Mese: novembre 2016

Samson et Dalila

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Jose Etxenagusia Errazkin, Sansón y Dalila, 1887

Camille Saint-Saëns, Samson et Dalila

Torino, Teatro Regio, 15 novembre 2016

★★☆☆☆

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Cecil B. DeMille in Cina

Sansone è un nazireo, un eletto, come Giacobbe o Isacco, e la sua nascita è un miracolo perché la madre era sterile. Il divieto di tagliarsi i capelli, come quello di non bere alcolici, fa parte del suo patto con il Dio di Israele per liberarne il popolo dalla Filistia – così dice il racconto biblico (Libro dei Giudici, 13-16). Si tratta quindi di un soggetto più consono a un oratorio che a un’opera e infatti è Händel a musicarlo come tale nel 1743 su testo di Milton.

L’opera di Saint-Saëns inizia sì con i toni solenni di un coro («Dieu d’Israël! Écoute la prière») che continua in una parte sapientemente fugata, ma presto l’opera prende una piega diversa: è la figura di Dalila quella che interessa maggiormente al compositore ed è a lei che sono dedicate le pagine più seducenti – il titolo originariamente previsto per l’opera era infatti Dalila. Delle imprese eroiche dell’ebreo non viene quasi fatto cenno nel libretto di Ferdinand Lemaire, che si concentra invece sui conflitti interiori del personaggio. La musica oscilla in continuazione tra austera atmosfera religiosa e sensuale erotismo, tra solenni accordi tonali e melismi orientaleggianti, così come oscilla tra passato e futuro la produzione del Regio di Torino affidata a Hugo De Ana. Il regista aveva già messo in scena Samson et Dalila nel 2001 con un’ambientazione che aveva fatto molto discutere: una Palestina con ebrei ridotti a vivere in una discarica di rottami d’automobili i quali come armi brandivano una marmitta o un parafango, mentre i Filistei erano in costumi da Star Trek.

Quindici anni dopo il regista argentino rinuncia a ogni provocazione in questo suo nuovo allestimento, coprodotto con il National Centre for the Performig Arts di Pechino dove lo spettacolo è stato presentato l’anno scorso. La sua lettura ripiega sul colossal biblico cinematografico anni ’50, ma in scena qui non ci sono Hedy Lamarr e Victor Mature, purtroppo, e chi poi sperasse fino alla fine dello spettacolo trattarsi di un’operazione ironica aspetta invano. L’entrata in scena di Dalila chiarisce subito che l’ironia è ben lontana dagli intenti del regista: le donne filistee del suo corteo muovono le braccia come nelle coreografie degli anni ’40 e Dalila accenna a movenze di danza quantomeno imbarazzanti. Durante il duetto del secondo atto l’assoluta mancanza di seduzione ed erotismo è compensata dalla proiezione sul velario che divide la scena dalla platea di corpi nudi i cui dettagli anatomici distraggono più del dovuto da quanto avviene sul palcoscenico. Di nudità ci sarà poi gran copia nel baccanale dell’atto terzo, anche se si tratta per lo più di ballonzolanti organi genitali posticci applicati ai tanga dei ballerini. Senza tensione è il duetto tra Dalila e il Gran Sacerdote di Dagon, qui un bravo Claudio Sgura, e deludente il finale con quattro petardi e alcuni calcinacci che cadono dall’alto. Almeno qui ci voleva un bel cataclisma! Le scenografie sono di gusto cinese e i costumi sono incongruamente lussuosi con ricchissimi ricami. Giustamente sono salite sul palco a ricevere gli applausi anche le costumiste del teatro.

Pinchas Steinberg dirige correttamente uno spartito che conosce bene ma di cui non sembra abbia voglia evidenziare le sorprendenti ricchezze orchestrali. I tempi scelti sono poi talora fin troppo rilassati. Dopo tanto bel canto italiano, Gregory Kunde ritorna a quel repertorio francese in cui ha sempre potuto esprimere al meglio la grazia della voce – il suo Nadir dei Pêcheurs de perles di Bizet è stato tra i massimi di ogni epoca. Kunde riporta sulla scena un Samson lirico, dopo che nel secolo passato il ruolo aveva toccato un vertice drammatico con Del Monaco o Vickers. La sua prestazione rivela ancora una volta il miracolo di una voce che continua a sorprendere per freschezza, potenza ed eleganza. La sua presenza scenica non è però aiutata dalla regia, e risulta impacciata e statica. Così ne risente il personaggio, poco sviluppato.

Debuttante nella parte è invece Daniela Barcellona, anche lei a suo agio nell’opera francese, pensiamo a Les Troyens. Il ruolo di Dalila è vocalmente più impegnativo di quello di Didone ed i passaggi di registro non hanno la fluidità che ci si aspetterebbe, anche se il timbro è sempre bello e gli acuti ben piazzati. Anche qui la regia ha gravemente ipotecato la definizione del personaggio e la femme fatale è diventata un’antipatica megera.

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The Nose

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Dmitrji Šostakovič, The Nose

London, Royal Opera House, 9 November 2016

★★★★★

(live streaming)

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Three geniuses meet – two from Russia and one from Australia

Ninety years separate Gogol’s novel Hoc (The Nose, 1836) from the eponymous Shostakovich opera, and another ninety from the the Royal Opera House production in which The Nose is staged for the first time – and in English. A grotesque, surreal, dystopian, farcical nightmare. There are many definitions that fit the revolutionary work of the twenty year old brilliant Russian composer which Barrie Kosky revives in the idiomatic translation by David Pountney. No other operatic performance in recent years has received such rave reviews (1). One for all, the one from Bachtrack whose reviewer has wittily complied with the spirit of the Australian director.

Not long past from Saul‘s success in Glyndebourne, Kosky’s start’s from Shostakovich’s music and his staging is an incoherent cabaret full of irresistibly comic skits and hilarious danced interludes – choreography by Otto Pichler. The director and costume designer Buki Shiff had to solve the nose problem first and foremost: in Kovalev the nose looks missing because all the others characters flaunt a generous prosthesis! There are noses everywhere in this vibrant phantasmagoria: noses kneeling in prayer, noses strolling in the background, noses that emerge from the curtain, remote controlled noses that trot on the scene, noses engaged in a tap number as “dancers” in a row …

The set design is limited to a round platform, a kind of large table with tablecloth that serves as Kovalev’s bed chamber, and a few other props. Everything is focused on the actors/singers, the magnificent costumes, the faces make-up. On stage we see alluring bearded “girls”, mustachioed policemen, women dressed like matryoshka dolls and other characters straight out of a cartoon or a slapstick comedy. Gogol’s bureaucratic satire here becomes a surreal visual game that keeps pace with the anarchist and modernist Russian composer’s music – before being put on line by Stalin.

The overactive score is masterfully rendered by Ingo Metzmacher. Alongside the countless comic effects provided by Shostakovich and virtuoso instrumental solos (such as the surprising interlude for percussion), he knows to highlight the rare moments of lyricism, as well as keep the more than seventy characters well on stage. Of all these, let’s mention Martin Winkler’s clown face and the inexhaustible vitality, a real tour de force in which body, voice and facial expression are all one in the definition of councilor Kovalev’s character. The glorious bass John Tomlinson ironically covers the three roles entrusted to him and the tenor Wolfgang Ablinger-Sperrhacke brings all its humor into Ivan’s character, charlatan and sluggish servant, but with sounding stage entrances.

The last performance was broadcast live by Opera Platform and will still be available for a few months. Do not miss the opportunity to watch one of the best shows of the year.

(1) «A terrifically good nose job», «Jaw dropping», «Another triumph for opera director Barrie Kosky», «Virtuosic staging», «An exuberant, riotous show»…

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The Nose

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Dmitrji Šostakovič, The Nose

Londra, Royal Opera House, 9 novembre 2016

★★★★★

(live streaming)

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L’incontro di tre genii – due russi e uno australiano

Novant’anni separano il racconto di Gogol’ Hoc (Il naso, 1836) dall’opera omonima di Šostakovič, e altri novanta dalla produzione alla Royal Opera House dove The Nose va in scena per la prima volta, e in lingua inglese. Un incubo grottesco, surreale, distopico, farsesco. Molte sono le definizioni che si adattano al rivoluzionario lavoro del compositore russo ventenne che il geniale Barrie Kosky fa rivivere nella idiomatica traduzione di David Pountney. Nessun altro spettacolo lirico degli ultimi anni ha ricevuto giudizi così entusiastici (1). Uno per tutti quello di Bachtrack il cui recensore si è adeguato con arguzia allo spirito del regista australiano.

Reduce dal successo del Saul a Glyndebourne, nella sua chiave di lettura Kosky parte dalla musica dell’opera di Šostakovič e la sua messa in scena è un cabaret sconclusionato e irresistibilmente comico fatto di scenette ed esilaranti siparietti danzati con le coreografie di Otto Pichler. Il regista e la costumista Buki Shiff risolvono prima di tutto il problema del naso che ha lasciato la faccia di Kovalëv: lui ne sembra privo poiché tutti gli altri ne ostentano una generosa protesi! Ci sono nasi dappertutto in questa esuberante fantasmagoria: nasi inginocchiati in preghiera, nasi che passeggiano sullo sfondo, nasi che sbucano dal sipario, nasi telecomandati che trotterellano sulla scena, nasi impegnati in un numero di tip tap come “ballerine” di fila…

La scenografia è limitata a una piattaforma tonda, una specie di grande tavola con tovaglia che funge da camera di Kovalëv, e a pochi altri elementi scenici. Tutto è giocato sugli attori/cantanti, i magnifici costumi, il trucco dei volti. In scena abbiamo via via procaci “ragazze” barbute, poliziotti baffuti, donne vestite come matrioske e altri personaggi che sembrano usciti da un cartoon o da una comica finale. La satira burocratica di Gogol’ diventa qui un gioco surreale pieno di trovate visive che tengono il passo con le trovate musicali dell’anarchico e modernista compositore russo – prima che fosse messo in riga anche lui da Stalin.

L’iperattiva partitura è resa magistralmente da Ingo Metzmacher che, accanto agli innumerevoli effetti comici previsti da Šostakovič e ai virtuosistici assoli strumentali (sorprendente l’interludio per percussioni), sa evidenziare i rari momenti di lirismo, oltre che tenere a bada gli oltre settanta personaggi in scena. Di tutti ricordiamo almeno la faccia da clown e il tour de force di inesauribile vitalità di Martin Winkler, in cui corpo, voce ed espressione facciale sono un tutt’uno nella definizione del personaggio dell’assessore Kovalëv. Il glorioso basso John Tomlinson copre con ironia i tre ruoli che gli sono affidati e il tenore Wolfgang Ablinger-Sperrhacke apporta tutto il suo umorismo nel personaggio del servo Ivan, cialtrone e indolente, ma dalle entrate in scena quantomeno altisonanti.

L’ultima recita è stata trasmessa live da Opera Platform dove sarà ancora disponibile per alcuni mesi. Da non perdere uno dei migliori spettacoli di quest’anno.

(1) «A terrifically good nose job», «Jaw dropping», «Another triumph for opera director Barrie Kosky», «Virtuosic staging», «An exuberant, riotous show»…

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Aquagranda

Filippo Perocco, Aquagranda

Venice, Teatro La Fenice, 8 November 2016

★★★★☆

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A story of today with the music of today

«I think theaters have a responsibility that should not be restrained to reproducing the masterpieces of the past, but also to take risks and make cultural choices by recognizing who can tell today’s stories with the music of today». It’s hard to disagree with these words by Damiano Michieletto, the director staging Filippo Perocco’s new opera Aquagranda (High Water), premiered at (and commissioned by) the Teatro La Fenice. Congratulations then to the Venetian theatre for having the boldness of opening its season with this one-act musical drama…

continues on bachtrack.com

Aquagranda

Filippo Perocco, Aquagranda

Venezia, Teatro La Fenice, 8 novembre 2016

★★★★☆

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Una storia di oggi con la musica di oggi

«Penso che i teatri abbiano una responsabilità che non deve essere solo quella di riproporre i capolavori del passato, ma prendersi dei rischi e fare delle scelte di politica culturale e identificare chi può raccontare le storie di oggi con la musica di oggi». Come non essere d’accordo con le parole del regista Damiano Michieletto che mette in scena Aquagranda, un lavoro di oggi in prima esecuzione, un’opera commissionata al giovane compositore Filippo Perocco, trevigiano classe 1972. Complimenti quindi al Teatro La Fenice per aver avuto il coraggio di aprire la sua stagione con questo dramma per musica in un atto su libretto a quattro mani di Luigi Cerantola e Roberto Bianchin, autore quest’ultimo del romanzo/reportage da cui è tratto.

Cinquant’anni fa, il 4 novembre 1966 a Venezia si registrò un’acqua alta mai così elevata da quando erano iniziate le rilevazioni sistematiche del fenomeno: quasi due metri sopra il livello normale e per un tempo interminabile. La vicenda narrata è ambientata nell’isola di Pellestrina, il primo lembo di terra a cedere sotto la pressione delle acque del mare che entrarono con tutta la loro violenza nella laguna. Quello stesso giorno anche Firenze veniva sommersa dalle acque del suo fiume gonfiato da una pioggia battente.

Pellestrina, 4 novembre 1966. Fortunato e Nane, due pescatori, uno anziano e uno giovane, guardano con preoccupazione il livello della marea. Il primo è più allarmato, crede che l’acqua continuerà a crescere, il secondo invece pensa che da un momento all’altro calerà. Il pessimismo di Fortunato – gli dice l’amico – è dovuto al suo malumore per la scelta del figlio Ernesto di andare lontano, in Germania, a lavorare come cameriere. Compare Ernesto, e nel dialogo tra padre e figlio si apprende che questa decisione – partire come emigrante invece di restare in isola a fare il pescatore – è nata dal desiderio di una vita migliore, dalla speranza di poter un giorno vivere un’esistenza diversa da quella del proprio padre e del proprio nonno. Fortunato non capisce le sue motivazioni, e ne nasce un breve scontro. Anche Lilli, la giovane moglie di Ernesto, condivide la contrarietà e i dubbi del suocero. Quest’ultima e il marito comunque si accingono ad andare a comprare delle scarpe al mercato, in vista dell’imminente partenza di Ernesto. Il tempo sembra peggiorare, e l’acqua continua a crescere inesorabile. Sopraggiunge Luciano, il farmacista, e mette Fortunato ed Ernesto al corrente delle ultime notizie sentite alla radio: tutta l’Europa è agitata da fortunali, acquazzoni e tempeste. La preoccupazione generale aumenta. Tornano Ernesto e Lilli, mentre inizia a piovere. Comincia a serpeggiare la paura, ma ancora si pensa che sia, tutto sommato, abbastanza naturale: a novembre, da sempre, l’acqua cresce e cala allo stesso modo. Fortunato, che conosce a menadito la situazione meteorologica di Pellestrina, nota invece che sta accadendo qualcosa di strano e insolito. A mezzanotte l’acqua arriva all’altezza di un metro. Le donne, turbate, non riescono a dormire. La marea sale, inonda l’isola, entra nelle case, l’abitazione di Ernesto e Fortunato rimane al buio. Mentre Lilli e la sua amica Leda si scambiano parole agitate dai rispettivi terrazzini, Ernesto e il padre sono intenti a mettere al riparo più cose possibile nei ripiani alti degli armadi. Tutti aspettano, tra angosce e speranze, che l’acqua cominci a ritirarsi. Lilli e Leda pregano Dio perché salvi la loro isola. Si ode un enorme boato, come fosse scoppiata una bomba. Il maresciallo dei Carabinieri, Cester, arriva con una notizia tremenda: si è aperta una falla nei murazzi che proteggono Pellestrina da più di duecento anni. Il mare sta impadronendosi della laguna. Soffia forte il vento, mentre l’acqua raggiunge il secondo piano delle case. La paura diviene terrore, ciascuno ora teme per la propria vita. I murazzi cedono definitivamente, nella località di Portosecco: Cester ordina attraverso un altoparlante l’evacuazione dell’isola. Fortunato decide di restare, succeda quel che succeda. Ernesto rimane con lui. Il farmacista, con un megafono, avverte tutta la popolazione del grave pericolo che incombe su di loro. Lilli e Leda partono con gli altri, Luciano resta con Fortunato ed Ernesto: per darsi coraggio e vincere la paura porta una bottiglia di vino da condividere. L’acqua continua a crescere, arriva quasi alle finestre dei piani alti. Si sente una sirena in lontananza, che sibila tre volte. La gente ha lasciato Pellestrina. Arriva anche Cester, l’unico, oltre ai tre amici, che non ha abbandonato l’isola. Con sé ha una bandiera bianca, che potrebbe forse segnalare la loro presenza a qualche aereo di passaggio. Il cielo è nero, la marea non dà cenno di recedere. A un certo punto però – quando ormai si crede sia tutto perduto – Fortunato, il più esperto del quartetto, nota un impercettibile cambiamento: il vento si è fermato. L’insidioso scirocco non soffia più. Il mare cessa di salire minaccioso. L’acqua comincia, quasi miracolosamente, a calare. La vita è salva, gli sfollati, tra cui Lilli e Leda ritornano alle loro case. Tutti festeggiano: l’aquagranda finalmente non fa più paura. La potenza distruttrice e la forza immane dell’acqua sono celebrati dal Coro, voce della laguna, che apre e chiude l’opera e accompagna con un continuo, poetico controcanto le emozioni contrastanti dei protagonisti.

Prima opera di grande respiro di Perocco, suddivisa in dodici scene e un epilogo, Aquagranda si basa su una partitura fatta di lacerti, di suoni impuri, “scarti tonali”, “detriti sonori”, “processi di erosione”, secondo la parole dell’autore: gli inquietanti crepitii realizzati dal pianoforte preparato mantengono alta la tensione in un ambiente sonoro che non descrive ma evoca la forza della natura e gli effetti delle sue devastazioni. La scrittura musicale è spoglia, essenziale, prosciugata. C’è chi ha fatto il nome di Anton Webern a proposito della stile compositivo di Perocco.

Il coro ai lati del palcoscenico è la Voce della Laguna e l’effetto stereofonico ottenuto non è lontano da quello dei “cori spezzati” di Andrea Gabrieli intonati nella non lontana Basilica di San Marco – anche se qui non c’è lo stile dialogico del compositore veneziano, bensì un brusio dapprima inintelligibile, poi frammenti ripetuti di parole in dialetto e citazioni di canti lagunari. Non sono le parole con il loro significato che interessano al compositore, bensì il loro suono, la loro suggestione timbrica. Molti sono i fenomeni di allitterazioni offerti dal libretto e sono questi elementi a esaltare la teatralità di un lavoro che altrimenti è senza soluzione di continuità nella sua drammaticità e che ha l’inesorabilità dell’acqua che sale. Solo verso la fine raggiunge una tensione drammatica che sfocia nel quartetto della penultima scena in cui affiora qualche spunto melodico.

Il geniale allestimento scenico di Michieletto è l’altro elemento teatrale di questa drammaturgia. La scena ideata da Paolo Fantin consiste in una parete di vetro su cui vengono proiettati spezzoni in bianco e nero delle immagini di allora, ma la parete si rivela essere un enorme serbatoio trasparente che lentamente si riempie fino a poi scaricare tutta la massa d’acqua in una pioggia scrosciante. Sarebbe riduttivo definire questo un geniale coup de théâtre tanto il gesto è conforme alla drammaturgia. Da quel momento in poi il palcoscenico è una pozza d’acqua in cui sguazzano i mimi-danzatori, gli uomini a torso nudo e calzoni neri e le donne in abiti verde acqua, che preparano al finale fiducioso con la riappacificazione degli uomini con l’acqua della laguna, «aqua sposa, amorosa, aqua tosa, me morosa». Ottima prova è proprio quella del doppio coro, come pure dei solisti. Assieme a tutti gli altri hanno dimostrato grande abnegazione ad affrontare un’opera nuova e vocalmente impegnativa. La direzione di Marco Angius, grande interprete della musica di oggi, ha messo in luce analiticamente le particolarità di questa partitura rarefatta.

Ben nove sono le rappresentazioni di questa nuova opera e alcune dedicate agli allievi delle scuole.

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Goplana

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Władysław Żeleński, Goplana

★★★★☆

Varsavia, Teatr Wielki, 3 novembre 2016

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Opera fin de siècle al femminile

Bello farsi sorprendere da un’opera fino a questo momento sconosciuta e di cui si ignorava addirittura l’autore! Il palcoscenico più grande d’Europa, quello del Teatr Wielki di Varsavia, ci permette di colmare questa lacuna con la produzione di Goplana, “opera romantica in tre atti” di Władysław Żeleński, lavoro poco frequentato anche nel suo paese e dalle cui scene è assente da quasi cinquant’anni.

Anello mancante tra Stanisław Moniuszko e Karol Szymanowski, Żeleński (1837-1921) è una figura importante della musica polacca per aver conciliato la tradizione folklorica del suo paese con la fase estrema del romanticismo ottocentesco europeo. Seconda delle sue quattro opere per la scena e su un goffo libretto di Ludomił German dalla tragedia Balladyna di Juliusz Słowacki, Goplana ebbe la prima il 23 luglio 1896 a Cracovia.

Come Rusalka, anche Goplana è una creatura lacustre, la regina del lago Goplo, la quale si innamora di Grabiec, che ha rischiato di annegare, ma il giovane non vuole saperne, spaventato dall’idea di diventare lo sposo di una ninfa acquatica con quello che ne consegue: cibarsi di rane e radici, vestire di foglie… Goplana quindi, non potendolo avere come marito, lo trasforma in un salice. Sulla terra, intanto, il principe Kirkor, in cerca di una moglie, arriva alla casa di una povera vedova che ha due figlie: Alina è buona e gentile, Balladyna è egoista e ambiziosa. Indeciso tra le due ragazze, «una è una rosa, l’altra un giglio» afferma il principe, la vedova propone che chi per prima porterà più lamponi sarà la sposa del principe. Balladyna vince la sfida uccidendo la sorella e sposa il principe con ricche nozze. La donna si ritrova dunque signora del castello, ma è insoddisfatta e infatuata del cavaliere Kostryn. Quando Grabiec, liberato dall’incantesimo, ritorna per raccontare la verità, lo fa uccidere, ma non tarda la punizione dal cielo, nella forma di un fulmine invocato da Goplana, che la colpisce a morte.

L’ambientazione fiabesca suggerisce al compositore una partitura dalla ricca orchestrazione e ingloba gli spunti popolari in un piacevole flusso sonoro che ricorda a tratti Čajkovskij o anticipa in altri momenti il Bartók del Barbablu o il Mahler dell’Ottava sinfonia. La costruzione formale dell’opera dimostra la perizia compositiva dell’autore, che alterna sapientemente numeri solistici a concitati momenti di insieme. Inutile  però cercare un qualche approfondimento psicologico in questa fiaba nera, anche se i personaggi sono musicalmente definiti: alla fata Goplana è affidata una vocalità che comprende tre registri: il drammatico, il lirico e la coloratura; al principe una tessitura acuta; all’ingenua Alina un maggior lirismo; alla perfida Balladyna i toni più scuri.

Oltre alla novità del titolo, un altro motivo di interesse per questo allestimento è la messa in scena di Janusz Wiśniewski, artista visivo legato alla figura di Tadeusz Kantor, uno dei maggiori teorici del teatro del Novecento. Del maestro, Wiśniewski sembra voler portare avanti la sua “scenografia in movimento” in cui sono i corpi degli attori a organizzare plasticamente lo spazio scenico, lasciato per lo più vuoto e con un tappeto nebbioso, a suggerire il tema lacustre della vicenda, da cui emergono o in cui spariscono i personaggi. Costumi e trucco dei volti si rifanno a un teatro del grottesco, pescando da periodi e temi diversi. Intriganti le immagini del coro e della festa di nozze, un incubo popolato di personaggi inquietanti che sfilano al posto del previsto balletto.

Sotto la guida orchestrale di Grzegorz Nowak ci sono ottimi interpreti, per lo più ignoti al di fuori della Polonia. Ricordiamo almeno i nomi delle tre donne, motori della vicenda: Edyta Piasecka, Goplana; Wioletta Chodowicz, Balladyna e Małgorzata Walewska, la vedova.

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TEATRO COMUNALE

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Teatro Comunale

L’Aquila (1873)

600 posti

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Il teatro dell’Aquila, che avrebbe dovuto essere intitolato dapprima a Ferdinando II delle Due Sicilie quindi a Vittorio Emanuele II d’Italia, venne inaugurato il 14 maggio 1873 con Un ballo in maschera come Teatro Comunale. La struttura è tipicamente neoclassica: la facciata è semplice a doppio ordine con cinque aperture per livello di cui, le tre centrali, sono leggermente aggettanti, scandite da colonne e sovrastate da balconata e frontone triangolare finale. Il foyer, denominato Sala Rossa, è interamente affrescato ed è caratterizzato da uno scalone monumentale in marmo, anch’esso di derivazione neoclassica. La sala presenta una platea a ferro di cavallo prospiciente un palcoscenico di circa 150 m². I 57 palchi circondano la platea e sono divisi in tre ordini sovrastati da un loggione da circa 100 posti. Il teatro conserva ancora il sipario originale, di circa 100 m², dipinto nella prima metà del XIX secolo da Franz Hill per la Sala Olimpica.

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Dal 1963 è sede del Teatro Stabile dell’Aquila, poi Teatro Stabile d’Abruzzo (2000), il principale ente teatrale della regione. Dal 1970 è stato affiancato da una sala secondaria (Ridotto) a due livelli con ingresso indipendente sulla piazza e 220 posti complessivi, sede dell’Istituzione Sinfonica Abruzzese. Nel 2009 la struttura è stata fortemente danneggiata dal terremoto del 6 aprile riportando lesioni in facciata ed il crollo del soffitto del foyer e del cornicione anteriore; è stata perciò chiusa a tempo indeterminato. Il Ridotto, danneggiato in maniera meno evidente, è stato riaperto nel dicembre del 2009 ed ospita provvisoriamente gli spettacoli del Teatro Stabile d’Abruzzo. Nel 2015 è stata affidata alla Conscoop di Forlì la ricostruzione del teatro danneggiato, la cui apertura è prevista per il 2017.

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