Mese: novembre 2023

Calibano

Calibano, l’Opera e il mondo

142 pagine, numero due, novembre 2023

Mefistofele, postumano

«Egli vorrebbe quasi | trasumanar e nulla scienza al cupo | suo delirio è confine» dice Mefistofele di Faust, deridendone il desiderio di trascendere la finitudine dell’essere.

Un modo di «trasumanare» è riuscito al «postumano», a cui è dedicato il terzo numero (quindi il 2) di Calibano, la rivista dell’Opera di Roma che prende ogni volta l’occasione di un suo titolo in cartellone per approfondire un argomento.  In questo caso si parte dal Mefistofele di Arrigo Boito.

Nelle pagine della pubblicazione, illustrata come il solito dalle intriganti/inquietanti immagini create da un programma di intelligenza artificiale, sono numerosi e rilevanti gli interventi, tra cui quello di Serena Guarracino, “Trasumanare. Faust, Frankenstein e loro successori: prometei moderni nel segno del postumano” in cui si indagano le implicazioni filosofiche dell’argomento, o quello di Giuliano Danieli su “Opera e postumano”, ossia dei personaggi e dei soggetti dei libretti d’opera legati al mito di Faust nelle sue varie declinazioni – ed ecco il Doktor Faust di Busoni, L’affare Makropulos di Janáček con la sua ultracentenaria protagonista o il recente Frankenstein di Mark Grey – o anche della messinscena – e qui vengono citati gli spettacoli de La Fura dels Baus.

L’utilizzo dell’immagine (ologramma) o della voce di un artista che non c’è più è l’ultima tendenza: in 7 Deaths of Maria Callas di Marina Abramović la voce registrata della cantante crea un’apparizione fantasmatica che si confonde con la performer stessa. «Il fatto che proprio la figura di Maria Callas, simbolo per eccellenza dell’arte lirica, abbia ispirato esperienze come queste la dice lunga su quanto forte sia il potenziale postumano dell’opera. Non è escluso che i nuovi supporti tecnologici e l’affinamento dell’intelligenza artificiale e dell’universo digitale potranno un giorno permettere a un avatar di Callas di impersonare nuovi lavori, cantare nuove opere: le potenzialità della realtà aumentata, della realtà virtuale e soprattutto del metaverso applicati all’opera appaiono ancora per lo più inesplorate, promettenti e inquietanti a un tempo».

Mefistofele


foto © Fabrizio Sansoni – Teatro dell’Opera di Roma

Arrigo Boito, Mefistofele

Roma, Teatro dell’Opera, 27 novembre 2023

★★★

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Mefistofele a Roma salvato da Mariotti

Il Mefistofele è uno di quei guilty pleasure che pochi ammettono di amare. Un raffinato intenditore di musica mai confesserebbe che gli piace l’operona di Boito, la quale ha invece molti ammiratori nel pubblico melomane.

Quando nel 1868, diretta dallo stesso autore, il lavoro va in scena alla Scala è un fiasco clamoroso, tanto che Boito ne appronta una seconda versione presentata sette anni dopo a Bologna, la città che aveva ascoltato per prima il Lohengrin nel 1871 e che sarebbe diventata la città più wagneriana d’Italia. I cinque atti incorniciati da un Prologo e un Epilogo vengono ridotti a quattro accorciando e soprattutto sopprimendo alcune parti (che l’autore ha distrutto) che portavano avanti un fumoso programma estetico/politico fortemente materialistico e anticlericale. Sono limate le arditezze metriche di certe pagine, Faust da baritono dotto filosofo e pensatore diventa un tenore amoroso e carico di ideali e aumenta la presenza del personaggio di Margherita. Solo il personaggio di Mefistofele rimane intatto.

Così normalizzato, il Mefistofele a Bologna è un grande successo, grazie anche a una migliore compagnia di canto. Bene andrà anche la ripresa veneziana del 1876, in una terza versione. Titolo frequentatissimo a fine Ottocento, da allora, pur con alterne fortune, è abbastanza presente nei cartelloni dei teatri sia in Italia sia all’estero. In questa stagione è in programma a Cagliari, Venezia e ora a Roma dove nel tempo, tra Costanzi e Caracalla, ha avuto più di trenta produzioni diverse, l’ultima nel 2010.

Ennesima riproposta del mito faustiano in musica dopo Spohr (1812), Lortzing (1829), Mendelssohn (1823), Berlioz (1846), Liszt (1857), Gounod (1859) e Schumann (1862), il fatto che Boito metta il diavolo nel titolo la dice lunga sulla sua scelta. Se la versione di Gounod era, secondo Paolo Isotta, una «raccolta di gradevoli e lenificanti melodie [che hanno] ridotto la complessità metafisica e filosofica del poema [di Goethe] all’aneddoto della storia d’amore di Faust e Margherita, a uso di platee borghesi», quella del miscredente Boito è più fedele all’originale goethiano e ha una sua profondità, trattando del bene e del male, del sublime e del grottesco, della debolezza umana e del desiderio dell’uomo di trascendere la finitudine dell’essere. Scritto pochi anni prima di Nietzsche e in un’epoca in cui, se non ancora morto, Dio veniva messo comunque in discussione, il Faust di Boito cerca di dare significato al concetto di vita in sé.

Il libretto, dello stesso compositore, è scritto nello stile erudito e artificioso della scapigliatura, mentre la musica volge lo sguardo lontano da Wagner di cui Boito ammira sì «la suprema incarnazione del dramma», ma non il linguaggio musicale: il suo tende a una semplificazione nell’armonia e nelle forme, forse conscio della limitatezza delle sue capacità compositive (Boito è essenzialmente un letterato) e dei gusti del pubblico, che di lì a poco sarà conquistato dal Verismo. Ma il suo stile ipertrofico, magniloquente e irrimediabilmente kitsch affascina invece noi cinici ascoltatori moderni.

Ed è quello che è successo all’inaugurazione della stagione dell’Opera di Roma dove è stata la musica nella concertazione di Michele Mariotti a salvare uno spettacolo che si è rivelato non memorabile per gli interpreti e discutibile per la parte visiva. Il suo direttore musicale, per la prima volta alle prese con questo titolo dopo essere stato ammirato per lo più nel repertorio belcantistico, ha saputo trarre il meglio da una partitura a suo modo sperimentale per la discontinuità e la varietà di ambientazioni in cui è calata la vicenda – il cielo del prologo; Francoforte il giorno di Pasqua; lo studio di Faust; un giardino «di rustica apparenza»; il monte delle streghe del primo sabba; la prigione di Margherita; il paesaggio classico del secondo sabba – ognuna connotata da un suo colore e stile musicale. Mariotti dà unità a questo variegato disegno musicale, riesce a preservare la distinzione fra i diversi quadri ma li inserisce in una narrazione fluida dove le invenzioni melodiche si inseriscono con naturalezza. Peccato che la fluidità del discorso musicale venga interrotta dagli interminabili cambi di scena imposti dalla messa in scena di Simon Stone che è alla sua prima regia lirica in Italia – di lui s’era visto Tre sorelle di Čechov al Carignano di Torino – ma ha già affiancato Mariotti nella famosa Traviata di Parigi. 

Il regista tedesco-australiano ha concepito molti spettacoli di grande impatto, l’ultimo è stato il bellissimo The Greek Passion di Salisburgo la scorsa estate, ma questo non sembra convincente: seppure basato su presupposti validi quali quelli di svecchiare una tradizione polverosa, il suo stile registico qui, più che altrove, non rende merito all’opera. Il Mefistofele di Boito è frutto di una visione estetica che non ci appartiene più e bene aveva fatto Robert Carsen a leggere con ironia questo lavoro in cui il sublime è indissolubilmente legato al kitsch, qui entrambi assenti nella lettura fredda e analitica di Stone, realizzata per di più senza grazia. Non si spiega altrimenti la costruzione di un mondo asettico e gelido, perennemente immerso nel bianco di impianti scenografici, disegnati da Mel Page, di rara bruttezza: dal parcheggio multipiano del prologo, alla giostrina del primo atto alla vasca con le palline di plastica colorata, dalle pareti con le radiografie (ma Faust non era un filosofo?) alla rozza gradinata, dai colonnati di gesso alle poltrone-botola della casa di riposo del finale. Di Page sono anche gli incongrui costumi: vada per Mefistofele vestito da clown di Stephen King o in completo Domopak, ma perché Margherita, «fanciulla del villaggio» dalla «ruvida man», è vestita di lamé dorato? E perché Faust, cavaliere «splendidamente vestito», in mimetica?

Negli spazi senza profondità di questa triste scenografia il coro istruito dal Maestro Ciro Visco offre una prova eccellente per intonazione e precisione. Il regista lo tiene schierato sempre immobile – la cosa gli riesce particolarmente bene… – mentre i personaggi vagano senza una qualche indicazione registica: Faust va su e giù come un orso in gabbia, le seduttrici non seducono, anzi sono imbarazzanti, solo Mefistofele si muove con un minimo di disinvoltura.

La produzione prevede due cast per gli interpreti principali e alla prima è John Relyea (si pronuncia relièi) a vestire i panni dell’istrionico protagonista. Il timbro un po’ morchioso non è particolarmente gradevole e ne soffre anche la gamma di colori esprimibili, ma il volume è potente e il fraseggio incisivo, sono suoi gli interventi più caustici dell’opera, da «Son lo spirito che nega» dell’atto primo a «Ecco il mondo» del secondo. Ne esce fuori un personaggio sardonico più che demoniaco, in linea con le intenzioni del compositore, ma certo non memorabile. Faust è, come s’è detto, un tenore in questa versione e Joshua Guerrero investe il suo non travolgente carisma in questo ruolo che non ha particolari difficoltà – con Boito siamo ben lontani dal belcanto italiano – essendo in parte declamato, ma con momenti in cui la componente lirica predomina, ed è il caso di «Dai campi, dai prati» del primo atto o «Giunto sul passo estremo» dell’epilogo. Guerrero rivela una certa povertà di colori e fragili mezze voci, è più a suo agio nei momenti passionali con Margherita, ma qui Maria Agresta mette tutti a tacere per la sua maiuscola interpretazione e intensità espressiva. Sarebbe da brividi la sua livida «L’altra notte in fondo al mare» se non fosse disturbata dalle immagini di Faust che si accoppia a una donzella e altre amenità che si vedono attraverso un’apertura dietro a lei. Nelle parti minori si sono distinti Sofia Koberidze (Marta), Marco Miglietta (Wagner) e Leonardo Trinciarelli (Nereo).

Un pubblico particolarmente poco educato – lo spettacolo è iniziato con un quarto d’ora di ritardo ma molti spettatori sono stati ammessi in sala ancora per lungo tempo durante il prologo e alla fine di ogni intervallo si è ripetuta la scena di chi riprendeva il proprio posto o lo trovava occupato con conseguente trambusto, per non dire dei telefonini perennemente accesi – ha applaudito con moderato entusiasmo gli artefici della parte musicale, solo il direttore Mariotti ha ottenuto qualche applauso in più, e buato il regista. Lo spettacolo si potrà rivedere a Madrid essendo una coproduzione del Costanzi e del Real.

Les contes d’Hoffmann

foto © Michele Crosera

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Venezia,  Teatro La Fenice, 24 novembre 2023

★★★★☆

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L’ultimo Offenbach a Venezia, trent’anni dopo e con lo stesso direttore

Sono così tante le possibili versioni di Les contes d’Hoffmann, che ogni nuova produzione è un caso a sé. Morto prima di riuscire a completarlo, Jacques Offenbach ha lasciato il suo ultimo capolavoro incompiuto e schiere di musicologi hanno tentato di ricostruirlo dandone ognuno una versione differente e talora contrastante con le altre.

C’era quindi molta curiosità per l’atteso spettacolo veneziano inizialmente affidato a quel raffinato concertatore che è Antonello Manacorda, ma purtroppo il direttore torinese ha dovuto rinunciare per un’indisposizione e al suo posto è subentrato all’ultimo momento colui che aveva diretto pochi mesi fa lo stesso titolo alla Scala, ossia Frédéric Chaslin. Il direttore francese ha salvato la situazione – c’era il rischio che l’inaugurazione della stagione saltasse – e gliene siamo tutti grati, ma ha ovviamente riproposto quanto aveva fatto allora e non è stato neppure questa volta esaltante: una direzione di routine, generica e senza grandi sottigliezze. Proprio quello che si era ascoltato a Milano. Aveva diretto l’opera a Venezia già nel 1994 e quella fu la sua prima volta, questa, ha egli stesso dichiarato, è la 732esima! Chaslin si professa un profondo conoscitore dell’opera in tutte le sue versioni e sta provando a realizzarne una propria. La sua è una versione spuria – un misto delle Choudens e Oeser – e con numerosi tagli: rispetto all’edizione “originale” di oltre quattro ore, qui ci sono 2 ore e 35 minuti di musica ripartita in una prima parte di 1h10′ (prologo e atto primo), una seconda di 50 minuti (atto secondo) e una terza di 35 minuti (atto terzo ed epilogo). In questa edizione il finale è drammaturgicamente ancora meno convincente e il personaggio di Giulietta poco definito. 

Quasi contemporaneamente alla Opéra Royal de Wallonie-Liège, che li ha messi in scena con Stefano Poda, e in attesa del ritorno della produzione di Robert Carsen all’Opéra di Parigi fra qualche giorno, nella città lagunare l’allestimento de Les contes d’Hoffmann è affidato al veneziano Damiano Michieletto, che affronta con la sua decisa personalità questa opéra fantastique. Nella sua lettura il poeta Hoffmann è un vecchietto «parcheggiato in una locanda» che incomincia a raccontare dei fantasmi del suo passato, di tre avventure amorose vissute con tre donne diverse in tre diverse città: a Parigi, Olympia; a Monaco, Antonia; a Venezia, Giulietta. Tutte e tre le figure si fondono con quella della cantante Stella in scena per il Don Giovanni in quel momento a Norimberga, dove avviene l’azione del presente.

Olympia rappresenta la prima infatuazione, quella sui banchi di scuola, ed infatti Michieletto ambienta l’episodio della bambola meccanica in una scuola – come aveva fatto nel suo Flauto magico – dove Spalanzani è il maestro e Cochenille il bidello. Il valzer in cui Hoffmann, giovinetto in braghe corte, viene trascinato è una lezione di ginnastica con i cerchi e l’esibizione della bambola meccanica avviene su una danza di numeri e simboli matematici che si staccano dalla lavagna per poi piovere dal soffitto. Il mondo surreale si fonde qui con lo sguardo nostalgico sull’amore adolescenziale.

Anche il secondo atto è ambientato in una scuola, di danza. Antonia infatti per Michieletto non è una cantante, bensì una ballerina costretta a letto – come nella sua Cendrillon a Berlino o nella Rusalka di Christof Loy. Nonostante il tema drammatico, questo quadro diventa vivace per la presenza di piccole ballerine in tutù che irridono Frantz, un caricaturale maître de ballet. Forte è il contrasto tra umorismo e patetismo con la morte di Antonia istigata a danzare dal diabolico Docteur Miracle. Hoffmann qui è un giovanotto nella sua seconda fase della vita, innamorato più dell’idea di amore che della povera fanciulla.

Ritroviamo Hoffmann uomo maturo e senza illusioni nel terzo atto, beffato dalla bella Giulietta che lo imprigiona dietro uno specchio dopo che è stato marcato con una X sul petto dalla maschera del dottore della peste, unico riferimento visibile alla città di Venezia che ospita la vicenda. Nell’epilogo ritornano tutti i personaggi, che un po’ fellinianamente concludono la vicenda: gli spiriti del vino e della birra, i tre diavoli in paillettes, Nicklausse spiritello vittoriano con le alucce iridescenti, le tre donne amate. Nel suo abito da gran sera, boa di struzzo e parrucca rosso fuoco, la diva Stella si scopre non essere altro che il bieco rappresentante del male nella sua ultima incarnazione dopo Lindorf, Coppélius, Miracle, Dapertutto.

La morale del libretto – meglio affidarsi all’arte che alla fuggevolezza dei sentimenti amorosi – è affermata con beffarda ironia in questo spettacolo  che Michieletto ha ideato assieme al suo solito valido team, ossia Paolo Fantin per le sempre sorprendenti scenografie, qui un ambiente in cui si aprono aperture rettangolari, i «buchi di memoria di Hoffmann», da cui si calano oggetti o scende la luce sempre mirabilmente ricreata da Alessandro Carletti. Assieme  ai magnifici costumi di Carla Teti e alle ironiche coreografie di Chiara Vecchi, tutti concorrono alla creazione di uno spettacolo di grande bellezza visuale che cresce di atto in atto fino all’intenso epilogo finale. 

Se Jessica Pratt è stata l’unica interprete dei tre personaggi femminili nella produzione australiana ora ripresa (lo spettacolo è coprodotto da Sydney, Londra e Lione), qui ci sono tre cantanti, molto differenti per personalità e vocalità. Rocío Pérez ha spigliate agilità, timbro luminoso ed è un’Olympia meno meccanica del solito, più simpaticamente umana. Di Carmela Remigio si ammira la partecipazione emotiva al personaggio di Antonia, un po’ meno la vocalità dalla linea discontinua, non migliorata dalla lingua francese, e dai suoni fissi. La parte di Giulietta, qui ridotta, è affidata all’eleganza di Véronique Gens. Paola Gardina è un’ironica Musa con borsone alla Mary Poppins mentre di Giuseppina Bridelli si ammirano l’espressività e la sicura vocalità come Nicklausse. Già Faust due volte a Venezia ed entrambe con Chaslin, Iván Ayón Rivas debutta nella parte eponima delineando un Hoffmann coinvolgente, dal timbro luminoso e dallo squillo poderoso. Anche scenicamente risulta più convincente del solito. Le quattro diverse identità del cattivo trovano in Alex Esposito interprete di eccezione per la proiezione vocale impressionante, il timbro ricco di armonici,  l’articolazione da manuale della frase e la dizione perfetta. A queste si aggiungono le doti da autentico istrione della scena. Indubbiamente i ruoli diabolici si addicono al baritono bergamasco che ha a suo attivo i personaggi di Méphistophélès de  La damnation de Faust di Berlioz e del Faust di Gounod per non dire del Mefistofele di Boito. Anche Didier Pieri copre quattro parti – Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinaccio – particolarmente gustosa è quella del maître de ballet Frantz. François Piolino è lo stralunato Spalanzani, Christian Collia è Nathanaël, Yoann Dubruque veste adeguatamente i panni di Hermann e Schlémil, un po’ sbiadito Francesco Milanese come Luther e Crespel. Federica Giansanti è La voce della madre di Antonia, qui anche lei ballerina. Buona prova la dà il coro istruito da Alfonso Caiani.

Pubblico molto caloroso e prodigo di applausi per tutti gli artisti coinvolti e per il Presidente della Repubblica che con la sua illustre presenza ha anche contribuito ad allontanare il rischio dello sciopero previsto. Meglio di così non si poteva sperare.

La rondine

 

foto © Andrea Macchia – Teatro Regio Torino

Giacomo Puccini, La rondine

Torino, Teatro Regio, 22 novembre 2023

★★★★☆

La rondine, una riscoperta

La “maledizione” di essere definita un’operetta ha perseguitato La rondine per molto tempo, tanto da farla diventare la meno popolare delle sue opere. È vero che era stato Franz Lehár a presentare Puccini agli impresari del Karl Theater di Vienna per scrivere un’operetta e l’ingaggio era cospicuo, ma il compositore non riusciva ad adattarsi alla forma con i recitativi parlati: in Puccini il flusso sonoro che al momento opportuno diventa una romanza è l’essenza stessa del suo teatro musicale. Con l’approvazione del teatro La rondine poteva diventare un’opera lirica e Giuseppe Adami, il futuro librettista del Tabarro e della Turandot, venne cooptato per scrivere il testo. Ma era il 1914, e la Storia avrebbe reso tutto più difficile, soprattutto per il compositore di un paese che era entrato in guerra contro l’Austria. Tra dubbi e tentennamenti la composizione comunque andava avanti e nella primavera del 1916 l’opera era terminata. Ma dove presentarla in un mondo sconvolto dalla Grande Guerra? La soluzione fu trovata dall’editore Sonzogno, che programmò il debutto nel Principato di Monaco, unica oasi di pace in quel marzo 1917.

In questa “commedia lirica” Puccini si diverte a introdurre motivi musicali come il valzer per alludere all’epoca in cui si svolge la vicenda, il Secondo Impero in Francia, ma essendo compositore attento ai suoi tempi ci sono momenti in cui si avvicina alla pratica jazzista o ai ritmi di fox-trot, per non parlare dell’ironica citazione del corno inglese della Salome di Richard Strauss, quando Prunier elenca le donne ideali degne di lui: «Galatea, Berenice, Francesca, Salomè!…». Quello del rapporto tra Puccini e Strauss è un capitolo molto interessante. Anche se suo rivale, nel maggio 1906 Puccini era andato a sentire la sua Salome a Graz, sedendo in sala assieme a Mahler, Zemlinsky, Schönberg e Berg, praticamente il gotha dei compositori di allora. Ma la musica de La rondine sarà tutt’altra cosa. Come ricorda Guido Marotti nel suo Giacomo Puccini intimo, una sera del 1924 dopo aver suonato al pianoforte il preludio del Tristano, aveva gettato via il volume dicendo: «Basta di questa musica! Noi siamo dei mandolinisti, dei dilettanti: guai a noi se ci lasciamo prendere! Questa musica tremenda ci annienta e non ci fa concludere più nulla!…» e la critica salutò La rondine come il ritorno all’ordine di un «buon toscano, che ha l’aria di sfamarsi a un tratto di cibi paesani […] dopo essersi guastato lo stomaco con dei cibi esotici ed artefatti».

Ora a noi poco importa di queste antiche polemiche e il pubblico accorso al Regio di Torino è uscito soddisfatto da uno spettacolo che ha convinto soprattutto per la direzione di Francesco Lanzillotta che di questa partitura ha messo in evidenza la raffinatezza di scrittura e le soluzioni armoniche à la page per i tempi. La versione scelta è quella originale, mentre al Regio nel 1994 era stata scelta la versione del 1921 con le parti mancanti del terzo atto orchestrate da Lorenzo Ferrero. La rondine è opera famosa quasi solo per un’aria, la prima dell’atto primo, «Chi il bel sogno di Doretta | poté indovinar?» enunciata prima da Prunier e poi fatta sua da Magda, uno dei pezzi per soprano più famosi del teatro pucciniano, modernamente concepito con un’introduzione al pianoforte solo e poi con interventi parlati (un’allusione all’operetta?). Lanzillotta ricrea questa musica con i suoi sublimi ritardandi, gli spunti melodici prima accennati e poi ripresi in tutto il loro trascinante fascino, l’intrecciarsi elegante dei temi. L’orchestra danza sotto le sue mani, gli strumenti fanno a gara in leggerezza e trasparenza, talora sembrano appena sussurrare. Chi aveva dei dubbi sulla qualità di questo lavoro si è dovuto ricredere dopo la resa magistrale del maestro concertatore

E poi c’è il canto di conversazione, che rende naturale il testo tutt’altro che entusiasmante di Adami, che però è perfettamente integrato nella musica. Questa produzione torinese si avvale di due cast. Nella replica del 22 novembre la parte di Magda è affidata a Ol’ga Peretjat’ko, diva che si atteggia a diva con una recitazione manierata e una vocalità in cui il timbro leggermente metallico e un’articolazione della parola che risente dell’accento slavo non riescono a rendere particolarmente empatico il personaggio. La classe e l’eleganza certo non difettano, sulla sicurezza vocale non si discute, ma circola un’aria di freddezza in scena con lei. Non del tutto convincente è il Ruggero di Mario Rojas, voce generosa ma un po’ in difficoltà in certi passaggi acuti. Meglio il Prunier di Santiago Ballerini, spigliato vocalmente e scenicamente, con una sicura linea espressiva e già ammirato nel repertorio della zarzuela. Ottima prova la fornisce Valentina Farcas, vivace Lisette. Il baritono Vladimir Stoyanov è Rambaldo, l’altro baritono Matteo Mollica veste i panni di Périchaud e Rabonnier e negli altri numerosi ruoli ritroviamo gli Artisti del Regio Ensemble: il tenore Paweł Żak (Gobin e Adolfo), il basso Rocco Lia (Crébillon e Maggiordomo), il soprano Amélie Hois (Yvette e Georgette), il soprano Irina Bogdanova (Bianca e Lolette) e il mezzosoprano Ksenia Chubunova (Suzy e Gabriella). Preciso e pimpante si dimostra il coro istruito da Ulisse Trabacchin, che sta portando a un eccellente livello la compagine del teatro.

La vicenda de La rondine può ricordare quella della Traviata, soprattutto nelle situazioni: il dopo festa del primo atto, il rifugio in campagna del terzo, e per l’amore impossibile, ma qui è donna, la mantenuta del marchese Rambaldo, a lasciare volontariamente il giovane. Dopo la sbandata, le attrazioni della vita ricca vincono su tutto e è proprio la lettera della madre di Ruggero, che le prospetta un’esistenza mediocre con pargoli e sotto lo sguardo della suocera, a far decidere Magda per la libertà. Nel secondo atto se l’atmosfera da Bullier ricorda il secondo atto della Bohème da Momus – con le sue grisettes, le fioraie, i camerieri, gli studenti – la servetta Lisette che si reca al ballo con gli abiti della padrona richiama invece l’analoga situazione del Fledermaus, un’altra operetta!

Il regista Pierre-Emmanuel Rousseau sceglie di ambientare la vicenda nel 1973, proprio l’anno dell’apertura del Nuovo Regio. In omaggio all’architetto Mollino la scenografia del secondo atto riprende esattamente lo stile e i particolari del foyer del teatro. Nel primo e terzo atto invece, il decoro in oro e nero si rifà a certi lussuosi ambienti di Yves Saint-Laurent dove non arrivano gli slogan delle manifestazioni studentesche e i personaggi vestono come per una sfilata di alta moda. Scene e costumi sono disegnati dallo stesso Rousseau che per il quadro da Bullier veste come un torero Ruggero (un’altra allusione alla Traviata?) mentre Magda, che secondo il libretto dovrebbe essere travestita da ragazza semplice tanto da non essere riconosciuta neppure dalla sua cameriera, qui sfoggia un sontuoso abito da sera. La trasgressività del Bal Bullier è risolta dal regista pensando al Palace di Parigi, con drag queen e ballerini di vogueing, che però in realtà verrano qualche decennio dopo. Incongrui sono anche i tatuaggi del tenore a torso nudo e braghe corte. Questi scarti temporali non hanno frenato comunque il pubblico dagli applausi.

Con La rondine si concludono i titoli lirici per quest’anno: il dicembre del Regio è dedicato come sempre alla danza.

Alfredo il Grande

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Alfredo il Grande

Bergamo, Teatro Donizetti, 19 novembre 2023

★★★★★

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Grandissimo successo per una gemma ritrovata

Con il progetto #Donizetti200, che consiste nel rappresentare in ogni edizione un’opera composta dal grande bergamasco nello stesso anno di due secoli prima, il 2023 offriva la scelta tra due lavori: Il fortunato inganno e Alfredo il Grande. Il Festival Donizetti Opera quest’anno ha optato per il secondo titolo. Dopo Pietro il Grande Donizetti affrontava un altro personaggio storico passando dalla Livonia all’Inghilterra in un melodramma eroico che avrebbe segnato il suo debutto a Napoli, la più importante “piazza” operistica italiana del tempo. Quel 2 luglio 1823 l’opera non riscosse alcun successo e non ebbe repliche. Non piacque il verboso e improbabile libretto di Andrea Leone Tottola che ricalcava quello omonimo di Bartolomeo Merelli del 1819 per Simone Mayr, il maestro di Donizetti, a sua volta tratto dall’Eraldo ed Emma (1805) di Gaetano Rossi.

Atto I. Sull’isola di Athelney, nel Somerset, la regina Amalia, seguita dal generale Eduardo, sta cercando in gran segreto re Alfredo, in fuga dai danesi che Io cercano a loro volta dopo aver invaso l’Inghilterra. Pastori e contadini accolgono i due stranieri, di cui ignorano l’identità. In lontananza si ode una marcia militare e poco dopo si vedono sfilare sulle colline truppe danesi. Dopo aver ricordato la sventura dell’invasione, il pastore Guglielmo offre ospitalità ad Amalia ed Eduardo. Chiede soltanto di rispettare «il cupo dolor» di un altro sconosciuto, che da qualche tempo il pastore ha accolto nella sua casa. Nel frattempo, i danesi Atkins e Rivers hanno individuato i due inglesi in incognito. Seguono la regina Amalia e il suo accompagnatore fin da Londra, sperando che le loro ricerche possano condurli ad Alfredo. Lo sconosciuto e proprio lui, Alfredo. Ha visto anche lui le schiere danesi avvicinarsi ed è assalito nuovamente dal timore di essere catturato prima di poter organizzare una riscossa. Ma dopo aver scacciato quei sentimenti negativi si prepara a vendere cara la sua cattura. Senti avvicinarsi qualcuno, si dispone a celare la sua vera identità e a trattenere l’atroce sofferenza che gli è causata da questa forzata clandestinità. Amalia ed Eduardo vengono introdotti nella capanna di Guglielmo Da Enrichetta, una contadina inglese, e da altre sue compagne.Amalia è impaziente di incontrare l’altro ospite sconosciuto, perché spera di poter riconoscere in lui il re che sta cercando. Quando finalmente il suo sguardo si incrocia con quello del misterioso straniero, per entrambi la gioia di essersi ritrovati è immediata. Atkins, che li ha seguiti fino a lì, fingendosi un inglese si avvicina alla capanna di Guglielmo. Il piano suo e di Rivers ha funzionato: seguendo Amalia, hanno intercettato il re in fuga. Sempre sotto mentite spoglie rivela al re che i danesi lo hanno scoperto e lo invita a lasciare il villaggio e a rifugiarsi altrove. Guglielmo si offre allora di guidarli per un sentiero nascosto fra le montagne; ma Atkins, che ha potuto ascoltare tutto, li precede e tende loro un’imboscata con le sue truppe: attende il drappello composto da Alfredo, Amalia, le due contadine Enrichetta e Margherita, e lo sorprende con i soldati armi in pugno. Tutto sembra perduto, ma ecco comparire un piccolo esercito di soldati e contadini inglesi, guidati da Eduardo e Guglielmo. Sono determinati e agguerriti, e riescono a sventare l’assalto e la cattura del re. I danesi battono in ritirata.
Atto II. Rinvigorito dal soccorso e dal sostegno ricevuti, Alfredo decide che è giunto il momento di riprendersi il suo regno. E inizia da lì, dal Somerset. Chiede a Guglielmo di raccogliere tutti coloro che voglio combattere al suo fianco. Nel veder crescere il morale del marito, Amalia manifesta la sua contentezza. Entrambi fanno propositi di condividere la sorte che li attende e si dicono sicuri di una futura vittoria. Alcune contadine vengono a riferire che sono in arrivo truppe britanniche sull’isola. Alfredo saluta allora Amalia e va incontro ai suoi uomini, mentre le contadine circondano la regina cercando di placare la sua agitazione. Margherita raccoglie la preoccupazione di Enrichetta per lo stato di ansietà della sua regina e fuga l’ansia di lei, che alla fine prorompe in un canto rasserenato. Le truppe sono tutte schierate: da un lato i militari inglesi, dall’altro bande di pastori armati, tutti desiderosi di combattere per il loro re. Eduardo li scalda annunciando l’arrivo di Alfredo. Quando il re compare, le schiere lo salutano battendo con entusiasmo le spade sugli scudi, e cantano un coro di lode. Alfredo, da parte sua, motiva i suoi uomini alla battaglia con un’orazione carica di passione, dopodiché si mette alla testa dei soldati, con Eduardo al fianco, mentre Guglielmo conduce le schiere di pastori. E tutti marciano con passo accelerato. Atkins, con una sparuta pattuglia di soldati danesi, osserva dal folto di una selva i movimenti militari del nemico inglese e manifesta la sua disdetta per il mutamento di stato d’animo di Alfredo. Il destino sembra aver rapidamente rovesciato in perdite i trionfi, ha scaraventato i danesi dalle «stelle» agli «abissi», dove sembra caduta anche la temuta Reafan (la bandiera della vittoria danese). Poi, alzando lo sguardo, Atkins vede poco distante tra la vegetazione Amalia, sempre seguita dalla fida Enrichetta. E decide di catturarla e sfruttarla come ostaggio. Assalita, Amalia coraggiosamente resiste. Impugna uno stilo, e malgrado Enrichetta cerchi di farla desistere, affronta Atkins a viso aperto. In quell’istante Eduardo, che è stato incaricato da Alfredo di proteggere Amalia, nell’attraversare con un drappello di soldati la selva, scorge Atkins e i suoi danesi mentre circondano la regina. Si lancia con i suoi uomini all’attacco, mette in fuga i nemici e cattura Atkins. Rivers si trova a coprire un altro fronte. È smarrito. Non ha notizie di Atkins e vede le truppe danesi soccombere sotto l’irruenza di quelle inglesi. È preso dal panico e fugge. L’esercito inglese marcia e canta il suo trionfo, acclamando il re. Alfredo ha Amalia al suo fianco ed è circondato dalle altre persone fidate, Enrichetta, Eduardo, Guglielmo. La regina è sopraffatto dalla gioia, ma dopo un iniziale momento di smarrimento, si lancia in un inno alla pace e a un futuro di felicità.

Mandandolo in scena per la prima volta in epoca moderna, il Festival di Bergamo offre a questo lavoro una prova d’appello e diciamo subito che il pubblico ha apprezzato sia la parte musicale sia quella visiva dello spettacolo, affidato a un non conosciutissimo Stefano Simone Pintor che ha saputo dare una lettura convincente a un’opera che rivela non pochi buchi drammaturgici. Proprio partendo da questo evidente difetto, Pintor ha ideato una messa scena che parte inizialmente da una esecuzione da concerto con gli spartiti in mano ai cantanti e al coro, per inserire a mano a mano i costumi dell’epoca, disegnati da Giada Masi. E allora le copertine in mano ai coristi diventano degli scudi con la croce rossa su fondo bianco. Partendo dalla figura del sovrano che promosse l’alfabetizzazione dei suoi sudditi, ecco i libri che piovono dall’altro nel video o sono sparsi in scena: la cultura contro la barbara violenza, la lettura contro il rogo delle biblioteche. 

Nella regia di Pintor i personaggi/interpreti si muovono con efficacia all’interno di una semplice struttura scenografica. Anche qui sullo stesso led wall de Il diluvio universale appaiono immagini reali, quali incendi, distruzioni e l’assalto a Capitol Hill (con il copricapo cornuto dello shamano che troveremo sulle teste dei danesi!), alternate a una grafica ironica ed elegante che utilizza i codici e le miniature dell’epoca. Ma la presenza delle immagini qui è molto meno invasiva e non distrae dalla musica come era invece successo nel Diluvio. 

Musica che si rivela sorprendente per bellezza e originalità: a momenti viene il sospetto che il Maestro Corrado Rovaris, che dirige l’Orchestra Donizetti Opera, si sia divertito a inserire pagine estranee, ma il fatto è che alcuni momenti richiamano un Rossini a venire – c’è infatti l’inno che troveremo nel Viaggio a Reims! – tanto è felice l’invenzione tematica e strumentale della partitura messa sapientemente in risalto dalla sua concertazione. Gli scatti ritmici delle marcette (alcune suonate da una grande banda in scena), i solenni toni degli inni, lo slancio delle cavatine, i colori degli strumenti, le gemme melodiche, la raffinata armonizzazione, tutto è reso con mano felice e l’equilibrio tra buca e voci sul palco viene mirabilmente realizzato. (1)

Al debutto di Alfredo il Grande nel 1823 nella parte eponima ci fu il celebrato baritenore bergamasco Andrea Nozzari. Qui Antonino Siragusa, cantante rossiniano per eccellenza, ne rileva la sfida senza problemi e dipana con sicuro squillo e infallibile tecnica la sua impegnativa parte. Al suo fianco Gilda Fiume (Amalia) è un torrente in piena di agilità, acrobazie, acuti e sovracuti, passaggi legati, note proiettate con potenza ma anche sensibili mezze voci nei momenti dolenti, il tutto espresso con timbro morbido e omogeneo nei passaggi di registro. La sua performance accende l’entusiasmo del pubblico che dopo il pirotecnico rondò finale decreta convinte ovazioni, estese anche agli interpreti secondari: Lodovico Filippo Ravizza, eccellente Eduardo; Adolfo Corrado, il possente barbaro Atkins; Antonio Garés, Guglielmo; Andrés Agudelo, Rivers. Enrichetta ha a disposizione un’aria eseguita con bello stile da Valeria Girardello mentre Floriana Cicìo, allieva della Bottega Donizetti, è Margherita. Non ultimo il valente coro della Radio Ungherese diretto da Zoltán Pad.

Quello che sembrava lo spettacolo meno attraente della rassegna bergamasca, dopo un dramma biblico e la versione francese di uno dei maggiori capolavori di Donizetti, non è solo un ripescaggio fortunato ma si è rivelato quello di maggior successo e uno dei migliori degli ultimi anni, tanto da convincerci che Alfredo il Grande abbia tutte le carte in regola per diventare un titolo di repertorio.

(1) Struttura dell’opera
Sinfonia
Atto I
Sinfonia
1. Introduzione Vieni Eduardo; Sventurata Britannia (Amalia, Eduardo, Enrichetta, Margherita, Guglielmo, Coro)
2. Cavatina S’inoltra alcun (Alfredo)
3. Coro Il lasso fianco chi vuol posar
4. Terzetto Sposo! … e fia ver (Amalia, Alfredo, Eduardo)
5. Finale Solingo è il sito, amici (Atkins, Alfredo, Amalia, Enrichetta, Margherita, Alfredo, Guglielmo, Coro)
Atto II
[Prima del Duetto] Me avventurato! (Guglielmo, Enrichetta, Alfredo, Pastori)
6. Duetto Questa man che un dì sull’ara (Amalia, Alfredo, Coro di contadine)
[Dopo il Duetto] Dove, o compagna? (Enrichetta, Margherita)
7. Rondò Quando al pianto ed all’affanno?, Di pace in grembo (Enrichetta)
[Dopo l’Aria di Enrichetta] Anelaste, o Britanni (Eduardo)
8. Coro All’apparir dell’astro; Elettrica scintilla (Coro di truppe e pastori armati)
[Dopo il Coro] Si, vinceremo (Alfredo)
9. Aria Che più si tarda? All’armi!; Celeste voce ascolto; Al campo, alla vittoria!; Se questo, amico nume (Alfredo, Guglielmo, Eduardo, Coro)
[Dopo l’Aria] Ti basta, o fato iniquo? (Atkins, Amalia, Enrichetta)
10. Quintetto Traditor! Di un ferro ancora; Se al generoso Alfredo; Sommerso ne’ flutti di un mar tempestoso (Amalia, Enrichetta, Guglielmo, Eduardo, Atkins)
[Dopo il Quintetto] Ah, chi di Atkins mi reca qualche novella? (Rivers)
11. Coro Viva Alfredo! Il grande! Il prode! (Alfredo, Amalia, Enrichetta, Margherita, Eduardo, Guglielmo, Contadine, Esercito inglese)
[Dopo il Coro] Al vostro braccio, o cari! (Alfredo, Amalia, Eduardo, Guglielmo, Margherita, Enrichetta)
12. Rondò Che potrei dirti, o caro; Torna a gioir quest’alma (Amalia, Coro)

Lucie de Lammermoor

foto © Gianfranco Rota

Gaetano Donizetti, Lucie de Lammermoor

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Bergamo, Teatro Sociale, 18 novembre 2023

Una Lucia a metà per ricordare le vittime di femminicidio

A poche ore dal ritrovamento del cadavere di Giulia Cecchetti, ennesimo femminicidio in Italia quest’anno, va in scena un’altra vicenda di violenza su una donna e Francesco Micheli, direttore del Festival Donizetti Opera, prima che il sipario si alzi su Lucie di Lammermoor, la versione francese del capolavoro donizettiano, sente il dovere di dedicare la rappresentazione a tutte le Giulie e le Lucie vittime della violenza maschile. Contemporaneamente però annuncia che l’interprete principale andrà in scena anche se indisposta. Purtroppo un altro annuncio alla ripresa della seconda parte conferma quello che si temeva: l’interprete prevista non è in grado di continuare e la sua voce viene sostituita da quella di un’altra cantante resasi disponibile nel frattempo.

Così funestata è dunque la ripresa di questa curiosità, non inedita peraltro in quanto nel 2002 aveva fatto epoca l’edizione dell’Opéra de Lyon diretta da Evelino Pidò di cui esistono fortunatamente ben tre diverse registrazioni: il CD Erato con Natalie Dessay e Roberto Alagna; il DVD Bel Air con Patrizia Ciofi e Alagna; la trasmissione video di Mezzo con Dessay e Sebastian Na.

Anche se Donizetti negli anni ’30 collezionava successi in patria, si apprestava a giocare la carta francese perché solo Parigi poteva ufficializzare il successo a livello internazionale. Sono di quegli anni dei soggetti che hanno qualche elemento transalpino: Parisina (1833), L’assedio di Calais (1836), Gianni di Parigi (1839). Anna Bolena era stata un successo al Théâtre-Italien nel 1831 e in questo teatro nel 1837 Lucia di Lammermoor era stata accolta con grande favore. Ma un’altra sala stava emergendo, il Théâtre de la Renaissance, che si era aggiunto agli altri tre grand théâtres della capitale – l’Opéra, l’Opéra-comique, il Théâtre-Italien appunto. Qui veniva messa in scena l’opéra de genre, una soluzione che non desse fastidio alle altre sale: non un grand-opéra dunque, non un opéra-comique con i suoi dialoghi parlati, ma nemmeno un’opera in lingua italiana, appannaggio del Théâtre-Italien. In questo sistema rigorosamente strutturato c’era spazio per un’opera italiana in traduzione francese, con i dialoghi cantati e un allestimento non troppo grandioso. 

Con il libretto affidato ad Alphonse Royer e Gustave Vaëz, Lucie de Lammermoor debutta al Théâtre de la Renaissance il 6 agosto 1839 con grande clamore. Una dimostrazione indiretta del favore riscosso dall’opera e della sua successiva popolarità è quella fornita da Gustave Flaubert nel capitolo XV della seconda parte della sua Madame Bovary dove narra del marito che accompagna Emma al teatro di Rouen per una recita della Lucie. Che si tratti proprio della versione francese ce lo rivelano alcuni particolari della recita vista con gli occhi della donna, moglie in crisi che si immedesima con il personaggio del titolo, tanto che «La voix de la chanteuse ne lui semblait être que le retentissement de sa conscience, et cette illusion qui la charmait quelque chose même de sa vie» (La voce della cantante le sembrava nient’altro che l’eco della sua coscienza, e l’illusione che la incantava qualcosa della sua stessa vita).

Rispetto alla versione originale, quella francese ha molte differenze, le principali essendo la soppressione del personaggio di Alisa assorbito da quello di Gilbert, che assimila anche la parte di Normanno, e il maggior ruolo di Sir Arthur. Manca qui l’assolo di arpa all’entrata della protagonista che invece di «Regnava nel silenzio» e «Quando rapito in estasi» canta le arie di Rosmonda d’Inghilterra diventate qui «Que n’avons nous des ailes» e «Toi par qui mon coeur rayonne». Viene soppressa anche la scena tra Lucia e Raimondo nel secondo atto e il terzo è rielaborato per ridurre il numero di cambi di scena. Donizetti non compone pressoché nulla di nuovo per Lucie de Lammermoor: quella che viene fuori è una versione «simplifiée» dell’originale italiano, un modo per rendere l’opera eseguibile con bassi costi d’allestimento e con una piccola compagnia. 

La soppressione di Alisa, l’unico altro personaggio femminile, ha il risultato di isolare ancor più il personaggio di Lucie in questo mondo tutto al maschile, tema su cui si è sviluppata la lettura del regista Jacopo Spirei. Fin dalla prima scena i cacciatori sono trasformati in “cacciatori di femmine”: quattro ragazze diventano le prede senza ritegno di un branco di maschi la cui brutalità segnerà tutto il corso dell’opera, fino al finale con un mucchio di cadaveri femminili e ambientato in un cimitero di automobili, non proprio le «tombes de mes aïeux, d’une famille éteinte»… La scena unica di Mario Tinti, una foresta dipinta, vale anche per gl’interni previsti dal libretto, mentre i costumi di Agnese Rabatti ci immergono nella contemporaneità. Poco è fatto dal regista per migliorare la presenza scenica dei cantanti e del coro, quello bravissimo dell’Accademia della Scala istruito da Salvo Sgrò, e alterna è la resa della direzione di Pierre Dumoussaud, con tempi lenti fin troppo allargati, e quelli veloci piuttosto disordinati. Incerta è l’intonazione dei corni dell’Orchestra Gli Originali, 47 elementi che nell’insieme danno un suono poco corposo e povero di colori.

Caterina Sala si è molto impegnata per questo debutto, ma un’indisposizione, che si sperava si risolvesse, non ha invece permesso al giovane soprano di terminare la sua performance: dopo la prima parte, portata avanti con evidente fatica, la cantante ha dovuto dare forfait e dopo l’intervallo è rimasta in scena per “mimare” la sua parte mentre veniva doppiata al leggio da Vittoriana De Amicis, che in così breve lasso di tempo ha generosamente permesso che anche la seconda parte dello spettacolo andasse in porto. La sostituzione ha fatto scoprire le buone qualità vocali di De Amicis che ha reso più che apprezzabile la resa della scena della pazzia, in questa versione accorciata rispetto all’originale, ma comunque irta di difficoltà affrontate e risolte con disinvoltura. Peccato solo che proprio nell’ultimo acuto ci sia stata un’imperfezione che ha così frenato il pubblico dall’esplodere in un’ovazione.

Se il soprano ha avuto dei problemi, non molto meglio è stato per il tenore: l’Edgard Ravenswood di Patrick Kabongo si è rivelato subito di voce sottile, poco proiettata e l’indubbia tecnica e l’ottima dizione non hanno salvato un’interpretazione deludente. Vocalmente non ha deluso invece Vito Priante, autorevole Henri Ashton, personaggio qui ancora meno accettabile anche se non si abbassa alle nefandezze dei suoi accoliti. Una piacevole sorpresa è l’Arthur Buckhaw di Julien Henric, tenore lionese dal timbro limpidissimo, bel fraseggio ed eleganza scenica, già apprezzato a Ginevra dove è stato membro dell’ensemble giovani del Grand Théâtre. Con lui si ha uno dei pochi casi in cui si rimpiange la repentina uscita di scena di Arthur! Eccellenti sono anche il personalissimo Gilbert doppiogiochista di David Astorga e il possente Raimond di Roberto Lorenzi. Non ci si può certo lamentare che manchino le belle voci maschili oggi.

Il diluvio universale

Lorenzo Lotto e Gian Francesco Capoferri, L’arca di Noè, Santa Maria Maggiore, Bergamo

Gaetano Donizetti, Il diluvio universale

Bergamo, Teatro Donizetti, 17 novembre 2023

★★★☆☆

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Un raro Donizetti “biblico” apre il Festival di Bergamo

Nel grande ritratto di Francesco Coghetti del 1832, dietro a un Gaetano Donizetti dallo sguardo febbrile che già sembra far presagire la follia di cui soffrirà, sul piano del pianoforte sulla cui tastiera il compositore posa la mano sinistra, fanno bella mostra cinque volumi. Sono quelli di Anna Bolena, L’esule di Roma, L’elisir d’amore e Olivo e Pasquale, opere del periodo 1827-1832. Il primo, un po’ più piccolo e appoggiato a mo’ di reggilibro agli altri, è Il diluvio.

foto © Gianfranco Rota

Titolo da oratorio sacro, com’è Il Diluvio Universale del Falvetti, con il testo di Domenico Gilardoni tratto dall’omonima tragedia di Francesco Ringhieri del 1783-88, diventa “azione tragico sacra in tre atti” che Donizetti mette in musica e presenta al Real Teatro di San Carlo di Napoli il 6 marzo 1830. Opera dunque da rappresentare nel periodo quaresimale, quando i teatri napoletani restavano aperti ma senza balli e con lavori di soggetti biblici. Era già avvenuto dodici anni prima col Mosè in Egitto di Rossini, la cui preghiera del terzo atto, «Dal tuo stellato soglio», riecheggia qui nella preghiera di Noè del secondo atto «Dio tremendo, onnipossente», aria solenne sostenuta da una biblica arpa. 

Anche Mayr, il maestro di Donizetti, si era adeguato presentando nel 1822 al San Carlo la sua Atalia. In questo sotto-genere le storie sacre della Bibbia si intrecciano con quelle profane e private dei personaggi, qui l’antagonismo tra Noè e Cadmo (suocero di Jafet nella tragedia del Ringhieri) che avversa la fede del patriarca, e triangoli amorosi recuperati «da qualche tragedia rubbando e impasticciando» come scrive Donizetti.

Atto I. Mentre Noè, i figli, le loro mogli e i seguaci pregano presso l’Arca, quelli di Cadmo, guidati da Artoo, cercano di incendiarla ma vengono fermati da Sela, moglie di Cadmo, fedele a Noè, che le consiglia di abbandonare il marito, per salvarsi così dal diluvio. Ada, serva di Sela e amante di Cadmo, riferisce mentendo all’amato che Sela sia innamorata di Jafet, primo figlio di Noè. Ada consiglia a Sela di recarsi da Noè, mentre i Satrapi danno la caccia a lui e al figlio. Cadmo fa arrestare Sela, Noè e Jafet, e Ada, pentita, giura a Sela che tenterà di salvarla.
Atto II. Ada chiede a Cadmo che Sela sia salvata, ma Cadmo rifiuta e la condanna a morte, e decide di sposare Ada. Noè, di fronte alla crudeltà di Cadmo, implora la vendetta divina.
Atto III. Mentre Noè e i suoi seguaci si nascondono nell’Arca, si celebrano le nozze tra Cadmo e Ada. Cadmo chiama Sela e le dice che riavrà il figlio solo se maledirà Dio davanti a tutti. Di fronte a questa scelta, combattuta tra l’amore per il suo Dio e il figlio, Sela non regge e muore, mentre le nubi si addensano e coprono la città. L’ultima scena vede le acque che da ovunque s’alzano e sommergono tutto, mentre illesa, sopra le acque, sta l’Arca.

La presenza del mitico basso Luigi Lablache come Noè dimostra l’importanza data all’opera che debuttò con qualche imprevisto ed esiti controversi e fu replicata solo sette volte nel corso della stagione. Quattro anni dopo, Il diluvio universale debuttava a Genova in una nuova revisione ma poi scompariva dal repertorio. Dopo oltre 190 anni Il Festival Donizetti Opera 2023 presenta la versione originale napoletana sotto la bacchetta esperta di Riccardo Frizza che ridà vita a questo lavoro dalla particolare struttura in pochi numeri (1) in cui corali solenni si alternano a concertati e arie con cabalette, queste ultime affidate ai soli tre personaggi principali. Se è inevitabile il confronto con il capolavoro rossiniano, è anche vero che quello di Donizetti anticipa Nabucco, il soggetto biblico di Verdi. La musica del Diluvio comunque è al 100% donizettiana, lo è l’invenzione melodica, il trattamento orchestrale e quello delle voci. Tipico dell’epoca il metodo dell’autoimprestito con brani che verranno utilizzati dal compositore in opere successive: una sezione della sinfonia confluirà in quella dell’Anna Bolena (dicembre 1830); un coro verrà ripreso nel Gianni di Parigi (1839) e un inno diventa la marcia de La fille du régiment (1840)!

Intervistato da Alberto Mattioli sul programma di sala, il Maestro Frizza sottolinea quanto il compositore bergamasco sia un precursore di tendenze che si sarebbero manifestate in seguito, come la commistione tra le componenti di pubblico e privato tipica del grand-opéra che inizia a prendere piede in quegli anni in Francia. La qualità della partitura è messa chiaramente in evidenza dal direttore bresciano che a capo dell’Orchestra Donizetti Opera fornisce una partecipe lettura con i suoi momenti strumentalmente preziosi – si è detto dell’arpa, ma a turno molti altri strumenti emergono in interventi solistici come il clarinetto che introduce la scena di Ada. Non potendo fare paragoni, la sua scelta dei tempi e dei livelli sonori sembra quella giusta nel dare risalto a questa musica sì sconosciuta, ma che alle nostre orecchie risuona con famigliarità pur nella sua originalità. Ottimo è il lavoro di concertazione con le voci dove Noè è affidato alla voce del basso Nahuel di Pierro, autorevole nei grandi declamati come nei momenti di maggior cantabilità. Elegante e nobile, la sua performance vocale manca però di un maggior lavoro sulla parola. Totalmente all’opposto è il Cadmo di Enea Scala, di chiara derivazione rossiniana per la tessitura acuta e le impervie agilità affrontate magnificamente. Il personaggio si esprime spesso con cavatine rabbiose come nella scena sesta del primo atto «Donna infida! E ancor respira!» seguita subito dopo da «Né col sangue degl’indegni | l’ira mia si estinguerà». Il tenore siciliano si dimostra a suo agio nelle parti del vilain e convincente nella presenza scenica. Più variegata è la parte di Sela, che Giuliana Gianfaldoni realizza con bellissimi legati e precise colorature. È la protagonista dell’opera, lacerata com’è tra la fedeltà al marito, l’amore per il figlio e per Dio. Tradita da chi credeva fedele, è la vera vittima e muore tristemente sola. Il giovane soprano tarantino conferma anche in questa occasione le doti vocali ed espressive rivelate nelle sue ultime prese di ruolo. I tre figli di Noè trovano adeguati interpreti in Nicolò Donini (Jafet), Davide Zaccherini (Sem), Eduardo Martínez (Cam), quest’ultimo allievo della Bottega Donizetti di giovani artisti. Le mogli hanno le voci di Sabrina Gárdez (Tesbite) anche lei allieva della Bottega, Erica Artina (Asfene) e Sophie Burns (Abra). Wangmao Wang è Artoo mentre Elena Pepi, un’altra allieva della Bottega, dimostra disinvolta presenza scenica e interessante vocalità come la rivale Ada. Eccellente e quasi un personaggio a sé per l’importanza della parte e l’impegno richiesto è il coro dell’Accademia Teatro alla Scala diretto da Salvo Sgrò. La parte del coro, già estesa qui, verrà ancora ampliata nella versione genovese.

La messa in scena di questa rarità donizettiana è affidata a MASBEDO, un duo artistico formato da Nicola Massazza e Iacopo Bedogni, che mescola linguaggi diversi. Qui si occupano di progetto, regia, regia in presa diretta e costumi. Già fuori del teatro gli spettatori sono accolti da un gruppo di giovani in impermeabili colorati e schermi con immagini delle profondità marine. Li ritroviamo in scena a ricordarci le devastazioni che facciamo subire ai nostri oceani con le reti da pesca abbandonate che sconvolgono i fondali e diventano un rischio per le specie animali. La lettura dei registi si inserisce in un più ampio discorso sullo sfruttamento dell’ambiente e sui conseguenti catastrofici cambiamenti climatici. Così come chi vive senza preoccuparsi dei possibili sconvolgimenti futuri e fa del vivere nel presente la sua scelta esclusiva, da una parte c’è il profeta biblico con il diluvio quale punizione divina, dall’altra l’apatia di Cadmo che non vuole ascoltare la minaccia e alla cui corte si mangia, si beve e si agisce nell’inconsapevolezza della morte imminente. Nella scenografia di 2050+ siamo all’ultima cena dell’umanità, con un lungo tavolo in una gabbia di metallo che rappresenta un mondo fintamente protetto. Questa stessa gabbia diventa nel finale l’arca di salvezza. Elemento essenziale dell’allestimento è la presa in diretta di quanto avviene: come nel film Festen di Thomas Vintherberg i registi sono in scena come invitati a questa cena elegante e ne rubano le immagini che vengono proiettate in tempo reale su un enorme led wall. Su quello stesso schermo scorrono anche le immagini di catastrofi naturali o disastri causati dall’uomo e il loro impatto visivo è talmente forte da costituire un elemento di distrazione rispetto alla musica tanto da indurre a chiudere gli occhi per concentrarsi sull’elemento sonoro qui schiacciato dall’impatto visivo. È talmente violento il contrasto tra la staticità della rappresentazione, quasi oratoriale, e l’ingombrante flusso di immagini, che alla fine si esce decisamente frastornati. Per questo, dopo aver salutato con calore gli artefici della musica, il pubblico ha espresso sonori dissensi verso i responsabili della messa in scena.

(1) Struttura dell’opera
Sinfonia
Atto I
1. Introduzione Oh, Dio di pietà
2. Coro No, no dal cielo altra mercè
3. Scena e cavatina (Cadmo) Impudica! E ancor respira!
4. Coro Franco inoltrate il piè
5. Finale primo Quel che del ciel
Atto II
6. Duetto (Sela, Cadmo) Non profferir parola
7. Preghiera (Noè) Dio tremendo, onnipossente
8. Finale secondo 
Atto III
9. Coro Stirpe angelica, ti bea
10. Aria (Sela) Senza colpa mi scacciasti e finale

   

Francesco Coghetti, Ritratto di Gaetano Donizetti, Collezione privata,  1832

Salome

Richard Strauss, Salome

Amburgo, Staatsoper, 29 ottobre 2023

★★★

(video streaming)

Secondo capitolo della disfunzione famigliare

Fin dove si può spingere un regista nella sua lettura di un’opera lirica? Fin dove può trascurare particolari non trascurabili della vicenda, dell’ambientazione? La domanda è stata posta innumerevoli volte, ma diventa ancora più attuale dopo la Salome di Amburgo che Dmitrij Černjakov ambienta nel tempo presente durante la festa per il compleanno di Erode, dove uno degli invitati è Jochanaan il quale non lascia mai la sala se non alla fine e con la testa ben salda sul collo. E anche il giovane Narraboth se ne va con le sue gambe. Non ci sono morti, non c’è sangue, non ci sono spade nel ricco salone dove Erode tiene esposta la sua colleziona di teste di tutti i materiali. Černjakov utilizza il testo come punto di partenza per un’esplorazione del lato oscuro della vita borghese, dove orribili segreti sono sotto gli occhi di tutti, ma tutti sono complici nel perpetuare l’oscurità.

In questa famiglia non c’è più nulla di giusto, la comunicazione non avviene più da tempo, il vuoto è riempito da feste come questa cena di vanità di una società decadente di nouveaux riches. Dopo l’Elektra di due anno fa sempre qui ad Amburgo, Černjakov sviluppa ulteriormente la sua lettura dei drammi di Strauss creando così una dilogia della disfunzione famigliare e delle tendenze autodistruttive di personalità morbose, squarciando il velo su veri e propri abissi umani in questa rappresentazione della ricca borghesesia. Invece di tracciare confini gerarchici, il regista fa sedere tutti alla stessa tavola: Erodiade tra Narraboth e gli Ebrei, accanto a lei un soldato, gli Ebrei, i Nazareni. Anche Jochanaan prende posto a capo tavola come l’ospite di riguardo ma anche corpo estraneo a quel mondo volgare e glitterato. Con le spalle al pubblico il regista ottiene l’effetto della voce proveniente dai lontani sotterranei senza però perdere neanche una parola.

Salome arriva tardi alla festa, come se avesse deciso solo all’ultimo momento. Ha messo una gonna di seta sotto una t-shirt punk, scarpe da ginnastica e un piumino. Erodiade va per abbracciarla, ma la figlia la respinge bruscamente. L’esuberante abbraccio con il patrigno Erode è per Salomè una pura presa in giro: è abituata da tempo alla sua lussuria e con la danza ciò diventa abbondantemente chiaro per tutti coloro che non l’hanno ancora capito. Naturalmente, non c’è la “danza dei sette veli”, Salome se ne sta lì in piedi completamente estranea lasciando che il patrigno guardi: per Erode il massimo del piacere non è la lenta rimozione dei veli, ma il vestire la figliastra a proprio piacimento, come una bambola. I costumi di Elena Zaytseva vestono Salomè come un clown triste dal viso bianco, Erode in un completo di seta rosa a fiori, gli altri invitati in modo estremamente appariscente o assurdo.

In un ambiente del genere, l’unico modo per Salome di fuggire è quello di fantasticare su uno degli ospiti – l’intellettuale solitario e occhialuto con la giacca di velluto a coste – per il quale prova un’attrazione tanto maggiore quanto più lui la respinge. Non è attrazione sessuale, l’uomo rappresenta l’unica via di fuga da quel mondo che lei tanto odia. Quando canta «I tuoi capelli sono come uva, come grappoli d’uva nera» si rivolge a un vecchio col riportino, proiettando su di lui un’immagine che si trova solo nel profondo delle sue fantasie di evasione. Man mano che la serata procede, Salome perde ulteriormente il senso della realtà, fantasticando di qualità che non esistono (il bianco della pelle, il nero dei capelli, il rosso delle labbra) e di baciare una testa che non è presente.

Questo approccio di Černjakov potrebbe sembrare forzatamente voyeuristico, ma è il punto di forza di una messa in scena perturbante e che si avvale della straordinaria performance attoriale di Asmik Grigorian che era sembrata insuperabile cinque anni fa a Salisburgo con Castellucci, e invece la sua potenza espressiva qui è ancora maggiore e lo scavo nel personaggio più profondo, il dramma di una solitudine incommensurabile che esplode in momenti di furia distruttrice. Enorme è il contrasto tra la figura fragile sul palco e la voce che emana dal corpo di questa giovane donna che si impadronisce voracemente del registro grave e cerca nel profondo di sé le risorse per fortissimi all’apice della scala sonora. Non solo esegue ogni nota senza errori, ma non c’è nemmeno un briciolo di trepidazione e l’energia che emana è sbalorditiva. Ma Černjakov l’ha voluta anche per le sue qualità di attrice che si sarebbe agevolmente piegata all’originalità della sua proposta. E così è stato. Se con Maria Callas il mondo della vocalità nell’opera è irreversibilmente cambiato settant’anni fa, ora con Asmik Grigorian stiamo assistendo a una rivoluzione altrettanto significativa e il pubblico l’ha perfettamente capito: calato il sipario, dopo una lunga pausa il sipario si è finalmente alzato e con esso il pubblico di fronte alla cantante, sola e ancora stordita, tributandole lunghe ovazioni. E il pubblico raramente sbaglia.

Ritornano Violeta Urmana e John Daszak, la Clitennestra e l’Egisto dell’Elettra, qui Erodiade ed Erode di grande presenza scenica e con i particolari strumenti vocali che li contraddistinguono: il mezzosoprano (dalla Lituania anche lei come la Grigorian) con la sua forza espressiva e il suo temperamento; il tenore inglese con il suo idiomatico timbro e gli sbandamenti di intonazione che se non altro caratterizzano maggiormente il personaggio. Kyle Ketelsen, un Jochanaan autorevole e convincente, si conferma l’artista elegante e raffinato che sappiamo. Oleksiy Palchykov un Narraboth lirico e giustamente disperato, mentre Jana Kurucová offre la sua bella voce al paggio di Erodiade. Oltre che ottimi cantanti si dimostrano anche preziose presenza in scena i cinque Ebrei, i due Nazareni e i due soldati.

Non pare sia piaciuto a tutti Kent Nagano, artista che è stato spesso definito un direttore freddo, analitico, ma che qui sembra un’altra persona, è come se avesse sempre represso una viscerale potenza che è esplosa tutta insieme ora in un direzione che si è dimostrata lontana dai cascami decadentistici, pervasa invece da bagliori accecanti pur senza mai essere troppo frenetica.

La domanda che ci si poneva all’inizio trova la sua risposta nella forte impressione che rimane dopo un simile spettacolo, che rimarrà nella memoria per molto tempo. Sì, ne vale la pena.

Anche l’anno prossimo è previsto un titolo straussiano con la regia di Černjakov. Ancora non si sa quale. Io ci sarò comunque. Attualmente Salome è disponibile gratuitamente su Arte.

Jacobín

Antonín Dvořák, Jacobín (Il giacobino)

Brno, Janáčkovo Divadlo, 8 ottobre 2023

★★★☆☆

(registrazione video)

«Siamo Boemi e chiedete se sappiamo cantare?»

A distanza di pochi mesi due diversi teatri europei recuperano due titoli poco conosciuti di compositori apprezzati autori di sinfonie, due titoli che videro la luce nello stesso anno, il 1889: La pulzella d’Orléans di Čajkovskij e Jakobín (Il giacobino) di Antonín Dvořák, quest’ultima una commedia lirica pastorale in tre atti il cui libretto di Marie Červinková-Riegrová utilizza i personaggi del racconto di Alois Jirásek Na dvoře vévodském (Alla corte ducale, 1877), ma in una trama di sua ideazione. Dietro sua espressa richiesta la scrittrice inserisce, ad esempio l’inno cantato dalla congregazione religiosa e il canto patriottico di Bohuš.

La prima rappresentazione dell’opera ebbe luogo il 9 febbraio 1889 al Teatro Nazionale di Praga con la direzione di Adolf Čech; nonostante il successo ottenuto, Dvořák e la sua librettista decisero di modificare sostanzialmente il lavoro: la Riegrová tagliò alcuni episodi (come la visita del conte a Benda), riscrisse il terzo atto e tra il febbraio e l’agosto del 1897 Dvořák ricompose l’ultimo e lo orchestrò, mentre le modifiche al primo atto e al secondo richiesero l’intervento del padre della Riegrová la quale, frattanto, era deceduta. La prima di questa nuova versione venne allestita nello stesso teatro il 19 giugno 1898, versione che da allora è diventata quella comunemente proposta.

Atto primo. In Boemia, all’epoca della rivoluzione francese. Il conte Wilem di Harasov ha ripudiato il figlio Bohuš per le sue idee troppo liberali, preferendogli come erede il nipote Adolf. Durante una festa, Bohuš, che ha portato la moglie Julie a conoscere il suo luogo natio, si nasconde tra la folla sotto falsa identità. Nel frattempo, il burgravio del conte corteggia la figlia del maestro di scuola Benda, Terinka, che però è innamorata di Jiří. Il burgravio sospetta di Bohuš e Julie, soprattutto perché sono arrivati da Parigi, dove si dice che il figlio del conte sia alleato dei giacobini. Con grande sorpresa di tutti, appare il Conte in persona, che conferma di non considerare più Bohuš come suo figlio e che il suo erede sarà il nipote Adolf. Adolf e il burgravio esultano.
Atto secondo. Nella scuola, Benda prova un coro di bambini e abitanti della città, insieme a Terinka e Jiří come solisti, in una cantata che celebrerà la nuova posizione di Adolf. Dopo le prove, Terinka e Jiří si dichiarano il loro amore, ma Benda torna e annuncia che sua figlia deve sposare il burgravio. Si sviluppa una discussione, ma all’improvviso torna il popolo, allarmato dalla voce che i sinistri giacobini sono arrivati in città. I cittadini fuggono terrorizzati, mentre Bohuš e Julie arrivano per chiedere a Benda se può ospitarli per qualche giorno. Lui inizialmente rifiuta, ma quando rivelano di essere Boemi che si sono mantenuti all’estero cantando le canzoni della loro terra natale, lui, Terinka e Jiří sono sopraffatti dall’emozione e sono felici di ospitarli. Il burgravio viene a corteggiare Terinka, ma lei lo respinge. Quando Jiří lo sfida, il burgravio minaccia di costringerlo a entrare nell’esercito, ma all’improvviso entra Adolf, che vuole sapere se il “giacobino” Bohuš è stato arrestato. Il burgravio tergiversa, ma arriva Bohuš stesso e rivela chi è. Lui e Adolf litigano e Adolf ordina l’arresto di Bohuš.
Atto terzo. Al castello, Jiří cerca di incontrare il Conte per dirgli che suo figlio è stato imprigionato, ma viene a sua volta arrestato per ordine di Adolf e del burgravio. La nutrice Lotinka fa entrare Julie e Benda e va a prendere il Conte. Julie si nasconde e Benda cerca di preparare il vecchio a una riconciliazione con Bohuš. Il conte, tuttavia, è ancora arrabbiato con il figlio per aver sposato e lasciato la Boemia e per le sue presunte simpatie giacobine. Benda se ne va e il conte si lamenta della sua vita solitaria e si chiede se, dopo tutto, abbia giudicato male il figlio. Fuori scena, Julie canta una canzone che la defunta contessa era solita cantare a Bohuš quando era bambino e il conte, riconoscendola e preso dall’emozione, chiede a Julie dove l’abbia imparata. Quando scopre che è stato suo figlio a insegnargliela, la sua rabbia ritorna, ma Julie riesce a convincerlo che Bohuš, lungi dall’essere un giacobino, sosteneva i girondini ed era stato condannato a morte dai giacobini. A questo punto rivela che Bohuš è in prigione e che lei è sua moglie, ma i festeggiamenti stanno per iniziare e lei se ne va. I bambini e gli abitanti della città si rallegrano e il Conte annuncia che presenterà loro il suo successore. Adolf è felicissimo, ma il Conte chiede prima a lui e al Burgravio se ci sono prigionieri che può perdonare nell’ambito dei festeggiamenti. I due ammettono a malincuore che ci sono, e Bohuš e Jiří vengono convocati. Il Burgravio capisce che il gioco è fatto quando il Conte denuncia l’intrigante Adolf e abbraccia Bohuš e Julie. Bohuš elogia la lealtà di Jiří e Terinka e il Conte unisce le loro mani. Anche Benda dà loro la sua benedizione e l’opera si conclude con un minuetto, una polka e un coro che elogia il Conte e la sua ritrovata felicità con il figlio e la famiglia.

I caratteri formali, la trama melodica e l’arco emotivo della vicenda sono intessuti di radici nazionali e popolari e Jakobín conferma così che il genere operistico incentrato su tematiche nazionalistiche, ma dal carattere aperto ed europeo, era in grado di riscuotere un vasto successo. «Come nelle sue due opere comiche precedenti, Král a uhlír Komická (Il re e il carbonaio, 1871) e soprattutto Šelma sedlák (Il contadino furbo, 1877), nel Giacobino Dvořák piega la sua spontanea vena melodica alla duttilità dell’ironia e del sorriso. Lontano dall’imponenza da grand-opéra delle sue opere eroiche e tragiche, l’evocazione naturalistica e l’autentica simpatia per i sentimenti popolari acquistano una morbidezza drammaturgica tutta particolare. Si avverte l’influenza di Smetana e talvolta di Musorgskij, ma colpisce soprattutto l’acutezza di introspezione psicologica da cui sono pervase le melodie. La freschezza della cantabilità  lirica, infatti, è qui l’elemento strutturale primario, intorno al quale si articola la scansione narrativa; ciò deriva anche dallo stretto contatto tra il compositore e la librettista, che spesso aggiungeva episodi e frasi o modificava la scansione ritmica del testo per adeguarsi a melodie e idee musicali già abbozzate da Dvořák» (Lidia Bramani).

Il momento più commovente dell’opera, quasi una professione di fede da parte dell’artista, si ha alla fine del secondo atto quando Bohuš e Julie raccontano: «Jen ve zpěvu, jsme našli úlevu, by naděj vzňal, Bůh žití žal, nám písně svaté kouzlo dal» (Solo nel canto abbiamo trovato sollievo, sarebbe sorta la speranza, Dio che vive il dolore, ci ha dato la sacra magia del canto), un tema struggente che viene riprese da Benda, Terinka e Jiří e scatena il commosso applauso del pubblico.

Jakobín era stato prodotto dal Narodní Divadlo di Praga nel 2011, ora tocca al Janáčkovo Divadlo di Brno rinfrescare il ricordo di quest’opera, praticamente sconosciuta al di fuori della sua patria, con una affettuosa produzione di Martin Glaser con l’impianto scenografico naïf di Pavel Borák e i costumi, un po’ ridicoli, di David Janošekin. Nel cast nomi quasi del tutto sconosciuti, in cui l’unica voce che si fa notare per bellezza della linea di canto ed espressività è quella di Pavla Vykopalová, Julie. Ottimi come sempre i cori, specialmente quello di bambini. Jakub Klecker dirige con partecipazione l’orchestra del teatro sottolineando le melodie accattivanti e il colore nazionale della partitura di questo Dvořák meno drammatico del solito.

L’amore dei tre re

Italo Montemezzi, L’amore dei tre re

Milano, Teatro alla Scala, 12 novembre 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Il bacio della morta

L’amore dei tre re, l’opera lirica più famosa di Italo Montemezzi, andò in scena al Teatro alla Scala di Milano il 10 aprile 1913 diretta da Tullio Serafin. Il libretto di Sem Benelli era tratto dal suo omonimo dramma per il teatro. Allora ricevette recensioni contrastanti, ma divenne rapidamente un successo internazionale soprattutto a New York dove rimase in repertorio per trent’anni di fila. I maggiori direttori d’orchestra hanno dimostrato la loro ammirazione per questo lavoro, da Toscanini a Marinuzzi a De Sabata, che la diresse l’ultima volta alla Scala nel 1953. Dopo settant’anni viene ora riproposta dal teatro che la tenne a battesimo e che pochi anni fa aveva riesumato La cena delle beffe dello stesso librettista. Questo è lo spettacolo che chiude la stagione del teatro milanese che a Sant’Ambrogio ripartirà col Don Carlo.

Atto primo. Siamo nel medioevo, in un remoto castello d’Italia quarant’anni dopo un’invasione barbarica. La scena rappresenta il terrazzo sulla torre del castello. È notte, e una lampada accesa serve da segnale per il ritorno di Manfredo. Entra Archibaldo, vecchio guerriero divenuto cieco, accompagnato dal paggio Flaminio che lo sorregge e lo guida. Archibaldo attende il figlio Manfredo che deve tornare da un assedio al castello nemico e ricorda le glorie passate e gli ardori giovanili; poi scoraggiato dal fatto che Manfredo non giunge torna indietro con Flaminio che nel frattempo, imbrogliando Archibaldo che è giunta l’alba, spegne la lanterna per mettere in guardia Fiora e Avito. Infatti Flaminio copre complicemente la relazione fra i due. Appaiono Fiora e Avito; stanno per salutarsi dopo la notte d’amore, erano promessi sposi, ma ella era dovuta andare in sposa a Manfredo per suggellare la pace tra invasori e vinti. Si scambiano dolci parole, ma Avito si sgomenta al vedere spenta la lanterna, temendo che qualcuno sia giunto la notte a controllarli. La paura si rivela certezza al giungere di Archibaldo; Avito fugge, Archibaldo chiama Fiora e la interroga con chi parlava perché egli non può vedere Avito. Flaminio è solidale con i due e dichiara che Fiora è sola. Fiora dissimula abilmente alle interrogazioni, quando squillano le trombe e Flaminio annuncia il ritorno di Manfredo. Archibaldo sospettoso invita Fiora a tornare in camera per presentarsi al marito più tardi. Entra Manfredo, che si presenta come un valoroso cavaliere medioevale, contento di rivedere il padre e la giovane sposa. Ella si presenta con dolcezza affettata, avallata dalla repressa rabbia di Archibaldo. Manfredo è felice di riabbracciare il suo «tesoro aulente» e si incammina verso la camera da letto. Archibaldo sente e rimane inorridito e implora il Signore di renderlo cieco anche nel sentire.
Atto secondo. La stessa scena del primo atto. Manfredo è in procinto di partire per ritornare a combattere e sta salutando la moglie che si dimostra fredda con lui e verso la sua parola commossa. Ella si dimostra finalmente toccata quando Manfredo le esprime il desiderio di vederla salutarlo dalla torre con il suo velo non appena sarà partito, dato che così si sentirebbe sollevato dalla sofferta lontananza da lei. Fiora commossa promette e Manfredo parte. Fiora rimane sola, pensierosa, quando le si presenta Avito che era sempre rimasto lì, travestito come una guardia del castello. Stavolta però ella si dimostra ostile verso le profferte amorose del giovane, per di più inopportune dato il momento. Egli, colpito e amareggiato vuole partire. Il dialogo è interrotto da una ancella che consegna il velo, mentre Avito si nasconde. Rimasti soli, Avito deluso annuncia a Fiora la sua partenza, ma lei lo richiama concedendogli di baciare la sua veste, mentre dalla torre sventola il velo. Avito rinasce e incalza le resistenze di Fiora sempre più fino a vincerla definitivamente e a baciarla. Travolti dalla passione i due rimangono in un’estasi eterea, quando improvvisamente giunge Archibaldo il quale stavolta avverte bene la presenza di Avito e si adira. Avito fugge ma Archibaldo ha capito che Fiora non era sola. Flaminio annuncia il ritorno di Manfredo, il quale preoccupato per non aver più visto Fiora salutarlo col velo temendo sia caduta dalla torre vuole sincerarsi sulla situazione di lei. Archibaldo manda via Flaminio e rimane solo con Fiora. Alle domande del vecchio stavolta Fiora reagisce violentemente e rivela tutto, ma non il nome dell’amante. Archibaldo, sopraffatto dalla rabbia la afferra alla gola e la uccide. Giunge Manfredo, il quale si dispera alla vista del cadavere di Fiora e rimane sorpreso dalla confessione del padre. Sebbene sia stato messo al corrente della causa non è in grado di provare odio, ma solo pietà. Tuttavia Archibaldo reclama vendetta contro il traditore e medita il modo di compierla. Chiede al figlio di fargli strada col suono dei suoi passi, si carica sulle spalle la sua vittima e lo segue.
Atto terzo. Nella cripta del castello il corpo di Fiora è adagiato sul giaciglio e intorno vi sono popolani che la vegliano. Quando stanno per lasciare il luogo entra Avito, costernato e sopraffatto dal dolore. Avito rimasto solo mira l’amata, la esorta a risvegliarsi: non può credere sia morta, ma poi si arrende all’evidenza. Vuole baciarla per l’ultima volta, ma quando lo fa si sente mancare e non può più camminare. Entra Manfredo che riconosce Avito. Gli rivela che Archibaldo ha cosparso la bocca di Fiora con un potente veleno. Avito accetta il suo destino con rassegnazione, ma Manfredo gli chiede se Fiora lo amava e lui, in un ultimo impeto gli risponde «come la vita che le fu tolta, no, di più… di più…», poi lo esorta a compiere la vendetta giacché sente sopraggiungere la morte. Manfredo, invece, lo adagia a terra accompagnandolo gentilmente: egli non riesce a odiarlo, perché amato dalla sua stessa amata. Quindi si rivolge al corpo di Fiora, supplicandola di non lasciarlo alla sua solitudine, vuole seguirla per sempre e la bacia, barcollando vittima del veleno. Giunge Archibaldo, ansioso di udire il misterioso predatore nella morte; lo abbraccia ma Manfredo gli rivela la sua identità con un ultimo sforzo. Archibaldo inorridisce disperato mentre il figlio gli muore fra le braccia e rimasto solo e condannato al suo buio perpetuo grida «Manfredo! Anche tu, dunque, senza rimedio sei con me nell’ombra!».

Il medioevo, di moda all’epoca, è l’ambiente per il dramma a fosche tinte del testo di Benelli intriso di decadente dannunzianismo e le cui didascalie avrebbero fatto la gioia di Paolo Poli. Se il libretto sfiora spesso il ridicolo, secondo il gusto moderno, su tutt’altro livello è invece la partitura, lussureggiante, complessa, ricercata, preziosa. Come nel Pelléas et Mélisande di Debussy l’orchestra rivela spesso il sottotesto delle interazioni tra i personaggi seguendo il modo in cui i personaggi si muovono in stati di passione incontrollata e diventando allora trascendente, onirica. Scrive Francesco Maria Colombo: «Montemezzi non è, ovviamente, Puccini né ha la fantasia coloristica di certe partiture di Respighi (altro autore di cui le partiture operistiche meriterebbero libretti meno atroci); ma chi, tra gli operisti del suo tempo è così capace di creare atmosfere magiche, notturne, incantate, fosche, misteriose, e di far nascere da quelle atmosfere (cui concorrono insieme armonia e timbro, laddove l’invenzione melodica è meno spiccata) sia il senso del dramma, sia la parola scenica (al punto da fare spesso dimenticare l’oscenità dei versi)? […] Il lessico di Montemezzi è sostanzialmente tardoromantico e si avvale di tutte le risorse del cromatismo: non agisce nel senso dello sviluppo, cioè di un percorso armonico che deduce di volta in volta nuove soluzioni; agisce invece in senso atmosferico, con accordi alterati che valgono non all’interno di un processo in divenire, ma in sé, come segnali di un particolare clima espressivo, come semantemi capaci di sprigionare stati d’animo, situazioni, piccoli nuclei drammatici che si risolvono in sé epperò slittano continuamente l’uno nel prossimo, giustapponendosi (oddio, mi metto a scrivere anch’io come Sem Benelli…) in un continuo cangiare di evocazioni emotive». 

Subentrato all’inizialmente previsto Michele Mariotti, Pinchas Steinberg sfrutta al massimo la qualità dell’orchestra scaligera e nello stesso tempo preserva il decadentismo e le sonorità turgide della partitura che domina con mano sicura, il tutto senza esagerare e sorreggendo nel miglior modo possibile le necessità del canto che qui procede secondo un declamato stentoreo e ripetitivo da cui non riescono a emergere veri squarci lirici. L’annunciato a inizio stagione Günther Groissböck (!) è stato sostituito dal basso russo Evgenij Stavinskij che delinea un Archibaldo un po’ legnoso. Non che manchi la potenza o il colore nella voce, ma è il personaggio che rimane incolore. Nella sua impervia tessitura l’Avito di Giorgio Berrugi risulta spesso troppo enfatico mentre il Manfredo di Roman Burdenko un po’ grezzo. Giorgio Misseri è un Flaminio efficace, ma è in Chiara Isotton che si trova il meglio del cast: fraseggio elegante, voce ampia, intenzioni espressive ben realizzate, la sua performance sarebbe ancora più apprezzabile con una presenza scenica che qui è poco convincente anche a causa della regia di Àlex Ollé e del costume di Lluc Castells che la infagotta in un maglione grigio e sformato su una sottoveste dal colore indefinito. Il regista sceglie un’ambientazione simbolica della vicenda: nella scena nuda e nera di Alfons Flores il pavimento si trasforma in due rampe di scale che costituiscono la torre prima e poi la cripta in cui giace il catafalco della donna. Oltre al letto del primo atto, sono presenti in scena solo delle catene che scendono dall’alto – ben ottocento, per un peso complessivo di 13 tonnellate di ferro – che formano un specie di labirinto per i personaggi o gabbia per la donna. Più che al decadentismo fin-de-siècle il regista pensa alla contemporaneità, all’ennesimo femminicidio di una donna qui concupita da ben tre uomini – suocero, marito e amante – che provano per lei un amore morbosamente possessivo. La contemporaneità è presente anche nei costumi neri e severi degli uomini, ma dà un certo fastidio vedere il vecchio Archibaldo utilizzare un sacchetto di plastica del supermercato per il veleno e i guanti monouso impiegati per avvelenare le labbra della morta – un’invenzione degna di Carolina Invernizio.

È difficile pensare che dopo centodieci anni quest’opera ritorni nei cartelloni dei teatri lirici, troppo lontana quant’è dal nostro gusto. E ancora più improbabile che lo facciano le altre opere del compositore: Giovanni Gallurese, L’Hellera, La nave, L’incantesimo… Ma la musica de L’amore dei tre re, magari nella veste di una suite orchestrale, non sfigurerebbe affatto nei programmi dei concerti sinfonici.