burzynski (Motezuma), il tenore Jaroslav Březina (Cortes), il tenore Tomáš Kořínek (Teutile), il basso Marián Krejčík (Pilpatoe) e i soprani Marie Fajtová (Quacozinga) e Michaela Šrůmová (Lisinga), le voci migliori in campo.

Musicalmente il compositore distingue i due mondi in contrasto, con arie più meditative e dubbiose per Motezuma e interventi più arroganti per il subdolo conquistador Cortés, così che la sequenza di elaborate arie e recitativi acquista una certa drammaticità sottolineata dalla ingenua ma efficace messa in scena. Molto ben realizzato è ad esempio l’epico arrivo degli spagnoli e più chiaramente di quanto avvenga nel libretto, il regista si schiera senza esitazione dalla parte degli indigeni.

(1) Il sovrano azteco Montezuma deve affrontare un’invasione spagnola. I suoi dubbi su se e come affrontare gli spagnoli, così come i dubbi sull’effettivo aiuto degli antichi dèi, costituiscono la base ideologica della trama. Il conquistador spagnolo Hernán Cortés inganna Montezuma fingendo nobiltà e amicizia per poi approfittare dell’incertezza del sovrano. La moglie di Montezuma, Guacozinga, si schiera con i difensori della tradizione e la sua opinione politica è tragicamente in contrasto con il suo rapporto con Montezuma. Il necessario intrigo amoroso è rappresentato dal generale spagnolo Tentile e dalla bella indiana Lisinga. Nella drammatica conclusione, sebbene Montezuma muoia dopo aver scelto la via del sacrificio di sé invece del conflitto armato, la fine dell’opera risuona comunque dello spirito di riconciliazione e del ritrovamento di una pace e di una speranza rinnovate che gettano le basi del nuovo Messico.

Il matrimonio segreto

Domenico Cimarosa, Il matrimonio segreto

Parma, Teatro Regio, 17 febbraio 2023

★★★☆☆

(video streaming)

Matrimonio a Brooklyn

Ci sono opere che si avvantaggiano di una ambientazione scenica contemporanea. Una di queste è sicuramente Il matrimonio segreto, che perde quella vernice settecentesca che può risultare stucchevole quando non si tratta di Mozart, acquistando in sapidità e freschezza. Lo aveva già fatto Pier Luigi Pizzi con la sua produzione ipermodernista, ci riprova Roberto Catalano al Regio di Parma, teatro da cui il lavoro di Cimarosa mancava da oltre sessant’anni.

All’inizio una veduta classica di Napoli è ammirata con nostalgia su una grande tenda che però Fidalma strappa e dietro appare la New York stilizzata dei film americani degli anni ’50, quella di Singin’ in the Rain. Qui Carolina è la figlia minore di Geronimo, pasticcere napoletano proprietario di un locale di Brooklyn frequentato dalle celebrità del tempo. La ragazza sogna di diventare un giorno ballerina in un musical e danzare con il suo idolo e nume ispiratore, Gene Kelly. Nella scenografia di Emanuele Sinisi una specie di scatola di cioccolatini aperta diventa l’elegante pasticceria con la parete colma dei pacchetti griffati col logo della Geronimo & Co.: un babà, la punta di diamante della sua produzione. Come nei costumi di Ilaria Ariemme qui dominano le tinte pastello, il rosa, l’azzurro, ma lo skyline stilizzato della città è invece tricolore: il sogno americano di Geronimo che ambisce a creare un impero industriale con i soldi di un matrimonio fortunato per la figlia Carolina, la quale però ama Paolino, il ragazzo delle consegne, che ha sposato in segreto. 

La storia è coerentemente narrata da Catalano che dipinge con abilità il vivace ambiente e muove bene i personaggi. Nella movimentata schiera di mimi e ballerini in veste di camerieri, turisti, clienti c’è pure una vecchietta con cagnolino: è Gene Kelly travestito per sfuggire ai  paparazzi, mentre un povero wedding planner è vittima delle frustrazioni di una dispettosa Elisetta.

Il direttore Davide Lievi imposta un ritmo rilassato alla musica, che se da un lato ci fa gustare meglio la parola, dall’altra non riesce a sfuggire a quel vago senso di noia di fronte a questo lavoro tanto osannato. Poteva poi fare a meno di certe cadute nelle caccole dei cantanti, nei gridolini, nelle battutine non previste dal libretto, elementi espressivi da tempo fuori stile. L’orchestra Cupiditas (nome scelto per il “desiderio ardente” di suonare insieme), formata da settanta giovani diplomati e non dai 14 ai 25 anni, assieme a prevedibili acerbità arriva comunque a una esecuzione coordinata. 

Nella patria di Verdi, il teatro settecentesco è forse meno preso sul serio e si sceglie una compagnia di giovanissimi per un cast in cui il maggior pregio è il gioco di squadra, ma si rivelano anche piacevoli sorprese, come il bel timbro di Giulia Mazzola (Carolina), la chiara linea vocale di Antonio Mandrillo (Paolino), il fraseggio e la dizione di Francesco Leone (Geronimo), l’eleganza di Jan Antem (Conte, forse il migliore di tutti), la caratterizzazione di Veta Pilipenko (Fidalma), le agilità di Marilena Ruta (Elisetta).

 

Die Zauberflöte

 

Wolfgang Amadeus Mozart, Die Zauberflöte

Torino, Teatro Regio, 30 marzo 2023

Col Flauto magico di Kosky il Regio conquista i giovani

Le uniche due produzioni di Barrie Kosky arrivate finora in Italia sono state quelle del suo Evgenij Onegin al San Carlo di Napoli e a Roma di questo Flauto magico. Non molte per un regista che i maggiori teatri del mondo si contendono per la genialità, l’originalità e lo straordinario senso teatrale.

Nato in Australia nel 1967, Kosky nel 2001 diventa co-direttore della Schauspielhaus di Vienna e poi direttore della Komische Oper di Berlino. Primo regista ebreo – e omosessuale dichiarato – ad allestire un’opera di Wagner al Festival di Bayreuth (dei memorabili Maestri cantori), è tra i più ricercati metteur en scène del momento, con un’agenda che prevede una produzione ogni due mesi. Indimenticabili sono le sue escursioni nel genere dell’operetta, soprattutto berlinese (Oscar Straus, Jaromír Weinberger, Paul Abraham), ma anche francese (Jacques Offenbach), e nel musical.

Scelta dal precedente sovrintendente e poi direttore artistico Sebastian Schwarz, questa produzione nata alla Komische Oper di Berlino nel 2012 è il frutto di un progetto del collettivo londinese di animazione “1927” fondato da Suzanne Andrade e Paul Barrit che hanno deciso di richiamarsi a questa data che indica la nascita del cinema sonoro. Se la parte visuale è del “1927”, l’impianto narrativo e l’idea dell’espediente cinematografico sono merito di Kosky che non ha letto l’ultimo lavoro di Mozart come un’opera carica di implicazioni filosofiche e morali, ma ha concentrato la sua lettura sulla figura di Schikaneder, il librettista del Flauto magico.

Alla fine dell’ouverture il sipario rosso si alza e mostra una parete bianca che si trasforma in una foresta con un giovane che corre per sfuggire a un drago-serpente rosso che lo minaccia con le fauci spalancate. Ma il giovane non sta effettivamente correndo: le gambe che si muovono freneticamente sono soltanto proiettate su un piccolo schermo che copre metà della sua figura. In alto, sulla parete tre aperture ruotano e appaiono tre signore con colli di pelliccia e sigaretta in mano: sono le tre dame che salvano il principe Tamino dal drago-serpente. Così inizia il Flauto magico ideato da Barrie Kosky e Suzanne Andrade.

Sospesi ad alcuni metri d’altezza, i cantanti si affacciano dalle finestrelle ritagliate nella parete bianca che funge da schermo per interagire con le figure in movimento. Il Flauto magico è essenzialmente opera di immagini e fu creato per quel teatro figurativo che Schikaneder proponeva al pubblico del suo Freihaus-Theater an der Wieden, un teatro che traduceva in divertimento popolare la spettacolarità barocca con i suoi arditi congegni, le macchine volanti, le botole, i cambi di scena, gli ingenui ma efficaci effetti teatrali. Quella ostentata spettacolarità è qui tradotta nei disegni animati realizzate da Paul Barrit che ha ripreso attualizzandole le tecniche multimediali della “Laterna magika”, teatro sperimentale presente a Praga fin dai primi anni ’60. Lo spettacolo è perfettamente congegnato e ha un enorme appeal per i pubblici di tutto il mondo che scoprono una nuova estetica espressiva. Quello di Kosky è innanzitutto un omaggio al cinema muto: Pamina sembra la Louise Brooks/Lulu di Pabst, Papageno è uno svampito Buster Keaton, Monostatos ricorda il Nosferatu di Murnau, Tamino un disinvolto Charlot. C’è il cinema espressionista tedesco, ma anche quello di Méliès e tanto altro ancora: il vaudeville, il music-hall, il cabaret berlinese, le prime tecniche di animazione, le illustrazione dei libri di Jules Verne, i collage surrealisti di Max Ernst, la grafica in stile neo-gothic di Edward Gorey, l’estetica dei fumetti e delle graphic novel. Da cinema muto sono le didascalie che condensano i dialoghi parlati. La presenza fisica dei cantanti è ridotta al minimo, talora ne vediamo solo la testa, com’è il caso della Regina della Notte trasformata in un gigantesco aracnide o dei genietti, qui simpatiche lucciole. L’obiettivo è inserire la voce dentro un’entità visiva di un universo in bianco e nero che evidenzia i vivaci tocchi di colore. L’interazione tra immagini e interpreti in carne e ossa è realizzata magistralmente, la sincronia con la musica sfiora la perfezione.

La musica del Flauto presenta atmosfere già proiettate verso la sensibilità romantica e oltre. Lo ha ben compreso il direttore Sesto Quatrini che della partitura ha offerto una lettura pulita e trasparente, con tempi distesi – un po’ troppo lenti però quelli dell’aria di Sarastro «In diesen heil’gen Hallen» che hanno messo in difficoltà il povero baritono – ma in generale la sua concertazione ha tenuto conto della qualità delle voci a disposizione ottenendo un buon equilibrio tra scena e buca. L’orchestra del teatro ha dato buona prova nei colori e nella precisione dei loro strumenti. Al fortepiano si sono ascoltate le musiche delle Fantasie per pianoforte in re minore K397 e do minore K475, dello stesso Mozart, che hanno collegato i vari numeri musicali dell’opera con insospettata fluidità. Ottimo l’apporto del coro, prima nascosto e poi solo alla fine in carne e ossa al proscenio, quando la pellicola si brucia e la favola cinematografica finisce: un momento di grande commozione in cui il coro intona quell’inno di lode alla saggezza in cui si vuole unire tutta l’umanità.

Due i cast previsti per la dozzina di recite di questo Flauto magico. Nella serata di giovedì si sono distinti i due interpreti dei personaggi principali: Gabriela Legun ha un bel timbro caldo e un fraseggio impeccabile con cui delineare una sensibile Pamina. La tecnica vocale esibita le permetterà addirittura di interpretare la Regina della Notte in due recite. Giovanni Sala è un Tamino dal timbro fresco e luminoso, dalla linea musicale impeccabile, bello stile e ottima dizione. Vocalmente i momenti migliori della serata sono proprio quelli che hanno visto assieme i due giovani cantanti. Il baritono Gurgen Baveyan è un Papageno corretto ma dalla dizione poco chiara e manca di caratterizzazione di un personaggio che vuole essere il beniamino del pubblico in questa favola. Voce non imponente e dal timbro quasi infantile, ma colorature fluide e precise quelle della Regina della Notte di Beate Ritter, più minacciosa comunque per la figura che per la vocalità. Thomas Cilluffo è un Monostatos di efficace presenza scenica ma voce di non grande proiezione, meglio il Sarastro di In-Sung Sim dalla nobile ed autorevole presenza vocale. Al pari della Papagena di Amélie Hois, molti degli altri interpreti sono artisti del Regio Ensemble: le simpatiche tre dame dalla distinta personalità Lucrezia Drei, Ksenia Chubunova, Margherita Sala; le voci bianche dei fanciulli, e qui in mancanza di maschietti si ripiega sulle pur brave Flavia Pedilarco, Costanza Falcinelli, Blanca Zorec; gli armigeri Enzo Peroni e Rocco Lia.

Anche se dopo questa seconda visione, seguita a quella all’Opéra-Comique di Parigi nel 2017, permangono le riserve già allora avanzate – la bidimensionalità non è solo nelle immagini, ma anche nei personaggi, qui caratteri da fumetto e gli interpreti, imbragati nelle loro finestrelle fissate nello spazio scenico non hanno grandi possibilità espressive oltre alla voce – il fascino dell’operazione rimane immutato. La genialità sta però nella sua unicità: non sarà questo il futuro dell’opera, ma l’entusiasmo del pubblico giovanile ci deve far riflettere: chi non aveva mai visto un’opera forse non si è neanche accorto di essere stato “all’opera”, ma si è divertito e probabilmente ci ritornerà. La recita del 30 marzo era infatti l’Anteprima Giovani, una serata per chi ha meno di trent’anni a 10€ , quanto un biglietto al cinema.

 

Prima dell’inizio nel foyer del teatro c’è stata la “presentazione-spettacolo” della bravissima Giorgia Goldini che con la valida spalla del maestro Giulio Laguzzi al pianoforte non solo ha divertito raccontando a modo suo la trama dell’opera ma ha anche ironicamente esposto le procedure associate al rito dell’andare a teatro e le raccomandazioni su come comportarsi. Non ce n’è stato bisogno: il giovane pubblico si è distinto per l’attentissimo silenzio interrotto solo dagli applausi alla fine di certi numeri e dalle ovazioni finali. Nessun colpo di tosse, nessuno che si sia trastullato col cellulare, nessuno che abbia abbandonato la sala prima della fine o si sia alzato appena la musica si è spenta per correre al guardaroba… Il pubblico ideale.

All’intervallo c’era chi tirava fuori dallo zaino il panino col salame e chi invece passeggiava per i corridoi del teatro con una coppa di prosecco o un succo di frutta in mano. Qualche ragazza era in un lungo abito elegante, qualche ragazzo in nero e col papillon. E dopo lo spettacolo nel Foyer del toro c’era ancora Contrasti, il concerto rock con la partecipazione della band Napoleone per concludere in bellezza. Ragazzi, che serata!

Le nozze di Figaro

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

Vienna, Staatsoper, 17 marzo 2023

★★★★☆

(diretta streaming)

La folle journée di Barrie Kosky

Dopo il suo poco convincente Don Giovanni, Barrie Kosky ritorna al secondo capitolo della trilogia dapontiana alla Staatsoper viennese e il risultato è decisamente migliore: il carattere di situation comedy della pièce di Beaumarchais è più nelle corde del regista australiano del sulfureo «dramma giocoso» e qui infatti va esattamente a segno.

Questo è il terzo allestimento de Le nozze di Figaro da parte del regista e anche questa volta il titolo si conferma come  una perfetta opera buffa, una commedia umana di sublime fattura. Nella sua lettura non racconta un conflitto pre-rivoluzionario, la politica lascia il posto all’analisi di una rete di relazioni in cui è piuttosto il potere dell’erotismo a sconvolgere le gerarchie: la violenza domestica, le costrizioni e l’oppressione, la solitudine e l’abbandono, non sono estranei ai personaggi della casa del conte Almaviva. In abiti moderni (i favolosi anni ’70 ridisegnati da Victoria Behr), Kosky capisce che però il Settecento non può mancare: con i suoi boudoir, le alcove, i gabinetti, le stanze delle cameriere, i seggioloni, le tables habillées, le finestre che danno sul giardino, i padiglioni, la casa del Conte d’Almaviva se non un altro personaggio è comunque una presenza essenziale. La parete in boiserie in cui si inseriscono le porte che separano gli appartamenti dei nobili padroni dalle camere della servitù nel primo atto; la camera da letto della Contessa del secondo, insieme elegante e intima; il salone di ricevimento affrescato del terzo: tutto è impeccabilmente ricostruito dallo scenografo Rufus Didwiszus. Il giardino notturno del quarto atto è risolto invece à la Kosky: un doppio pavimento inclinato in cui si aprono botole da cui escono ed entrano i personaggi nel loro gioco a nascondino. Qui non contano più le differenze sociali: l’ambientazione astratta, con le piante dipinte sulla superficie in pendio, e la sua simbologia – le botole sono le insidie del gioco amoroso? – prende il posto del realismo della dimora rococò.

Il tutto fa da contenitore al mirabile gioco attoriale di interpreti giovani e spigliati. Nell’estetica del regista la presenza scenica è quasi più importante del saper cantare bene, il suo è vero teatro, non un concerto in costume. Fortunatamente qui le doti sceniche si accompagnano a buone doti canore, seppure in alcuni casi non pienamente mature. Il Conte ha un’indole impulsiva con tratti distruttivi e André Schuen dà a questo fratellino di Don Giovanni un carattere minacciosamente virile, un marchio di fuoco cattivo, ma è anche un ammaliatore con corde vocali avvolte in un velluto scuro che nella sua scena del terzo atto con recitativo e aria «Vedrò mentr’io sospiro» strappa gli applausi convinti del pubblico per l’aderenza al personaggio e l’autorità vocale. La Contessa di Hanna-Elisabeth Müller ha toni sontuosi e commoventi nella sua meravigliosa aria «Dove sono i bei momenti». Vivace come ci si aspetta è il Figaro di Peter Kellner e giustamente gender fluid il Cherubino di Patricia Nolz, presenza fisica e voce sexy. Il debutto nella parte di Susanna di Ying Fang è stato sfortunato: per un’infiammazione delle corde vocali ha mimato in scena ed è stata doppiata molto abilmente nell’intricato gioco di intrecci dei suoi interventi da Maria Nazarova nella buca orchestrale. A parte l’efficace Dottor Bartolo di Stefan Cerny e il comico Don Curzio di Andrea Giovannini alle prese con il suo spray per l’asma, il Don Basilio di Josh Lovell è troppo giovane e affetto da una pessima dizione e la Marcellina di Stephanie Houtzeel a tratti afona. Il direttore musicale Philippe Jordan sul podio dei Wiener Philharmoniker accompagna lui stesso i recitativi al fortepiano e modella i cambi di tempo e le dinamiche in modo ideale, dove tutto è trasparente e con i due finali pieni di colore e vivaci interventi strumentali.

I conclusione non si è trattato di una produzione memorabile, ma un esercizio di alto livello da parte di un metteur en scène che ha confermato anch ein questa occasione il suo straordinario senso del teatro.

Mitridate

Wolfgang Amadeus Mozart, Mitridate, re di Ponto

Berlino, Staatsoper unter den Linden, 11 dicembre 2022

★★★★☆

(video streaming)

Mitridate torna in Giappone

Delle diverse tappe dei suoi viaggi in Italia, Milano è la città in cui Mozart si è fermato più a lungo: nel primo viaggio dal 23 gennaio al 15 marzo e dal 18 ottobre 1770 al 12 gennaio e dal 31 gennaio al 4 febbraio 1771; nel secondo dal 18 agosto al 5 dicembre 1771; nel terzo dal 4 novembre 1772 al 4 marzo 1773. Ed è a Milano che il quattordicenne (!) Wolfgang il 26 dicembre 1770 vede mettere in scena per l’inaugurazione della stagione la sua prima opera seria, Mitridate, re di Ponto K 87, su libretto di Vittorio Amedeo Cigna-Santi tratto da Racine attraverso la traduzione dell’abate Parini. Un successo con venti repliche.

«Trovo che Wolfgang ha scritto l’Opera bene e con molto ingegno» scrive il padre Leopold in una lettera dopo la «prima piccola prova». E in effetti così è: il ragazzo ha assimilato perfettamente i codici dell’opera seria italiana e di suo ci ha messo il gusto per melodie non banali e un’orchestrazione quasi matura. Per di più dimostra di saper adattarsi all’ambiente del teatro tenendo conto delle richieste dei cantanti, col risultato di spostare il centro di attenzione musicale nei singoli episodi, gestiti dagli esigenti e capricciosi cantori e prime donne, così che Mitridate diventa una successione di meravigliose arie che però stentano a costruire una vera unità drammatica.

Trentuno anni dopo la storica produzione londinese di Graham Vick e alla sua lettura in stile teatro kabuki, un vero giapponese si ispira allo stesso mezzo espressivo per ambientare la vicenda. Satoshi Miyagi opta dunque per un Giappone medievale affogato nell’oro che riveste ogni centimetro quadro dell’impianto scenografico di Junpei Kiz ed Eri Fukazawa, così come dei fantasiosi e sontuosi costumi di Kayo Takahashi Deschene. Una struttura a gradoni praticabili con scalinate ai lati costituisce l’unico elemento architettonico presente. Alla profondità tridimensionale il regista e direttore artistico dello Staatsoper unter den Linden preferisce la mutevole decorazione di questo fondale: ruotando, i pannelli mostrano in successione la reggia di Mitridate, una foresta di bambù dorati, un paesaggio dipinto col monte Fuji. La recitazione è volutamente assente, i cantanti sono fermi frontalmente e con lo sguardo fisso, i pochi movimenti sono quelli previsti dalle coreografie di Yu Otagaki per le marce o le battaglie en ralenti,. Qualche cantante però sfugge a questa prescrizione registica e non riesce a non interpretare. Nella sua lettura ancora più scioccante è il finale: dopo tanto fasto dorato la guera presenta i suoi conti sui corpi martoriati, i costumi lacerati, i campi fumanti di cadaveri.

Particolare cura è dedicata dal regista all’aspetto visivo, quasi calligrafico, come quando il corno obbligato nell’aria di Sifare «Lungi da te, mio bene» sale sul palcoscenico e, assieme ad altri figuranti che formano un ariete alato, con il suo strumento riprende la curvatura delle corna dell’animale. Quella di Miyagi è una regia visualmente molto raffinata ma statica, memore della tradizione teatrale del suo paese. Fortunatamente i suoi ricercati tableaux vivant ricevono un incessante impulso ritmico dalla direzione di Marc Minkowski alla guida dei Musiciens du Louvre che mette vita alle eleganti figure in scena. Il direttore francese utilizza agogiche mutevoli e colori cangianti per ottenere un ritmo narrativo accettabile a scapito però di recitativi falcidiati, numeri tagliati (Sifare, Ismene e Aspasia ne fanno le spese con uno ciascuno) e arie accorciate.

Nella parte eponima Pene Pati affronta con qualche difficoltà la sua prima aria «Se di lauri il crine adorno» sforzando nel registro acuto, poi si riprende e sfoggiando belle mezze voci riesce a dare al personaggio il giusto risalto vocale. Le agilità agevolmente risolte dipingono con efficacia un sovrano dal carattere combattuto tra orgoglio e amore filiale. Ana Maria Labin è un’Aspasia anche lei combattuta tra il ruolo di regina e quello di donna innamorata e la sua performance vocale tocca i punti massimi nelle colorature come nei momenti più intensi quali la grande scena del III atto che comprende la cavatina «Pallid’ombre, che scorgete» e un drammatico recitativo accompagnato. Angela Brower, soprano en travesti, delinea un Sifare di grande sensibilità e bellezza vocale. Così è anche per il Farnace di Paul-Antoine Bénos-Djian, controtenore che qui fornisce al momento la sua prova migliore. Non allo stesso livello di eccellenza si situano gli altri interpreti: Sarah Aristidou (Ismene), Sahy Ratia (Marzio) e Adriana Bignagni Lesca, soprano en travesti come Arbate.