Mese: giugno 2014

Orphée aux Enfers

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★★★★★

Due ore di divertimento assoluto

Nel 1997 inizia la felice collaborazione della premiata ditta Minkowski-Pelly (il primo alla direzione d’orchestra, il secondo alla regia), artefice delle fortunate produzioni moderne delle operette di Offenbach. Questa è la registrazione all’Opéra di Lyon di questo primo fausto incontro. Come interpreti il meglio che offra la scena musicale francese per questa musi­ca. I coniugi Dessay-Naouri ovviamente rubano la scena sia da soli che nell’irresistibile duetto della mosca, ma occorre ricordare il tenore di gra­zia Yann Beuron, il caratterista Jean-Paul Fouchécourt e i tanti comprima­ri, magari non tutti allo stesso livello, ma tutti divertiti e diver­tenti.

La messa in scena di Laurent Pelly e Chantal Thomas risolve il dilemma se ambientare la vicenda nell’epoca mitologica o in quella della Pa­rigi Se­cond Empire. Nessuna delle due: i Nostri scelgono i tempi moderni ed è la scelta più intelligente per rendere ancora più caustici gli irresisti­bili versi di Crémieux e Halévy. All’alzare del sipario ci troviamo infatti in un grigio cortile di periferia. La cosa non promette bene, ma appena en­trano gli interpreti sulla spumeggiante musica di Offenbach il divertimento ha inizio. Orphée aux Enfers (1858), è la sua prima opera di successo. Qui il musicista si fa beffe del mito classico e sei anni dopo toccherà all’Olim­po di cartapesta de La Belle Hélène.

Orfeo ed Euridice si detestano cordialmente e l’inattesa morte della con­sorte è salutata con gioia dal marito che pensa così di essersene liberato. L’Opinione Pubblica obbliga però il cantore a scendere negli inferi per re­cuperare la legittima sposa, la quale nel frattempo non sembra spassarsela male, soprattutto grazie al solito Giove che, in uno dei suoi tanti travesti­menti, è sceso pure lui portandosi dietro tutti gli dèi dell’Olimpo annoiati della solita routine nettare-ambrosia-delizie-celesti. Alla fine la morale borghese sarà ipocritamente salva e tutto termina in un indiavolato “galop infernal”, un cancan inventato pochi anni prima da Céleste Mogador, danseuse vedette del Bal Mabille.

Atto I. Scena I. Tebe (Grecia) in un’epoca indefinita. La prima scena si apre con un coro di pastori che invita tutti a rientrare nelle loro dimore e a fare spazio al passaggio del consiglio comunale. Fa il suo ingresso in scena Euridice intonando la sua malinconica canzone: da molto tempo, infatti, Orfeo e Euridice sono stanchi l’uno dell’altra e la loro convivenza è molto cambiata: Euridice si sente trascurata ed è molto arrabbiata con il marito per la sua ossessione per la musica. Orfeo, invece, è offeso perché la moglie si rifiuta di riconoscere le sue doti musicali. La relazione della coppia è a tal punto deteriorata che ciascun coniuge cerca fuori di casa una soluzione alla noia. Si chiacchiera che Orfeo abbia un affaire con la ninfa Chloè e che Euridice abbia una relazione amorosa con l’affabile pastore e produttore di miele Aristeo, da poco divenuto vicino di casa della coppia. Aristeo intona la sua canzone pastorale, un brano che con il suo gradevole profumo bucolico serve a Offenbach per rivelarci l’erronea visione che ha di lui Euridice: erronea poiché dietro alla mite personalità di Aristeo si nasconde il dio Plutone che intende portare la donna con sé negli inferi. Allorché la graziosa Euridice decide di andarsene con Aristeo, Orfeo non pare eccessivamente afflitto. Appare allora l’opinione pubblica, che minaccia Orfeo di rovinare la sua reputazione come personaggio pubblico, in quanto artista e professore di violino, se non parte subito alla ricerca di Euridice per esigere il suo ritorno. L’opinione pubblica consiglia a Orfeo di rivolgersi, qualora fosse necessario, anche alla massima autorità, ossia Giove in persona. L’opinione pubblica decide di accompagnarlo nella sua avventura per mostrargli il cammino che conduce all’Olimpo. Scena II. Sul Monte Olimpo. Gli dei si svegliano dal loro torpore e si ribellano, sulle note della Marsigliese, al regime imposto da Giove; sono perfino contrari alla ridicola e noiosa dieta a base di nettare e ambrosia imposta dal dio supremo. Lungi dal comportarsi con la dignità propria di un dio, Giove non può trattenersi dal fare numerose scappatelle nel mondo esterno e sua moglie Giunone lo riprende per il suo comportamento, convinta che il marito abbia una relazione con Euridice. Quando Giunone accusa Giove, costui si mostra nello stesso tempo adulato e infuriato. In quel momento sopraggiunge Orfeo accompagnato dall’opinione pubblica e chiede, senza troppa convinzione, che gli venga restituita la moglie. Giove convoca gli dèi in tutta urgenza, proponendo loro una gita negli inferi. Il dio supremo intende ritrovare Euridice ma non per consegnarla al marito, bensì per tenersela per sé.
Atto II. Scena I. Nell’Ade, la dimora di Plutone. Qui il dio tiene rinchiusa Euridice, sorvegliata da un eunuco chiamato John Styx, che rimpiange i tempi passati. Euridice si mostra completamente indifferente nei confronti di Styx, senza prestare la benché minima attenzione alle sue lagnanze. Anzi, la giovane è più indispettita che mai poiché la noia è ancor più grande di quando viveva con Orfeo: indossati gli abiti di Plutone, Aristèe ha infatti smesso di mostrare interesse per la donna una volta che costei ha accettato le sue condizioni. Mentre tutti gli abitanti dell’Olimpo cercano disperatamente Euridice, quest’ultima è attratta da un insetto che si è posato sul buco della serratura. Si tratta di una mosca dalle ali dorate che si fa prendere facilmente fra le mani della ragazza. In realtà è Giove che, così come in altre occasioni, ha mutato le proprie sembianze per raggiungere il suo scopo. Il dio promette a Euridice che le rallegrerà la vita. Scena II. Nell’Ade, oltre il fiume Stige. Plutone ha organizzato un banchetto infernale per i suoi invitati dell’Olimpo. Incoraggiato dal suo recente successo come seduttore, Giove viene acclamato dagli astanti e si esibisce in un vivace minuetto che ben presto degenera in un selvaggio can-can. Ma il mondo umano interrompe il divertimento degli dèi: l’opinione pubblica è riuscita a spingersi fino agli inferi con sommo disappunto di Orfeo, felice per la sua separazione da Euridice. Adesso Orfeo, contro la propria volontà dato che agisce sotto l’ingiusta imposizione dell’opinione pubblica, si vede costretto a chiedere a Giove che gli venga restituita la moglie. Sotto lo sguardo attento degli dèi, Giove concede il proprio assenso ma a una condizione: Orfeo non deve guardare indietro durante il suo viaggio di ritorno a Tebe. Quando la coppia, guidata dalla trionfale opinione pubblica, sta per raggiungere il fiume Stige, Giove scaglia un fulmine: Orfeo si volta impaurito e, così facendo, perde Euridice. Giove non può prenderla con sé, dato che deve mantenere la propria reputazione di seduttore, e così dispone che la donna passi al servizio di Bacco. Affascinata dal futuro che la attende, la nuova baccante viene accolta dalla comitiva ubriaca e giubilante che accompagna il dio del vino.

Come in tutte le opere francesi, e quelle di Offenbach non fanno eccezione, molto importante è il balletto, affidato qui alle spiritose coreogra­fie di Dominique Boivin, dove tutti sono rigorosamente in tutu e ballano sulle punte, compresi i ballerini con piede misura 45. Due ore di continuo di­vertimento.

Immagine un po’ granulosa, quasi da VHS (ma erano più di quindici anni fa) e molto compressa per far stare le tre tracce audio, nessun extra.

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Lady Macbeth del distretto di Mcensk

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★★★★☆

Orgasmo e omicidio…

… sono i poli estremi di quest’opera secondo il regista Martin Kušej. Se aggiungiamo anche la noia della protagonista, abbiamo in breve le tappe della vicenda di Katerina Izmailova.

Su libretto di Alexander Preis e del compositore stesso, tratta dall’omonimo racconto di Nikolaj Leskov del 1865, Lady Macbeth del distretto di Mcensk (Леди Макбет Мценского уезда, Ledi Makbet Mcenskogo uezda) di Dmitrij Šostakovič venne rappresentata nel 1934 con grande successo sia di pubblico sia di critica, tanto che poco tempo dopo se ne poterono vedere ben tre diversi allestimenti nei teatri di Mosca. Apprezzata quale espressione di una rivolta antiborghese (una donna agiata prende coscien­za della società zarista e con un servo uccide i suoi padroni), non piacque però a Stalin che abbandonò la sala durante una sua rappresentazione e in seguito proibì l’opera in quanto «inadatta al popolo sovietico […] caotica, apolitica […] atta a solleticare i gusti pervertiti del pubblico borghese con la sua musica agitata, urlante e nevrastenica». La scabrosità del soggetto turbava i principi su cui si fondava la società sovietica ipotizzata dal suo dittatore e da allora iniziò l’ostracismo della musica del compositore.

Atto I. Quadro I. Vengono sottolineate le umiliazioni alle quali Caterina è sottoposta da parte del suocero, che non solo la importuna e vorrebbe possederla, ma le rinfaccia di non riuscire ad avere figli. Come se non bastasse, poiché il marito di Caterina, Sinovio, dovrà allontanarsi per alcuni giorni, Boris fa giurare, davanti a tutta la servitù, che rimarrà fedele al consorte lontano. La cuoca Aksinia, allora, interviene e le fa notare un bel garzone assunto da poco. Quadro II. Alcuni lavoranti insidiano e maltrattano la deforme Aksinia, aizzati proprio da Sergej. Caterina interviene in difesa della donna, ma pur essendo provocata da Sergej, ne rimane attratta. Quadro III. Caterina si dispera per la sua atroce solitudine. Sergej si introduce nella sua camera da letto e seduce Caterina.
Atto II. Quadro I. Boris è eccitato e tormentato dalla presenza di Caterina, al punto da decidere di assolvere ai doveri coniugali in vece del figlio. Mentre sta progettando tali lascivie, gli cade addosso, dalla finestra della camera di Caterina, Sergej. Boris lo riduce in fin di vita a frustate di fronte agli occhi di tutti i servitori e di Caterina stessa: quindi Sergej viene rinchiuso in cantina. Caterina avvelena Boris mettendo del veleno per topi nel suo piatto; dopo avergli sottratto la chiave della cantina dove è rinchiuso l’amante, assiste alle funzioni del pope, chiamato per assistere il moribondo. Quadro II. Caterina è a letto con Sergej, tormentata dai rimorsi: arriva il marito, che viene ucciso dai due e nascosto in cantina.
Atto III. Quadro I. Caterina e Sergej si sposano, mentre il marito è dato per disperso. Caterina è ossessionata da ciò che ha fatto e guarda terrorizzata verso la cantina. Un servo ubriaco, mentre gli altri sono in chiesa per il matrimonio, credendo che le occhiate di Caterina nascondano la presenza di un buon vino, sfonda la porta della cantina, trova il cadavere di Sinovio e chiama la polizia. Quadro II. Nel distretto di polizia i gendarmi si annoiano e, per passare il tempo, si divertono a creare problemi a qualche intellettuale, ad esempio accusando di nichilismo un innocente insegnante. Quadro III. Caterina, alla fine della cerimonia, si accorge che la cantina è stata aperta ma è troppo tardi per fuggire.
Atto IV. Caterina e Sergej si trovano in un accampamento, di notte, mentre sono in viaggio verso la Siberia perché condannati a lavori forzati. Caterina corrompe una guardia perché le permetta di passare la notte con Sergej, ma lui la considera ormai solo una fonte di disgrazie ed è invece attratto da un’altra detenuta più giovane, Sonetka, alla quale regala le calze di lana che Caterina gli ha dato. Tutti si prendono gioco di lei: Caterina, disperata, si getta nel fiume trascinando con sé la rivale. Le due donne annegano, mentre i deportati riprendono la marcia.

Per un quarto di secolo l’opera fu bandita dai teatri e solo nel 1962 Šostakovič ne presentò un’edizione revisionata col titolo Katerina Izmailova (un titolo più indicato poiché la protagonista non ha l’iniziativa inco­sciente e criminale del personaggio di Shakespeare), ma da dopo la sua morte la versione più rappresentata è quella originale. Per un’analisi ap­profondita dell’opera e delle sue analogie con la Kát’a Kabanová di Ja­náček si veda il bel saggio Šostakovič di Franco Pulcini nelle edizioni EDT.

Questa produzione del 2006 al Nederlandse Opera di Amsterdam si basa dunque sulla versione del ’34 e si avvale della messa in scena del regista Martin Kušej che assieme alla scenografia di Martin Zehetgruber am­bienta la vicenda in epoca moderna e in due spazi distinti: una specie di gabbbia di vetro per l’annoiata Katerina e la sua collezione di scarpe e l’esterno sporco di terra in cui avvengono i misfatti e hanno luogo le scene corali. Per l’ultimo atto, nel carcere siberiano, l’ambiente è diverso, ma an­cora più angosciante.

La famosa scena dell’amplesso quasi animalesco è risolta con efficacia da un’illuminazione stroboscopica che giustamente non contraddice e non aggiunge nulla a quello che la musica qui (da alcuni definita “pornofonia”) suggerisce molto chiaramente.

L’impervia partitura trova nella direzione del lèttone Mariss Jansons un ottimo interprete soprattutto negli splendidi intermezzi orchestrali che, come gli interludi del Peter Grimes di Britten, hanno trovato un’autonoma vita concertistica per la bellezza e la forza con cui dipingono i mo­menti lirici o satirici della storia.

Interprete intensa del titolo è Eva-Maria Wetsbroek che ha voce e fisico adatti alla parte della sensuale e trascurata moglie che quando incon­tra il ceffo seduttore di Sergej (un Christopher Ventris dallo sguardo am­maliatore) gli si consegna anima e corpo – soprattutto il secondo. Ottimi i due interpreti principali, ma eccellenti anche gli altri, tra cui il bieco e volgare Boris, il suocero, che ha la potente voce di Vladimir Vaneev.

Due dischi bly-ray per un’immagine e un suono perfetti e tra gli extra un interessante documentario.

Cardillac

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★★★★☆

Opera antiromantica e dall’ambigua morale

Tratto dal racconto di E.T.A.Hoffmann Das Fräulein von Scuderi (1819), il libretto di Ferdinand Lion narra dell’orefice Cardillac che è talmente geloso delle sue creazioni da uccidere il compratore per ritornarne in possesso. Anche se ambientato nella Francia di fine XVII secolo (il sottotitolo dell’opera di Hoffmann è “Racconto dei tempi di Luigi XIV”) il tema dell’artista che si pone al di sopra della morale e delle leggi è di grande attualità anche nel 1926, anno in cui l’opera di Hindemith debutta a Dresda. Una seconda revisione dell’autore, ampliata in quattro atti, porta la data del 1952, ma dopo la morte di Hindemith nel 1963 la versione originale è stata quella preferita nelle incisioni di Keilberth, Albrecht, Sawallisch e in questa di Nagano.

Atto primo. Parigi, all’epoca di Luigi XIV. Il nucleo narrativo risiede nella maniacale riluttanza dell’orafo Cardillac a separarsi dalle sue opere di perfetta fattura, fino al punto di riprendersi i gioielli venduti assassinando i clienti che li hanno comprati. I misteriosi delitti agitano la folla parigina, in astiosa ricerca del mostro, ma non impediscono a un cavaliere di corte di sfidare il pericolo, a cui lo induce una dama con la promessa di una notte d’amore in cambio di una cintura d’oro. Nella lunga Pantomima che chiude l’atto assistiamo, nella camera da letto della dama, al delitto di Cardillac, che pugnala a morte il cavaliere e porta via il monile.
Atto secondo. Nella bottega dell’artigiano. Cardillac vive con una figlia, combattuta tra l’amore per il padre e quello per un giovane ufficiale, con cui si è già fidanzata a sua insaputa. Il conflitto, in realtà, lo vive lei sola, perché l’orafo ama il frutto delle sue mani assai più che quello dei suoi lombi, come le confida apertamente: «Solo il piacere doloroso della potenza creatrice mi trattiene su questa terra». Tutto ormai separa Cardillac, isolato nella sua ossessione, dalla vita. Subisce la visita di re Luigi XIV con la corte, alla cui potenza sociale non può opporsi nemmeno con il delitto; quindi viene affrontato dall’ufficiale, il quale comprende che per far sua la figlia deve lottare e vincere contro la forte personalità del padre. Il giovane compra dunque una catena d’oro, sfidando le oscure minacce di Cardillac, che lo segue di nascosto, nella notte di plenilunio, per riprendersi ciò che gli appartiene.
Atto terzo. Nei vicoli della città. Cardillac tenta senza successo di uccidere l’ufficiale, che porta al collo la catena. Denunciato alla folla dal commerciante, che a sua volta lo stava spiando, Cardillac viene salvato a sorpresa dallo stesso giovane, impressionato dalla profonda passione che lo anima. Il popolino vuole farsi giustizia e minaccia di assaltare il laboratorio dei gioielli maledetti di Cardillac, il quale, piuttosto che vedere profanato il proprio lavoro, preferisce confessarsi colpevole. Con coraggio e senza pentirsi, l’orafo si lascia linciare dalla folla, prima che l’ufficiale, impietosito dalla sua tempra eroica, possa fermarla.

Non è la prima volta che un artista è al centro di un’opera di Hindemith: lo stesso tema tornerà in Mathis der Maler (Mattia il pittore, 1934) e Die Harmonie der Welt (L’armonia del mondo, 1957, su Keplero). Qui l’ossessione di Cardillac è elevata a proporzioni abnormi in modo tale da diventare metafora dell’alienazione dell’artista e della sua conseguente solitudine (1), ma moralmente imbarazzante è il finale dell’opera con l’assoluzione dell’assassino: la forza dell’arte è più forte di tutto. «Dio voleva che continuassi a vivere per creare le mie opere» dice Cardillac quando scopre di essere salvo. Una simile giustificazione fa venire i brividi se pensiamo a quello che sarebbe successo di lì a poco in Germania e quante volte si dovrà sentire «Gott mit uns». (2) Il regista di questo allestimento dichiara questo imbarazzo e lo risolve in parte lasciando fuori scena, nascosto, il coro assolutorio finale.

Musicalmente Cardillac segna il passaggio dalla fase espressionista degli atti unici su libretti di Kokoschka (Mörder, Hoffnung der Frauen, Assassinio speranza delle donne, 1921), Blei (Das Nusch-Nuschi, 1921, spettacolo per marionette birmane) e Stramm (Sancta Susanna, 1922) a quella della cosiddetta ‘Neue Sachlichkeit’ (Nuova oggettività). «Il clima espressionista è dato dal soggetto, mentre l’inquadramento formale risponde a criteri di oggettività. E ciò rispecchia la duplice natura di Cardillac: la furia irrazionale che lo spinge all’omicidio da un lato, la cura maniacale con cui attende alle sue opere d’arte, lucida e razionale, tesa alla perfezione del dominio sulla materia, dall’altra. […] Il ricorso ai pezzi chiusi è un espediente che Hindemith usa per dare chiarezza formale a una materia che rimane incandescente e tutt’altro che passibile di schematizzazioni» (Sergio Sablich)

Dopo la concentrazione dei tre atti unici, Hindemith si pone dunque il problema della forma operistica in questo lavoro di maggiori dimensioni in cui pezzi tradizionali come l’aria, il lied, i duetti, i quartetti e i concertati si alternano con altre forme antiche recuperate nell’opera del novecento quali il balletto, la marcia, la pantomima. L’uso di strumenti solistici è poi un aspetto distintivo della partitura: il sassofono tenore (bellissimo il suo intervento nell’aria «Mag Sonne leuchten» in cui Cardillac dichiara il suo amore per l’oro), la folta schiera di percussioni con tamburi d’ogni tipo, anche jazz, e il pianoforte danno un colore particolare a un’orchestra ridotta e ariosamente contrappuntistica, magistralmente condotta qui dal direttore Kent Nagano.

Nella produzione parigina del 2005 all’Opéra Bastille il regista André Engel ambienta la vicenda ai tempi della composizione dell’opera, gli anni ’20. Gli interni déco di Nicky Rieti e i costumi della Messellière sembrano usciti da un film dell’epoca dei telefoni bianchi, mentre i colori hanno la vivezza delle illustrazioni delle avventure di Fantômas o dei quadri di Magritte. L’ultimo atto ci porta poi sorprendentemente sui tetti di una onirica Parigi notturna.

Il regista fa un pregevole lavoro di caratterizzazione dei personaggi avendo la fortuna di disporre di grandi interpreti: Alan Held, intenso Cardillac, e Angela Denoke, figlia divisa tra l’amore per il padre e per l’amato, un baldanzoso Christopher Ventris. Hannah Esther Minutillo e Charles Workman danno voce alla coppia di potenziali amanti.

Immagine cristallina e tre tracce audio. Sottotitoli anche in italiano. La regia video di Chloé Perlemuter ci porta spesso dietro le quinte per vedere i veloci cambi di scena dell’enorme palcoscenico del teatro parigino. Come bonus un film di quasi un’ora con Gérard Mortier, sovrintendente dell’Opéra che assieme a regista e scenografo visiona e commenta la registrazione dello spettacolo.

(1) Hindemith lasciò la casa paterna a 11 anni perché i suoi genitori si opponevano alle sue ambizioni musicali.

(2) Il compositore stesso ne sarà vittima e dovrà abbandonare il suo paese nel 1940 in quanto autore di “musica degenerata”.

  • Cardillac, Luisi/Binasco, Firenze, 12 maggio 2018

Faust

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★★★★☆

Il sordido Secondo Impero del Faust di McVicar

Di certo Goethe non avrebbe riconosciuto la sua creazione poetica nella trascrizione che Jules Barbier aveva approntato per la musica di Gounod (il contributo dell’altro librettista, Michel Carré, è limitato a due soli pezzi). Applaudita versione fin dal debutto nel 1858, con grande scorno di Berlioz la cui Damnation de Faust non riusciva invece a sfondare nei teatri, l’opera conobbe un enorme numero di repliche a Parigi e una fortunata carriera internazionale, diventando poi estremamente popolare. Inizialmente aveva i dialoghi parlati che vennero sostituiti poi da recitativi cantati nel 1860. Altri rimaneggiamenti e aggiunte avvennero nel corso delle riprese del ’63 e del ’69.

Atto primo. Chiuso nel suo laboratorio il vecchio dottor Faust si interroga sulla vanità delle sue ricerche. Si odono dall’esterno canti che salutano la primavera e la resurrezione. L’eco gioiosa di tali voci getta Faust nella disperazione. Deciso a suicidarsi, invoca in un sussulto blasfemo il demonio. Appare Mefistofele che gli offre fortuna, gloria e potenza. Gli doni piuttosto la giovinezza, replica Faust: essa è un tesoro che contiene ogni cosa. Una piccola formalità e avrà ciò che chiede, risponde Mefistofele; si tratta di cedere l’anima per l’eternità. Davanti all’esitazione di Faust, Mefistofele fa apparire l’immagine meravigliosa di Margherita. Detto fatto, il vecchio dottore firma il patto e viene trasformato in un giovane elegantissimo pronto ai piaceri della vita.
Atto secondo. È la kermesse, un brulicare di popolo vociante. Valentino, in procinto di partire per la guerra, affida la sorella Margherita alle cure dell’amico Siebel; per se stesso non teme, sarà protetto dalla medaglia sacra che Margherita gli ha donato. Si unisce quindi ai compagni d’arme: ci sarà qualcuno che vorrà intonare una canzone lieta per scacciare la tristezza? Si offre Wagner ma è interrotto dall’arrivo di Mefistofele. Sarà il nuovo arrivato a cantare. Applaudito come cantante, Mefistofele si esibisce quindi come indovino: predice a Wagner la morte in battaglia, a Valentino la stessa sorte in duello, a Siebel che non potrà più toccare fiori senza che appassiscano. Alza quindi un brindisi «alla salute di Margherita». È veramente troppo per Valentino: estrae la spada ma gli si spezza in due. Che sia un sortilegio satanico? Meglio scacciare lo stregone con le spade messe a forma di croce. Mefistofele si allontana imbattendosi in Faust. È tempo gli faccia incontrare Margherita, lo rimprovera il dottore. Solo un momento e la vedrà, ribatte Mefistofele. Ecco infatti la ragazza uscire dalla chiesa, mentre si scatena un valzer vorticoso. Mentre Mefistofele allontana Siebel, Faust può avvicinare Margherita che, con garbo respinge le profferte amorose del cavaliere. A Faust, sempre più innamorato, Mefistofele promette il proprio aiuto.
Atto terzo. Un giardino sul retro della casa di Margherita, al crepuscolo. Giunge Siebel, che coglie fiori per Margherita. Non fa a tempo a toccarli, però, che avvizziscono. Bagna allora la mano con l’acqua benedetta e il sortilegio svanisce. Raggiante, depone i fiori sulla soglia, mentre entrano Faust e Mefistofele. Faust è rapito dall’incanto del luogo, vorrebbe fuggire ma Mefistofele lo richiama all’ordine e depone un cofanetto di gioielli di fianco ai fiori di Siebel. Ecco giungere Margherita, assorta nell’immagine del giovane incontrato la mattina si pone all’arcolaio e canta la ballata del re di Thulé. D’un tratto si accorge dei fiori e del cofanetto, e non resiste alla tentazione di indossare i gioielli. Entra la vecchia Marta. Tutto quello che vede le sembra il dono di un ricco innamorato e se ne compiace con Margherita. Si fanno avanti Faust e Mefistofele. Quest’ultimo annuncia a Marta la morte del marito e inizia, subito dopo, a corteggiarla. La vecchia si consola in fretta della vedovanza e passeggia compiacente con Mefistofele. Faust può così stringere d’assedio Margherita, che questa volta lo ricambia; si rifugia però in casa quando la corte diviene troppo pressante. Faust vorrebbe fuggire, felice del momento vissuto, ma Mefistofele lo trattiene: non gli interessa ascoltare ciò che Margherita confesserà alle stelle? Ecco infatti la ragazza affacciarsi alla finestra e, credendosi sola, dichiarare tutto il proprio amore. Faust allora, travolto dalla passione, si palesa a Margherita che gli si abbandona fra la braccia tra le risate sardoniche di Mefistofele.
Atto quarto. Sedotta e abbandonata da Faust, Margherita è fuggita e schernita da tutti; solo Siebel le è rimasto fedele. Intenzionata a cercare conforto in Dio entra in una chiesa ma è tormentata da Mefistofele, che le ricorda il passato e le preannuncia la dannazione. Tornano i soldati dalla guerra; tra loro è Valentino che non tarda ad apprendere da Siebel ciò che è successo. Entrano Faust e Mefistofele: il primo vuol rivedere Margherita, il secondo allora, per farla affacciare, le intona una serenata offensiva. Giunge furibondo Valentino che sfida Faust a duello, ma è una lotta impari; il dottore, aiutato magicamente da Mefistofele, ferisce l’uomo che cade a terra moribondo. Mentre i due fuggono ecco accorrere Marta, Margherita e un gruppo di borghesi. Prima di spirare, Valentino maledice la sorella.
Atto quinto. Mefistofele conduce Faust nel suo regno, le montagne dello Harz. È la notte di Valpurga. A un cenno di Mefistofele il paesaggio sinistro si muta in un palazzo meraviglioso: le regine e le celebri cortigiane dell’antichità si offriranno a Faust per ottenebrare il ricordo del passato. Ma ecco apparirgli d’improvviso la visione di Margherita, il collo cerchiato di sangue. Turbato, Faust ordina a Mefistofele di condurlo da lei. Margherita langue in prigione: presa dalla disperazione ha ucciso il figlio avuto da Faust e deve essere giustiziata all’alba. Giunge Faust; Margherita, fuori di sé, lo abbraccia e rievoca il passato. Inutilmente Faust cerca di riportarla alla ragione e convincerla a fuggire. Quando Margherita si avvede della presenza di Mefistofele, invoca le potenze celesti, respinge Faust e cade a terra morta. «Dannata» grida Mefistofele, «Salvata» canta un coro celeste, che chiude l’opera inneggiando alla resurrezione.

«Simbolo dell’opera francese per generazioni di spettatori, Faust rappresenta anche uno dei più formidabili successi nella storia del teatro lirico. Un successo nato dapprima in sordina al Théâtre Lyrique, quando l’opera aveva ancora la forma di opéra-comique, con i dialoghi parlati; propagatosi poi, lento ma inesorabile, scandito sui trionfi dei vari debutti internazionali. Il primo a Strasburgo nel 1860, con l’inserzione dei recitativi cantati; altra tappa importante fu il debutto alla Scala nel 1862, con la traduzione italiana di De Lauzières: una versione che dominò le scene del mondo intero per decenni. Il debutto londinese del 1863 apportò invece l’aggiunta dell’aria di Valentino “Avant de quitter ces lieux”, scritta per il celeberrimo Charles Santley. Il sospirato debutto all’Opéra avvenne, trionfale, il 3 marzo 1869 e obbligò Gounod ad aggiungere il balletto: sette episodi inseriti a continuazione del quadro della notte di Valpurga. Tanto luminoso e in ascesa fu il cammino dell’opera, tanto fu travagliata la storia della sua forma definitiva. Una storia ricca di tagli, aggiunte, sostituzioni, spostamenti di episodi, su cui non si è ancora giunti a far luce del tutto, anche a causa della gelosissima custodia che gli eredi di Gounod esercitano sui manoscritti autografi. Nonostante il suo fascino sia apparso negli ultimi decenni lievemente fanéFaust rimane opera ricca di pagine meritatamente celeberrime, pervase da un’infallibilità di pronuncia che ha sovente del miracoloso. Ecco una rapida rassegna dei luoghi memorabili che hanno fatto la leggenda dell’opera gounodiana. Anzitutto il preludio, che accosta felicemente la severità contrappuntistica della prima parte alla cantabilità spiegata della seconda. Trascinante, al termine del primo atto, l’allure del duetto “A moi les plaisirs”, ricco di spunti da opéra-comique. Nel secondo atto, accanto alla vivacità chiassosa della kermesse, si segnalano il rapinoso valzer corale “Ainsi que la brise légère”, l’aria di Valentino “Avant de quitter ces lieux” (sul tema cantabile del preludio) e l’orgiastica “Le veau d’or” di Mefistofele; un cenno d’obbligo anche per la dichiarazione d’amore di Faust a Margherita “Ne permettrez-vous”, d’uno charme squisito. Il terzo atto è ricchissimo di prelibatezze. Si passa dall’elegante strofa di Siebel “Faites-lui mes aveux”, alla celeberrima aria di Faust “Salut, demeure”, cavallo di battaglia di generazioni di tenori, brano di scrittura elegante e di melodia irresistibile. Altro cavallo di battaglia, dei soprani stavolta, è l’aria di Margherita “Je voudrais bien savoir”, che unisce la malinconia venata di inflessioni modali della ballata del re Thulé allo slancio travolgente, virtuosistico del valzer successivo. Degno culmine dell’atto, il duetto tra Faust e Marguerite “Il se fait tard”, che contiene alcune delle melodie più seducenti e famose del melodramma ottocentesco. Nel quarto atto spicca soprattutto la drammaticità sinistra della scena della chiesa, con i tortuosi cromatismi dell’organo, il canto disperato di Margherita, quello inflessibile di Mefistofele e i rabbrividenti interventi corali di demoni e fedeli. Gran celebrità ha arriso al coro di soldati “Gloire immortelle” di effetto infallibile così come alla serenata beffarda che Mefistofele canta a Margherita “Vous qui faites l’endormie”. Nel quinto atto, segnalato il suggestivo esordio dalla notte di Valpurga, di sapore mendelssohniano “Dans les bruyeres”, l’attenzione si sposta sul quadro finale. Dopo il rimarchevole preludio, ecco la toccante intensità espressiva del duetto iniziale “Oui, c’est toi!” nel quale idee nuove e altre già udite vengono utilizzate con indubbia efficacia. Trascinante infine il terzetto finale seguito dal coro celeste, degna chiusura dell’opera all’insegna dell’opulenza sonora. Opera simbolo si è detto, riuscita commistione tra i fasti spettacolari del grand-opéra e un intimismo lirico personalissimo, Faust porta alla ribalta un linguaggio melodico e armonico che andrà lontano, influenzando sensibilmente la musica francese posteriore. Il debito di riconoscenza verso Gounod sarà ammesso dai suoi più illustri successori da Saint-Saëns a Debussy a Ravel, che di lui scrisse: “Riscoprì il segreto della sensualità armonica, andato perduto dopo i clavicembalisti francesi del diciassettesimo e diciottesimo secolo”. (Luca Gorla)

McVicar in questa edizione del 2004 alla Royal Opera House di Londra ambienta la vicenda nella Francia della guerra Franco-Prussiana. Alcuni hanno accusato il regista di aver voluto ricreare in Faust un grand-opéra. Perché, non lo è? Il regista non fa che prendere per buone tutte le convenzioni del genere, comprese le incoerenze del libretto. La sua spettacolare visione si dimostra vincente però, tant’è che lo spettacolo è ancora in cartellone dopo dieci anni.

Il valzer del secondo atto ha luogo al “Cabaret l’Enfer”, in effetti è più un indiavolato cancan, mentre la notte di Valpurga è il frutto dei deliri di Faust che dopo essersi iniettato dell’eroina nelle vene vede il romantico balletto di Giselle trasformarsi prima in danza grottesca e poi in un’orgia di sesso e violenza. Il finale dell’opera nella regia di McVicar è una sequenza di scene incise visivamente. Le sbarre di una prigione ci separano da Margherita che si rifiuta di seguire Faust nel cammino della perdizione e con la sua preghiera si redime. Un angelo dalle ali nere appare tra le canne dell’organo onnipresente nella scenografia e le indica il cammino del cielo. Mefistofele ridiscende all’inferno dalla botola nel pavimento del palcoscenico e Faust riprende le sue fattezze decrepite. Il messaggio morale, se mai ci fosse nell’opera di Gounod, qui è assente e nella visione dell’irreligioso regista solo conta il gesto teatrale assecondato in questa produzione dalla direzione orchestrale vigorosa ma, giustamente, non passionale di Pappano.

Stellare il cast di questa produzione. Alagna appare in scena come decrepito vecchietto, ma dopo aver firmato il patto con Mefistefele, oplà, una capriola per aria da abile ginnasta ed è un pimpante giovane, un monellaccio che punzecchia il sedere del diavolo con un forcone ed esce di scena sghignazzando. Dal punto di vista vocale gli acuti sono ineccepibili, il fraseggio e la dizione impareggiabili, il tono è giusto, ma c’è un certo compiacimento della sua bella voce a scapito dei colori che si vorrebbero un po’ più variati. La sua dolce metà (di allora) Angela Gheorghiu sfoggia anche lei una vocalità sontuosa, ma non è molto credibile come Marguerite ­– sotto la parrucca bionda c’è sempre la vampira della Transilvania. Come il Mefistofele di Ruggero Raimondi nella versione di Ken Russell a Vienna anche qui Bryn Terfel è un sardonico illusionista con un costume a metà tra D’Artagnan e Pirata dei Caraibi ­– per poi presentarsi travestito da regina Vittoria (paillettes, diadema e guanti lunghi…) per il sabba. Terfel non ha la suadente personalità di altri interpreti della parte, ma la sua presenza scenica è innegabilmente efficace. Valentin di gran lusso è quello di Simon Keenlyside, stilisticamente e vocalmente perfetto mentre la bravissima Sophie Koch aggiunge un altro ruolo en travesti alla sua carriera, essendo il claudicante Siebel, lo sfortunato innamorato di Marguerite, qui per la prima volta personaggio a tutto tondo, umano e commovente. Corretto ma al solito legnoso il Wagner di Matthew Rose e quasi imbarazzante la prestazione vocale della Marthe di Della Jones.

Tre ore di musica ripartite su due dischi, due tracce audio, immagine non eccelsa, sottotitoli anche in italiano. Nessun extra. Inspiegabilmente i nomi di regista, scenografo, costumista e coreografo non compaiono né sulla custodia del disco EMI né nell’opuscolo incluso.

  • Faust, Nézet-Séguin/McAnuff, New York, 10 dicembre 2011
  • Faust, Noseda/Poda, Torino, 9 giugno 2015
  • Faust, Pérez/Thannen, Salisburgo, 23 agosto 2016
  • Faust, Viotti/Kratzer, Parigi, 26 marzo 2021
  • Faust, De Billy/Castorf, Vienna, 29 aprile 2021
  • Faust, Venezia, Chaslin/Rechi, Venezia, 3 luglio 2021
  • Faust, Venezia, Chaslin/Rechi, 30 aprile 2022

Moses und Aron

 

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★★★★★

La risposta di Schönberg all’antisemitismo

Negli spazi postindustriali della Jahrhunderthalle di Bochum il 22 agosto 2009 il pubblico su due gradinate contrapposte attende perplesso l’inizio chiedendosi dove diavolo avverrà la rappresentazione. Al calare delle luci il coro vocalizza in maniera accordale e poi si ode la voce di Mosè mescolato tra il pubblico. Lentamente le due gradinate si separano e fra di loro si apre un varco, come il mar Rosso sotto il bastone di Mosè, in cui si svilupperà la vicenda che vede i due fratelli contrapposti sul monoteismo ma uniti dalla missione di affrancare il popolo di Israele dalla schiavitù del faraone e portarlo attraverso il deserto alla terra promessa.

Il popolo non riesce a comprendere questo dio di Mosè invisibile e indescrivibile (gli viene distribuito un foglio bianco quando chiede com’è questo nuovo dio) e solo Aronne riesce a convincerlo con i prodigi del bastone che si tramuta in serpente, della mano di Mosè che diventa come quella di un lebbroso per poi tornare sana e dell’acqua del Nilo che si tinge di sangue.

Basato sulla narrazione biblica del Libro dell’esodo, il libretto del compositore stesso fu all’inizio pretesto per un oratorio composto nel 1928 e divenne in seguito un’opera in tre atti i cui primi due furono completati nel 1932 mentre il terzo non fu mai realizzato se non in pochi schizzi. Ciononostante, da dopo la morte dell’autore l’opera viene comunemente eseguita in questa forma incompiuta e solo nel 2009 il compositore ungherese Zoltán Kocsis ha ottenuto il permesso dagli eredi di Schönberg di completare l’opera eseguita poi a Budapest l’anno successivo.

Atto I. Scena prima. ‘Vocazione di Mosè’. Mosè ode la voce del roveto ardente e chiede di non essere costretto ad annunziare il Dio unico, eterno, invisibile e irrafigurabile. Si sente vecchio, debole, capace di pensare, non di parlare. Ma gli viene risposto che la sua missione sarà riconosiuta grazie a miracoli, e che il fratello Aronne sarà la sua bocca. Scena seconda: ‘Mosè incontra Aronne nel deserto’. Il dialogo dei due fratelli rivela in ogni dettaglio una prospettiva divergente, anche se per il momento non contrastante: Mosè appare preoccupato esclusivamente della purezza del pensiero, Aronne riflette su come il popolo potrà amare e concepire il Dio irraffigurabile. Scena terza e quarta. ‘Mosè e Aronne annunciano al popolo il messaggio di Dio’. C’è disorientamento e discordia fra il popolo alla confuse notizie sul ‘nuovo Dio’ di Mosè e Aronne, accolte con entusiasmo da due giovani, con perplessità da un uomo, con ostilità da un sacerdote. Giungono Mosè e Aronne, e trovano difficoltà a far accettare l’idea che il nuovo Dio è invisibile e irraffigurabile. Mosè sta per cedere («La mia idea è impotente nella parola di Aronne!»); ma Aronne prende risolutamente l’iniziativa («La parola io sono e l’azione») e compie tre miracoli: trasforma il bastone di Mosè in serpente (la potenza e l’abilità), fa apparire la mano di Mosè malata di lebbra e di nuovo sana (la malattia rappresenta la timorosa debolezza del popolo, la guarigione la forza e il coraggio), infine muta l’acqua del Nilo in sangue (il sangue del popolo ebraico che nutre la terra d’Egitto come il Nilo). Con un canto di gioia il popolo segue Mosè e Aronne verso la terra promessa. IntermezzoIl coro, smarrito, si chiede dove sono Mosè e il suo Dio.
Atto II . Scena prima. ‘Aronne e i Settanta anziani davanti alla montagna della Rivelazione’. Da quaranta giorni Mosè è sul Sinai: in attesa della legge divina i peggiori compiono ogni efferatezza. Scena seconda. Irrompe il popolo: visto che non riesce a calmare la ribellione, Aronne ripristina l’idolatria e fa costruire un vitello d’oro. Scena terza. ‘Il vitello d’oro e l’altare’. Gli ebrei si abbandonano al nuovo culto, macellano animali; un’ammalata guarisce a contatto con l’idolo, un gruppo di vecchi sacrifica al vitello gli ultimi atti di vita, il giovane che tenta di ribellarsi viene ucciso, quattro vergini nude (fra le quali la giovane comparsa nella terza scena del primo atto) si offrono al sacrificio, si scatena un’orgia. Scena quarta. Mosè scende dalla montagna e fa sparire il vitello d’oro. Tutti fuggono. Scena quinta. Aronne risponde ai rimproveri di Mosè: egli ha come sempre offerto un’immagine, ama il popolo e intende sforzarsi di rendergli comprensibile almeno una parte dell’idea. A Mosè che ne rivendica l’assolutezza, fa notare che anche le tavole della legge sono un’immagine, una parte dell’idea: Mosè allora spezza le tavole, mentre Aronne rivendica la propria missione. Le colonne di fuoco e di nuvole che guidano il popolo sembrano dargli ragione. Mosè. rimasto solo, si sente vinto: «Era tutto follia ciò che ho pensato e non può né deve essere detto! O parola, parola che mi manca!».
Atto III. Aronne, in catene, prosegue la discussione con Mosè, che ribadisce il significato dell’onnipotenza di Dio e ordina di lasciare Aronne libero, perché viva, se può. Aronne cade morto e Mosè conclude: «Ma nel deserto voi siete invincibile e raggiungerete la meta: in unione con Dio».

Il radicalismo musicale dell’opera è ben descritto da un non musicista come Richard Begam: «i plop, plink e plank che suonano in maniera arbitraria e aleatoria hanno la logica inesorabile di una sinfonia beethoveniana o di un dipinto di Jackson Pollock». La serie di dodici suoni è come il dio di Mosè, sempre presente ma mai manifesto, essendo l’opera un tour de force di variazioni costruite su temi sempre mutanti. La tecnica dodecafonica adottata dal compositore raggiunge i risultati più convincenti nei cori che qui sono predominanti e in questa edizione molto ben eseguiti, vissuti verrebbe da dire, dato il gran numero di prove richieste, dal ChorWerk della Ruhr. Il senso di smarrimento e di incertezza che serpeggia fra il popolo di Israele è perfettamente realizzato dalle note che seguono le rigide regole della tecnica seriale senza mai agglutinarsi in una melodia grata all’orecchio.

I due protagonisti principali si esprimono in stili musicali diversi: il baritono che interpreta Mosè utilizza un canto-parlato non dissimile dalla Sprechstimme del Pierrot lunaire, mentre al tenore Aronne è affidato un canto spiegato e vocalmente molto vario che usa sovente il falsetto.

Le scene quasi oratoriali del primo atto sono spezzate nel secondo dall’episodio orgiastico dell’adorazione del vitello d’oro che ha la stessa densità e brillantezza orchestrale de Le sacre du printemps. La musica di questa scena fu eseguita in concerto con enorme successo il 2 luglio 1951 a Darmstadt undici giorni prima della morte del compositore.

Il secondo atto termina con Mosè senza parole per l’impossibilità di esprimere l’inesprimibile. Un finale perfetto per l’opera e si capisce la quasi riluttanza del compositore a terminare il terzo atto con la morte di Aronne.

Il direttore Michael Boder dipana con sapienza l’impervia partitura e i due protagonisti principali trovano nell’americano Dale Duesing e nel tedesco Andreas Conrad due interpreti dediti e convincenti. Il plauso maggiore va però al magnifico coro a cui è richiesta una performance estremamente impegnativa.

Il regista Willy Decker e lo scenografo Wolfgang Gussmann mettono in scena un allestimento rigoroso ma visivamente bellissimo che nonostante la difficoltà coinvolge il pubblico. Uno spettacolo notevole.

Nessun extra nel disco (un’analisi dettagliata dell’opera si può però trovare in rete sul sito dell’Arnold Schönberg Center) e sottotitoli in inglese e francese oltre al tedesco.

Parsifal

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★★★☆☆

Enigmatica messa in scena a Salisburgo dell’ultima opera di Wagner

Dopo il Lohengrin Wagner ritorna al tema del Graal nella sua ultima opera andata in scena nel 1882, dopo una lunga gestazione che terminò nelle stanze dell’Hotel delle Palme di Palermo. Parsifal segnò anche il definitivo distacco da Wagner di Nietzsche che non perdonò mai al musicista di essersi «prostrato ai piedi della croce», senza capire che le allusioni religiose dell’opera erano riconducibili a una dimensione indefinita di “sacro” che l’opera di Wagner nella sua dimensione “liturgica” aveva comunque perseguito per tutta la vita.

Atto primo. Nella comunità dei cavalieri del Graal, in una foresta di fronte a un lago, sul far del giorno Gurnemanz desta due scudieri e li invita alla preghiera del mattino. Si attende il re Amfortas che, malato per una ferita insanabile, deve essere portato al bagno ristoratore in una lettiga. Irrompe selvaggia Kundry, misteriosa creatura che espia nella sua doppia natura di peccatrice e penitente l’antica colpa di aver deriso il Cristo. Ella reca un balsamo d’Arabia per lenire le sofferenze di Amfortas, re del Graal, che viene introdotto da un corteo di cavalieri: Amfortas aspetta l’unico che lo potrà salvare, colui che «è sapiente per compassione», il «puro folle»; il re ringrazia Kundry per il dono e si fa condurre al lago. Gli scudieri diffidano di Kundry, che credono una maga; Gurnemanz la difende, perché ha sempre servito fedelmente i cavalieri. Il vecchio custode del Graal le chiede dove si fosse allontanata quel giorno in cui Amfortas tornò al castello senza la sacra lancia dell’ordine e ferito in modo insanabile. Interrogato dai giovani scudieri, Gurnemanz racconta le vicende del Graal: Titurel, padre di Amfortas, ricevette in custodia dagli angeli le sacre reliquie della Passione, la coppa della cena e la lancia con cui Longino aveva trapassato il costato del Salvatore. Per conservare i preziosi oggetti il re costruì un santuario, il castello di Monsalvat. Una schiera di puri si pose al servizio del Graal, ricevendo forza dalla sacra coppa per «auguste opere di salvezza». Escluso dall’ordine dei cavalieri, il mago Klingsor cercò di espiare i propri peccati estirpandone la radice ed evirandosi. Dal folle gesto nacque per incantesimo demoniaco il suo giardino delle delizie, luogo popolato da seducenti creature femminili, che hanno il compito di piegare al peccato la purezza dei cavalieri e portare alla perdizione l’ordine del Graal. Già molti cavalieri si sono macchiati di colpe carnali nel giardino di Klingsor e fra questi lo stesso erede di Titurel, Amfortas, che proprio cedendo alle lusinghe delle seduttrici ha perduto la sacra lancia: finita in mano a Klingsor, essa ha prodotto sul costato di Amfortas la ferita che mai si rimargina. Da allora è segnata la decadenza del Graal, il cui potere Klingsor s’appresta a distruggere. In preghiera di fronte alla coppa della salvezza, Amfortas ha però ricevuto una profezia: la lancia sarà recuperata da un puro folle, sapiente per la cognizione del dolore altrui. Si odono grida provenienti dal lago: uno dei sacri cigni è stato mortalmente colpito da una freccia e il colpevole del gesto sacrilego è un ragazzo, Parsifal, del tutto sprovveduto. Gurnemanz rimprovera lo sconosciuto giovane e cerca d’ispirargli pietà per il povero animale. Interrogato, Parsifal risponde di non sapere nulla, d’ignorare chi sia suo padre e persino il proprio nome; sa solo che sua madre si chiama Herzeleide e d’aver sempre abitato nella selva. Kundry sa invece molte cose di quel misterioso ragazzo: egli è figlio di Gamuret ed è cresciuto in una folle solitudine che però l’ha fortificato. Dice poi a Parsifal che sua madre è morta e, colto da un raptus di violenza, il ragazzo afferra Kundry per la gola, ma viene immediatamente fermato da Gurnemanz. Kundry fugge nella foresta e il vecchio cavaliere decide di portare con sé Parsifal al castello: se è puro, il Graal lo nutrirà nello spirito. «Cos’è il Graal?», chiede allora Parsifal, e Gurnemanz gli risponde che lo potrà scoprire da solo, confidando che questo ragazzo sperduto possa essere il «puro folle» dell’oracolo. S’incamminano, e Gurnemanz avverte Parsifal che «spazio qui diventa il tempo». Segue un interludio sinfonico, durante il quale la scena si trasferisce nell’interno del santuario, una grande sala con cupola da cui penetra la luce, inondata dal suono di campane. Giunto col ragazzo nel luogo dell’agape fraterna, Gurnemanz lo invita a osservare: il corteo dei cavalieri e i cori mistici dei fanciulli introducono al rito dello scoprimento del Graal; Amfortas viene portato sulla lettiga e la voce del vecchio re Titurel, quasi proveniente dalla tomba, invita il figlio a procedere al rito. Con straziante riluttanza, Amfortas cerca di sottrarsi al compito: la ferita insanabile gli ricorda la sua condizione d’impuro, tragicamente costretto a essere ministro del più sacro fra gli uffici. Il coro di fanciulli e adolescenti ricorda le parole dell’oracolo di salvezza, e il rito finalmente procede con lo scoprimento del Graal, sul canto estatico delle parole dell’ultima cena. Terminata l’agape, i cavalieri si ritirano e Parsifal, colpito dalle sofferenze di Amfortas, si porta la mano al cuore, restando immobile e come stralunato. Gurnemanz si adira col ragazzo per la sua apparente imperturbabilità di fronte al miracolo del Graal e lo caccia dal santuario: «Lascia i cigni in pace e cercati, papero, la tua oca!». Ma una voce dall’alto ricorda ancora una volta le parole della salvezza: «Per compassione sapiente, il puro folle!».
Atto secondo. Nel suo castello incantato, il mago Klingsor attende l’arrivo di Parsifal e ne prepara l’annientamento; a questo fine evoca Kundry, primordiale creatura d’inferno, che già a suo tempo sedusse e portò alla rovina Amfortas. La donna recalcitra all’idea di mettersi ancora a servizio delle opere malvagie di Klingsor, ma poi cede e s’appresta a una nuova opera di dannazione. La torre del mago scompare e al suo posto si materializza il giardino delle delizie, ricco di fiori esotici. Entra Parsifal, stupito, e subito è circondato dalle fanciulle-fiore, che iniziano a sedurlo con mosse e parole lubriche. Nasce una gara fra le fanciulle per accaparrarsi le grazie del ragazzo interrotta dall’apparizione improvvisa di Kundry, che per la prima volta chiama Parsifal col suo nome. A quel suono, il ragazzo ricorda d’essersi sentito chiamare in quel medesimo modo dalla madre. Le fanciulle lasciano il campo e Kundry spiega l’origine di quel nome parsi equivale a ‘puro’, fala ‘folle’; così lo chiamò suo padre Gamuret. Rievoca poi l’infanzia di Parsifal, l’amore della madre Herzeleide e la sua morte prematura, con strazio del ragazzo. Subdolamente, la donna gli offre il suo amore al posto di quello della madre e lo bacia sulla bocca; con un sobbalzo, Parsifal si divincola da quella stretta sensuale e sente bruciare sul proprio corpo la ferita di Amfortas, provocata da una seduzione simile. In lui rivive il dolore del re, la scena del suo tormento di fronte alla sacra coppa: la forza demoniaca del bacio di Kundry gli ha aperto finalmente gli occhi e la mente e attraverso la compassione egli è divenuto sapiente. S’inginocchia e invoca il Redentore, assumendo su di sé la colpa di Amfortas. Così rivive la caduta del re, la sua seduzione e trova la forza di respingere Kundry, la corruttrice, che cerca di giustificarsi con lui narrandogli la propria maledizione, iniziata nel tempo lontano in cui osò deridere Cristo mentre saliva al calvario. Ma la repulsione di Parsifal nei suoi confronti è irremovibile: Kundry invoca l’aiuto di Klingsor, che sopraggiunge per colpire Parsifal con la sacra lancia. Miracolosamente, l’arma si ferma a mezz’aria sopra la testa del ragazzo, divenuto uomo: Parsifal la brandisce e traccia nell’aria un segno di croce. A quel gesto il giardino inaridisce, il castello di Klingsor crolla e Kundry s’abbatte al suolo con un grido. Prima di abbandonare la scena, Parsifal si volge a lei e le dice: «Tu sai dove potrai ritrovarmi».
Atto terzo. Nel dominio del Graal, presso una fonte su un ameno prato fiorito, il vecchio Gurnemanz ode un sordo lamento e scopre Kundry, irrigidita, seminascosta nella macchia: le uniche parole che è in grado di pronunciare sono «servire… servire». Gurnemanz la conforta e poi si meraviglia nel veder giungere, in completo assetto d’armi, un cavaliere, il cui volto è celato dall’elmo. Salutato dal vecchio, Parsifal non risponde e pianta in terra la lancia, inginocchiandosi in preghiera di fronte a essa; s’è tolto elmo e scudo, e Gurnemanz finalmente lo riconosce, così come riconosce la sacra lancia del Graal. Parsifal gli racconta del suo pellegrinaggio e del suo dolore e Gurnemanz lo aggiorna sull’irrimediabile decadenza dell’ordine dei cavalieri. L’eroe si accusa di quelle sofferenze e Kundry gli lava i piedi alla fonte, asciugandoli coi propri capelli, come la Maddalena fece con Cristo. Quindi Gurnemanz unge Parsifal re del Graal: il suo primo gesto è quello di battezzare Kundry, mentre la natura sembra rispondere in tutto il suo splendore ai miracoli di quel giorno con l’incantesimo del venerdì santo: l’uomo, redento dal sangue di Cristo, trova nella natura uno specchio alla sua rigenerazione. Gurnemanz conduce quindi Parsifal nel santuario: in quel giorno, Amfortas celebrerà per l’ultima volta il rito, in occasione del funerale di Titurel; egli si accusa della morte del padre e anela disperatamente alla morte, pregando i suoi cavalieri di trafiggerlo con le loro spade. È invece Parsifal che, non visto, s’appressa a lui e lo tocca con la sacra lancia: la ferita si rimargina fra lo sbigottimento generale e Parsifal, nella sua nuova veste di re, ordina che si proceda allo scoprimento della coppa, finalmente liberata da ogni impuro sortilegio. Di fronte al raggiante splendore del Graal, e al giungere dall’alto d’una bianca colomba che s’arresta sul capo di Parsifal, tutti ringraziano e proclamano «Redenzione al Redentore!». Il simbolo della redenzione, la sacra coppa del sangue di Cristo, è stato finalmente redento.

Questa ‘Bühnenweihfestspiel’, termine creato da Wagner e che possiamo tradurre come “azione scenica sacra”, mescolava infatti cristianesimo, paganesimo, idolatria e anche buddismo, la filosofia orientale che Schopenhauer aveva contribuito a diffondere in Europa.

Wagner aveva letto il Parzival di Wolfram von Eschenbach, un poema epico del XIII secolo, a Marienbad nel 1845. Nella sua biografia il musicista ricorda di aver concepito il suo Parsifal nell’aprile del 1857 mentre era in uno chalet nei pressi di Zurigo messogli a disposizione dai Wesendonck: «il giorno di venerdì santo per la prima volta il sole venne a risvegliarmi nella nuova casa […] e mi ricordai come già una volta questo annuncio [del venerdì santo] mi avesse colpito con tanta solennità nel Parzival di Wolfram. […] Ora l’idealismo del suo contenuto mi signoreggiava improvvisamente e partendo da questa idea concepii rapidamente tutto un dramma in tre atti.» (Mein Leben (La mia vita), traduzione di Massimo Mila).

Dovranno però passare otto anni prima che il compositore ne stendesse una prima versione in prosa, e altri dodici per la stesura definitiva del libretto. Nel 1877 Wagner inizia a scrivere la musica e l’opera va per la prima volta in scena a Bayreuth in quel teatro per cui l’opera era stata concepita.

Uno dei primi spettatori fu George Bernard Shaw che ha lasciato sarcastici resoconti degli allestimenti dell’epoca: «La prima rappresentazione del Parsifal di questa stagione [1894] da un punto di vista puramente musicale è semplicemente un obbrobrio per quanto riguarda i cantanti. Il basso non ha fatto che ululare, il tenore abbaiare, il baritono era inespressivo e il soprano, quando si degnava di cantare e non semplicemente urlare le sue battute, strillava.»

Da tempo sulle scene dei teatri moderni l’ultima opera di Wagner gode di interpreti di primo piano in allestimenti estremamente rarefatti e/o simbolici. È il caso di questa produzione del Festival di Salisburgo del 2013 con Christian Thielemann alla guida della magnifica orchestra di stato di Dresda. Diciamo subito che la direzione del nuovo direttore artistico del festival ed erede di Karajan è la cosa migliore di questa produzione, con un’orchestra che invece di essere infossata nel golfo mistico di Bayreuth qui è quasi all’altezza del palcoscenico e quindi sempre in primo piano nel porgere le gemme musicali della partitura.

Ottimi tutti gli interpreti, scenicamente statici, ma vocalmente eccellenti: Johan Botha nel ruolo del titolo, Wolfgang Koch nella doppia parte di Amfortas e di Klingsor (!), Stephen Milling come Gurnemanz. La Kundry di Michaela Schuster è l’unica ad avere maggior presenza scenica.

L’arrivo di Parsifal accompagnato da cinque ragazzini (che cresceranno d’età nel corso della rappresentazione) passerebbe del tutto inosservato in questa regia di Michael Schultz se non fosse per il completo verde ramarro taglia XXXL di Johan Botha. Nel frattempo i cilindri trasparenti di cui è formata la scena si sono riempiti di fumo bianco e sono diventati delle clessidre in cui al posto della sabbia scorrono teschi (?) e un biondo Cristo con corona di spine sembra essere visibile solo a Kundry. Tante sono le stranezze di questa messa in scena, mai gratuita però, spesso inquietante (come l’inizio del secondo atto nel castello di Klingsor con le statue di tutte le religioni) e affascinante, ma non sempre comprensibile. Personalità e motivazioni dei personaggi rimangono distanti, misteriose e in definitiva senza vita. Inutile cercare lumi nel fascicoletto allegato o nei bonus, assenti.

Immagine cristallina, due tracce audio. Sottotitoli in tedesco, francese, inglese, cinese, giapponese e coreano.

  • Parsifal, Meister/Gürbaca, Anversa, 21 marzo 2018
  • Parsifal, Petrenko/Audi, Monaco, 8 luglio 2018
  • Parsifal, Vienna, Jordan/Serebrennikov, 11 aprile 2021

Götterdämmerung

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★★★★★

Così si conclude l’opera musicale più ambiziosa mai tentata

Terza e ultima giornata del “festival scenico” wagneriano, ultima parte della tetralogia.

Già nel 1843 Wagner pensava di comporre un’opera sul personaggio di Sigfrido, influenzato dalla lettura della Deutsche Mythologie di Jacob Grimm. La morte di Sigfrido doveva esserne il titolo, ma ben presto il compositore sentì la necessità di narrarne anche gli antefatti e così si venne formando il ciclo intero, a ritroso.

Prologo. Rocca di Brunilde. Le figlie di Erda, le tre Norne tessono il filo del destino cantando allegramente del presente e del futuro che sarà segnato da un grande incendio appiccato da Wotan, come segnale dell’abbandono degli dei. Il filo improvvisamente si spezza e le donne piangono di aver perduto la loro saggezza e si allontanano. Dalla caverna compaiono Brunilde e Sigfrido, questi pronto per partire verso nuove avventure. La donna supplica Sigfrido di non dimenticarsi del loro amore riceve da lui, come prova di fedeltà, il suo anello, preso a Fafner. L’uomo, a cavallo di Grane, donato da Brunilde, se ne va.
Atto I. Atrio dei Ghibicunghi. Il signore dei Ghibicunghi, popolo del lungo Reno, Gunther, è seduto sul suo trono quando il fratellastro Hagen gli suggerisce di trovare al più presto una moglie e un marito per la sorella Gutrune. Gli suggerisce due nomi, quello di Brunilde e di Sigfrido. Con l’obiettivo di far innmorare Sigfrido di lei, consegna a Gutrune una pozione magica che aiuterà i due a dimenticarsi uno dell’altro. Sigfrido arriva a palazzo ospite di Gunther. Gli viene subito offerta la pozione magica che Sigfrido beve brindando proprio alla sua Brunilde ma la memoria scompare nell’immediato tanto che il giovane si innamora subito di Gutrune sotto l’effetto dell’incantesimo. Promette anche a Gunther di trovargli al più presto una sposa che sarà proprio Brunilde e sanciscono la loro nuova amicizia con un patto di sangue. Intanto Brunilde riceve la sorella Waltraute che racconta delle vicende del padre Wotan e di una lancia spezzata con intagliati tutti i vari patti intrapresi dal giovane. Waltraute supplica Brunilde di restituire alle figlie del Reno l’anello lasciatole da Sigfrido perchè solo così può aver fine la maledizione inflitta dagli dèi che stava colpendo anche il loro padre Wotan. Brunilde non accetta di separarsi dall’anello. Sigfrido, che sotto le magie di Tarnhelm ha preso le sembianze di Gunther, chiede a Brunilde si sposarlo, ma la ragazza si oppone fermamente. Tra i due ha inizio una violenta lotta che porta il finto Gunther a strapparle dal dito l’anello che si infila subito.
Atto II. Rive del Reno. Hagen sogna una visita del padre Alberich che gli ordina di prender possesso dell’anello. Torna Sigfrido che ha ripreso le sue sembianze originali mentre viene richiamato il popolo per far festa al re Gunther e alla sua sposa. Arrivano il re e Brunilde. Quest’ultima rimane impietrita quando vede Sigfrido indossare l’anello. Gunther, Hagen e Brunilde restano soli e organizzano di comune accordo di uccidere Sigfrido. La donna in preda al desiderio di vendetta per esser stata tradita da Sigfrido, suggerisce ai due il punto debole dell’uomo, la schiena, unica zona del corpo a non esser protetta dalla magia. Gli uomini decidono di organizzare un’uscita di caccia per uccidere Sigfrido.
Atto III. Boschi sul Reno. Sigfrido si allontana dalla battuta di caccia e si avvicina alle figlie del Reno che stanno piangendo. Le donne gli chiedono di restituire loro l’anello per interrompere la maledizione, ma l’uomo non le ascolta e viene da loro maledetto con la predizione della sua morte. Sigfrido torna insieme agli altri cacciatori e narra i suoi ricordi di gioventù quando, sotto gli influssi di una pozione magica data da Hagen inizia a raccontare di quando ha risvegliato la bella Brunilde con un bacio. Due corvi improvvisamente prendono il volo e mentre Sigfrido è distratto dal loro volo, viene trafitto alla schiena e muore. Gutrune attende il ritorno del marito ma apprende la notizia della sua morte. Mentre Hagen e Gunther discutono sulle loro colpe, Hagen riesce a togliere l’anello dal cadavere di Sigfrido e per difenderlo uccide Gunther. Finalmente può impossessarsi dell’anello quando la mano del morto si solleva provocando terrore. Brunilde ordina che venga appiccato il fuoco a una grande pira funebre vicino al fiume avvisando le figlie del Reno di venire a recuperare l’anello dalle ceneri. La donna a cavallo di Grane galoppa tra le fiamme quando il fiume improvvisamente straripa dagli argini e l’anello recuperato cade in acqua. Hagen cerca di prenderlo ma annega. Le figlie del Reno riescono finalmente a salvare l’anello uscendo trionfanti dall’acqua. Intanto nel cielo si scorge un altro grande incendio voluto, dagli dèi, che distrugge ogni cosa.

Il testo del Crepuscolo degli dèi è quindi il primo a essere scritto e l’ultimo a essere musicato. Ciò spiega come nella forma letteraria quest’opera sia l’unica ad avere ancora duetti e terzetti tradizionali, mentre la musica è spinta invece verso il futuro dopo l’esperienza del Tristano e dei Maestri Cantori. La prima dell’opera avvenne al Bayreuth Festspielhaus nell’agosto del 1876 con l’esecuzione del Ring completo. Tra il pubblico Liszt, Mahler, Bruckner, Nietzsche, Tolstoj e Ludwig II Re di Baviera…

Nel 1976 si celebra dunque il centenario dell’avvenimento e l’allora presidente del Festival, Wolfgang Wagner, invita a dirigere il ciclo l’acclamato compositore e direttore d’orchestra Pierre Boulez, affiancato per la messa in scena da un giovane e promettente regista francese, Patrice Chéreau, che fino ad allora non si era occupato che raramente di opere liriche (un Rossini e un Offenbach) e proveniva dal teatro drammatico, con una intensa collaborazione con il “Piccolo Teatro” di Giorgio Strehler.

«La bellezza del Ring è una sfida oggi come quando fu messo in scena la prima volta e quello che ha da dire è ancora valido ora, il messaggio è ancora violento e disperato, amaro e scomodo» (Patrice Chéreau). Egli sceglie di ambientare la vicenda nel secolo XIX e ne fa una metafora della Rivoluzione Industriale e della sua corruzione della società, in accordo con la lettura che George Bernard Shaw aveva dato dell’opera di Wagner. Critica e pubblico si dividono tra chi considera scandalosa la messa in scena e chi la definisce la miglior versione nella storia del festival di Bayreuth. Il primo ciclo nel 1976 finisce tra i fischi – il Götterdämmerung viene interrotto addirittura due volte per le intemperanze del pubblico – ma lo stesso ciclo quattro anni dopo riceve più di 80 minuti di applausi e 101 chiamate.

Quel che è certo è che questa produzione costituisce il punto di svolta nella messa in scena dell’opera lirica: da allora la trasposizione dell’azione in contesti storici diversi non fa più scalpore. È il cammino intrapreso dal Regietheater e chissà quanti degli attuali spettatori del festival di Bayreuth rimpiangono quel lontano “scandaloso” allestimento visto quello che devono sopportare nelle ultime regie sotto la direzione del festival da parte di Gudrun e Katharina Wagner.

Grande merito del regista francese è di attribuire ai cantanti un ruolo di interprete drammatico e mettere in scena un gioco di corpi che fino ad allora solo in poche occasioni si era tentato di fare. I personaggi del suo Ring sono il frutto di un accurato studio individuale e di una dettagliata analisi del testo. Assieme al fidato Richard Peduzzi, suo futuro fedele collaboratore e compagno di vita, le spettacolari scenografie costruiscono spazi con muri di mattoni, gigantesche ruote dentate, colonne neoclassiche, reperti di archeologia industriale. I costumi dei Gibicunghi li denotano come appartenenti all’alta borghesia: Gunther in smoking, Gutrune in abito lungo e perle, Hagen in abiti lisi poiché non è decisivo e il suo destino è già segnato da tempo, mentre l’ingenuo Siegfried è spaesato ed estraneo a questo ambiente.

Molte sono le versioni complete del Ring registrate sia in studio che dal vivo. Tra quelle registrate in studio possiamo ricordare l’edizione di Furtwängler (1953) con l’orchestra della RAI di Roma, Solti con la Filarmonica di Vienna (1958-1964, la prima in stereo), Karajan con i Berliner Philharmoniker (1966-1970), Janowski con la Staatskapelle di Dresda (1980-1983) e Levine (1987-1989) con l’orchestra del MET.

Per le registrazioni dal vivo si va dal Furtwängler alla Scala (1950) a quelle da Bayreuth: Knappertsbusch (1956-1958), Böhm (1966-1967), Barenboim (1991-1992), Thielemann (2008).

Con le registrazioni video diventa imprescindibile la firma del regista: Bertrand de Billy con Kupfer a Barcellona (2005), Hänchen con Audi ad Amsterdam (2005), Schønwandt con Holten a Copenhagen (2006), Thielemann con Dorst a Bayreuth (2006-2010), Mehta con la Fura dels Baus a Valencia (2007-2009), Levine con Schenk (2002) e con Lepage (2012) al MET, Jordan con Krämer (2013) a Parigi.

La registrazione di Pierre Boulez avviene alla fine delle rappresentazioni a Bayreuth (1980) e viene lodata dalla critica per la trasparenza della sua interpretazione (l’orchestra di Bayreuth aveva inizialmente minacciato uno sciopero perché il direttore non permetteva agli orchestrali di suonare come avevano sempre fatto, ossia forte!).

Quattro sono i personaggi che ritroviamo in quest’ultima parte e sono tutti interpretati dagli stessi cantanti. Alberich, il personaggio chiave del Rheingold, ha l’intensa presenza del magnifico Hermann Becht. Brünnhilde, che qui non è più la bellicosa Walchiria ma la donna tradita nell’amore e nell’onore, è una superlativa Gwineth Jones. Unico personaggio presente in tutte e quattro le opere è Wotan, il disincantato eroe della saga, interpretato con autorevolezza da Donald McIntire. Purtroppo il Siegfried è lo stesso della giornata precedente, un Manfred Jung che sia vocalmente che scenicamente è una pena. Hunding è il Fasolt del prologo, Matti Salminen. Fafner è diventato Gunther, Fritz Hübner. Sieglinde ora è Gutrune, Jeannine Altmeyer.

Lo spettacolo è filmato da Brian Large dal vivo, ma nel Festspielhaus vuoto e con alcune piccole aggiunte concordate con Chéreau (ad esempio le proiezioni nei cambiamenti di scena). Le immagini denunciano la provenienza da un VHS e sono molto granulose. Buone invece le due tracce audio.

Siegfried

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★★★★☆

«La prossima volta lo facciamo del tutto diverso»

La frase pronunciata da Wagner al termine del primo Ring del 1876 a Bayreuth è stata presa alla lettera da chi si è cimentato con la produzione del ciclo e si può dire che la storia dei suoi allestimenti coincida con la storia della messa in scena dell’opera in musica tout court. Dalla cartapesta e dai teli dipinti degli allestimenti iniziali si è passati alle scenografie astratte e tridimensionali di Adolphe Appia di inizio ‘900, a quelle minimaliste e simboliste di Wieland Wagner degli anni ’50 e ’60, alla rivoluzione di Chéreau del 1976, alle discusse rivisitazioni dei giorni nostri.

Fra i tanti cicli completi del Ring prodotti negli ultimi anni, questo di Copenhagen è stato tra i più celebrati, grazie alla intrigante messa in scena di Kasper Bech Holten, allora (2006) direttore artistico dell’Opera Reale Danese.

All’inizio del Rheingold si vede Brünnhilde entrare in una soffitta per cercare negli archivi di famiglia una spiegazione di quello che è avvenuto nel passato. Si rivedrà la stessa scena nel Götterdämmerung quando Gunther e Hagen saranno usciti per uccidere Siegfried e si capirà allora che l’intera vicenda è vista come un flashback e con una visione femminile. Il Crepuscolo degli dèi sarà anche il crepuscolo del patriarcato secondo Holten.

Dopo il cruento prologo in cui Alberich uccide il fanciullo che rappresenta l’oro del Reno e la piscina in cui nuotava nudo e felice si tinge del suo sangue e ad Alberich non è risparmiato trattamento migliore quando Wotan per ottenere il bramato anello (qui un bracciale) dopo sadiche torture ne mozza l’intero braccio (una scena truculenta da vero film horror) e dopo le vicende della prima giornata in cui Brünnhilde si scontra col padre Wotan, in questo terzo capitolo della saga nibelungica, il più “leggero”, facciamo la conoscenza di Siegfried, il frutto dell’amore dei due fratelli gemelli Siegmund e Sieglinde. In questa edizione Siegfried è “tutto suo padre”, infatti i due ruoli sono interpretati dallo stesso cantante.

Su un rullo in pianissimo dei timpani i fagotti annunciano tra lunghe pause le note gravi che formeranno il tema del drago. Così inizia in orchestra questa seconda giornata. La casa in cui Mime ha cresciuto Siegfried è un appartamento su tre piani degli anni ’60 (il prologo era ambientato negli anni ’20, con Walküre siamo negli anni ’50 e infine con Götterdämmerung saremo negli anni ’90 completando così questo “ritratto del ventesimo secolo” secondo Holten): il seminterrato è il regno del nano e dei suoi lavori di forgiatura mentre il ragazzo vive nella mansarda. Disordinato e ribelle come tutti gli adolescenti veste in jeans e ha chitarra e poster appesi al muro della camera. Mime è un casalingo un po’ inquietante che non vede l’ora di sbarazzarsi del teppistello che gli porta in casa orsi vivi e “fa disordine”. Nella scena in cui si ricapitolano le puntate precedenti con Wotan, viandante invadente capitato in casa per il tè, vediamo il coltello con cui era stato mozzato il braccio di Alberich.

Il secondo atto è ambientato in una discarica di materiali tossici nel mezzo della foresta. Alberich è un senzatetto che vive con un adolescente imbronciato e muto (Hagen). Un intrico minaccioso di tubazioni esce da un foro e un altoparlante arrugginito diffonde la voce del drago. Il pavimento si solleva e vediamo cosa c’è sotto: è Fafner, un vecchio seduto ad una consolle che controlla i suoi effetti speciali. Siegfried lo uccide e per effetto del suo sangue capisce il linguaggio di un uccello della foresta, qui una bianca colomba presa ad un prestigiatore, che gli svela le infide trame del nano.

Nel terzo atto vediamo Wotan andare a fare visita a Erda. Ironicamente la «ewiges Weib» si dimostra tutt’altro che eterna: sta morendo di cancro. Tra le cose migliori dello spettacolo il confronto tra questi due vecchi stanchi: il tempo inesorabile ha colpito anche gli dèi. Nell’ultima scena davanti a Brünnhilde (il quarto essere umano che incontra nella sua vita, dopo che gli altri tre li ha ammazzati o ha cercato di farlo) finalmente Siegfried scopre la paura, ma anche un altro sentimento e il bacio con cui la risveglia suggella il loro amore da sempre predestinato.

Stig Fogh Andersen, tutt’altro che giovane a 56 anni, è però molto giovanile e bravo e riesce a rendere il personaggio di Siegfried meno antipatico del solito. Irene Theorin fa un po’ fatica a risvegliarsi e ha una voce poco gradevole seppure potente. Susanne Resmark e James Johnson danno autorevolmente vita ai personaggi di Erda e Wotan.

In buca il direttore Michael Schønwandt evidenzia dettagli e trasparenze della partitura, ma non lesina sugli effetti sonori quando è necessario.

Le riprese video sono di Uffe Borgwardt che neanche qui rinuncia a imporre la sua cinematografia invadente e ossessionata dai primi piani delle facce dei cantanti, dalle angolature di ripresa più strambe e dal montaggio frenetico.

Quattro ore di musica su due dischi. Sottotitoli anche in danese e cinese, ma non in italiano. La mancanza di extra è compensata da un opuscolo con interessanti interventi.

Atto I. Sono passati alcuni anni dagli eventi de La Valchiria. Mime, il fratello di, sta forgiando una spada nella sua caverna nella foresta: il nano ha in mente di impossessarsi dell’anello, servendosi di Sigfrido, che in questi anni ha cresciuto perché uccidesse Fafner per lui. Il ragazzo però finora ha rotto qualsiasi spada che gli ha fabbricato. Tornando dai suoi vagabondaggi nella foresta Sigfrido chiede a Mime di parlargli delle sue origini. Mime è costretto a narrargli di come, anni prima, avesse trovato nella foresta sua madre, Sieglinde, morta dandolo alla luce. Mostra a Sigfrido i frammenti di Notung, che conservava da allora, e il giovane gli ordina di riforgiare la spada. Sigfrido si allontana, lasciando Mime sconsolato: non è in grado infatti di riparare la spada. Un vecchio Viandante (Wotan travestito) giunge all’improvviso alla sua porta. Il Viandante scommette con Mime la sua testa che saprà rispondere a tre indovinelli che il nano vorrà sottoporgli, e Mime acconsente: chiede all’ospite di nominargli le tre razze che vivono sotto terra, sulla superficie e nei cieli. Si tratta dei Nibelunghi, dei giganti e degli dèi, risponde correttamente il Viandante. Ora tocca a quest’ultimo proporre tre quesiti, e Mime dovrà rispondere pena la vita. Il Viandante gli chiede di dirgli il nome della razza più cara a Wotan, ma da lui trattata più duramente, il nome della spada che può distruggere Fafner, e il nome della persona che può forgiarla. Mime sa rispondere ai primi due quesiti, i Valsidi e Notung, ma non conosce la risposta al terzo. Ciò nonostante, il Viandante lo risparmia, rivelandogli che solo «colui che non conosce la paura» potrà riforgiare Notung, e sarà anche colui che ucciderà Mime. Quindi se ne va. Ritorna Sigfrido, e subito si irrita al vedere che Mime non ha fatto alcun progresso. Mime comprende che l’unica cosa che in quegli anni non ha insegnato a Sigfrido è la paura, e il giovane è ansioso di apprenderla: Mime promette di insegnargliela conducendolo dal drago Fafner. Poiché il nano non è stato in grado di riforgiare Notung, Sigfrido decide di provarci da solo: riunisce i frammenti di metallo, li fonde insieme e fabbrica così una nuova spada. Mime si ricorda delle parole del Viandante e capisce che ora sarà ucciso da Sigfrido: non visto, prepara allora una bevanda avvelenata da offrire al giovane subito dopo che egli avrà ucciso Fafner.
Atto II. Il Viandante giunge all’ingresso della caverna di Fafner: lì si trova anche Alberich, deciso a riprendersi l’anello. I due antichi nemici si riconoscono subito. Alberich annuncia a Wotan i suoi piani di dominio del mondo non appena avrà rimesso le mani sull’anello. Wotan, invece, replica che egli non ha alcuna intenzione di tentare di impossessarsene: con grande sorpresa dell’altro, sveglia Fafner e informa il drago che sta per giungere un eroe per combatterlo. Fafner si fa beffe di quella minaccia, rifiuta di riconsegnare l’anello ad Alberich, e torna a dormire. Wotan e Alberich partono. All’alba, giungono Sigfrido e Mime. Mime si nasconde mentre Sigfrido va per affrontare il drago. In attesa che questo si mostri, il giovane vede un uccello della foresta posato su un albero: cerca di imitare il suo verso con una canna, ma senza successo. Suona quindi una nota con il suo corno, che attira Fafner fuori dalla caverna. Dopo un breve scambio di frasi, i due combattono, e Sigfrido trafigge al cuore il drago con Notung. Prima di morire, Fafner si fa dire da Sigfrido il suo nome, e lo avverte di guardarsi dal tradimento. Quando Sigfrido estrae la lama dal corpo del drago, le sue mani sono ricoperte del sangue di Fafner, ed egli istintivamente le porta alla bocca, assaggiandolo. Dopo averlo bevuto, riesce a comprendere il canto dell’uccello della foresta. Facendo come questi gli suggerisce, prende dall’antro del drago l’anello e il Tarnhelm, l’elmo magico che consente di mutare forma e divenire invisibili. Ricompare Mime, e Sigfrido si lamenta con lui perché ancora non ha imparato cosa sia la paura. Ansioso di mettere mano sull’anello, Mime offre al giovane il veleno, ma tra i poteri del sangue del drago che ha bevuto vi è anche quello di leggere il pensiero, perciò ora Sigfrido intuisce le malvagie intenzioni del nano, e lo uccide. L’uccello della foresta canta di una donna addormentata su una roccia circondata dal fuoco. Sigfrido, pensando di poter forse apprendere il significato della paura da costei, si dirige verso la sommità della montagna.
Atto III. Il Viandante compare lungo il sentiero che conduce alla roccia di Brunilde ed evoca Erda la dea della terra. Ella, confusa, dice a Wotan di non poterlo aiutare, ma questi l’informa di non temere più la fine degli dei, anzi, la desidera: la sua eredità passerà a Sigfrido il Valside, e la loro figlia, Brunilde, compirà l’impresa che redimerà il mondo. Erda sprofonda di nuovo nelle viscere della terra. Giunge Sigfrido, e il Viandante lo interroga. Il giovane, che non ha riconosciuto suo nonno, risponde con insolenza e fa per proseguire verso la cima. Il Viandante gli blocca il passo, e allora Sigfrido gli spezza la lancia con un colpo della sua spada. Con calma, Wotan ne raccoglie i pezzi e scompare. Sigfrido giunge infine di fronte al cerchio di fuoco e lo attraversa. Vede la figura in armatura che giace addormentata, e dapprima pensa che sia un uomo. Ma, dopo che ha rimosso l’armatura, si accorge che si tratta di una donna. Quella vista per lui sconosciuta lo colpisce, non sa cosa fare, e per la prima volta nella sua vita sperimenta la paura. Bacia Brunilde, svegliandola dal suo sonno. Dapprima esitante, Brunilde è poi vinta dall’amore di Sigfrido, e rinuncia al mondo degli dèi.

Die Walküre

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★★☆☆☆

«Wagner’s music is better than it sounds» (1)

Prima giornata, dopo il prologo, del Ring des Nibelungen (L’anello del Nibelungo) in cui si attua lo stratagemma ideato da Wotan per tornare in possesso dell’anello di Alberich, al momento tra le grinfie del gigante Fafner: un eroe senza paura verrà partorito per compiere l’impresa. A farlo nascere saranno Siegmund e Sieglinde (il fatto che siano fratelli gemelli è del tutto irrilevante nella mitologia nibelungica) della stirpe dei Velsunghi generata da Wotan stesso.

Rappresentata separatamente nel 1870 per volontà del re Ludwig II di Baviera, ma contro le intenzioni dell’autore, andò finalmente in scena come seconda parte della tetralogia a Bayreuth nel 1876.

Atto primo: la capanna di Hunding. Siegmund, il Velsungo (figlio di Wälse, che altri non è che Wotan), sfuggendo ai suoi nemici, disarmato, in una notte di tempesta, trova rifugio in una capanna dove Sieglinde, la donna del selvaggio Hunding, lo conforta e gli chiede delle sue sventure. Sopraggiunge Hunding e dai racconti di Siegmund si rende conto che si tratta del Velsungo, in fatale contesa con la sua stirpe e dall’infruttuosa caccia al quale Hunding e il suo clan sono appena tornati; lo sfida pertanto a duello per il giorno dopo. Sieglinde ha dato al marito una bevanda soporifera e adesso raggiunge Siegmund. Sboccia l’amore fra i due che si riconoscono come fratelli, Velsunghi, ambedue figli di Wälse,  che era anche il misterioso viandante che il giorno delle nozze obbligate di Sieglinde infisse una spada nel frassino intorno a cui è costruita la capanna di Hunding: è l’arma invincibile che il padre gli aveva promesso nel supremo momento del pericolo. Siegmund si impossessa dell’arma a cui dà il nome di Notung.
Atto secondo: montagna rocciosa e selvaggia. Wotan chiama a sé Brunilde, la prediletta delle Valchirie, le fanciulle che gli ha generato Erda, incaricate di condurre al Walhalla gli eroi morti in duello e in battaglia; le ordina di aiutare Siegmund nell’imminente duello con Hunding. Ma sopraggiunge Fricka: come può Wotan dare il suo appoggio ad una coppia adultera e incestuosa? Egli le ha fatto torto con le sue avventure con altre donne e dèe, ma è comunque il custode dei patti scritti sulla sua lancia che assicurano l’ordine del cosmo e non può infrangere così la legge degli dèi per proteggere colui che Fricka sa bene essere figlio di Wotan. Dopo che Fricka ha ottenuto da lui la promessa che si schiererà dalla parte di Hunding e che la Valchiria non interferirà, Wotan richiama Brunilde per proibirle severamente di aiutare Siegmund e confessa alla diletta fanciulla il suo smacco e la fine del suo sogno: che dalla coppia dei Velsunghi nasca un eroe assolutamente libero, che possa operare ciò che Wotan non può, riprendere l’anello del dominio; oramai tutto ciò che brama è la fine. Allontanatisi gli dèi, entrano Siegmund e Sieglinde in fuga. La donna è sfinita, travolta dalla vergogna di essere stata posseduta senza amore da Hunding, ma poi si addormenta. Entra Brunilde e annuncia a Siegmund la sua prossima morte: salirà al Walhalla con gli eroi e là rivedrà suo padre. Ma Siegmund si rifiuta di morire e lasciare Sieglinde: affronta coraggiosamente, nonostante sappia oramai  che gli dèi gli hanno tolto ogni favore, il duello con Hunding. Toccata dalla forza del suo amore Brunilde, disobbediendo a Wotan, si interpone per difenderlo, ma Wotan spezza Notung con la sua lancia, permettendo a Hunding di uccidere Siegmund. La ribelle Brunilde, pur terrorizzata dal cruccio di Wotan, raccoglie i pezzi della spada e porta via con sé Sieglinde, mentre Wotan con un suo cenno fulmina Hunding che cade morto a terra.
Atto terzo: sulla vetta di un monte roccioso. Le Valchirie, sapendosi attese da Wotan, cavalcano impetuosamente per radunarsi con il loro consueto carico di cadaveri di eroi, ma alla loro riunione manca Brunilde. Essa sopraggiunge sul suo cavallo Grane recando una donna esanime, Sieglinde e racconta alle sorelle la sua ribellione a Wotan, implorandone l’aiuto, che le Valchirie, terrorizzate dalla sua disobbedienza, le rifiutano, ma poi, mentre dalla tempesta a settentrione si capisce che Wotan infuriato sta giungendo, le consigliano di far fuggire Siegliende – a cui Brunilde ha rivelato di essere in attesa di un figlio di Siegmund e ha consegnato i pezzi della spada – verso la foresta dove hanno rifugio Alberich e Fafner, perché anche Wotan teme quel luogo. Dopo che Sieglinde si è allontanata, sopraggiunge Wotan e condanna Brunilde alla mortalità e ad un lungo sonno, da cui la risveglierà l’uomo destinato a possederla e a sottometterla. L’onta colpisce profondamente le Valchirie che, temendo anche per sé il castigo, si allontanano. Brunilde invoca il padre che almeno cinga il suo sonno di un’impenetrabile cortina di fuoco tale da poter essere attraversata solo da un eroe che non conosca la paura e degno di risvegliarla. Dopo un ultimo struggente addio alla figlia disobbediente ma prediletta Wotan addormenta la fanciulla e evocando Loge le fa sprizzare tutt’intorno dalla roccia un cerchio di fiamme.

Nel quadriennio 2006-2010 a Bayreuth la produzione della tetralogia è affidata all’ottancinquenne scrittore tedesco Tankred Dorst (ampiamente coadiuvato in verità) e si capisce presto che se non fosse per la bacchetta di Christian Thielemann questo sarà un ciclo da archiviare senza troppi rimpianti con quel titolo sui giornali “Dorst’s Ring” così pericolosamente simile a “Worst Ring”!

Il video del cielo tempestoso che viene proiettato durante l’ouverture della Valkiria non deve trarre in inganno: la messa in scena non è naturalistica, ma non ha neppure nulla di realmente innovativo. I turisti nella casa di Hunding, il ciclista che legge il giornale, gli operai col caschetto giallo che spostano oggetti in fondo alla scena sembrano lasciati lì dalla regia precedente, ma non danno neppure fastidio perché sono del tutto inutili e non interferiscono con l’azione e la musica. L’idea è probabilmente che gli dèi sono fra di noi e non ce ne accorgiamo, ma drammaturgicamente è irrilevante, abbozzata e non portata avanti con coerenza. Che poi la scenografia ci offra un eterogeneo catalogo di sedie direttorio e sedie di metallo e plastica, costumi di tutte le epoche e senza carattere, rovine architettoniche, cave abbandonate e interni délabré visti mille altre volte poco importa a questo punto.

I particolari della vicenda ci sono tutti: Wotan ha la benda sull’occhio sacrificato alla conoscenza, la lancia con le rune incise sul manico, la spada piantata nel tronco (che qui è un palo della luce divelto dalla tempesta e crollato dentro la casa) e non manca il cerchio di fuoco attorno alla Valchiria adagiata su un pallet che però sembra una graticola, ma quello che è assente è l’interesse per i personaggi, mossi senza una logica drammatica e in definitiva senz’anima. Manca poi totalmente l’interazione tra di loro: i due fratelli/amanti quasi non si guardano in faccia e anche Fricka minaccia di cose terribili il marito passeggiando al proscenio rivolta al pubblico mentre Wotan sulla roccia di cartapesta non sa come passare il tempo. Neppure lo struggente addio del padre alla figlia emoziona. Ma quanti secoli sono passati dalla messa in scena di Chéreau?

Non essendo qui richieste particolari doti recitative, non stupisce che per la parte di Siegmund sia stato scelto Johan Botha, voce meravigliosa quanto nessun’altra e dal fraseggio impeccabile, ma interprete che a fatica si muove in scena e considera le sottigliezze psicologiche del personaggio un’inutile stravaganza. Inguardabile Siegmund, immobile e a gambe larghe e con lo sguardo perennemente rivolto al direttore, non stupisce che tra lui e Sieglinde non scatti quella scintilla erotica che dà senso alla vicenda. Edith Haller, Sieglinde appunto, non viene trascinata dalla passione, ma canta bene la sua parte, mentre anche il grande Albert Dohmen qui è un Wotan poco definito. La Brünnhilde âgée e tutta rossa dalla testa ai piedi di Linda Watson (sembra la mamma di Wotan, non la figlia) ha tutto quello che ci si aspetta da una Valchiria, eccetto le corna sull’elmo, ma il reggiseno a punta e i gridi di guerra non deludono. Ecco, forse lo scudo di plastica trasparente dei poliziotti anti sommossa si poteva evitare.

Per fortuna rimane la direzione di Thielemann, tutta sottigliezze e finezza di linee melodiche messe nel giusto valore da una visione unitaria del flusso musicale.

Come bonus il making-of del video e sottotitoli in quattro lingue, ma non in italiano.

(1) «La musica di Wagner è migliore di quello che si potrebbe pensare ascoltandola» è la contorta traduzione in italiano della fulminante battuta di Edgar Wilson Nye spesso citata da quell’altro grande umorista americano che fu Mark Twain.

Das Rheingold

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★★★★★

Un Oro del Reno fantasmagorico

La stesura del libretto delle quattro opere che insieme rappresentano una delle più ambiziose creazioni mai tentate da un musicista (1), prende un arco di tempo considerevole: dal 1848, anno di fermenti rivoluzionari in Europa quando Wagner è trentacinquenne, al 1874 quando il compositore di anni ne ha più di sessanta, con una pausa di circa dieci anni.

Scena prima. Le tre ninfe Woglinde, Wellgunde e Flosshilde (che sono figlie del Reno ed hanno il compito di proteggerne l’oro) stanno giocando nell’acqua. Il nano Alberich fuoriesce dalle viscere della terra e si ferma a guardarle proclama il suo amore per loro. Ma esse lo deridono e infuriato cerca di afferrarle. Nel frattempo l’oro del Reno si mostra; le tre Ondine rivelano il segreto potere del tesoro che custodiscono: chiunque sarà capace di forgiare con esso un anello, dominerà il mondo; per farlo però dovrà rinnegare l’amore. Alberich maledicendo l’amore si impadronisce dell’oro e scompare.
Scena seconda. Wotan riposa accanto alla moglie Fricka. Ella lo sveglia e discutono, poiché Wotan si è fatto costruire dai giganti Fasolt e Fafner una dimora celeste, il Walhalla, promettendo loro in cambio la sorella di Fricka, Freia. Tuttavia Wotan, completato il lavoro, non vuole accondiscendere al pagamento. I giganti si presentano e, se non accontentati, intendono rapire Freia, in difesa della quale sono pronti a intervenire i fratelli Donner e Froh, fermati in tempo da Wotan prima che si sparga sangue. Il semidio Loge propone una soluzione: rubare l’oro al nano Alberich che, nel frattempo, è riuscito a forgiare l’anello, e pagare con esso il debito. Ma, ora che ne conoscono il potere, tutti sentono il desiderio di impossessarsene. I giganti rapiscono Freia: la terranno fino a che non avranno l’oro.
Scena terza. Nel suo regno sotterraneo Alberich ha costretto in servitù i Nibelunghi e se ne serve per accumulare ricchezze. Perfino suo fratello Mime è picchiato e torturato, sebbene abbia realizzato per Alberich un elmo magico chiamato Tarnhelm, che dona a chi lo indossa il potere di mutarsi in qualunque cosa, o di diventare invisibili. Wotan e Loge con un inganno riescono tuttavia a fare prigioniero Alberich e lo portano con sé in superficie.
Scena quarta. Per essere liberato Alberich dovrà consegnare il suo tesoro, compreso l’anello. Una volta liberato egli maledice l’anello affinché conduca alla rovina chiunque ne sia il possessore. Wotan ignora la maledizione e indossa l’anello, intenzionato a tenerlo per sé. Ma i giganti non si accontentano del tesoro: esigono anche l’anello. Wotan è costretto a cedere, anche se lo fa solo dopo che Erda, dea della terra e custode di conoscenze sul futuro, gli ha predetto un infausto destino, la seconda volta che avrà l’anello in mano. La maledizione comincia subito il suo effetto: Fafner, per avidità, uccide il fratello Fasolt e fugge col tesoro. Gli dèi prendono possesso della loro dimora e l’oro non viene restituito alle figlie del Reno, che invano si lamentano.

La musica del Rheingold risale al 1853, ma l’opera è stata rappresentata per la prima volta nel 1869 a Monaco di Baviera mentre come parte dell’intero ciclo ha dovuto aspettare l’apertura del teatro di Bayreuth nel 1876.

In questo prologo al “festival scenico” (Bühnenfestspiel) wag­neriano la Fura dels Baus, pur non rinunciando a un discorso ideologi­co che troverà maggiormente sviluppo nelle successive giornate (il tesoro di Alberich è formato da corpi umani e anche il Va­lhalla è una struttura fatta di corpi di acrobati: la ricchezza e il po­tere sono fondati sullo sfruttamento degli uomini), utilizza i suoi mezzi tecnologicamente all’avan­guardia per stu­pire il pubblico con acrobazie, vi­deo proiezioni e computer grafica che si sposano a meraviglia con la strut­tura avveniristica del Palau de les Arts “Reina Sofía” di Valencia. Siamo nel 2007.

In tutte le edizioni del Ring la prima scena del Rheingold è quella che dà il senso di tutta la produzione. Dalle figlie del Reno portate a spasso su carrelli sullo sfondo dipinto e la cartapesta del­la prima edizione fino alla diga di Chéreau, ci si chiede ogni volta che cosa si sarà inventato di nuovo il regista. Qui Carlus Padrissa e la compagnia catalana stravolgo­no molto meno di tanti altri il li­bretto.

Il pedale in mi dell’inizio si alza nel buio totale mentre sullo sfondo della scena proiezioni di elementi liquidi si fanno via via più di­stinte con il crescendo della musica. Le figlie del Reno sono immerse nel­l’acqua di contenitori trasparenti e sono loro stesse a “partorire” l’oro che Alberich ruba mentre le ragazze ven­gono por­tate via con delle reti come cetacei spiaggiati. È la prima volta che l’agitato e doloroso motivo nell’or­chestra trova un ade­guato corri­spettivo drammatico in scena.

Ma il meglio deve ancora venire. L’immagine del nostro pia­neta che si allontana nello spazio ci trasporta nel regno di Wotan. Con il tema del Valhalla si scopre una scena da fantascienza, con gli dèi vestiti come in Guerre stellari e issati su altissime piatta­forme mobili. Loge guizza qua e là su un segway e i gi­ganti sono veramente tali grazie a una struttura meccanica che ne ampli­fica le proporzioni.

Anche la discesa nelle viscere della Terra è una prodezza vista solo al cinema dove il regno di Alberich è a metà strada tra la Isen­gard disegnata da Alan Lee per il Signore degli anelli, una fanta­scientifica fabbrica di embrioni e una spaventosa macelleria. Il ge­nio visionario di questi catalani non ha proprio limiti!

Questo per la parte visiva. Sul podio Zubin Mehta, con il me­stiere che gli si riconosce, ricava dall’orchestra della comunità va­lenciana tutti i colori e le tensioni drammatiche richieste dalla par­titura.

I cantanti sono tutti di ottimo livello. Un particolare cenno si può fare per l’autorevole Wotan di Juha Uusitalo, che ha sostituito con un occhio di vetro quello sacrificato (particolare sofisticato, ma difficilmente no­tato dal pubblico del teatro). Il minaccioso Fa­solt di Matti Salminen e l’a­vido Fafner di Stephen Milling espri­mono adeguatamente la loro potenza vocale. Affaticata ma intensa l’inter­pretazione come Alberich di Franz-Jo­sef Kapellmann. Nel reparto femminile è soprattutto la Erda di Christa Mayer a farsi ri­cordare nella sua breve ma determinante apparizione, men­tre le tre figlie del Reno dimostrano di avere fiato non solo nel canto, ma anche in apnea sott’acqua.

La regia video di Tiziano Mancini fa del suo meglio per ri­prendere tutto quello che avviene in scena, ma questo è uno spet­tacolo che si gusta dal vivo e l’ultima occasione è stata al Maggio Musicale Fiorentino nel 2008.

Questa produzione di Valencia è il paradigma della moderna rappresentazione dell’opera lirica, che se sopravviverà sarà forse gra­zie a spetta­coli come questo.

(1) Nel XX secolo un altro compositore, Karlheinz Stockhausen, ha realizzato un ciclo ancora più ambizioso: il suo Licht si sviluppa su sette opere, ognuna per ogni giorno della settimana, per una durata complessiva di quasi trenta ore!