Mese: gennaio 2024

Il tango delle capinere

foto © Rosellina Garbo

Emma Dante, Il tango delle capinere

Torino, Teatro Gobetti, 30 gennaio 2024

Un nostalgico viaggio a ritroso nel tempo sulle note delle canzoni

Nel 1983 con Le bal (Ballando ballando in Italia) Ettore Scola aveva raccontato cinquant’anni di storia di una nazione facendo diventare un film l’omonimo spettacolo teatrale di Claude Penchenat. Ora Emma Dante con Il tango delle capinere racconta cinquant’anni di storia di una coppia. Se il film affidava solo alla musica e ai costumi il passaggio del tempo, qui brevi dialoghi aiutano a definire la vita di una vecchia coppia che, a ritroso nel passato ripercorre i momenti salienti della esistenza assieme. Ed è proprio lo stare assieme, l’aggrapparsi l’uno/a all’altra/o che dà significato al loro vivere. Tanto che quando uno dei due viene a mancare sarà la fine anche dell’altro.

Il teatro della Dante è arcaico, rituale, fatto dai corpi degli attori e questo spettacolo non è diverso. In scena solo due bauli e la graticcia trapunta di lampadine. Una vecchia ingrigita e malferma è china su un baule aperto, poi si alza con in mano una spina elettrica e una presa; non appena le collega sopra la sua testa si accende il firmamento. Da un altro baule appare un uomo vecchio che la guarda e le sorride amoroso. Ballano. Lui con la testa poggiata sulla testa di lei, lei aggrappata alla giacca di lui. Il vecchio ha un sussulto di piacere. Anche la donna prova piacere, ma poi ha dei colpi di tosse e deve prendere delle medicine. Meno 5, meno 4, meno 3, meno 2, meno 1… Al rintocco della mezzanotte lui fa scoppiare un piccolo petardo. Lui e lei si baciano. Lui infila la mano in tasca ed estrae una manciata di coriandoli. Li lancia in aria, festoso. Lei fa suonare un vecchio carillon. Si tolgono la maschera da vecchi, inforcano gli occhiali e riprendono a ballare sulle note di vecchie canzoni che punteggiano  a ritroso la loro storia d’amore.

Dal baule usciranno l’abito da sposa, i costumi della gara di ballo, i costumi da mare di quando si sono incontrati la prima volta. Gli abiti li rinvigoriscono e riportano indietro nel passato sulle note delle canzoni delle varie epoche. Ecco allora le voci di Mina, Francesco de Gregori, Gianni Morandi, Rita Pavone, Edoardo Vianello, il Quartetto Cetra. Fino a Nilla Pizzi che canta quel Tango delle capinere che dà il titolo al lavoro: «Laggiù nell’Arizona | terra di sogni e di chimere […] A mezzanotte va | la ronda del piacere | e nell’oscurità | ognuno vuol godere».

L’amore reciproco e la passione per il ballo sono il collante di una relazione che, come tutti, essi credono eterna e festeggiano l’anno nuovo ogni anno fino alla fine. Sulle note di quell’ultimo tango lui cade a terra e lei lo veste con una camicia da notte bianca. Lui non ce la fa a camminare, allora lei lo prende in braccio come un bambino, lo depone nel suo baule e chiude il coperchio. Adesso è ancora lei a tossire, prendere qualche pillola e andare a sistemarsi nel baule tomba.

La vecchiaia è spesso al centro degli spettacoli di Emma Dante: «È una fase della vita straordinaria, delicata, importante. I vecchi sono creature quasi mitologiche, custodiscono la storia di tutti noi», dice la regista, «quindi mi interessa interrogarli: non sono mai noiosi o banali. Inoltre, mi affascina il loro corpo, a mio avviso molto teatrale. Somiglia a quello dei bambini: sono timorosi, sbilanciati, hanno sempre paura di cadere e, nonostante i dolori fisici, è come se ricominciassero a camminare, a vivere, proprio come i bimbi». Ma questa volta alla Dante manca un disagio da denunciare, uno stato di oppressione da affrontare. La drammaturgia è evanescente, non genera tensione, non è quello che ci si aspetta dall’artista palermitana che qui intesse una lode dell’amore fin troppo limpido e lineare, quasi sdolcinato.

Coprodotto dal Teatro Biondo di Palermo con l’Emilia Romagna Teatro, il Teatro di Roma, il Centre Dramatique National di Montpellier e altri, lo spettacolo arriva sulle scene del Teatro Gobetti con gli stessi attori, Sabino Civillari e Manuela lo Sicco, che avevano interpretato Ballarini, l’ultimo capitolo della Trilogia degli occhiali (2010), da cui è tratto. I due straordinari interpreti raccontano con gesti minuti e movimenti danzati una vicenda che è uguale a tante altre e per questo tocca di più un pubblico che risponde con lunghi applausi.

Tartufo – Un curioso accidente

Molière, Tartufo, regia di Jean Bellorini

Molière, Tartufo

regia di Jean Bellorini

Torino, Teatro Astra, 24 gennaio 2024

Carlo Goldoni, Un curioso accidente

regia di Gabriele Lavia

Torino, Teatro Carignano, 26 gennaio 2024

La modernità dei classici

Sulle scene torinesi sono contemporaneamente presenti due titoli dei maggiori drammaturghi del XVII secolo francese (Molière) e del XVIII secolo italiano (Goldoni). Un’opportunità per considerare il ruolo dei classici nel teatro contemporaneo e dei problemi della loro messa in scena.

Al teatro Astra Jean Bellorini presenta Tartufo, ossia la versione in italiano di Le Tartuffe ou L’imposteur di Molière, pièce in cinque atti in versi creata il 5 febbraio 1669 al Théâtre du Palais-Royal a Parigi. Originariamente una farsa in tre atti intitolata Le Tartuffe ou L’hypocrite era stata data al Castello di Versailles cinque anni prima, ma su insistenza dell’arcivescovo di Parigi ne erano state vietate le rappresentazioni pubbliche. Riveduta da Molière per renderla meno provocatoria nel soggetto, la nuova versione venne data una volta sola il 5 agosto 1667 al Palais-Royal e nuovamente vietata.

La proibizione della commedia fu certo dettata da considerazioni di politica religiosa, in particolare dalla necessità di non indebolire la Chiesa cattolica in un momento in cui il dissenso giansenista la minacciava di scisma. Tartufo è infatti il falso devoto, ipocrita e manipolatore che cerca di ingannare un uomo, rubargli la fortuna e sedurne la sposa. Quasi ci riuscirebbe perché la vittima, Orgone, è “cieco”, non ne vede i misfatti, anzi li giustifica egli stesso e apre gli occhi solo alla fine di fronte alla dimostrazione più inappellabile. Quanti anche oggi non vedono o vedono quello che vogliono vedere – terrapiattisti, trumpiani… – e negano l’evidenza più lampante per seguire i propri falsi giudizi.

Prodotto dal Teatro di Napoli, dopo il passaggio al Théâtre National Populaire di Villeurbanne di cui Bellorini è il direttore, lo spettacolo approda a Torino per la stagione del Teatro Piemonte Europa intitolata appunto “Cecità” e due sono gli elementi a favore dello spettacolo: la traduzione di Carlo Repetti che, anche se non riproduce fedelmente gli alessandrini di Molière, fornisce però una versione in rime e ritmi che ricreano efficacemente il suono originale; e la recitazione degli attori, massimo fra tutti il Tartufo di Federico Vanni, giocato con un perfido calibratissimo umorismo nero. L’ambientazione scelta dallo stesso regista colloca la vicenda nell’epoca presente in una grande cucina di una casa che la scempiaggine del proprietario rischierebbe di perdere senza l’intervento di un deus ex machina, che dopo essere stato appeso a una grande croce per tutto il tempo, ne discende per salvare la situazione. Le trovate sceniche – il lancio della farina, i momenti truculenti… – sono sempre al limite di una farsa senza però mai valicarlo, mentre il ritmo, le accelerazioni controllate, la velocità e le pause, le nostalgiche canzoni italiane anni ’80 rendono lo spettacolo estremamente godibile. Gli attori – oltre al citato Vanni, Gigio Alberti, Teresa Saponangelo, Betti Pedrazzi, Ruggero Dondi, Daria d’Antonio, Angela de Matteo, Francesco de Nicolais, Luca Iervolino, Giampiero Schiano e Jules Garreau, l’unico francese della compagnia – nei costumi di Macha Makeïeff restituiscono dei personaggi di grande empatia umana che il pubblico della prima ha applaudito con calore.

Non così popolare è il titolo proposto dal Teatro Stabile di Torino, un Goldoni poco conosciuto in Italia ma molto tradotto all’estero. Un curioso accidente è un’opera in tre atti scritta nel 1760 e portata per la prima volta sulle scene a Venezia senza successo. Ambientata in Olanda e basata su un fatto vero, narra del ricco mercante Filiberto che ospita a casa sua Monsieur de la Cotterie, un giovane militare francese ferito in guerra, innamorato, ricambiato, della figlia del mercante, Giannina la quale non volendo rivelare la realtà, gli dice che il francese ama Madamigella Costanza (figlia di Riccardo) e i due non possono sposarsi in quanto il padre della fanciulla non vuole che la figlia si sposi con un uomo considerato non alla loro altezza. L’inganno porta Filiberto a suggerire, per far dispetto all’amico/nemico Riccardo e liberarsi dell’incomodo militare, il rapimento della fanciulla e il matrimonio. Cosa che infatti avviene, ma con la propria figlia…

Gabriele Lavia monta sulle scene del Carignano uno spettacolo di metateatro – nella scenografia di Alessandro Camera un secondo sipario sbilenco, bauli, attrezzi di scena, un camerino… – dove la presenza del pubblico è volutamente esibita: sul palco prendono posto alcuni spettatori e lo spazio dove si muovono gli attori invade i corridoi della platea con il coinvolgimento di chi sta seduto. Il flusso della recitazione non è sempre perfettamente fluido e qualche inciampo viene prontamente corretto con il mestiere, ma quello che viene fuori è uno spettacolo poco convincente con una recitazione o dimessa (i personaggi femminili) oppure sopra le righe (il Monsieur de la Cotterie di Simone Toni) e una certa gigioneria da parte del Monsieur Filiberto di Gabriele Lavia. Anche qui vengono introdotti momenti musicali con canzoncine e l’accompagnamento di due pianoforti, ma senza una particolare esigenza drammaturgica. Lavia tratta con libertà il testo goldoniano, inserisce un prologo ricavato dalle note de “L’autore a chi legge”, aggiunge divagazioni, battute sul secolo dei lumi, gag ripetute («ah, questi francesi!»), anche un Arlecchino per buona misura.

Il pubblico comunque abbocca a questo aspetto un po’ ruffiano dello spettacolo e ne decreta il successo con prolungati applausi.

Carlo Goldoni, Un curioso accidenti, regia di Gabriele Lavia

Stagione Sinfonica RAI

Olivier Messiaen, Quatuor pour la fin du Temps
III. Abîmes des oiseaux
II. Vocalise, pour l’Ange qui annonce la fin du Temps

Dmitrij Šostakovič, Sinfonia n° 8 in do minore op. 65, “Della vittoria”
I. Adagio – Allegro non troppo – Adagio
II. Allegretto
III. Allegro non troppo
IV: Largo
V. Allegretto

Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, Dmitrij Matvienko, direttore

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 25 gennaio 2024

Concerto per il “Giorno della memoria”

La Settima e l’Ottava sinfonia di Dmitrij Šostakovič sono le sue due sinfonie di guerra: la prima scritta nel 1941 nel pieno del conflitto con l’assedio di Leningrado; la seconda scritta nell’estate del ’43 con le sorti della guerra capovolte, il ritiro dei Panzer di Hitler e la Russia che rialzava la testa ma dopo catastrofiche perdite umani e materiali.

Dopo la Settima, ascoltata la scorsa stagione diretta da un giovane Aziz Shokhakimov, anche l’Ottava è affidata a un giovane russo nato nel 1990. Il sinfonista Šostakovič non è Mahler, le sue sinfonie sono ben lontane da struggimenti fine secolo e mitteleuropei, sono violente, spigolose, hanno una rudezza, quasi una volgarità che la lettura di Matvienko ha messo magistralmente in luce. Senza concessioni intellettualistiche, assieme all’orchestra ha messo a nudo la nuda struttura e la forza dirompente del lavoro. Il primo movimento dura quasi quanto tutto il resto della sinfonia e qui un motivo drammatico suonato fortissimo in ottave viene sostituito dai due soggetti in forma di sonata, entrambi di carattere lirico. Seguono un breve secondo movimento allegretto come «una marcia con elementi di uno scherzo» e un terzo movimento, descritto come una toccata, spinto da un ritmo incessante e interpretato come la rappresentazione di una battaglia che alla fine esplode in un massiccio climax di autodistruzione. Il penultimo movimento è una sommessa passacaglia che conduce direttamente al finale in do maggiore che termina in modo pastorale con archi pizzicati e un flauto solo che si unisce all’ultima nota nella parte più bassa della sua gamma come la voce del soprano nel quinto movimento della Seconda di Mahler. Qui, però, non c’è resurrezione, non c’è trionfo, semplicemente sopravvivenza. La partitura è ricca di interventi dei vari strumenti che si uniscono in marcette beffarde, o da solisti, come i fischi dell’ottavino, i cantabili del corno inglese. I toni parodistici si alternano a quelli tragici, i momenti trasparenti ai pieni drammatici in un’alternanza che il giovane direttore realizza con lucida consapevolezza e il pubblico del Toscanini dimostra di apprezzare con calorosissimi applausi e innumerevoli chiamate. Un bel debutto con la nostra orchestra.

La sinfonia è stata preceduta da due movimenti del Quatuor pour la fin du Temps di Olivier Messiaen, che sarà eseguito nella sua integrità domenica 28. Ma già oggi si è potuto avere un assaggio del livello musicale e dell’intensità espressiva dei quattro solisti impegnati: Roberto Ranfaldi al violino, Enrico Maria Baroni al clarinetto, Pierpaolo Toso al violoncello e Andrea Rebaudengo al pianoforte.

Prima del concerto Marta Cortellazzo Wiel ha letto la poesia di Wisława Szymborska La fine e l’inizio: «Dopo ogni guerra | c’è chi deve ripulire […] C’è chi deve spingere le macerie | ai bordi delle strade | per far passare | i carri pieni di cadaveri. […] Non è fotogenico | e ci vogliono anni. | Tutte le telecamere sono già partite | per un’altra guerra».

Médée


foto © Brescia e Amisano – Teatro alla Scala.
Le immagini si riferiscono alla prima rappresentazione con Marina Rebeka protagonista

Luigi Cherubini, Médée

Milano, Teatro alla Scala, 23 gennaio 2024

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Per prima volta alla Scala la Médée di Cherubini

Nell’anno che celebra il centesimo dalla nascita – ed è compreso anche il lancio di “Maria Callas”, «Una nuova fragranza che incanta i sensi. In esclusiva nello shop online col 10% di sconto»… – la cantante viene ripetutamente ricordata per la sua Medea del 1953 diretta da Leonard Bernstein e poi nel 1962 da Thomas Schippers, di cui abbiamo le registrazioni dal vivo. Un’interpretazione che fece giustamente scalpore per la forza interpretativa di una lettura personalissima che era, ovviamente, figlia dei suoi tempi: la sua Medea più che di Cherubini era della Callas stessa, in italiano e con una grande orchestra imbevuta di Romanticismo – ma si sono sentite anche delle Medee veriste… Qui si è voluti invece rimanere sulla linea tracciata da Gluck e dal Mozart dell’Idomeneo. 

Nel 1854, quasi sessant’anni dopo la nascita dell’opera, Franz Lachner ne aveva orchestrato i recitativi basandosi su una traduzione tedesca e su questa versione si erano riferiti quelli di Carlo Zangarini, con cui Medea era stata presentata nel 1909 in Italia. Originariamente erano infatti recitati dagli attori dell’Opéra Comique e in termini metrici erano nella forma di alexandrin, i nostri martelliani, versi composti da due emistichi di sei sillabe ciascuno, articolati in corrispondenza di una cesura che si ha dopo la sesta sillaba, che è accentata. I trenta minuti di dialoghi parlati in francese sono difficilmente proponibili a un pubblico moderno, persino in un paese francofono. Infatti nella Médée di Rousset/Warlikowski del 2011 a Bruxelles – quella con Nadja Michael vestita come una trasgressiva Amy Winehouse – i versi originali furono sostituiti da una concisa prosa contemporanea. Figuriamoci in un paese non francofono! A Martina Franca nel 1995 vennero ristabiliti i dialoghi parlati, ma con esiti non entusiasmanti e l’idea non ha mai avuto seguito. Comunemente vengono tagliati o riscritti per alleggerire le interruzioni tra i numeri musicali e dare così maggior rilevanza alla parte musicale.

Così avviene ora a Milano, dove Mattia Palma ha inventato dei nuovi dialoghi che ha messo in bocca ai figli di Médée e Jason, gli unici personaggi che non hanno mai avuto voce nelle innumerevoli versioni di questa tragedia. Qui, nel silenzio dell’orchestra si sentono le voci sussurrate commentare la vicenda dal loro punto di vista, come il coro della tragedia antica, e l’effetto è incredibilmente suggestivo e drammatico allo stesso tempo. Tra l’altro, bravissimi i bambini che li interpretano in scena e quelli che danno loro la voce in francese. Una soluzione originale, geniale e talmente straniante che forse sarebbe stata efficace anche in italiano. Chissà.

Strano ritardo quello della Scala a riproporre due generazioni dopo quella della Callas l’opera tragica di Cherubini. Magari poteva essere affidata a Riccardo Muti, che ha diretto molte volte l’Orchestra Giovanile Cherubini e che del compositore fiorentino è stato grande interprete – a lui fu dedicato il volume della serie “Grandi interpreti” di Banca Intesa nel 2003, Luigi Cherubini. Il fuoco nel marmo, contenente la Messa in Fa maggiore “di Chimay”. Nonostante il rivestimento classicista, a suo tempo Médée aveva scandalizzato il pubblico: lo scabroso soggetto di Euripide toccava uno dei tabù più sacri della nostra cultura, ossia l’infanticidio e «terrorisme musical» era stato definito il lavoro andato in scena a Parigi il 30 ventôse (marzo) dell’anno V del calendario rivoluzionario, un periodo certo non esente dalla raccapricciante sequenza di esecuzioni capitali. Il Terrore era terminato da pochi anni con la morte di Robespierre nel 1794.

L’iperbolica partitura, con la sua vocalità declamata di stile gluckiano e l’impetuoso sinfonismo beethoveniano dei pezzi orchestrali, è affrontata di petto da Michele Gamba. Fin dalla drammatica e furiosa ouverture, l’orchestra senza perdere in trasparenza è pervasa da un colore denso, scuro, pulsante con il dramma. L’andamento tragico della musica emerge prepotentemente dal colore e dai giri armonici non protesi verso il futuro romanticismo – che pure con Berlioz e Brahms amerà follemente questa partitura – ma sono bensì marcatamente settecenteschi, addirittura antecedenti con echi di Rameau di cui il Maestro Gamba parla nel numero 24 della rivista del teatro. La sintassi strumentale è storicamente informata ma non dogmatica, l’organico è ridotto e il nervoso fraseggio asseconda il passo melodrammatico della vicenda. In questo primo pezzo si fa notare il timpanista dell’orchestra Andrea Bindi a cui bisognerà raddoppiare lo stipendio per l’impegno profuso nelle travolgenti pagine sinfoniche dell’opera. Degno di menzione anche il fagotto di Gabriele Screpis nella sublime introduzione all’aria di Néris del secondo atto.

Corso accidentato per la protagonista di questa produzione: all’inizialmente prevista Sonya Yoncheva, grande Médée con Baremboim alla Staatsoper di Berlino nel 2018, è subentrata Marina Rebeka che, assente per motivi di salute alla prova generale, dopo la trionfale prima ha sviluppato i sintomi di un’indisposizione che non le ha permesso di affrontare la seconda replica, affidata a Maria Pia Piscitelli. Ora, la terza replica tocca a Claire de Monteil, un giovane soprano francese dalla voce fresca e vibrata, non molto potente, tanto da venire spesso coperta dalla pur ridotta orchestra, e dal registro basso non troppo sviluppato. In questi casi non si può però che essere grati per il coraggio e la volontà della cantante nell’aver voluto salvare la rappresentazione – come mi ha scherzosamente detto Francesco Saverio Clemente nell’intervallo, qui non è come per la Bohème che basta dare un calcio al cespuglio perché saltino fuori decine di Mimì! valla a trovare un’altra Médée in poco tempo… – e il pubblico ha apprezzato la sua performance applaudendola generosamente. Difficilmente si poteva pretendere di più: la presenza scenica non è propriamente magnetica e il personaggio è venuto fuori a fatica. «Quoi qu’il en soit, remerciements sans fin, Claire!».

Il ruolo di Jason non è tra i più avvincenti nella versione di Cherubini e qui viene affidato a uno specialista del repertorio francese, Stanislas de Barbeyrac, stilisticamente pregevole, vocalmente un po’ ingolato. Non memorabili né Nahuel di Pierro, non a suo agio nel registro basso di Créon, e Martina Russomanno, Dircé. Meglio Ambroisine Bré, che dopo la Néris di Fedora Barbieri del 1953 e la Sara Mingardo del 2008 fa sua la più bella aria dell’opera, «Ah, nos peines seront communes», introdotta dall’assolo di fagotto e cantata con molta sensibilità.

Ma uno degli elementi che fanno di questo uno spettacolo imperdibile è la messa in scena di Damiano Michieletto, che nel giro di pochi giorni presenta ben tre sue produzioni: il 7 gennaio ha ripreso la sua Jenůfa a Berlino, il 13 lo Zauberflöte a Roma e il giorno dopo questa Médée alla Scala. Durante l’ouverture, sul telino scorrono i caratteri greci del verso che Euripide mette in bocca al coro all’inizio della tragedia: «οὐκ εἰσὶ δόμοι· φροῦδα τάδ΄ ἤδη» (questa famiglia non esiste più, è distrutta). Infatti di una tragedia famigliare si tratta e Michieletto vede tutta la vicenda con gli occhi delle vittime innocenti. Al centro della stanza, ideata come sempre con depurata eleganza da Paolo Fantin con una prospettiva spezzata, è la porta che dà alla camera dei bambini, camera che intravediamo quando la porta si apre per far passare l’istitutrice, qui Néris, o il padre Jason. In scena un divano bianco, una giostrina con carillon che si mette in moto nei momenti più drammatici – uno dei tanti momenti di una regia controllatissima ma piena di particolari rivelatori –, un tavolino basso su cui troneggia il trofeo del vello d’oro trafugato da Jason, qui un bucranio dorato. Il tutto immerso nel magico gioco luci di Alessandro Carletti.

Sull’immacolata parete di fondo nel secondo atto comparirà, scritta col carbone, la scritta «Maman vous aime», ultimo disperato messaggio di Medea verso i figli, ma nel terzo atto questa stessa scritta si sbriciolerà quando la donna prenderà la straziante decisione di sopprimere i figli e come la moglie di Goebbels li avvelena prima di metterli a letto, come vediamo su uno schermo su cui vengono proiettate le immagini di una telecamera di sorveglianza. Non c’è sangue in scena, solo il bianco, e il nero della polvere che esce dalla crepa e poi scende dall’alto in pioggia di morte. Gli unici colori sono negli abiti pastello delle damigelle di Dircé, disegnati dalla solita eccellente Clara Teti, e nell’outfit un po’ cafonal di Jason. Medea è scarmigliata e in nero come la Magnani, prima di infilarsi in un tailleur per festeggiare, a modo suo, il matrimonio di Jason e Dircé.

Il bellissimo spettacolo è stato salutato calorosamente dal pubblico con applausi intensi soprattutto per il maestro Michele Gamba (il cui nome è curiosamente assente dalla locandina distribuita agli spettatori!). Lo spettacolo del 24 gennaio è stato ripreso dalle telecamere e ne è prevista la trasmissione su medici.tv il giorno 27.

Valuska

La locandina dello spettacolo

Péter Eötvös, Valuska

Budapest, Magyar Állami Operaház, 17 dicembre 2023

★★★★☆

(video streaming)

La malinconia della resistenza

La nuova opera di Péter Eötvös, su libretto di Mari Mezei and Kinga Keszthelyi, ci porta nel mondo spoglio e grigio di una cittadina sconosciuta, ma in fondo famigliare, e ci svela il mondo tragicomico del protagonista János Valuska, lo scemo del villaggio, un innocente, infatuato dall’astronomia e dalla posizione dell’uomo nell’universo. L’arrivo in città di un circo, che ha come attrazione principale la balena tassidermizzata più grande del mondo, ha conseguenze esplosive.

Gli abitanti di una piccola città sono terrorizzati dai crescenti segnali di un’imminente catastrofe e dai cumuli di rifiuti non raccolti che si accumulano per le strade. La confusione è ulteriormente aggravata dall’arrivo a tarda notte di un circo itinerante che vanta la più grande balena gigante imbalsamata del mondo e la conseguente presenza di una folla crescente di estranei. La piccola troupe del circo – che all’inizio sembra essere composta solo dal proprietario, che si definisce “il direttore”, e dal suo assistente – si scopre essere composta anche da un misterioso nano deforme di nome Prince. Al centro degli eventi c’è l’innocente e benintenzionato mezzo scemo János Valuska, che consegna giornali per l’ufficio postale. Ingenuamente affascinato dal maestoso ordine dell’universo, racconta con entusiasmo le incredibili meraviglie che ha intravisto alla congregazione di lavoratori apatici che frequentano il pub locale. Valuska porta ogni giorno il pranzo al professore in pensione, per il quale svolge anche altre commissioni con tenera attenzione e toccante delicatezza. La moglie dell’insegnante, la signora Tünde, il sindaco della città, si dedica all’organizzazione del movimento “Un cortile ordinato, una casa ordinata” che ha lanciato. Per aumentare la sua influenza, convoca il circo, la cui star, il nano demoniaco Principe, incita la folla di barbari scontenti a distruggere. Il caos ha inizio con implacabili atti di saccheggio, incendi dolosi e omicidi commessi solo per il proprio interesse. Travolto da questa folla che sparge ovunque devastazioni insensate è Valuska, che diventa involontariamente un membro della folla violenta. Il caos viene infine fermato dai militari, ma il ripristino dell’ordine è seguito da una nuova e più sofisticata forma di terrore, quando la città passa sotto il controllo di un regime politico ingannevole guidato dalla signora Tünde. Dopo che Valuska viene catturato in una caccia all’uomo, si salva solo quando la signora Tünde interviene in sua difesa, dichiarandolo un pazzo. Il professore si reca ogni giorno a far visita a Valuska nel manicomio in cui è stato rinchiuso, solo per scoprire ogni volta che il suo ex aiutante si rifiuta di pronunciare una parola, avendo perso sia la fede nell’ordine cosmico che lo sosteneva sia la fiducia nella magia del mondo.

La prima mondiale del 2 dicembre 2023 è stata un evento importante per l’Opera di Stato Ungherese: per Péter Eötvös, che compie 80 anni nel gennaio 2024, è la sua 13ª opera, ma la prima in ungherese: «Non ho mai pensato di scrivere un’opera in ungherese per diversi motivi», dice il compositore, «da un lato, dopo il successo di Tre sorelle, continuavo a ricevere commissioni per opere in diverse lingue (1). D’altra parte, Il castello di Barbablù di Bartók, che ho diretto più volte, è così potente e unico che non osavo toccare un testo ungherese. Quando l’Opera di Stato mi ha commissionato questa opera, era ovvio che pensassero a un’opera in ungherese. Inoltre, mi sentivo già molto esperto avendo composto 12 opere e ho accettato volentieri. […] Le mie opere precedenti erano tutte scritte in lingue diverse (1), quindi la prima informazione musicale non era il significato delle parole, ma il ritmo. Nella lingua ungherese, essendo la mia lingua madre, il significato è la cosa principale per me. Pertanto, era importante trascurarlo un po’ per occuparsi maggiormente del suo ritmo. Soprattutto le insolite connessioni di parole di László Krasznahorkai – l’opera è basata sul suo romanzo del 1989 Az ellenállás melankóliája (La malinconia della resistenza) –  la qualità musicale del ritmo, delle parole e delle frasi è stata la base per la scelta del testo. Il coro utilizza le vocali delle parole indipendentemente dal significato originale del testo, per esempio, o una serie di parole con uno schema simile che formano un modello ritmico. Così, il gioco di carte del libro diventa un gioco di parole in cui vince chi ha in mano la carta con la parola con più sillabe. La prosa di Krasznahorkai mi ha portato a mettere sulla carta meno suoni e più ritmo, e mi ha portato anche al teatro. Ho cercato di presentare al pubblico la presenza essenziale del testo di Krasznahorkai inserendo un narratore che tiene in mano il libro e di tanto in tanto lo cita testualmente». L’orchestra di Valuska è simmetrica e relativamente piccola: a sinistra e a destra gli strumenti a fiato sono speculari, poi le percussioni e i nove strumenti a corda che danno il suono lirico sono in un unico gruppo al centro. Il direttore Kálmán Szennai dosa con precisione i suoni trasparenti e polverizzati di Eötvös, i ritmi dai pattern complessi dove gli strumenti quasi non si riconoscono e a tratti compaiono citazioni popolari o brevi temi. La sua conoscenza delle capacità della voce umana e delle sue possibilità espressive crea armonie che, pur essendo assolutamente contemporanee, sono facili da ascoltare e la partitura guida la narrazione e aggiunge una dimensione di comprensione ai personaggi, esprimendo le loro emozioni meglio di quanto possano fare le parole. La parte lirica e melodica è affidata a János e alla signora Pflaum, con il personaggio eponimo che ha due arie a disposizione che introducono alla sua visione del mondo: la prima all’ordine del cosmo infinito, alla relazione dei pianeti, poi dalla descrizione dettagliata di un’eclissi solare; nella seconda Valuska tiene in mano un barattolo con l’occhio della balena conservato in formaldeide, come Amleto fa con il teschio.

Zsolt Haja è stato scelto appositamente per la parte del titolo e si può dire che Eötvös abbia composto la parte su di lui, per i suoi suoni morbidi e cristallini, per la sua presenza scenica. Ma nella produzione dell’Opera Ungherese tutti gli interpreti hanno personalità da vendere e  distinte caratteristiche doti vocali. È un peccato che Adrienn Miksch (signora Pflaum),   Tünde Szabóki (Tünde), Krisztián Cser (Uomo col cappotto, Soldato) e Istvan Horvath (Direttore) non si sentano altrove.

Il regista Bence Varga dà vita a questo racconto distopico con un’acutezza e un dettaglio impressionanti grazie alle scenografie di Botond Devich, minimali ma efficaci – un lampione, il container dove è esposta la balena, un letto d’ospedale – e al magnifico gioco luci di Sándor Baumgartner. Con i costumi di Kató Huszár la popolazione grigia e scialba viene posta in contrasto ai tocchi stravaganti dei personaggi estroversi come la neoeletta sindachessa Tünde tutta in rosa o l’ufficiale ricoperto di medaglie da cima a fondo e dall’andatura burattinesca.

In questo suo lavoro Eötvös non menziona mai né la geografia né la nazionalità degli abitanti di questo paese, ma è proprio questo aspetto a rendere la trama grottesca e rilevante per le attuali situazioni sociali e politiche del mondo. È talmente incredibile da  renderla così spaventosamente credibile.

Il video dello spettacolo è disponibile su operavision.com.

(1) La maggior parte delle opere di Eötvös sono in inglese; Harakiri (1973) è in giapponese, Three Sisters (1997) in russo; Le balcon (2002) in francese; Der goldene Drache (2014) in tedesco, Senza sangue (2015) in italiano.

Idomeneo

 

Wolfgang Amadeus Mozart, Idomeneo

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 8 luglio 2022

★★★☆☆

(video streaming)

Da Knosso a Kyoto

«La più bella opera di Gluck». Così è stato definito l’Idomeneo, il lavoro che un Mozart venticinquenne presenta a Monaco nel 1781 e che ora viene affidato da Pierre Audi, Direttore Generale del Festival lirico di Aix-en-Provence, all’attore e regista giapponese Satoshi Miyagi. Nato nel 1959, ha iniziato a realizzare spettacoli che riuniscono grandi opere letterarie e un metodo ispirato alla danza e alla clownerie. Nel 1990 ha fondato la compagnia Ku Na’uka con la quale ha diretto opere antiche e classiche europee e autori moderni giapponesi, basando il lavoro degli attori sulla ginnastica orientale e nel 1995 è stato invitato a dirigere l’Elettra di Sofocle al Teatro Antico di Delfi. Le sue incursioni nel teatro lirico sono al momento concentrate su due opere di Mozart: questo Idomeneo messo in scena al Festival di Aix-en-Provence e un Mitridate a Berlino.

Pedine di una partita a scacchi che non verrà giocata, nella lettura di Miyagi i personaggi sono statue issate su un basamento, sono cioè portati in scena su alti piedistalli in continuo movimento nella scenografia di Junpei Kiz. Il movimento dei piedistalli sul palcoscenico con il gioco luci di Yukkio Yoshimoto crea di tanto in tanto interessanti disposizioni e motivi esteticamente gradevoli come nel nel terzo atto quando si sono uniscono per creare un drammatico ritratto della sofferenza del popolo: uno sfondo di immagini violente e spaventose che ricordavano le pitture nere di Goya diventate rosso sangue. Ma non allontanano l’impressione di trattarsi di una esecuzione in forma di concerto con piattaforme mobili, totale mancanza di slancio drammatico, dove le interazioni personali sono annullate, il dramma d’amore tra Ilia e Idamante perde consistenza e rimane la questione del conflitto tra l’uomo e gli dèi, a cui Idomeneo ha incautamente sacrificato il figlio. Miyagi pensa a una situazione di guerra, quella del Giappone nel XX secolo con l’imperatore Hirohito al posto di Idomeneo, Hiroshima al posto di Troia e i militari nelle loro mimetiche al posto del popolo minacciato dal mostro venuto dal mare. I soldati che spostano i piedistalli sono le anime dei morti, intrappolate in una sorta di prigione, incapaci di raggiungere il Nirvana. Non hanno perdonato a Idomeneo il suo tradimento, sono loro che muovono i personaggi e dettano gli eventi, non Idomeneo, né altri in posizioni di potere. La principessa Elettra, per esempio, essendo stata tradita dalla sua classe, è stata ridefinita come una del popolo, quindi non è fissata su un piedistallo, ma è in grado di vagare liberamente, mentre Nettuno si esprime sotto forma di giradischi – come era successo per la dichiarazione di pace dell’Imperatore del Giappone per annunciare la fine della guerra, con la sua voce trasmessa in un discorso registrato per la radio.

Con i costumi di Junpei Kiz che si suddividono tra abiti occidentali, giapponesi antichi e uniformi moderne e costretti sui loro alti e stretti basamenti, i cantanti sono impegnati a mantenere l’equilibrio e a non farsi venire il mal di mare per il continuo ruotare delle basi. Cantano a loro stessi con gesti stereotipati, i duetti non sono più tali. Il più in difficoltà, e mai si sarebbe detto, con l’intonazione e le agilità della sua aria più impegnativa, «Fuor del mar ho un mare in seno» portata a termine con fatica, sembra sia Michael Spyres. Qualche problema di intonazione l’ha anche l’Elettra di Nicole Chevalier la cui aria finale «Ah! Smania… D’Oreste d’Aiace» in cui si lascia andare a un’esplosione di emozioni, è ricca di coloratura e di effetti vocalmente espressivi. 

Ineccepibile è invece la performance di Sabine Devieilhe che delinea un sensibile ritratto di Ilia con la sua voce ben sostenuta quando aumenta di volume, brillante e chiara, in grado di fornire salti, abbellimenti delicati e passaggi di agilità con consumata facilità e caratterizzata da precisione e gran controllo vocale in un legato senza soluzione di continuità. L’idea di affidare a un mezzosoprano la parte di Idamente – una via di mezzo tra il castrato originale e il tenore utilizzato più frequentemente – convince poco non tanto per la qualità della interpretazione di Anna Bonitatibus, ma perché si perde la necessaria virilità del personaggio che alla fine prende il potere. Linard Vrielink (autorevole Arbace), Krešimir Špicer (sensibile Alto Sacerdote) e Alexandros Stavrakakis (Oracolo) completano il cast dei solisti mentre attenti si dimostrano i coristi spesso impegnati in volenterose coreografie. Alla testa della sua Pygmalion, la famosa orchestra di strumenti d’epoca, Raphaël Pichon dà una lettura da opera seria pienamente informata in una versione ridotta, un compromesso tra quella di Monaco e quella di Vienna del 1786.

Die Fledermaus

Johann Strauß figlio, Die Fledermaus

Monaco, Bayerische Staatsoper, 31 dicembre 2023

★★★★☆

(video streaming)

Uno scatenato Pipistrello

Tempo di feste, tempo di Die Fledermaus, l’operetta che festeggia i 150 anni, essendo stata eseguita la prima volta al Theater an der Wien nel 1874 diretta dallo stesso autore, Johann Strauß figlio. Almeno quattro sono le produzioni nei teatri europei in questo periodo: Bologna, Vienna (Staatsoper ovviamente), Zagabria (video disponibile su Operavision) e Monaco di Baviera (disponibile su Arte). Sulla carta quest’ultimo era il più promettente e si è rivelato tale anche nella realtà con Vladimir Jurovskij alla direzione d’orchestra, Barrie Kosky alla regia e un cast di rilievo.

Si tratta del terzo Pipistrello in tempi moderni alla Bayerische Staatsoper dopo quello di Leander Haußmann degli anni ’70 soppiantato da quello di Otto Schenk nel 1997 e ora da quello del regista australiano-tedesco che, dopo l’operetta tedesca e Offenbach, ha affrontato la regina delle operette viennesi con il suo teatralissimo e irriverente approccio che gioca con il travestimento: il principe Orlofski, il più delle volte interpretato da una cantante femminile in vesti maschili, qui è invece un controtenore in versione drag-queen sgargiante, drappi turchesi e sete smeraldo su crinoline esagerate mentre il coro del secondo atto è vestito nei colorati e genderfluid costumi di Klaus Bruns, con piume a profusione.

Lo spettacolo inizia con il sonno di Gabriel von Eisenstein infestato da pipistrelli ballerini nella sua camera da letto al centro di una piazza attorniata da facciate di vecchi palazzi viennesi, la Judenplatz – un’allusione all’ebraismo in qualche modo nascosto del compositore e a quello invece dichiarato del regista. Nella scenografia disegnata da Rebecca Ringst, dalle porte escono ed entrano a ritmo incalzante personaggi spesso ignari gli uni degli altri come in una pochade di Feydeau.

Il secondo atto con il ballo dal principe Orlofsky fonde coristi e ballerini in un’atmosfera dove l’identità di genere svanisce tra piume di struzzo, glitter e paillettes. La festa culmina con un balletto sulle irresistibili musiche di Unter Blitz und Donner, prima del trascinante finale in cui tutti intonano l’inno al piacere «Ha, welch ein Fest, welche Nacht voll Freud’! | Liebe und Wein gibt uns Seligkeit! | Ging’s durch das Leben so flott wie heut, | Dann wäre jede Stund’ der Lust geweiht! (Ah, che festa, che notte piena di gioia! L’amore e il vino ci danno la beatitudine! Se la vita andasse così veloce come oggi, allora ogni ora sarebbe dedicata al piacere!). Irriverenti quanto mai, e quindi esilaranti , le coreografie di Otto Pichler.

Il terzo atto, il più breve, è arricchito da Kosky di sorprese. Il carceriere non è uno: ci sono ben sei Frosch diversi. Uno che parla, quattro che danzano e un sesto che si rivela ballerino di tip tap sulle note del Pizzicato Polka. Ma è il direttore della prigione nel suo dopo sbornia a rivelare gli aspetti più sfrontati, con un Martin Winkler che spinge al limite la sua performance scenica presentandosi in tacchi a spillo, perizoma glitterato e copri capezzoli con nappe. Evidenti residui di una serata sopra le righe. Ma si sa, la colpa è tutta dello champagne!

Kosky si impegna al massimo nella direzione dei personaggi, li  ridefinisce e reinterpreta la trama satirica della società e dei costumi viennesi creando uno spettacolo a metà strada tra il burlesque e il vaudeville, ma con risvolti meno superficiali: mentre si dipana la storia di intrighi e mascherate, le facciate si trasformano per mostrare le tenui strutture metalliche che le sorreggono e poi si sgretolano, come il matrimonio borghese degli Eisenstein. Mentre l’atmosfera utopica di fraternizzazione del secondo atto lascia il posto a un finale sgargiante su cui scende una batteria di lampadari scintillanti da cui si appende Eisenstein.

La vivacità della messa in scena trova il corrispettivo sonoro della direzione di Vladimir Jurovskij, un miracolo di verve, rubati, temi seducenti realizzati da quel meraviglioso strumento che è l’orchestra del teatro e da un cast di livello. Georg Nigl è un Gabriel von Eisenstein di collaudata presenza scenica e indiscusse doti vocali, del Frank di Martin Winkler si è già detto, così come del Principe Orlofsky di Andrew Watts che si sarebbe preferito un po’ più sfrontato. Breve ma succulenta la parte di Sean Panikkar, il galante Alfred punto debole di Rosalinde, qui una Diana Damrau, ex splendida Adele, con qualche stanchezza negli acuti. Quasi perfetta invece l’Adele di Katharina Konradi, bel talento di attrice e cantante dotata di grande tecnica vocale. Markus Brück (Dr. Falke) e Kevin Conners (Dr. Blind) completano il cast.

Il prossimo appuntamento è a Zurigo, dove a marzo Kosky metterà in scena La vedova allegra con Michael Volle, Marlis Petersen e ancora Katherina Konradi. Tempi felici per l’operetta.

Il piccolo principe

Pierangelo Valtinoni, Il piccolo principe

Torino, Piccolo Regio Puccini, 12 gennaio 2024

Il malinconico principe dell’asteroide B-612

C’è chi lo adora, chi lo trova insopportabile. Comunque sia, Le Petit Prince (Il piccolo principe) di Antoine de Saint-Exupéry, pubblicato nell’aprile 1943, è da sempre uno dei libri più venduti con 505 traduzioni in varie lingue – sedici solo quelle in italiano, soprattutto dopo il 2015, anno in cui sono scaduti i diritti di traduzione originali della Bompiani.

Soggetto di innumerevoli spettacoli teatrali, numerosi sono i musicisti che ne hanno fatto un’opera, come il compositore russo Lev Knipper nel 1964, poi Rachel Portman (2003, in inglese), Alberto Caruso (2015), Enrico Melozzi (2017). Infine, nel 2022 viene presentata alla Scala la versione di Pierangelo Valtinoni, uno dei più rappresentati compositori italiani viventi, che dopo la trilogia formata da Pinocchio (2001), La regina delle nevi (2010) e Il Mago di Oz (2016), ha affrontato quest’altro classico della letteratura per ragazzi e adulti. Si tratta della sua settima opera. A marzo a Dortmund andrà in scena la sua ottava: Viaggio sul pianeta 9, tratto da un racconto di Paula Fünfeck, su libretto di Paolo Madron, lo stesso de Il piccolo principe.

Nella vicenda in primo piano sono i temi del viaggio come metafora della formazione e crescita, dell’amicizia e dell’iniziazione, ma anche temi come l’abbandono e la morte.

Il racconto si apre sul ricordo del narratore di quando a sei anni ha deciso di abbandonare una delle sue più grandi passioni, il disegno, e da quel momento si è interessato di aerei fino a diventare un pilota. Ed è allora che inizia a raccontare il suo incontro, durante una panne del suo aereo nel deserto africano, con il Piccolo Principe. Da una frase inaspettata, quanto semplice «Mi disegni, per favore, una pecora?» inizia il loro rapporto. Il piccolo principe racconta la sua storia spiegando al narratore che proviene dall’asteroide B-612 dove possiede una rosa per lui rara, che deve difendere dalla crescita di arbusti grazie alla pecora, appunto. Nei suoi viaggi che ha compiuto per istruirsi, è entrato in contatto con diversi personaggi e ognuno si è distinto per una particolarità. Per primo ha incontrato un re abituato a comandare ai suo sudditi anche se sul suo pianeta ne è il solo abitante. Sul secondo pianeta trova una donna molto vanitosa. Seguono altri pianeti, abitati da strani personaggi, come l’uomo d’affari che conta le stelle come se fossero le sue o un geografo che specula su come sia fatto il suo pianeta. Nel suo viaggiare il Piccolo Principe fa anche la conoscenza di una volpe, che ha addomesticato per poterla riconoscere, ricordare e far sì che diventi la sua unica e rara volpe. Quando è ormai passato un anno, il Piccolo Principe vuole ritornare sul suo piccolo pianeta per prendersi cura della rosa. Per poter lasciare la Terra si fa mordere da un serpente. L’indomani il suo corpo non viene ritrovato, ma ogni volta che il narratore guarda le stelle, si sente vicino all’amico dai capelli biondi e dalla lunga sciarpa.

Questa del Regio torinese è una produzione diversa da quella milanese, totalmente nuova e affidata alla cura musicale di Claudio Fenoglio e alla messa in scena di Luca Valentino, lo stesso team che aveva portato in scena, questa volta nella sala grande, Pinocchio. E il confronto è inevitabile. Il teatro musicale di Valtinoni è improntato alla semplicità comunicativa, la sua musica ha strutture formali armoniche e melodiche di grande trasparenza. Pur non disdegnando modalità armoniche audaci e originali, la sua immediatezza è per essere apprezzata e fatta propria dai fruitori, i bambini. Ma qui fanno tutto le voci bianche del coro del teatro e manca la partecipazione del pubblico dei piccoli. Per di più i temi non hanno quella orecchiabilità che ti faceva uscire dal Pinocchio canticchiandone i temi. I caratteri sono sì connotati da temi musicali, come la delicata melopea associata al protagonista affidata prevalentemente all’arpa, o i particolari colori strumentali, come il glissando del timpano, il pizzicato del contrabbasso e le sonagliere per il serpente, ma non abbastanza da evidenziare univocamente i diversi personaggi.

Strutturato in un Prologo, sette scene e un Epilogo che si succedono senza soluzione di continutà, il lavoro dura poco più di un’ora. Dopo la “trilogia della ricerca”, popolata di personaggi alla ricerca di sé nel mondo, qui Valtinoni punta piuttosto alla introspezione, alla scoperta intima del sé, tramite una vicenda fantastica che ha poco a che fare con l’immaginario infantile: come per il racconto letterario di Saint-Exupéry, saranno maggiormente gli adulti ad apprezzare una partitura che richiama il primo novecento nella raffinata scrittura orchestrale e nel linguaggio tonale e atmosferico messo in luce con sensibilità e gusto dal maestro Claudio Fenoglio a capo della non vasta compagine orchestrale – archi, due flauti, oboe, clarinetto, fagotto, due corni, tromba, percussioni e arpa. Le voci si affidano a un canto di conversazione senza grande varietà ritmica e che privilegia le suggestioni della parola. Solo in un caso, nel personaggio qui femminile della Vanitosa, il canto diventa più complesso, ricco di agilità e colorature atte a mettere in ridicolo il carattere della figura, unico momento ironico di un lavoro prevalentemente venato di melanconia.

Per l’allestimento, come s’è detto, si ricompone il collaudato sodalizio formato dal regista Luca Valentino affiancato dal fidato Claudio Cinelli per le scene e la direzione dei pupazzi animati, e da Laura Viglione per i sempre prestigiosi costumi. Con la stessa semplice eleganza delle illustrazioni originali del libro, per le immagini Valentino sfrutta la tecnica del bunraku giapponese per far muovere i pupazzi da inservienti vestiti di nero che spariscono sul fondo nero, così come era avvenuto per Ciottolino, lo spettacolo su musiche di Luigi Ferrari-Trecate presentato in questa stessa sala. Questa volta però nel nero si aprono squarci illuminati dalle magiche luce di Davide Milani per le scene più realistiche che contrastano così con quelle più fantasiose dove, con grande economia di mezzi – e di budget: siamo ben lontani dalle possibilità del teatro milanese che l’aveva commissionata! – una semplice linea azzurra rappresenta l’orizzonte del minuscolo pianeta, le lucine in alto il firmamento, un aeroplanino di carta il velivolo sui cui troverà tragicamente la morte Antoine de Saint-Exupéry due anni dopo la pubblicazione del libro.

Affascinato dai suoni e dalle immagini, il folto pubblico del Piccolo Regio ha tributato calorosi applausi ai numerosi esecutori: l’orchestra e il coro di voci bianche del teatro, gli allievi delle classi di strumento del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino, gli allievi delle classi di canto e pianoforte del Conservatorio Vivaldi di Alessandria, gli animatori dei pupazzi (Irene Caroni, Lara Quaglia, Simona Tosco) e ovviamente i bravi solisti in gran parte provenienti dal Regio Ensemble. Ricordiamoli tutti: la voce fresca e luminosa del soprano Amélie Hois (Il piccolo principe) che si alterna nelle recite con Valentina Escobar; il mezzosoprano Ksenia Khubunova (La volpe e Un passante) che si alterna con Martina Baroni; il basso Matteo Mollica (Il pilota); il baritono Francesco Auriemma (Il re, Il serpente e Un passante); il soprano Irina Bogdanova (La madre, Una vanitosa molto Prima Donna e Una rosa); il tenore Paweł Żak (Il padre e L’uomo d’affari) e le voci bianche di Ludovico Rena e Nikita Zappino che si alternano come Il pilota bambino.

P.S. Grazie a Luca Valentino e a Marco Emanuele per le segnalazioni di altre versioni operistiche de Il piccolo principe.

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