Mese: Maggio 2014

Semele

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★★★★★

Chi troppo vuole…

“Oratorio profano” può essere definito questo lavoro della maturità di Händel (HWV58, 1744) e come oratorio è infatti considerato dai cataloghi, preceduto dal Messiah e dal Samson, rispettivamente con i nume­ri d’opus 56 e 57. Come per l’altro oratorio Theodora è ora invalsa l’abitudine di presentarlo in forma sce­nica. E la scena la regge benissimo questa pro­duzione dell’Opera di Zurigo del 2007 che si avvale del prestigio di interpreti come William Christie sul podio, Robert Carsen alla regia e Cecilia Bartoli protagonista.

La vicenda è quella del mito della figlia di Cadmio e Armonia, Semele appunto, che viene rapita e concupita da Gio­ve, ma non bastandole i favori del sommo, la ragazza aspira all’immortalità. Carsen nell’opuscolo allegato al disco parla della “sindrome di Semele” o come dice con la solita arguzia Oscar Wilde: «Quando gli dèi vogliono punirci, esaudiscono le nostre pre­ghiere». Vanità e ambizione sfrenata condannano la fanciulla e come monito all’umanità tutta, questo sì può essere considerato tema da Oratorio.

Il bellissimo libretto di William Congreve mescola dèi, semidèi e umani trasformando la vicenda mitologica in una social comedy e il regista ne fa una spiritosa vicenda gossip da Daily Mirror, con scappatelle regali e feroci gelosie. La scena è estremamente spoglia: sedie dorate e una pas­satoia rossa per la scena del rito del primo atto, un lettone per il nido d’a­more di Giove e Se­mele.

La parte del titolo sembra scritta apposta per la voce e la figura di Cecilia Bartoli. Come direbbe Figaro «… grassotta, genialotta, ca­pello nero…» e bassotta, potremmo aggiungere: la Giuno­ne di Birgit Remmert la sovrasta in altezza di un buon mezzo me­tro, ma in sce­na ciò è atto a evidenziare il dislivello sociale che separa le due fi­gure facendo sembrare an­cora più vana l’ambizio­ne della giovane.

Le arie che il compositore riserva alla sua protagonista sono tra le sue pagine più riuscite. La linea vocale di «With fond desi­ring» con quell’accompagnamento trasparente degli archi che qui il direttore William Christie con l’orchestra La Scintilla rende in modo mi­rabile e soprattut­to la famosa aria «Myself I shall adore», con tutti quei trilli, note ribattute, volatine, agilità, abbellimenti, cadenza con variazioni, ecc. sono pane per i denti della Bartoli che strappa al pubblico dell’opera di Zurigo un frago­roso applauso a scena aperta.

Non da meno è il fascinoso Gio­ve di Charles Workmann che rende con grande eleganza la sua meravigliosa aria «Whe­re’er you walk», mentre Birgit Rem­mert, Giunone come s’è detto, si rita­glia un ruolo spassoso come so­vrana gelosa e vendicatrice.

Ottima ripresa video, nessun extra.

  • Semele, Moulds/Visser, Karlsruhe, 17 febbraio 2017
  • Semele, Junghänel/Kosky, Berlino, 12 maggio 2018

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Deidamia

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★★★★☆

Il Maestoso, il Magnificente e il Sublime

Ultima delle 39 opere italiane di Händel, andata in scena nel 1741 su libretto di Paolo Antonio Rolli, il “melodrama” Deidamia si rifà agli eroi omerici con una trama relativamente semplice: il giovane Achille, per sfuggire alla morte predetta dall’oracolo se avesse partecipato alla guerra di Troia, è allevato sull’isola di Sciro come una fanciulla di nome Pirra dal re Licomede e si innamora di Deidamia, sua figlia. Ulisse e Fenice, ambasciatore greco, si recano sull’isola per smascherare l’eroe e convincerlo a partecipare alla guerra. Durante una caccia, Achille svela la propria identità e quando Ulisse offre in dono alle fanciulle stoffe, gioielli e armi, Achille sceglie queste ultime e lascia Deidamia per seguire i greci alla guerra.

Il tono dell’opera è leggero e coerente con la morale cantata in coro alla fine dell’opera: «Non trascurate, amanti, / gl’istanti del piacer: / volan per non tornar».

Come è stato osservato «Le ultime opere di Handel hanno una prospettiva diversa, e anche un diverso stile musicale da Giulio Cesare o da Alcina, così come gli ultimi quartetti di Beethoven sono diversi da quelli dell’op. 59. Il confronto non è azzardato: le ultime opere di Handel sono meno dirette ed estroverse delle prime. La stessa cosa si potrebbe dire degli ultimi oratorii in confronto ai primi» (Donald Burrows).

Lo smisurato palcoscenico del Muziektheater di Amsterdam è l’ideale per accogliere l’ariosa e coloratissima scena di Paul Steinberg che rappresenta la superficie del mare in cui appare all’inizio un sottomarino che trasporta Ulisse, sotto le mentite soglie di Antiloco, e Fenice. Ma c’è posto anche per la silhouette dell’opera di Sydney, quasi balena dalle fauci spalancate, e per un’isola con palma incorporata in questa produzione del 2012 della Nederlandse Opera. Durante le arie e i da capo la regia di David Alden si sfoga in azioni coreografiche, di Jonathan Lunn, o sceniche spiritose anche se non sempre di buon gusto e talora inutili (come la quasi onnipresente finta violoncellista), ma nel complesso si tratta di una messa in scena ironica e divertente.

Sally Matthews è una Deidamia di gran bella presenza, ha una voce dal timbro vellutato, ma non lesina le acrobazie vocali quando è ora. Ottimo il soprano Olga Pasichnik come Achille. Completa il terzetto di voci femminili l’Ulisse di Silvia Tro Santafé eccellente per la sicurezza della sua vocalità. Ineguale e manierata invece la Nerea di Veronica Cangemi. Il basso Umberto Chiummo e il baritono Andrew Foster-Williams da parte loro disegnano con una spiccata caratterizzazione i ruoli di Licomede e Fenice rispettivamente.

Punto di eccellenza della produzione è la partecipe direzione di Ivor Bolton alla guida del Concerto Köln, una delle migliori orchestre barocche in giro.

Il blu-ray esalta l’immagine in alta definizione e i colori luminosi e iperrealisti della scenografia e dei costumi. Sottotitoli in italiano? Neanche per sogno.

Serse

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★★★★☆

 Una divertente commedia

La notorietà della terz’ultima opera del compositore sassone si deve alla popolarità dell’aria iniziale, che nella versione orchestrale è conosciuta come “largo di Händel” pur trattandosi di un larghetto, in cui il folle tiranno che salì al trono di Persia nel 485 a.C. è presentato per la dichiarazione d’amore che riserva a un platano del suo giardino. Nella versione della stampa inglese del libretto una premessa si affretta a dichiarare che «Some imbecilities, and the temerity of Xerxes (such as his being deeply enamour’d with a plane tree, and the building a bridge over the Hellespont to unite Asia to Europe) are the basis of the story. The rest is fiction.» (Alla base della storia ci sono alcune bizzarrie di Serse, come il suo amore per un platano o la costruzione di un ponte sull’Ellesponto per unire Europa e Asia. Tutto il resto è invenzione).

Il libretto, adattato da ignoto da quello di Silvio Stampiglia per una omonima precedente opera di Giovanni Bononcini del 1694 a sua volta basato su un altro Xerse di Nicolò Minato creato da Francesco Cavalli nel 1654, ha spunti di comicità più o meno volontaria, a cominciare dalla intricata vicenda. Il capriccioso Serse si è invaghito di Romilda, una ragazza borghese che ama, ricambiata, Arsamene, fratello di Serse. Anche Atalanta, sorella di Romilda, ama Arsamene mentre Amastre, una principessa straniera promessa a Serse, si è travestita da soldato per seguire in incognito come si mette la faccenda. Nel personaggio di Elviro, servo di Arsamene, si può poi quasi intravedere il Leporello che verrà cinquant’anni dopo e anche Atalanta ha una certa vivacità mozartiana soprattutto nell’aria che conclude il primo atto.

Atto I. Re Serse, alzando lo sguardo dalla contemplazione del suo amato platano, è colpito dal canto di Romilda, la figlia del suo vassallo Ariodate, comandante del suo esercito. Egli dice al fratello Arsamene di parlare a Romilda del suo amore, ma Arsamene e Romilda si amano e quindi egli si rifiuta di farlo. Serse decide allora di corteggiarla. Arsamene parla a Romilda della passione di Serse nei suoi confronti. Ma anche Atalanta, sorella di Romilda, è innamorata di Arsamene e quindi decide di incoraggiare il Re nel suo intento. Romilda però si oppone alle avance di Serse, il quale decide allora di bandire Arsamene. Giunge Amastre, la fidanzata di Serse, abbandonata da lui per Romilda. Amastre è una principessa straniera che era stata promessa in sposa a Serse ed è molto triste lontano dal futuro marito. All’insaputa del padre si è mescolata all’esercito di Serse, travestita da soldato. Ella lo osserva mentre riceve Ariodate alla testa del suo esercito di ritorno da una campagna vittoriosa. Il re annuncia che ricompenserà Ariodate provvedendo alle nozze di Romilda con un membro della famiglia reale. Amastre, udendo il re che parla della nuova passione di Serse, decide allora di non rivelare chi essa sia e giura vendetta. Arsamene invia una lettera a Romilda facendola recapitare dal suo servitore EIviro. Sebbene Atalanta non riesca a convincere Romilda che Arsamene le è infedele, decide di insistere nel suo intento dì conquistare il suo amore.
Atto II. Elviro, travestito da venditore di fiori, racconta ad Amastre della passione di Serse per Romilda. Egli consegna la lettera di Arsamene ad Atalanta, la quale promette di darla a Romilda e dice ad Elviro che la sorella ha ceduto alle proposte di Serse. Atalanta recapita poi la lettera al Re facendogli credere che è per sè e che è lei in realtà la donna della quale Arsamene è innamorato, mentre l’amore per Romilda è tutta una finzione. Serse mostra la lettera a Romilda, la quale sembra convinta del fatto che sia indirizzata ad Atalanta, pur continuando a respingere i tentativi di seduzione del Re. Amastre tenta il suicidio, ma viene fermata da Elviro. Lo stesso Elviro riferisce ad Arsamene quanto gli è stato raccontato da Atalanta; cioè che Romilda avrebbe ceduto al Re. Serse svela l’esistenza del ponte che mette in comunicazione con l’Europa, fatto costruire per consentire un’invasione armata. Trova Arsamene e gli comunica di sapere che in realtà è Atalanta la donna di cui è innamorato, ma egli afferma di amare Romilda. Elviro intanto assiste al crollo del ponte a causa di una tempesta. Amastre assiste all’ennesimo tentativo di seduzione di Serse verso Romilda. Ella interviene e riesce a sfuggire all’arresto solo grazie a Romilda che convince la guardia a rilasciarla. Romilda giura di restare fedele ad Arsamene.
Atto III. Romilda ed Arsamene scoprono che Atalanta ha complottato alle loro spalle per separarli. Atalanta si dichiara sconfitta e Arsamene si nasconde, mentre Serse comincia a minacciare Romilda, che impaurita accetta di sposarlo se suo padre darà il proprio consenso. Serse allora inizia a cercare Ariodate, mentre Arsamene si infuria con Romilda. Ottenuto da Ariodate il consenso per fare sposare Romilda con un membro della famiglia reale, Serse non rivela di essere lui stesso il futuro sposo, preferendo sposarsi il più presto possibile, prima che tutti contestino la mancanza di sangue reale della ragazza. Ariodate è convinto che Romilda sia destinata ad Arsamene. Serse torna da Romilda e rivendica i suoi diritti su di lei, ma lei gli dice di avere dei dubbi sulla propria virtù. Al che Serse è furibondo e ordina che suo fratello venga giustiziato. Romilda tenta allora di avvertire Arsamene del pericolo al quale egli sta andando incontro, ma lui pensa che lei stia cercando di liberarsi di lui. Ariodate attende gli sposi e quando Romilda ed Arsamene giungono, egli mette loro fretta affinché il matrimonio venga subito celebrato. Arriva Serse, ma è ormai troppo tardi: gli comunicano che essi sono ormai marito e moglie. Serse ordina allora ad Arsamene di uccidere Romilda, ma Amastre si fa avanti e rivela la propria identità e lo perdona per esserle stato infedele. A quel punto egli non può fare altro che acconsentire a sposarla.

Händel riveste la vicenda di musica ineffabile e con un taglio molto moderno dove supera il tradizionale modello dell’aria con da capo a favore di brevi spunti melodici intrecciati a recitativi e pezzi di insieme. L’orchestrazione è molto ricca con numerosi strumenti a fiato mentre i cori hanno la stessa festosa solennità che avranno quelli del Messiah tre anni dopo. Il pubblico dell’epoca non sembrò però apprezzare l’esperimento del compositore e l’opera dopo cinque rappresentazioni fu dimenticata per quasi due secoli.

L’allestimento del 1985, qui ripreso tre anni dopo, celebra i trecento anni della nascita del musicista. Qui siamo alla English National Opera di Londra dove tutte le opere sono date in lingua inglese per cui i leggiadri versi di Nicolò Minato e Silvio Stampiglia «Ombra mai fu | di vegetabile | cara ed amabile| soave più» diventano i più prosaici «Under thy shade | dear beloved tree | beauty and harmony | are both displayed». È lo stesso regista Nicholas Hytner, futuro direttore del National Theater, a farne la traduzione. Questo suo fortunato allestimento è ancora in scena oggi e la freschezza e l’umorismo con cui Hytner propone questa divertente commedia assieme alla scenografia di David Fielding, che ricrea i Vauxhall Gardens compresi di statua di Händel, continuano a incantare il pubblico. Charles Mackerras dirige un’orchestra non barocca con mano non sempre leggera su una propria revisione della partitura.

Il ruolo del titolo, che in origine fu del castrato Caffarelli, in questa edizione è affidato alla perfezione vocale del mezzosoprano Ann Murray, ma adeguati si rivelano anche gli altri interpreti inglesi pur non specialisti del canto barocco.

Tre ore di musica stipate su un unico disco, audio e immagine in 4/3 sono di conseguenza quello che sono. Sottotitoli in italiano e nessun extra.

  • Xerxes, Junghänel/Herheim, Düsseldorf, 29 gennaio 2019
  • Serse, Dantone/Vacis, Reggio Emilia, 31 marzo 2019

Alcina

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★★★☆☆

Anja Harteros nel ruolo che fu cavallo di battaglia della Sutherland

È incredibile pensare che l’opera barocca fosse assente da oltre cinquant’anni dai programmi di uno dei teatri d’opera più attivi al mondo, eppure dall’Incoronazione di Poppea del 1960, all’Opera di Stato di Vienna non c’era più stato uno spettacolo che si riferisse all’epoca pre-classica. Ci voleva la messa in scena di Adrian Noble perché nel 2010 l’opera di Händel fosse presentata in una produzione di lusso con un esperto quale Marc Minkowski sul podio, Les Musiciens du Louvre con i loro strumenti d’epoca e una schiera di cantanti specialisti di questo repertorio.

Alcina, libretto anonimo ispirato dall’analoga opera del Broschi L’isola di Alcina, debuttò con grande successo nel 1735 a Londra e da allora è uno dei suoi lavori più rappresentati di Händel. Oronte ama Morgana, Morgana ama Ricciardo che altri non è che Bradamante, Ricciardo/Bradamante ama Ruggiero, Ruggiero ama Alcina, la maga che quando si stufa di un suo amante lo tramuta in animale o in una delle rocce di cui è disseminata la sua isola. Questa catena aperta è il nucleo della terza opera del trittico ariostesto händeliano iniziato con Rinaldo e proseguito con Ariodante.

Atto I. Bradamante e Melisso giungono all’isola di Alcina per liberare Ruggiero. Arrivano su una spiaggia deserta e inospitale dove li accoglie Morgana, sorella della maga, che si invaghisce di Bradamante, essendo lei vestita in abiti maschili e facendosi passare per suo fratello Ricciardo. L’isola si rivela un luogo splendido e vengono ricevuti da Alcina che li accoglie benevolmente. Nel suo seguito c’è Ruggiero, che ha dimenticato ogni cosa per magia, e il giovanissimo Oberto, figlio di Astolfo, che cerca invano il padre per l’isola. Bradamante cerca di farsi riconoscere dall’amato, ma egli la sbeffeggia. La situazione si complica quando Oronte, innamorato di Morgana, viene a sapere che lei si è invaghita di Ricciardo-Bradamante, e si vendica dicendo a Ruggiero la falsa notizia che il nuovo cavaliere ami Alcina, da lei riamato.
Atto II. Melisso si traveste da Atlante, vecchio maestro di Ruggiero, e con un anello magico spezza l’incantesimo: Ruggiero torna in sé e si prepara a fuggire con Bradamante ma Oronte svela la loro fuga. Morgana scopre che l’amato Ricciardo è una donna e prega Alcina di vendicarla. Alcina, che ancora ama Ruggiero, non riesce ad invocare gli spiriti infernali.
Atto III. Intanto Oberto chiede ancora ad Alcina dove sia suo padre e la maga risponde che per saperlo deve uccidere un leone che gli si presenta davanti. Ma il giovane riconosce nel leone suo padre Astolfo e volge le sue armi contro la maga. Ruggiero riesce a liberare le vittime della maga che, vedendo l’imminente sconfitta, giura di liberare ogni persona sua prigioniera. Ruggiero rifiuta e rompe l’urna magica da cui provenivano i suoi poteri magici e Alcina e Morgana svaniscono e con esse i loro incantesimi: Oberto ritrova finalmente il padre Astolfo, e sassi, piante e animali si ritramutano in esseri umani, che festeggiano la loro ritrovata libertà.

Il regista immagina la storia come una recita privata allestita da Georgiana Cavendish, Duchessa del Devonshire (1757-1806) famosa per le soirées nella sua casa londinese, che affida ai diversi parenti i ruoli della vicenda e per sé riserva la parte della maga ammaliatrice. Nella produzione viennese il ruolo è dell’altissima e regale Anja Harteros che sfoggia un’emissione continua e senza vibrato in tutti i registri della sua voce. Impressionante la sua resa dell’ultima aria del secondo atto giustamente salutata con un boato dal pubblico viennese. Vesselina Kasarova come Ruggero offre un’interpretazione eccessivamente manierata e a tratti per lo meno “bizzarra” mentre la Morgana di Veronica Cangemi è spesso stucchevole e dalla voce troppo leggera. Kristina Hammarström come Bradamante e Adam Plachetka, Melisso, entrambi convincenti, sono le altre punte del cast. Come Oberto la città dei giovani cantori può sfoggiare uno dei Sängerknaben di Sankt Florian, un quindicenne di tecnica sbalorditiva per l’età.

Insignificanti le coreografie di Sue Lefton, stucchevoli al pari di quelle che ci vengono propinate al concerto del primo dell’anno da Vienna. Minkowski dirige da par suo la bella orchestra di Grenoble, i cui membri salgono spesso in scena con i cantanti nelle arie che prevedono l’accompagnamento di uno strumento solista. Negli extra un documentario dietro le quinte abbastanza inconsistente.

  • Alcina, Marcon/Mitchell, Aix-en-Provence, 10 luglio 2015
  • Alcina, Alarcón/Bösch, Ginevra, 15 febbraio 2016
  • Alcina, Haïm/Loy, Parigi, 20 marzo 2018
  • Alcina, Fasolis/Poda, Losanna, 6 marzo 2022
  • Alcina, Capuano/Michieletto, Firenze, 18 ottobre 2022

Ariodante

Georg Friedrich Händel, Ariodante

Spoleto, Teatro Caio Melisso, giugno 2007

★★★☆☆

«Scherza infida | in grembo al drudo, | io tradito a morte in braccio | per tua colpa ora men vo»

Avesse scritto anche solo quest’aria, in cui la voce dialoga con i fagotti in pianissimo su un basso pizzicato, Händel sarebbe comun­que uno dei massimi compositori d’opera: quattro versi per dodici mi­nuti di musica sublime e rarefatta in cui l’azione rimane sospesa per farci partecipi del do­lore, del disinganno, dell’angoscia di chi si sente tradito in quel che ha di più caro.

In Ariodante (1734) su adattamento anonimo di un libretto del Salvi (1708) ispirato dai canti V e VI dell’Orlando Furioso, questa è l’aria perno dell’opera in cui le vicende fino a quel mo­mento felici e festose si volgono in tragedia e dolore e neanche il lieto fine di prammatica riu­scirà a dissipare il gusto amaro del finto tradimento inscenato sotto i nostri occhi.

L’intreccio non prevede vicende secondarie ed è tutto concentrato sull’inganno tessuto da Polinesso, duca di Albany, il quale vuole impedire Il matrimonio tra il principe Ariodante e Ginevra, figlia del re di Scozia ed erede al trono.

Atto I. Gabinetto reale. Ginevra attorniata da paggi e damigelle, tra le quali Dalinda, si rallegra per il prossimo coronamento del suo sogno d’amore . L’infido duca d’Albania, Polinesso, si presenta a Ginevra dichiarandole a sua volta il proprio amore, ma viene da lei sdegnosamente respinto. Partita la principessa, Dalinda rivela al duca sia la notizia delle prossime nozze di Ginevra, sia l’amore che è invece lei stessa a provare per lui. Rimasto solo Polinesso scopre la sua natura di calcolatore interessato al potere e studia di utilizzare il sentimento di Dalinda per ordire un complotto contro il suo rivale. Giardino reale. Mentre Ariodante, da solo, è intento a vagheggiare il suo sentimento, viene raggiunto da Ginevra, e i due si scambiano reciproche dichiarazioni d’amore. Essi sono però sorpresi dall’arrivo del re che conferma le sue benedizioni nei confronti della loro unione, tra le manifestazioni di gioia di Ginevra mentre si allontana. Il re dà quindi disposizioni ad Odoardo per la celebrazione delle nozze e manifesta ad Ariodante i segni del suo affetto paterno e della sua stima. Rimasto di nuovo solo, è la volta di quest’ultimo a manifestare tutta la sua contentezza. Partito il giovane, entrano in scena Polinesso e Dalinda: il duca si dichiara disposto ad offrire alla dama il suo amore, ma le chiede di accoglierlo quella stessa sera, travestita da Ginevra, davanti agli appartamenti della principessa, e di farlo così entrare nelle stanze di lei; egli non rivela, peraltro, il perché della messa in scena, senza che la ragazza riesca ad opporsi alla sua richiesta. Partito il duca, entra in scena Lurcanio, fratello di Ariodante, ed è ora il suo turno nel dichiarare il proprio amore a Dalinda, la quale però, sia pure con grazia, lo respinge. Rimasta sola la malaccorta dama si rallegra invece per il suo amore per Polinesso. Valle deliziosa. Mentre Ariodante si aggira estasiato per la valle, appare anche Ginevra e i due, accompagnati da una lieta sinfonia, invitano ninfe, pastori e pastorelle del luogo ad unirsi alla loro gioia. L’atto si chiude con i rinnovati canti d’amore dei due protagonisti accompagnati dal coro e con un ballo alla francese.
Atto II. Notte con lume di luna (sullo sfondo si intravede la porta segreta del giardino reale da cui si accede agli appartamenti di Ginevra). Polinesso si aggira ansioso sperando nell’arrivo di Ariodante. Quando questi giunge, appare anche in lontananza Dalinda sotto le spoglie di Ginevra: Ariodante mostra a Polinesso tutta la sua gioia nel vederla, ma il duca sostiene perfidamente che è a lui che la principessa “dispensa amorosi contenti”, e si offre di darne dimostrazione concreta all’infuriato giovane, mentre anche Lurcanio, entrato nel frattempo in scena, assiste non visto agli accadimenti. Ariodante minaccia di morte il duca se le sue parole si riveleranno menzognere, ma, quando lo vede ammesso agli appartamenti di Ginevra, è a sé stesso che vorrebbe dare la morte, se l’intervento del fratello, che gli strappa la spada, non glielo impedisse. Rimasto solo e senz’armi, Ariodante canta tutto il suo dolore in una mesta aria di disperazione Partito Ariodante, Polinesso pregusta il suo trionfo facendo vane promesse alla sprovveduta Dalinda: questa canta la sua gioia nell’arioso mentre, una volta rimasto solo, Polinesso intona una perfida aria inneggiante al tradimento. Galleria del palazzo reale. Mentre il re si accinge a designare formalmente Ariodante come proprio erede, Odoardo gli comunica la notizia che il principe è scomparso in mare precipitandosi da una roccia, notizia che provoca lo sconforto del monarca. Partito il re con il seguito per investigare sull’accaduto, entrano in scena Ginevra e Dalinda. La principessa è misteriosamente inquieta e, allorché il padre rientra dandole la triste notizia della morte del suo amato, è colta da un malore e deve essere trasportata fuori scena da Dalinda e dal seguito. Quando anche il re si accinge a partire a sua volta, gli si fanno però incontro Lurcanio e Odoardo, ed il primo accusa l’impudicizia di Ginevra della morte di Ariodante, offrendosi di “sostener col brando” la veridicità della sua accusa ed invitando il re a fare il suo dovere di monarca, dimenticando i suoi affetti di padre. Partito Lurcanio e rientrate Ginevra e Dalinda, il re dichiara di disconoscere una figlia impudica e si allontana sdegnato, lasciandole due donne in preda allo sconforto. Ginevra si assopisce e l’atto si chiude con una ballo che ha per protagonisti vari tipi di sogni, e con le meste parole di Ginevra che si lamenta, nel ridestarsi, di non poter trovar conforto neppure nel sonno.
Atto III. Bosco. Ariodante, solo, si lamenta contro i numi che l’hanno lasciato “vivere per dargli mille morti”, quando irrompe in scena Dalinda inseguita da due sicari del duca che stanno cercando di ucciderla. Ariodante mette in fuga i due e la donna gli rivela l’inganno di cui è stato vittima la notte prima. Il principe inveisce allora contro il buio, i suoi occhi ed il travestimento che lo hanno così malamente ingannato. Rimasta sola, Dalinda invoca i fulmini del cielo sul traditore Polinesso. Giardino reale. Il re dichiara la propria intenzione di non incontrare la figlia finché non compaia qualche cavaliere disposto a prendere le sue difese nell’ordalia aperta dalle accuse di Lurcanio. Polinesso si fa avanti e si dichiara “di Ginevra il difensor”. Partito il duca, il re manda a chiamare la figlia. Ginevra protesta la propria innocenza ed implora di poter almeno baciare le paterne mani che hanno decretato la sua morte. Il re le comunica che Polinesso si è levato in sua difesa e respinge la rinunzia “a tal difesa” da parte della figlia. Restata sola, Ginevra invoca la morte quale minore dei suoi mali. Steccato dell’arengo. La corte e il popolo sono adunati per lo svolgimento del giudizio di Dio: Lurcanio invita i difensori di Ginevra a farsi avanti, affronta Polinesso e lo trafigge mortalmente. Chiede quindi se vi siano altri che aspirino “a difender la rea” ed è allora lo stesso sovrano che decide di scendere in campo a tutela del suo onore. Egli viene però fermato dalla subitanea comparsa di un cavaliere incognito che dichiara di assumere lui la difesa dell’innocente Ginevra, e, allorquando Lurcanio si fa avanti per affrontarlo, alza la visiera della propria armatura e si rivela per Ariodante: il principe comunica al fratello di essere accorso non appena appreso dell’innocenza e del pericolo in cui si trovava la sua principessa, ma prima di rivelare i particolari chiede al re la grazia preventiva per il “delitto innocente” compiuto da Dalinda. La donna entra allora in scena dichiarandosi complice inconsapevole di Polinesso, subito seguita da Odoardo che comunica che il duca morendo ha confessato le sue frodi. Il re perdona tutto e si precipita dalla figlia, mentre Ariodante si esibisce in una tipica, virtuosistica, aria. Rimasto solo con Dalinda, Lurcanio le rinnova le sue profferte d’amore e questa volta la giovane, commossa, accetta. Appartamento destinato per carcere di Ginevra. Ginevra, sola, piange sulla sua sorte, quando tutti irrompono esultanti nella sua prigione comunicandole l’accaduto, ed il re invita la corte ad organizzare convenienti festeggiamenti generali. Rimasti soli, Ariodante e Ginevra intonano un duetto inneggiante all’amore e alla fedeltà. Salone reale. L’opera si conclude con cori e ballo finale.

Siamo a Spoleto nel luglio 2007 e nel personaggio del titolo abbiamo Ann Hallenberg, vocalmente eccellente (Cecilia Bartoli in un bis da concerto in questa stessa aria è tutt’altra cosa però e il suo da capo con varia­zioni fa scorrere brividi lungo la schiena per non parlare della struggente e intensissima recente versione di Franco Fagioli, anche lui in concerto), ma sta un po’ “stretta” nei panni virili del personaggio ed è poco credibi­le come eroe ariostesco. Più plausibile è il malvagio Polinesso di Mary-Ellen Nesi, men­tre sensuale è la Ginevra di Laura Cherici e giustamen­te infelice la Dalin­da di Marta Vandoni Iorio, perfidamente ingannata.

In om­bra gli in­terpreti maschili, il re da operetta di Carlo Lepore e soprattutto il Lurca­nio di Za­chary Stains, che dopo l’Ercole nudo dell’an­no precedente con­ferma le sue doti sceniche (anche se qui è vestito di tutto punto), ma ahi­mè anche le sue manchevo­lezze vocali.

In orchestra abbiamo ancora una volta un Curtis senza passione, che diligentemente inanella le magnifiche arie una dopo l’altra con preci­sione, ma senza anima e senza cercare di render­ci partecipi dei senti­menti che vengono messi in scena.

Anche il regista è quello del Vivaldi dell’anno precedente, ma qui Pascoe riesce ancora una volta ad adattar­si con abilità alle esigue dimensioni del teatro Caio Melisso dove am­bienta la vi­cenda nella corte inglese in trasferta in Iscozia negli anni ’50, quelli dell’incoro­nazione di Elisabetta II, e pone gran cura nei dettagli dei costumi (twin-set di cachemire, gonne plissettate di tweed, collane di perle, cappellini che sembrano presi in prestito dal guardaroba della Regina Madre) e nelle scene, con tanto di bellissimi cardi azzurri e rovine goti­co-romantiche. Ma mentre il regista cerca con la sua ambientazione di renderci più vicini i personaggi con le loro emozioni, il direttore d’or­chestra tende a cristallizzare le note in un distante contesto settecente­sco, come conferma lui stesso nell’introduzio­ne all’opera contenuta nel secondo disco.

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  • Ariodante, Marcon/Jones, Aix-en-Provence, 12 luglio 2014
  • Ariodante, Christie/McVicar, Vienna, 4 marzo 2018
  • Ariodante, Capuano/Loy, Principato di Monaco, 28 febbraio 2019

Orlando

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★★★★★

Un Orlando quasi sperimentale

Degli innumerevoli libretti tratti dall’Ariosto questo, adattato da L’Orlando overo la gelosa pazzia di Carlo Sigismondo Capece (o Capeci, 1711), è quel­lo che si concentra maggiormente sulla gelo­sia che porta alla follia il cavalie­re carolingio. Rispetto al libretto originale qui sono aggiunti concertati a più voci (il terzetto alla fine del primo atto, lo stupefacente duetto del terz’atto) ed è un’invenzione di Händel e dell’ignoto librettista il personaggio di Zo­roastro, perno su cui ruota la vicenda.

Tutta la partitura è particolarmente interessante dal punto di vista armonico e strumentale e fa di quest’opera un unicum nella produzione del Sassone.

Cinque soli perso­naggi per un dramma quasi borghese: Angelica, Medoro, Dorinda e Zoroastro, oltre al paladino. Questa economia di personaggi met­te a dura prova la resistenza degli interpreti che hanno ognu­no un considere­vole numero di arie impegnative. Alla prima del 1733 il ruolo del titolo fu af­fidato al castrato Senesino e si ebbero allora dieci re­pliche dell’opera che poi non fu mai più ripresa se non nella seconda metà del Novecento. Lo stesso William Christie ne fu interprete in una versione nel 1994 con la regia di Carsen.

Qui a Zurigo nel 2008 la messa in scena è di Jens-Daniel Herzog che am­bienta la vicenda in una clinica di lusso in cui il direttore/Zo­roastro cerca di guarire con vari modi più o meno leciti la pazzia di Orlando, soldato trauma­tizzato della Prima Guerra Mondiale. L’ingenua pastorella Do­rinda è un’in­fermiera che alla fine si vendica con un solenne manrovescio dell’amore tra­dito di Medoro mentre Orlando a un certo punto ha le sembianze di un killer con l’ascia rubata al pompiere di servi­zio.

La scena claustrofobica è quella degli interni della clinica che l’a­bile sceno­grafo con pareti scorrevoli trasforma in vari ambienti. Non c’è traccia dei verdi praticelli, degli alberi ombrosi, dei fiori odorosi evocati dal li­bretto: il regista ci vuole suggerire come essi siano solo nella fantasia ma­lata degli ospiti e un’invenzione del mago (come Alcina nell’Orlando di Vivaldi). L’idea registica è sicu­ramente scioccante, ma regge molto bene lo sviluppo della vi­cenda e le sorprese sono teatralmente efficaci.

Christie e La Scintilla sono tutt’uno con i cantanti, ed è il mi­glior compli­mento che si possa fare alla sua precisa e pimpante direzione orchestrale. Le finezze strumentali della parti­tura sono innumerevoli, con tutti quegli assoli degli strumenti che accompagnano il canto dei personaggi.

In scena nel ruolo principale c’è la voce calda e insolita del mezzo­soprano serbo Marijana Mijanovič, che dipana felicemente le agi­lità richieste dalla sua parte e rende drammaticamente convincente il suo personaggio. La scena della paz­zia del second’atto è vocal­mente e teatralmente fenomenale. Degli altri quat­tro ottimi inter­preti una menzione merita la straordinaria Angelica di Marti­na Janková, stilista perfetta e voce di grande bellezza.

Partenope

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★★★☆☆

Brillante produzione rovinata da una scriteriata ripresa televisiva

Il dietro le quinte offerto come extra sul primo dei due dischi, girato con un telefonino o comunque un apparecchio a bassissima definizione, avrebbe dovuto mettere in guardia sulla ripresa televisiva dello spettacolo che risulta estremamente amatoriale, discontinua, incongrua e in definitiva altamente fastidiosa. Il regista Uffe Borgwardt sembra interessato soprattutto alla dentatura irregolare di Christophe Dumaux, ai peli del naso di Andreas Scholl, ai baffi finti di Tuva Semmingsen, ai lustrini degli abiti di Inger Dam-Jensen e alle nuche degli spettatori dell’ultima fila del teatro. Si rimpiange ancor più il non aver assistito di persona alla recita.

Peccato, perché la produzione registrata nell’ottobre 2008 nel danese Teatro Reale con la messa in scena di Francisco Negrin e Louis Désiré è estremamente gradevole, spiritosa, molto ben cantata e la sua ambientazione contemporanea ben adatta alla storia, un poligono amoroso molto moderno.

La regina Partenope festeggia il fatto di aver innalzato una nuova cerchia di mura attorno alla città omonima (Napoli) e… ah sì, c’è anche una battaglia, ma il regista la mette in burla. Poco importante è la vicenda storico-mitologia, al compositore interessano le relazioni interpersonali dei personaggi. Partenope è innamorata di Arsace che però si era promesso a Rosmira la quale, nelle vesti maschili del principe Eurimene, viene a riprendersi il suo amato. L’amore di Armindo per Partenope potrebbe risolvere la faccenda, poi però entra in scena un altro innamorato della regina e le cose si complicano.

Atto 1. Nella prima scena vediamo la regina Partenope, fondatrice di Napoli, nella sua sala del trono ornata da una statua di Apollo, intrattenere i suoi ospiti, tra i quali il principe Arsace di Corinto, bello e focoso, pretendente alla sua mano e, piuttosto timido ed impacciato, il principe Armindo di Rodi, anch’egli innamorato di Partenope, ma incapace di dirglielo. Arriva un nuovo ospite e presenta sé stesso come il principe Eurimene, ma è in realtà la principessa Rosmira sotto mentite spoglie, precedente fidanzata di Arsace che lui ha lasciato quando ha deciso di provare a conquistare la mano della regina Partenope e che lo ha rintracciato a Napoli. Arsace è sbalordito dalla somiglianza del nuovo arrivato Eurimene con la sua ex-fidanzata Rosmira e l’affronta quando sono soli. Rosmira ammette di essere lei e lo rimprovera per la sua incostanza. Arsace sostiene che lui l’ama ancora, al che Rosmira risponde che se è così si può provarlo con la promessa di non rivelare il suo nome o che lei è una donna. Arsace giura solennemente di farlo. Eurimene/Rosmira ha anche una conversazione con il triste Armindo e scopre che lui ama veramente Partenope per se stessa e non tanto per la sua posizione o il denaro. Armindo non ha il coraggio di rivelare a Partenope che l’ama, perché pensa che lei preferisca Arsace. Partenope stessa ha anche notato che Armindo è triste e vuole sapere che problema ha. Egli allora confessa il suo amore per lei, al che lei risponde che è impegnata con Arsace. Sentendo questo, Rosmira entra nel suo travestimento come Eurimene e dice che anche lui l’ama, sperando di tenere lontana Partenope da Arsace, ma sconvolgendo Armindo nel far questo. Arriva ancora un altro pretendente alla mano di Partenope, il principe Emilio del regno confinante di Cuma. Ha portato il suo esercito con lui e le chiede se accetta di sposarlo. Lei rifiuta e lui la minaccia di farle guerra, al che lei risponde che non si farà intimidire. Dice che andrà in battaglia e combatterà lei stessa e chiede ad Arsace di guidare le sue truppe, il che rende gli altri pretendenti gelosi. Solo con Eurimene, Armindo si sente molto giù per il fatto che Eurimene è suo rivale, ma Eurimene gli assicura che non è davvero il caso.
Atto 2. Il secondo atto si apre con una rappresentazione sul palco della battaglia tra Partenope e le forze di Emilio. Partenope è in definitiva vittoriosa ed Emilio viene imprigionato, ma non senza l’intervento di Armindo che l’ha salvata da una situazione pericolosa e salvato quindi la sua vita. Anche Rosmira, nella sua identità di Eurimene, ha combattuto nella battaglia e con orgoglio afferma che ha catturato Emilio. Arsace nega, attribuendosi tutto il merito di questo: sentito questo Eurimene sfida Arsace a duello. Armindo dice ancora una volta a Partenope quanto l’ama. Lei questa volta è più incoraggiante con lui, ma non si impegna. Arsace cerca di portare avanti le cose con Rosmira ma lei è molto sprezzante nei suoi confronti. Arsace è combattuto tra il desiderio per la regina Partenope e il suo vecchio amore Rosmira.
Atto 3. Rosmira, ancora in incognito come Eurimene, dice alla regina Partenope che ha sfidato Arsace a duello, perché è stato inviato dalla principessa Rosmira per vendicare il suo onore sull’uomo che aveva promesso di sposarla, ma l’ha lasciata all’altare. Partenope inorridita chiede ad Arsace se questo è vero e lui deve ammettere che è così. Partenope allora dichiara lei non avrà più nulla a che fare con lui; Armindo sta guardando a lei sempre di più come futuro marito. Arsace sta avendo una notte insonne, sapendo che sarà chiamato a combattere Eurimene in duello il giorno successivo. Ma come può combattere un duello con la donna che ama? Rosmira viene da lui nelle sue stanze, sorvegliata da Partenope. Quando Arsace chiama il nome di Rosmira, Partenope si fa avanti accusandolo di infedeltà, e Rosmira/Eurimene fa lo stesso. La mattina dopo, tutto si riuniscono per il duello tra Arsace e Eurimene. Arsace è in un dilemma dato che ha solennemente giurato di non rivelare l’identità di Rosmira ma non ce la fa a battersi in duello con una ragazza. Improvvisamente colto da una ispirazione, dice che alla persona che è stata sfidata è consentito di decidere come sarà combattuto il duello ed esige che combattano togliendosi le camicie. Eurimene esita, ma tutti dicono che sì, è giusto così, Arsace può dire come sarà combattuto il duello e quindi che si vada avanti e si tolga la camicia. Eurimene non ha altra scelta che ammettere che è in realtà la principessa Rosmira e contrita accetta Arsace come marito. Partenope sposerà Armindo, che è felice ed Emilio prenderà le sue truppe e se tornerà a Cuma.

Partenope (titolo che l’opera di Händel condivide con gli omonimi lavori di Luigi Mancia, Leonardo Vinci, Giuseppe Scarlatti, Johann Hasse, Antonio Caldara e Martin y Soler, per nominarne solo alcuni) è un adattamento del libretto di Silvio Stampiglia che era stato precedentemente proposto dal compositore alla Royal Academy of Music, ma respinto perché ritenuto troppo frivolo e “non commerciale”: «Il peggior testo che abbia mai letto in vita mia […] Il signor Stampiglia cerca di essere comico e spiritoso. Se ci è riuscito in Italia, ciò è semplicemente dovuto alla depravazione del gusto di quel pubblico. Sono certo che sarà accolto con disprezzo qui in Inghilterra.» (Owen Swiney, impresario teatrale dell’epoca).

Il Sassone, al culmine della sua fama londinese, si rivolge quindi al King’s Theatre per il suo sedicesimo allestimento in quel teatro. La maestria di Händel nel vestire di musica arie, duetti e pezzi d’insieme questa strana commedia raggiunge qui la perfezione. Al debutto nel 1730 il ruolo del titolo fu affidato a un’assidua interprete delle opere di Händel, quella Anna Maria Strada, diva del momento, di cui la Marty dice peste e corna nell’Affare Makropulos.

Alla bacchetta (o meglio, al clavicembalo) del direttore danese Lars Ulrik Mortensen è affidata la direzione del Concerto Copenhagen, uno degli innumerevoli complessi barocchi sorti negli ultimi decenni, che non sfigura al confronto di altri più blasonati ensemble.

Il cast si avvale di due star internazionali quali Andreas Scholl e Christophe Dumaux: il primo nel ruolo di Arsace e il secondo in quello minore di Armindo. Entrambi sono eccellenti ed applauditissimi, ma il controtenore francese la vince in quanto a bellezza della voce. Locali, o quasi, sono le due ottime interpreti femminili: Inger Dam-Jensen (soprano danese), capricciosa regina Partenope, e ancor più Tuva Semmingsen (mezzosoprano norvegese), Rosmira, e perché sia fotografata in topless sulla copertina del disco dopo aver indossato mustacchi e vesti maschili per tutta la serata lo scoprirà solo chi arriva alla fine dell’opera…

Rodelinda

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★★★★☆

Un dramma in bianco e nero

Registrazione della produzione del 1998 del Festival di Glyndebour­ne, Rodelinda, Regina de’ Longobardi è tra le più fortunate e più rappresentate opere di Händel. Rifacimento dell’omonima opera di Giaco­mo Antonio Perti su libretto del Salvi (che si era basato su un dramma di Corneille, Pertharite, roi des Lom­bards, 1653), la versione di Hän­del sul bel libretto dello Haym de­butta con enorme successo al King’s Theatre di Londra nel 1725 con gli stessi cantanti del Tamerlano: Francesca Cuzzoni nel ruolo della protagonista, i castrati Senesino e Andrea Pacini (Bertarido e Unulfo), il tenore Francesco Borosini (Grimoaldo), Anna Vincenza Dotti (Eduige) e Giuseppe Boschi (Garibaldo).

«L’opera riscosse un grande successo e fu replicata tredici volte; Horace Walpole narra che la ‘prima donna’ Francesca Cuzzoni riuscì a sorprendere il pubblico non solo con le sue straordinarie doti vocali, ma anche con l’abito “sconveniente e disdicevole” di seta bruna con ricami d’argento, che suscitò lo sdegno delle dame più mature ma divenne subito di gran moda tra quelle più giovani. Nella stagione successiva (dicembre 1725) Rodelinda venne ripresentata con l’aggiunta di nuove arie e rielaborazioni che tenevano conto delle esigenze dei cantanti. Un’ultima ripresa ebbe luogo nel 1731, con l’inserimento di brani celebri tratti da Tolomeo Lotario secondo una prassi allora consueta. Nel 1734 Christian Gottlieb Wendt presentò l’opera ad Amburgo con i recitativi tradotti in tedesco e le arie in italiano. Nel nostro secolo Rodelinda segnò la rinascita dell’interesse per le opere di Händel: nel 1920 fu la prima opera del compositore presentata a Göttingen a cura di Oskar Hagen, l’iniziatore della Händel-Renaissance. Egli realizzò una vera e propria rielaborazione, con il libretto tradotto in tedesco, tagli e spostamenti di arie e recitativi, nuova orchestrazione e attribuzione dei personaggi maschili a voci di tenori e bassi. Tra gli allestimenti successivi si possono ricordare quello alla Sadler’ Wells Opera di Londra, con Joan Sutherland nella parte di Rodelinda (1959), e quello curato da Michael Schneider ai Göttinger Händel Festspiele 1990, con Barbara Schlick nel ruolo della protagonista». (Clelia Parvopassu)

La vicenda risale a un episodio narrato nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono e si basa su un antefatto: a Milano Grimoaldo, con l’aiuto del duca Garibaldo, ha spodestato il legittimo Bertarido costringen­dolo alla fuga e lasciando la moglie Rodelinda e il figlio nelle mani del­l’usurpatore. Grimoaldo, promesso alla sorella di Bertarido, Eduige, vuole sposare Rodelinda per rafforzare il proprio potere, ma la regina rifiuta le sue attenzioni e piange il marito creduto morto. Garibaldo, duca di Torino, spinge Grimoaldo a spezzare il fidanzamento con Eduige e inizia lui stesso a corteggiare la donna, che come sorella del re può aspirare alla corona. Bertarido ritorna a Milano sotto mentite spoglie: egli è commosso per il dolore della moglie sulla propria tomba, ma l’amico Unulfo gli consiglia di restare nascosto. Garibaldo minaccia Rodelinda di uccidere suo figlio se lei non sposerà Grimoaldo; Rodelinda accetta le nozze, ma pone la condizione che il futuro sposo uccida Flavio, poiché lei non può essere nel contempo moglie dell’usurpatore e madre del legittimo erede al trono. Grimoaldo esita, sconvolto da questa richiesta. Eduige incontra Bertarido e lo riconosce; sopraggiunge Unulfo che rassicura l’amico sulla fedeltà della moglie. Quando Bertarido e Rodelinda si incontrano vengono sorpresi da Grimoaldo, che non riconosce il re e accusa Rodelinda di infedeltà. I due presunti amanti vengono condannati a morte e incarcerati. Con l’aiuto di Eduige e Unulfo Bertarido fugge dalla prigione, ma alcune tracce di sangue fanno supporre a Rodelinda che il marito sia stato giustiziato. Bertarido, invece, è al sicuro e salva la vita di Grimoaldo addormentato quando Garibaldo cerca di ucciderlo. Grimoaldo ammette le proprie colpe e accetta di sposare Eduige, mentre Rodelinda e il suo sposo possono riunirsi felicemente.

Jean-Marie Villégier, il regista di questa produzione, ambienta la vicenda all’epoca del cinema muto e ne utilizza i manierismi recita­tivi (evidenti soprattutto nel ruolo del­la protago­nista) e le gag. Le scene rigorosamente in bianco e nero – soprat­tutto nero… – non sono l’i­deale per una ripresa te­levisiva, soprat­tutto di quindici anni fa.

Alla testa dell’Orchestra of the Age of the Enlightment c’è un Christie in splendida forma e giustamente applaudito con molto calore dal compas­sato pubblico di Glyndebourne.

Cast eccezionale che ha il culmine nel magnifico Andreas Scholl, al suo debutto scenico qui a Glyndebourne, ma anche nell’Anna Caterina Antonacci, protagonista eponima, che alle indubbie doti canore af­fianca una figura scenica la cui bel­lezza si av­vicina a quella di una giovane e affascinante Lucia Bosé. Gli altri interpreti sono tutti eccellenti nelle agilità e coloratu­re previste dal­lo stile dell’opera oltre che bravissimi attori. Da ricor­dare il malefi­co Ga­ribaldo di Umberto Chiummo e la sua prodezza di cantare un’aria intera con la sigaretta attaccata alle labbra.

Riversamento dell’edizione in VHS, conseguente­mente mediocri sono l’immagine in formato 4:3 e la traccia stereo. Il DVD comprime in un uni­co disco le oltre tre ore di musica e per di più è regionalizzato, quell’i­diozia per cui quello che possono vedere gli europei o gli australia­ni non lo possono vedere gli americani e viceversa. Nessun extra e sottoti­toli in un italiano pieno zeppo di errori. Nessun fascicolo, ma un riassunto e un indi­ce delle scene stampato nel retro interno della confezione.

Cinque stelle per la produzione, due per la qualità inqualificabile della presentazione.

  • Rodelinda, Bicket/Wadsworth, New York, 3 dicembre 2011
  • Rodelinda, Bolton/Guth, Madrid, 24 marzo 2017
  • Rodelinda, Haïm/Bellorini, Lille, 11 ottobre 2018

Admeto

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foto © Alciro Theodoro da Silva

Georg Friedrich Händel, Admeto

Göttingen, Deutsches Theater, 26 maggio 2009

★★★★☆

(registrazione video)

Barocco in salsa wasabi

Il re Admeto sta morendo e la moglie Alceste invoca l’aiuto di Apollo. Il dio decreta la salvezza del re solo se qualcuno molto vicino a lui sacrificherà la propria vita.

Mentre nell’Alceste di Gluck la vicenda implica due soli personaggi – i due coniugi impegnati in un serrato confronto di fronte alla morte e la possibilità che il sacrificio di uno porti alla salvezza dell’altro in un’apoteosi dell’amore coniugale – nell’opera di Händel abbiamo una storia più consona all’estetica barocca, con personaggi e vicende secondarie tra cui un Ercole incaricato di portar fuori la sposa dagl’inferi e una Antigona che aspira alla mano di Admeto “vedovo”, la quale è a sua volta concupita da altri due spasimanti. Con l’arguto libretto di Nicola Francesco Haym, Admeto, re di Tessaglia, 22ª opera delle 49 di Händel, ebbe la prima rappresentazione nel 1727. Lo stesso anno il compositore otteneva la nazionalità inglese e da allora si firmerà George Frideric Handel.

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Atto I. Admeto, re di Tessaglia, giace mortalmente malato nel suo palazzo, perseguitato da sogni di terrore. Orindo, un cortigiano, gli dice che suo fratello Trasimede è altrettanto sconvolto, delirando sul ritratto di una donna. Ercole, in visita al suo amico Admeto, afferma che le sue potenti azioni sono motivate unicamente dalla ricerca della gloria. Alceste, la regina di Admeto, prega Apollo per alleviare la sua agonia; la statua del dio risponde che solo la morte di un parente stretto può salvare la vita di Admeto. Mentre dorme decide di morire per lui. In un bosco vicino la principessa troiana Antigona e il suo tutore Meraspe, rifugiati di Troia,, vivono travestiti da pastori. Antigona, promessa sposa di Admeto prima del suo matrimonio con Alceste, incolpa la sua malattia alla rabbia degli dei per il suo voto infranto. Manda Meraspe, che si finge suo padre, a palazzo. Il giardino del palazzo. Alceste, con in mano un pugnale, dice alle sue ancelle piangenti di non piangere il suo sacrificio volontario. Admeto entra con Ercole, rallegrandosi della sua salute recuperata. All’interno si sentono grida di dolore; Alceste è morta. Admeto supplica Ercole, che una volta salvò Teseo dall’inferno, di svolgere il servizio simile per Alceste. Ercole è d’accordo, lasciando Admeto a meditare sulle delusioni alimentate dalla speranza. Nel bosco Meraspe informa Antigona della guarigione di Admeto e della morte di Alceste. Si rallegrano che Antigona possa ora sposare Admeto, ma si ritirano all’avvicinarsi di una battuta di caccia guidata da Trasimede che porta un ritratto di Antigona che adora. Lei nega la sua identità; lei è Rosilda e Fidalbo (Meraspe) è suo padre. Trasimede la invita a palazzo, offrendole un lavoro come giardiniere.
Atto II. Alceste è nell’Ade, incatenato a una roccia e tormentato dalle Furie. Ercole getta Cerberus in un abisso, scaccia le Furie e libera Alceste. Il giardino del palazzo. Antigona respinge il corteggiamento di Orindo. Entra Trasimede e, preferendo la sostanza all’ombra, getta il ritratto e Orindo lo raccoglie. Antigona, decisa ad avere Admeto o nessuno altro, rifiuta Trasimede. Orindo dà il ritratto di Admeto ad Antigona e dice che non la rappresenta dal momento che Trasimede, quando è stato inviato a Troia per negoziare il matrimonio, ha riportato un ritratto diverso. Quando “Rosilda” entra è stupito dalla somiglianza tra il ritratto e il suo nuovo giardiniere. Dice di aver visto Trasimede con il ritratto lamentarsi della morte di Antigona. Si rende conto che Trasimede deve avergli dato il ritratto di qualcun altro. Trasimede lo ascolta e decide di rubare il ritratto. Quando “Rosilda” chiede ad Admeto se sposerebbe Antigona se fosse ancora viva, dice che non lo sa e si allontana bruscamente, lasciandola in preda delle paure. Un bosco. Alceste, travestita da soldato, e ansiosa di sapere se Admeto si è invaghito di un’altra in sua assenza e manda avanti Ercole per dire che non è riuscita a trovarla nell’Ade. Alceste è consumata dalla gelosia. Admeto, depresso dal pensiero di amare due donne, entrambe morte, decide di morire anche lui. Trasimede, che ha rapito “Rosilda” a causa della sua somiglianza con Antigona, viene convinto a liberarla. Un paggio gli porta un ritratto, che Trasimede riconosce come quello di Admeto e gli ordina che sia restituito a palazzo. Il paggio lo lascia cadere per errore e Antigona è felice di raccoglierlo. Alceste la vede baciarlo e chiede ad Antigona, che ammette di amare Admeto, se ha qualche speranza che il suo amore venga restituito. Antigona non può rispondere. Alceste inizia a maledire Admeto, ma si controlla; fino a quando non apprende la verità da lui gli sarà fedele.
Atto III. Un cortile. Meraspe informa Admeto dell’arresto di “Rosilda”, rivelando la sua vera identità e le sue speranze di sposare il re vedovo, egli non sa che Trasimede l’ha liberata. Orindo riferisce che Ercole è tornato solo dall’Ade a cercare Antigona e i suoi rapitori. Meraspe assicura Admeto dell’amore e della fedeltà di Antigona. Admeto è diviso tra il desiderio di Alceste morta e la simpatia per Antigona rapita. Quando Ercole gli dice che Alceste deve essere nei campi Elisii poiché non l’ha trovata nell’Ade, Admeto conclude che tutto cospira per gettarlo tra le braccia di Antigona. Ercole, sorpreso dal fatto che le sue false notizie non abbiano suscitato alcuna espressione di rimpianto, conclude che Alceste ha ragione di essere gelosa. Antigona, sempre baciando il ritratto di Admeto, ha appena iniziato un’aria quando Alceste (ancora travestito da soldato) afferra il ritratto. Orindo scambia Alceste per il rapitore di Antigona e la mette in arresto. Antigona strappa rabbiosamente il ritratto e continua la sua aria. Ercole, stupito di trovare Alceste in catene, costringe i soldati a liberarla. Dice ad Alceste senza mezzi termini che il re ama un’altra donna. Il Palazzo. Trasimede apprende da Meraspe che Antigona deve sposare Admeto e per la prima volta apprende l’identità di “Rosilda”. Giura di uccidere suo fratello. Trasimede sta per colpire Admeto quando Alceste gli prende la spada dalla mano. Admeto, prendendo Alceste come suo assalitore, ordina il suo arresto. Solo allora la riconosce. Quando Admeto esita tra le due donne, Antigona prende Alceste per mano e la presenta ad Admeto per avergli salvato la vita due volte. Alceste riconosce il suo debito con entrambe le donne: deve la sua vita all’una, all’altra il suo onore.

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Il Festival Händel di Göttingen, il più longevo festival di musica barocca, in quanto attivo dal 1920, ogni anno presenta un certo numero di concerti, un oratorio e un’opera del grande Sassone. Nel 2009 sotto la direzione del suo direttore Nicholas McGegan è messo in scena questo non frequente lavoro che ha come punto di forza la visione della regista cinematografica Doris Dörrie, che per la terza volta si cimenta con l’opera lirica, dopo Turandot e Madama Butterfly. Ritroviamo l’ambientazione orientale anche in quest’opera barocca che la Dörrie trasferisce in Giappone all’epoca Edo, dove il dolente Admeto è un Samurai, Alceste, nel suo sontuoso kimono, esegue il seppuku per salvare lo sposo ed Ercole è un lottatore di Sumo.

Oltre ai bellissimi costumi di Bernd Lepel e alle splendide luci di Linus Fellbom, la produzione si avvale dell’apporto coreografico della compagnia Mamu Dance Theatre, danzatori di butoh. Con i loro corpi i giapponesi interpretano gli spasimi di dolore del re di Tessaglia, gli spiriti dell’Ade, gli animali e anche il personaggio della gelosia, interpretato dal direttore Tadashi Endo: alla sua morte, Alceste viene sdoppiata nella sua ombra, la Gelosia appunto, che ha le spaventevoli sembianze della ragazzina del film horror giapponese Ringu (1998, The ring nel remake americano del 2002).

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Tim Mead, tormentato Admeto, interpreta con grande padronanza la parte che fu del castrato Senesino, mentre Marie Arnet e Kirsten Blaise quelle delle rivali primedonne Faustina Bordoni e Francesca Cuzzoni. A quest’ultima Händel affida le arie più virtuosistiche che la Blaise disimpegna con grande abilità. Orchestra di soli trenta elementi diretta da Nicholas McGegan, non esaltante e non favorita dalla presa di suono. La regia video insiste sui primissimi piani che mettono impietosamente in evidenza il trucco marcato e l’attaccatura delle parrucche.

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Giulio Cesare in Egitto

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★★★★★

Da portare sull’isola deserta

La più popolare delle opere di Händel, il Giulio Cesare in Egitto (1724), su libret­to ancora una volta dello Haym, ebbe imme­diatamente un grande successo grazie soprattutto al protagonista, il castrato Se­nesino, vero idolo dell’epoca.

Ecco come i librettisti Giacomo Francesco Bussani e Nicola Francesco Haym presentavano l’argomento il 20 febbraio 1724: «Giulio Cesare dittatore, dopo aver soggiogate le Gallie, non avendo potuto per opere di Curio tribuno ottenere il consolato, si portò con tant’impeto all’eccidio della libertà latina che si dimostrò più nemico di Roma che cittadino romano. Il senato intimorito, per opprimer la sua potenza, opposegli il gran Pompeo, il quale con poderoso esercito incontrollo ne’ Campi Farsalici, ov’egli fu da Cesare sconfitto: dopo la rotta, Pompeo, memore de’ benefici prestati alla corona de’ Tolomei, colà pensò di ricovrarsi, assieme con Cornelia sua moglie, e Sesto Pompeo suo figlio, in tempo che Cleopatra e Tolomeo, re giovane, tiranno e lascivo, più crudeli nemici, che germani, vicendevolmente armavano per la pretendenza dello scettro. Cicerone rimase prigioniero, il buon Catone si svenò in Utica, e Scipione con le reliquie delle legioni latine errò fuggitivo per l’Arabia. Conoscendo Cesare che la sola depressione di Pompeo poteva stabilirlo solo imperatore di Roma, lo seguitò in Egitto. Tolomeo, per obbligar Cesare, al suo partito contro Cleopatra, barbaro di costumi, ed empio di fede, fattone scempio per consiglio di Achilla fecegli presentare il di lui capo tronco dal busto. Pianse Giulio Cesare, vista la testa del nemico, tacciò di troppa arditezza Tolomeo, il quale a suggestione del consigliero scellerato, violando con ordita congiura la fede dell’ospizio, necessitò poco dopo Cesare istesso a gettarsi dalla reggia nel porto: si salvò Giulio a nuoto; mosse le armi all’espugnazione del tiranno, il quale nel fatto d’arme restò morto; ed acceso dalle bellezze di Cleopatra la sollevò al soglio d’Egitto, calcando egli il trono del mondo, primo imperator de’ romani. Si legge questo fatto ne’ Commentari di Cesare, lib. 3 e 4, in Dione, lib. XLII, ed in Plutarco, ne La vita di Pompeo e di Cesare. Tutti questi autori certificano che Tolomeo, dopo essere stato vinto da Cesare, morisse nella battaglia, ma non è ben certo come; onde si è trovato sì necessario in questo dramma che Sesto Pompeo facesse la vendetta del padre, che si è fatto ch’egli abbia ucciso Tolomeo, non variandosi l’istoria che nelle circostanze dei fatti seguiti». In sintesi, Cesare ha sconfitto Pompeo nella campagna del 48 a.C., ma ha a che fare con i due fratelli Tolomeo e Cleopatra, antagonisti in lotta per il regno d’E­gitto. Per ingraziarsi il vincitore e mante­nere il potere Tolomeo fa avere a un Cesare inorridito la testa mozzata di Pompeo, mentre Cleopatra usa le sue arti ammaliatri­ci per conquistare il conquistatore. Alla fine i buoni vinceran­no e i cattivi rimarranno uccisi o vinti.

Le trenta arie dell’opera sono nella classica forma tripartita in cui la prima strofa è esposta due volte, poi viene la seconda strofa e infine c’è il da capo con la ripresa della prima sezione. In definitiva quasi una forma pentapartita in cui le ripetizioni non interrompono l’azione poiché il da capo con le sue variazioni riprende, rafforza e sviluppa quanto affermato nella prima sezione e l’abilità dell’interprete sta proprio nel gestire queste variazioni che sono lasciate dal compositore al suo gusto e alle sue capacità. Duetti, cori, recitativi accompagnati e altre pagine strumentali completano questa splendida partitura.

Il ruolo del protagonista è ora comunemente assegnato a un contro­tenore (come Andreas Scholl nell’edizione di Salisburgo con la regia di Moshe Leiser e Patrice Caurier) o a una voce femminile di mezzosoprano, come è il caso di questa produzione. Ma c’è stato un tempo in cui il ruolo veniva ab­bassato di un’ottava e affidato a un baritono: Walter Berry con Leitner (1965), Norman Treigle con Rudel (1967) o Dietrich Fischer-Dieskau nella discussa edizione diretta da Karl Richter (1969).

Qui siamo a Glyndebourne nel 2005 e la messa in scena è affidata a quel ge­nio di David McVicar che trasporta la vicenda alla fine dell’epoca coloniale britannica. Da allora questa produ­zione continua a essere presentata in tutto il mondo e anche oggi (marzo 2013) si può vedere in scena al Metropolitan Opera House di New York. La sua regia, i balletti in stile Bollywood, le scenografie e i costu­mi fanno di questo spettacolo uno dei più affascinanti che si possano vede­re in giro.

Il cast della produzione di Glyndebourne è superlativo. Sa­rah Connolly è perfetta nella linea del canto e anche convincente nel suo ruolo en travesti. Angelika Kirschlager delinea con gran­de intensità il personaggio di Sesto, il figlio di Pompeo che vuole vendicare la morte del padre. Patri­cia Bardon è una dolente Cor­nelia. Christophe Dumaux presta con con­vinzione la sua voce di controtenore alla figura del perfido Tolomeo e si dimostra pure un discreto acrobata.

Ma il clou della serata è rappresentato dalla performance della australiana di nascita, ma americana di formazione, Danielle de Niese, una Cleopatra giova­ne, affascinante e spiritosa che reci­ta, canta e balla con quella professionalità poco conosciuta da noi al di qua dell’oceano.

In buca il sommo William Christie dipana le meravigliose musiche con la maestria che gli conosciamo.

Ottima qualità video e sonora, oltre cinque ore su due di­schi ed extra golosi. Da portare sull’isola deserta se è l’unico DVD che ci è concesso.