Mese: febbraio 2018

TEATRO SOCIALE

Teatro Sociale

Trento (1819)

670 posti

Teatro all’italiana con tre ordine di palchi più il loggione, il Teatro Sociale fu fondato nel 1819 ed è il teatro di tradizione e storico della città di Trento. La ristrutturazione del 2000 lo ha riportato ai fasti del passato con stucchi dorati e decorazioni di sapore neoclassico.


A Teatro si accede passando da Palazzo Festi dove al primo e al secondo piano  ci sono 6 sale utilizzabili per riunioni e convegni. Sopra la platea, nel sottotetto, è ricavata una grande sala (Ridotto), raggiungibile da Palazzo Festi con una capienza di 150 posti. L’utilizzo di Palazzo Festi, del ridotto o del teatro è alternativo.  Non possono essere in attività più zone contemporaneamente. Assieme ad altri luoghi di spettacolo il Sociale fa parte del Centro Servizi Culturali Santa Chiara.

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Meno grigi più Verdi

Alberto Mattioli, Meno grigi più Verdi

2018 Garzanti, 163 pagine

In copertina il titolo è stampato tutto maiuscolo così da mantenere il gioco di parole verdi/Verdi, essendo il sottotitolo: Come un genio ha spiegato l’Italia agli italiani.

E il genio è ovviamente Giuseppe Verdi, il compositore più rappresentato al mondo, ma anche l’artista italiano che meglio ha saputo descriverci come siamo realmente e non come vorremmo essere,  «una specie di antropologo di una popolazione dai curiosi usi e costumi, un Lévi-Strauss padano che analizza gli strani abitanti di quella penisola allungata in mezzo al Mediterraneo in una bizzarra forma di stivale».

La lettura dell’indice ci fa capire quale libro abbiamo tra le mani. Dopo i primi capitoli (L’uomo Verdi – Verdi politico – Il canto secondo Verdi) se ne susseguono  altri centrati su ciascuna delle opere della maturità del compositore (Le regole della famiglia: Stiffelio – Le donne oggetto: Rigoletto – Il seguito alla prossima puntata: Il trovatore  – Santa e puttana: La traviata – Il vitellone del Ballo in mascheraLa forza del destino o l’Italia che fu – «Taci, prete»: Stato e Chiesa nel Don Carlo(s) – Faccetta nera: Aida – Fu vero Shakespeare? Gli equivoci di Otello – Il grande vecchio: Falstaff).

Le sue opere sono i modelli dei nostri vizi e delle nostre virtù, queste ultime meno numerose: «tutti noi abbiamo un debito da pagare verso questa civiltà immensa che ci fa nascere, crescere, vivere e morire immersi nel Bello, nella lingua, nella musica, nel paesaggio, nell’arte, negli oggetti, nel cibo, nei vestiti, nei modi, nelle città più belle che l’Uomo abbia prodotto. Poi, dopo, solo dopo, possiamo lamentarci delle insufficienze, delle cialtronaggini, dei ritardi e dei disastri. Alla base dev’esserci la gratitudine per tutti quelli che, nei secoli, hanno realizzato questo miracolo che si chiama Italia. Compreso Giuseppe Verdi».

Šostakovič il folle santo

Antonio Ianniello e Francesco Saponaro, Šostakovič il folle santo

regia e spazio scenico di Francesco Saponaro

Torino, Teatro Baretti, 16 febbraio 2018

Arte e repressione

Drammaturgia, melologo per attore, questo è lo spettacolo ora in scena sulle tavole del Teatro Baretti. Sul palco vuoto una vecchia poltrona coperta da una logora fodera, un leggio, una lampada, un telefono di bakelite nera e una bottiglia di vodka.

Un Dmitrij Šostakovič stanco e malato rivive sull’onda della sua musica la difficile esistenza vissuta tra ispirazione creativa e repressione politica. Basato su epistolari e biografie, il testo è declamato sui ritmi delle note delle sue musiche, una prestazione di grande bravura dell’attore Tony Laudadio che con le lenti spesse e l’andamento dimesso del compositore riesce a ricreare con emozione la figura del musicista russo più bistrattato dal suo regime.

Rigoletto

Giuseppe Verdi, Rigoletto

★★★★☆

Aix-en-Provence, Théâtre de l’Archevêché, 3 luglio 2013

(video streaming)

Rigoletto pagliaccio al circo

Nel duecentesimo dalla nascita di Giuseppe Verdi il Festival di Aix-en-Provence inaugura con un suo lavoro che qui non è mai stato rappresentato ed è affidato a uno dei maggiori registi del momento, il quale non perde tempo con una pedissequa messa in scena, ma legge la vicenda in maniera teatralmente coinvolgente. La cosa non sarebbe passata indenne in Italia, dove le “vestali della tradizione verdiana” avrebbero starnazzato allo scempio. Tranquilli, lo spettacolo, coprodotto con Bruxelles, Mosca e Ginevra, seppure diretto da un italiano, non verrà a turbare le italiote coscienze. Si potrà discutere che poi i presupposti teorici della lettura di Carsen reggano più o meno bene con la musica del Rigoletto, ma il teatro è soprattutto questo: ricerca, non museo.

Il regista canadese ci aveva abituato al suo meta-teatro (tra gli ultimi esempi quelli del Věc Makropulos e di Les contes d’Hoffmann), che qui diventa circo. Dal sipario chiuso vediamo uscire un clown che con una risata stridula trascina un sacco e da questo estrae una bambola gonfiabile. Il tragico si trasforma in beffardo: quello che si vede segue fedelmente quanto è scritto in musica – dai do di trombe e tromboni che scandiscono il tema della maledizione si passa direttamente alla musichetta volgare della festa in quest’opera senza ouverture. Il clown è Rigoletto stesso, incaricato di far divertire il suo padrone ricco e vizioso che ha allestito un circo per intrattenere i suoi compagni di dissolutezze con numeri di acrobati e spogliarelliste. Queste ultime si esibiscono come belve ammaestrate davanti al duca in giacca di velluto rosso dal palco che ha fatto costruire per sé da cui ammirare lo spettacolo.

La metafora del circo come arena di crudeltà rende perfettamente la drammatica crudezza del testo. Carsen sa leggere libretto e partitura e mette a nudo Rigoletto nella sua letterale scabrosità e a chi si scandalizza per quello che vede in scena si consiglia di leggere il libretto «Tutto è gioia, tutto è festa; | tutto invitaci a goder! | Oh guardate, non par questa | or la reggia del piacer!». La “festa” qui è rappresentata per quello che è veramente, un’orgia, come dice sprezzante Monterone «Ah sì, a turbare | sarò vostr’orgie…». L’ipocrisia dei cortigiani è evidenziata nel conte di Ceprano che si indigna per le avances fatte dal duca a sua moglie mentre lui palpeggia le grazie di una delle tante ragazze.

Dopo l’incontro con Sparafucile, mentre si pulisce il viso dalla maschera di clown, Rigoletto arriva alla sua dimora, una roulotte/casa di bambola sulla pista del circo dove tiene Gilda, adolescente irrequieta che nasconde il diario sotto il materasso e si ritrae ai gesti d’affetto del padre. Il «Caro nome» viene cantato da Gilda su un trapezio sotto la cupola di finte stelle del tendone, il solo momento di beatitudine nella truce vicenda e il suo volo riecheggia il “volo” della voce. Ma il tutto dura poco: i cinici uomini in smoking stanno organizzando il rapimento e mentre Rigoletto tiene un’inutile scala essi portano via la roulotte con Gilda dentro. Il duca che si spoglia completamente quando viene a sapere che la sua donna è stata rapita e portata a palazzo la dice lunga sulle sue intenzioni e infatti la prima cosa che esprime Gilda è la vergogna, non la gioia di aver incontrato di nuovo il suo Gualtier Maldé ora duca. Bellissima è la scena della confessione di Gilda al padre nel circo vuoto, con il pavimento cosparso di maschere. E Rigolettola maschera se la toglie con effetto molto drammatico davanti al sipario prima di pagare l’assassino e scoprire quindi il corpo della figlia. Alla sua domanda «Chi t’ha colpita?» il sipario si riapre e vediamo l’interno del circo con gli uomini seduti sulle gradinate a godersi lo spettacolo della tragedia di Rigoletto. Sulle parole «Ah, la maledizione!» un’acrobata scende roteando dall’alto.

Ai coniugi Boruzescu si devono le scenografie (Radu) e i costumi (Miruna) mentre alla testa della London Symphony Orchestra con la sua eccitata direzione Gianandrea Noseda esalta gli aspetti drammatici della musica che nel temporale del terz’atto fa venire i brividi tra quello che si ascolta in orchestra e quello che si vede in scena. Qualche scollatura non manca, ma l’acustica en plein air del cortile dell’Archevêché di certo non aiuta.

George Gagnidze è un Rigoletto intenso ma non memorabile; il Duca ha la figura e la baldanza giovanile giusta, ma lo squillo non basta e Arturo Chacón-Cruz si dimostra non maturo per la parte; Irina Lungu è una Gilda sensibile ma esile e con agilità imprecise; lo Sparafucile di Gábor Bretz si fa notare soprattutto per la presenza scenica così come la Maddalena di José María Lo Monaco.

2011

2010

2009

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2012

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2008

Giulio Cesare in Egitto

Friedrich Händel, Giulio Cesare in Egitto

Buenos Aires, Teatro Colón, 13 giugno 2017

★★☆☆☆

(video streaming)

Giulio Cesare in kitschland

Assente da quasi cinquant’anni (e allora Cleopatra fu Beverly Sills) torna in scena al Colón di Buenos Aires il capolavoro händeliano – l’opera con cui è partita la riscoperta moderna del compositore di Halle e con la quale è iniziato un nuovo modo di mettere in scena l’opera barocca.

Da un aereo che ha sulla fiancata il marchio SPQR scende un Giulio Cesare in giacca rosa damascata, pelliccia di ermellino lunga fino ai piedi, stivali con la punta e il tacco dorati e capelli lunghi, tutto in perfetto stile cafonal (costumi di Sofia di Nunzio). Sullo stesso tono è il resto dell’allestimento di Pablo Maritano realizzato con i cascami delle regie di Peter Sellars (e poi di David McVicar, Leiser & Courier, eccetera), uno spettacolo concepito come una rivista a numeri chiusi scanditi dall’apertura di una tenda dorata e da un sipario rosso che delimitano un’area di proscenio in cui vengono eseguiti numeri a mo’ di avanspettacolo. Volgendo tutto sul grottesco si perde così il difficile equilibrio tra comico, tragico e sentimentale con cui Händel e i suoi librettisti hanno costruito la vicenda.

Una piramide su piattaforma girevole, piuttosto rumorosa quando ruota, costituisce la scenografia di Enrique Bordolini il quale si occupa anche del gioco luci. Le moderne e pervasive coreografie di Carlos Trunsky si avvicendano in maniera un po’ aleatoria, comprendendo, chissà perché, degli interludi danzati sul concerto per arpa op. 4 n° 6 dello stesso compositore. Poi però si taglia altra musica: Martin Haselböck non sembra condividere la lettura esasperata del regista e propone un Giulio Cesare misurato con varie omissioni, pezzi di recitativo, scene minori, ma anche arie: Cesare si vede rimossa «Non è sì vago e bello» e Cleopatra «Tu la mia stella sei», tra le altre. L’orchestra fa del suo meglio ma si capisce che, nonostante i rinforzi con strumenti d’epoca, questo non sembra essere il suo repertorio di elezione.

Se nel 1968 al Colón Giulio Cesare fu un basso (Norman Treigle), secondo la prassi di allora, ora sulle scene del teatro porteño un contraltista riprende il ruolo che in origine fu assegnato al Senesino. Altri tre controtenori vestono i panni dei due castrati dell’epoca (Tolomeo e Nireno) e del soprano en travesti (Sesto). Assieme alle voci femminili di Cleopatra e Cornelia e a quelle scure di Achilla e Curio, il teatro ha impiegato un cast eterogeneo ma complessivamente di livello accettabile. Delle prodezze di Franco Fagioli si sapeva già: colorature e variazioni da manuale, così come i fiati e il fraseggio, le cadenze sorprendenti. Ecco, forse c’è un certo compiacimento per le note gravi. Penalizzati dalla regia gli altri due contraltisti, Flavio Oliver e Martín Oro, quest’ultimo un Nireno scenicamente insopportabile, e il sopranista Jake Arditti. Come regina d’Egitto Amanda Majeski ha dominato la scena per la sicura vocalità e la sua sensualità, seppur sempre sopra le righe a causa dell’impostazione registica. Adriana Mastrangelo è la matrona offesa e talora vocalmente un po’ fuori stile. Efficaci Hernán Iturraide e Mariano Gladic.

Unione Musicale

Unione Musicale

Torino, Conservatorio Giuseppe Verdi

7 febbraio 2018

Après un rêve

Se si fosse tenuto a Parigi questo concerto dell’Unione Musicale sarebbe stato esaurito da sei mesi con biglietti a 80€. Qui a fatica si è arrivati a riempire metà del salone del Conservatorio per una serata con una delle interpreti più illustri del panorama lirico francese che i torinesi avevano già potuto ammirare nel Pelléas et Mélisande diretto da Valčuha per la stagione RAI di due anni fa.

Con lo stesso titolo dell’album della Naïve, il soprano Sandrine Piau e la pianista Susan Manoff si sono esibite in un programma che partendo da Felix Mendelssohn è giunto fino a Benjamin Britten. Nel mezzo due autori francesi, Ernest Chausson e Francis Poulenc, e Richard Strauss, in modo da inserire il concerto nel Festival  Strauss ora in corso.

L’eleganza del fraseggio, i legati e la sensualità del timbro sono stati dispiegati con maestria dalla cantante francese che ha incantato con brani di stile molto diverso. Il vertice dello struggimento è stato raggiunto nel famoso Morgen, omaggio di Richard Strauss alla moglie per il loro matrimonio, mentre l’eleganza salottiera delle mélodies di Chausson aveva trovato nella seduzione della voce una perfetta realizzazione. Con Poulenc si è toccata una corda più ironica, come nella poesia C di Aragon che con tutti quei versi che rimano nel suono sé sembra uscita dalla penna di Georges Perec.

Totale cambio di atmosfera con Britten, che gioca con la poesia di William Butler Yeats o con le canzoni popolari, come il magico I Wonder as I Wander, cavallo di battaglia della compianta Cathy Berberian. La Piau ne ha dato una versione ineccepibile e con quel tanto di teatralità che ci ha fatto ricordare la sua tante volte ammirata presenza scenica.

Il segreto di Susanna / La notte di un nevrastenico

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Ermanno Wolf-Ferrari, Il segreto di Susanna

Nino Rota, La notte di un nevrastenico

Trento, Centro Servizi Culturali S. Chiara, 16 dicembre 2012

(video streaming)

Un dittico non consueto

Assieme a La notte di un nevrastenico di Nino Rota, Il segreto di Susanna di Ermanno Wolf-Ferrari fa parte di una produzione del Centro Servizi Culturali S. Chiara di Trento. L’orchestra Ensemble Zandonai è diretta da Dennis Assaf, la regia è di Nicola Ulivieri e la scenografia è firmata da Filippo Andreatta. Anna Delfino e Marcello Rosiello sono i due volonterosi interpreti.

Il Conte Gil, giovane sposo, crede di aver riconosciuto la moglie, la Contessa Susanna, in una passante, ma quando torna a casa, la trova seduta al pianoforte, stupita che il marito possa pensare che lei esca senza la sua autorizzazione. In realtà, la «figura snella» vista dal conte era proprio Susanna, che, rientrata in fretta, è riuscita ad avvolgere la mantiglia e il cappellino in un pacchetto e ad affidarlo a Sante, il cameriere muto. Gil sente odore di tabacco, ma non riesce a spiegarsi il motivo, visto che la giovane moglie non fuma e nemmeno Sante. Mentre Susanna suona, è tormentato dal sospetto che la moglie lo tradisca, a un mese dal matrimonio, con un fumatore. Decide allora di parlarle, ma lei si rattrista dei sospetti e lui si  pente del pensiero. Ma quando la abbraccia con trasporto ricordando il fidanzamento, ecco di nuovo “l’odor fatal, sin nella veste”. Lei nuovamente si turba e confessa al marito di avere un segreto, ma di non volerglielo rivelare: Gil si irrita e in preda alla furia dichiara la sua intenzione di protestare presso la suocera, donna integerrima. Lei corre in camera, ma quando Gil si accinge ad uscire di casa per andare al circolo degli amici, gli dà l’ombrello. Fanno pace, lui la bacia sulla fronte e poi esce. Passano pochi istanti e Susanna chiude bene tutte le finestre, apre l’involucro che aveva consegnato a Sante e tira fuori una sigaretta: ecco il segreto! Mentre fuma in compagnia del cameriere, rientra Gil; egli sente odore di fumo e, vieppiù insospettito dal troppo tempo che Susanna impiega ad aprirgli la porta, comincia a cercare il presunto amante con la scusa di aver dimenticato da qualche parte l’ombrello. Poi esce e Susanna riaccende la sigaretta. Ma Gil rientra immediatamente, convinto di incastrare la giovane moglie e il suo amante: prendendole però con forza la mano egli si brucia con la sigaretta, svelando così l’equivoco e anche l’inconsistenza della propria gelosia. Si perdonano a vicenda e si promettono tanto amore, fumando insieme.

In un salone borghese fine Ottocento con una enorme vetrata che dà su un lago su cui si ammirano le acrobazie di un biplano – gli arguti video in bianco e nero sono di Armin Ferrari – una donna appena tornata da una passeggiata cerca di nascondere qualcosa, quando arriva il marito, che scopriamo essere il pilota. L’uomo sente puzza di tabacco in casa e pensa sia dovuta alla presenza di un amante della moglie: «Un seduttore! Un fumatore! | Dio! quale orrore! […] Ben lo conosco, l’odor molesto, | che per istinto schivo e detesto!». Neppure lontanamente sospetta che la donna sia una fumatrice come dovrà alla fine confessare la moglie per la pace famigliare, coinvolgendo anche il marito nel vizio. La morale: « Tutto è fumo a questo mondo, | Che col vento si dilegua, | Ma l’amor, sincer, profondo, | Fuma, fuma, senza tregua!».

L’esilissima vicenda narrata nel libretto di Enrico Golisciani ha una veste musicale molto raffinata: «L’orchestra è un velo elegiaco e malinconico, che accompagna le volute azzurrine del fumo […] Delicatissimo giocattolo (il cioccolato, il girotondo finale) e gioiello di teatro da camera (a partire dall’ouverture “miniatura” e dai suoi molteplici disegni o schizzi melodici) che erige a modello La serva padrona di Pergolesi […] è da considerarsi forse l’opera più fortunata di Wolf-Ferrari, fin dalla lontana direzione di Toscanini al Costanzi  [1911] due anni dopo la creazione monacense». (Raffaele Manica)

Dopo la nevrosi senza età, la gelosia, una nevrosi più attuale, l’insonnia, è quella che diventa oggetto comico del radiodramma La notte di un nevrastenico, basato su una commedia giovanile del 1925 di Riccardo Bacchelli. Scritto da Nino Rota nel 1950 venne messo in scena, dopo aver vinto il Prix Italia, solo dieci anni dopo alla Piccola Scala di Milano, diretto da Nino Sanzogno, assieme a Sette canzoni di Malipiero e Mavra di Stravinskij, ma ebbe poco successo perché da subito perse al confronto con il precedente Il cappello di paglia di Firenze.

In un albergo un nevrastenico con problemi di insonnia ha prenotato, oltre alla sua camera, anche le due attigue per stare più tranquillo. Poiché siamo nell’affollato periodo della Fiera Campionaria, il portiere concede le due camere confinanti a un commendatore e a una coppia di amanti, raccomandando loro il silenzio. Ma il nevrastenico non sopporta il minimo rumore e irrompe nella stanza del commendatore, chiamando il personale. Calmatosi, sta per addormentarsi, quando avverte le effusioni amorose degli amanti nell’altra stanza: si precipita ancora a protestare, poi convoca di nuovo il personale dando fuori di matto. Finalmente, cacciati gli intrusi, si avvia a letto ma il cameriere bussa per la colazione: è mattina.

«In una scrittura nettamente tradizionale e di gradevole levità, che predilige moduli tra la commedia musicale e la farsa giocosa, il nevrastenico tuona le sue invettive su una linea vocale dagli ampi intervalli dissonanti. Con efficace senso teatrale, la scena col commendatore è caratterizzata da scalette discendenti (di una vocalità quasi ‘seria’, come pure nei rimproveri ai camerieri), mentre quella della coppia – un duetto d’amore in piena regola, a tempo di valzer lento e con estatici acuti femminili – si distingue per i suoi languidi cromatismi. In perfetto spirito da opera buffa rossiniana è invece il quintetto dei protagonisti nel momento della massima concitazione, caratterizzato da veloci sillabati e da un’animata trama contrappuntistica». (Maria Grazia Sità)

Come Il segreto di Susanna l’allestimento è curato da Nicola Ulivieri, che riserva per sé la parte del nevrastenico. Il baritono che fa il regista è bilanciato da un regista che invece fa il tenore: come cameriere troviamo infatti Gianmaria Aliverta!