Mese: marzo 2023

Arabella

Richard Strauss, Arabella

Madrid, Teatro Real, 9 febbraio 2023

★★★★☆

(video streaming)

Un bicchiere d’acqua invece di una rosa d’argento

Per la prima volta a Madrid va in scena l’opera con cui Strauss conclude la sua collaborazione con Hugo von Hofmannsthal. Iniziato con Der Rosenkavalier, il sodalizio ebbe termine per la morte del librettista nel 1929: Arabella fu poi presentata nel 1933 e ingiustamente criticata di voler ripetere la ricetta di successo del Rosenkavalier. Se nel lavoro del 1910 era una rosa d’argento offerta alla futura sposa il fulcro della vicenda, qui è un bicchiere d’acqua fresca che lo sposo offre alla sua futura moglie secondo le consuetudini della Croazia, il paese da cui proviene il personaggio di Mandryka. Ma a parte l’ambientazione viennese – là la Vienna settecentesca di Maria Teresa, qui la Viena di Franz Joseph I negli anni 1860 – Arabella è una cosa completamente diversa, a cominciare dallo stile musicale che mescola motivi popolari slavi con passaggi di scrittura molto moderna. 

Quello di Madrid è il recupero della produzione nata all’Opera di Francoforte del 2009, la stessa che fu presentata nel 2013 al Liceu di Barcellona e acclamata come il miglior spettacolo e Christof Loy miglior regista di quella stagione. Lo stesso Loy anche a Madrid ha mietuto successi con le sue Ariadne auf Naxos (2006), Lulu (2009), Capriccio (2019) e Rusalka (2020). Ambientata negli anni 1950, la lettura del regista tedesco punta ai sentimenti dei personaggi che fa risuonare in una scenografia, di Herbert Murauer, depurata e scarna quanto mai: una scatola bianca il cui fondo scorre per mostrare gli altri ambienti realisticamente ricostruiti della casa dei Waldner assediata dai creditori, o della scalinata della sala da ballo con gli ospiti tramortiti dall’alcool. Loy toglie alla “commedia lirica in tre atti” qualsiasi aspetto anche solo lontanamente operettistico e si occupa di qualcosa di molto diverso: vuole mostrare come Arabella, l’àncora di salvezza della famiglia sull’orlo della rovina economica e che per questo deve maritare un ricco sposo, scopre sé stessa e diventa una donna indipendente, con una personalità distinta. E questo nella totale incomprensione dei genitori, ma certamente anche della sorella Zdenka, che qui abbandona l’esistenza da ragazzo per diventare una donna matura e piena di sentimenti quando solo allora potrà aprirsi a Matteo in modo più significativo rispetto al superficiale trucco della chiave nella stanza di Arabella. In primo piano nella messa in scena di Loy c’è ancora una volta l’elaborazione dei personaggi in tutti i loro dettagli e nelle loro fasi di sviluppo. Per questo non ha bisogno di una sfarzosa scenografia e la scatola bianca, inizialmente chiusa, mette magnificamente in evidenza l’azione dei cantanti in primo piano.

Grande sembra sia l’intesa del regista con il direttore David Afkham che padroneggia la difficile partitura con grande comprensione per le sfumature e i veloci cambi di tempo che Strauss adotta in alcune scene come il finale secondo. Esemplare il momento della rivelazione della sua identità da parte di Zdenka, quando Afkham ferma la musica per una piccola eternità, in modo che tutta la potenza emotiva di questo punto decisivo sia rivelata con tutta la sua forza, un momento certamente voluto da Christof Loy.

Nella serata trasmessa in streaming da mezzo.tv la protagonista è stata sostituita dal soprano americano Jacquelyn Wagner, che ha reso con sensibilità la bellissima dichiarazione d’amore nel duetto del secondo atto «Und du wirst mein Gebieter sein und ich dir untertan | dein Haus wird mein Haus sein, in deinem Grab | will ich mit dir begraben sein | so gebe ich mich dir auf Zeit und Ewigkeit» (Tu sarai il mio signore e io la tua suddita; mia sarà la tua casa; nella tua tomba sarò sepolta così da darmi te per la vita e per l’eternità). Voce fresca e timbro gradevole, non mostra però una grande varietà di colori e l’espressione finisce per rivelarsi un po’ monotona. Come Mandryka si ascolta il baritono olandese Josef Wagner di sicura vocalità e buona presenza scenica. Ottime doti attoriali necessarie a delineare i caratteri da commedia dei due genitori Waldner sono quelle di Martin Winkler e Anne Sofie von Otter, quest’ultima purtroppo in condizioni vocali piuttosto precarie. Splendida voce lirica e luminosa quella di Matthew Newlin (Matteo), scoppiettante di agilità alla Zerbinetta quella di Elena Sancho Pereg (Fiakermilli). Sarah Defrise connota una Zdenka trepidante e intensa mentre efficaci sono gli altri tre pretendenti di Arabella: l’Elemer di Dean Power, il Dominik di Roger Smeets e il Lamoral di Tyler Zimmerman. 

Les contes d’Hoffmann

   

Jacques Offenbach, Les contes d’Hoffmann

Milano, Teatro alla Scala, 24 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Offenbach alla Scala penalizzato dal budget?

Il lancio de LaScalaTv per la trasmissione in streaming a pagamento degli spettacoli del teatro milanese è stato l’occasione non solo per testare la piattaforma, che risulta di semplice utilizzo e con immagini e suoni di buona qualità, ma anche per assistere, a distanza di qualche settimana dalla prima, a uno spettacolo la cui produzione ha destato polemiche tra gli addetti ai lavori e gli appassionati. Oltre ai soliti dissensi rivolti alla regia, ma questo è ormai inevitabile, fischi sono stati rivolti alla concertazione del direttore.

La prima contestazione che si è rivolta a Frédéric Chaslin è quella della scelta della versione. Les contes d’Hoffmann infatti sono stati lasciati incompiuti nella strumentazione e nella certezza della forma conclusiva. L’ultimo capolavoro di Offenbach fu presentato con i dialoghi parlati all’Opéra-Comique il 10 febbraio 1881, quattro mesi dopo la morte del compositore, con l’orchestrazione completata da Ernest Guiraud. Per la successiva rappresentazione viennese lo stesso Guiraud trasformò i dialoghi in recitativi cantati, così come aveva fatto per la Carmen di Bizet. Da allora si sono susseguiti innumerevoli versioni, quasi una per ogni editore che abbia pubblicato la partitura. Limitandoci alle principali, oggi a nostra disposizione ne abbiamo essenzialmente quattro, indicate con i nomi dei rispettivi autori: (I) Choudens (quattro edizioni tra il 1881 e il 1887), in cinque atti e con numeri non presenti nel manoscritto; (II) Oeser (1976), in tre atti con un prologo e un epilogo; (III) Kaye (1992), basata sul libretto originale; (IV) Keck (2003), in cinque atti. Per le minime differenze tra le versioni III e IV queste vengono spesso indicate come un’unica versione, la Kaye-Keck (2009).

Ignorando deliberatamente quest’ultima versione, ad oggi la più attendibile e vicina all’originale, il direttore francese ha proposto una sua propria versione basata sulla vecchia Choudens, con i recitativi cantati, ma con tagli, talora senza senso, e inserti, spuri, dalla Oeser. Vuoi per pigrizia, vuoi per ragioni di economia – anche se non è pensabile che un teatro come La Scala voglia risparmiare sul prezzo di un’edizione – quella presentata è una versione arbitraria che non tiene conto di quanto si è scoperto in questi ultimi cinquant’anni.

La seconda e più decisa contestazione rivolta a Chaslin è la sua lettura della partitura. Del direttore francese tutto si può dire, ma di certo che non conosca l’opera, avendola diretta centinaia di volte. D’accordo che questo non garantisce sulla qualità di un’esecuzione, ma sicuramente la sua non è una lettura improvvisata. Le recensioni negative sono andate un po’ a rimorchio della inappellabile stroncatura pubblicata su FB l’indomani della prima da Elvio Giudici, che ha dedicato all’opera di Offenbach e alle sue tante versioni ben 66 pagine nel suo volume sull’Ottocento de L’Opera. Storia, teatro, regia. In queste recensioni si è letto che la direzione è stata «greve, piatta, morchiosa, blumbea, lenta», ma contemporaneamente anche «esuberante, frastornante, superficiale, esteriore»! Comunque censurabile. Di certo quella di Chaslin è una concertazione che si prende alcune libertà nei tempi, o troppo lenti o troppo veloci, manca di raffinatezza e trasparenza, ma è comunque attenta alle pagine liriche e ricrea efficacemente il carattere ibrido di questo lavoro, qui più grand opéra che opéra-comique, con un ironico tocco di cabaret quando Nicklausse sussurra al microfono le parole di «Ô rêve de joie et d’amour» o quando Hoffmann e Lindorf si allacciano in un tango, ma qui c’è lo zampino del regista, ovviamente.

La messa in scena è stata infatti l’altro elemento di discussione. Livermore non rinuncia qui agli amati trucchi di magia – una candela che fluttua sulle prime file di platea, una pianta in vaso che fiorisce, una macchina da scrivere che prende fuoco, un tavolino volante, specchi magici, botole – e ad altri congegni: un nastro trasportatore su cui entrano da sinistra a destra i personaggi, ombrelli da “funerale sotto la pioggia”, pistole (tante pistole), teli che cadono dall’alto o fluttuano o coprono gli spettatori della platea, come se fossero immersi nella laguna, durante la Barcarola. E soprattutto le lanterne cinesi del torinese Controluce Teatro d’Ombre, che hanno preso il posto delle meraviglie digitali della altrettanto torinese D Wok, probabilmente per risparmiare sul budget o forse perché più adatte, vista la loro tecnica di vecchio stampo, alla scelta adottata da Livermore di trasformare la sulfurea e inquietante vicenda in uno spettacolo di varietà in bianco e nero all’Olympia di Parigi! Scelta comprensibilissima seppure non totalmente condivisibile. 

A confronto dei sempre elegantissimi costumi di Gianluca Falaschi, le scenografie di Giò Forma hanno qui un minimalismo insolito per gli standard degli spettacoli di Livermore alla Scala: la statua di un angelo – che ricorda quella del Castel sant’Angelo nell’ultimo atto di una Tosca di tradizione – dentro cui canta la Musa; un bar per la taverna del prologo; cataste di manichini bianchi per il quadro di Olympia; un pianoforte per la casa di Crespel; due altalene, un accenno di gondola e tanti veli per il quadro veneziano. Ma il regista non rinuncia a riempire la scena di particolari, spesso non necessari se non fuorvianti in una vicenda già di per sé tutt’altro che lineare: un nano, il doppio di Hoffmann alla fine in una bara, mimi, ballerini, figuranti in nero. Eccellente come sempre invece la recitazione degli interpreti e la caratterizzazione di certe parti. Tutto si può dire di Livermore, ma non certo che manchi di senso del teatro.

Nella parte del poeta Hoffmann il tenore Virttorio Grigolo – un cantante che non lavora più nei teatri d’opera della maggior parte del mondo anglosassone dal 2019 a seguito di un’accusa di comportamento inappropriato durante uno spettacolo in Giappone – è stato il trionfatore della serata: voce limpida, fresca, ottima pronuncia e dalla sorprendente proiezione, la sua è stata una interpretazione di incontenibile ed esaltante energia, a partire dalla ballata di Kleinzack, con le sue gustosissime onomatopee, alla appassionata e languida «Ah, sa figure était charmante» del quadro di Olympia. È stato affiancato da una eccellente Marina Viotti (Musa/Nicklausse) e da una memorabile Eleonora Buratto (Antonia) di sontuosa presenza vocale e bel fraseggio. Diversamente apprezzati gli altri due idoli femminili: Federica Guida è un’Olympia poco “automa”, infatti il regista la presenta come una donna insicura e vittima del padre, che dà un tono drammatico alle sue agilità che quindi mancano di quella qualità astratta che ci si aspetta dalla bambola meccanica; Francesca di Sauro invece non convince del tutto come Giulietta, vuoi per la scarsa sensualità, nella voce non certo nella figura, vuoi perché privata delle sue pagine più belle, ma qui la colpa è del direttore. Pur corretto e come sempre ben timbrato, a Luca Pisaroni, nella quadruplice parte diabolica di Lindorf/Coppélius/Miracle/Dapertutto, manca il tono luciferino che abbiamo trovato in altri interpreti e la differenziazione dei personaggi. Quattro parti anche per François Piolino (Andrès/Cochenille/Frantz/Pitichinacchio) che il regista traveste da fantesca un po’ isterica e sempre col piumino della polvere in mano. Ottimo attore, quando canta però fa sue le parole di Frantz: «Dame! on n’a pas tout en partage: je chante pitoyablement»… Gloriosi cammei sono stati quelli di Alfonso Antoniozzi (Luther/Crespel) e di Yann Beuron (Spalanzani/Nathanaèl), l’uno consumato animale di palcoscenico, l’altro indimenticabile interprete delle opéra-bouffe di Offenbach.

Questa volta il glorioso coro del teatro non si dimostra inappuntabile essendo spesso in ritardo rispetto all’orchestra. Osservando poi l’età media dei coristi viene da pensare ai cori d’oltralpe, formati da giovani che si dimostrano più attenti alle richieste dei direttori e ricettivi alle esigenze sceniche. Questo è un problema generale di tutti cori italiani dovuto alla mancanza di quel serbatoio di cori amatoriali che invece all’estero forniscono nuova linfa ai cori dei teatri più blasonati.

Stagione Sinfonica RAI

Joseph Martin Kraus, Ouverture da Olympie, VB 33

Adagio – Allegro ma non troppo

Andrea Luchesi, Sinfonia n° 5 in Mi maggiore, WK 4

I. Allegro
II. Andante
III. Presto

Joseph Boulogne Chevalier de St.Georges, Concerto in Sol maggiore per violino e orchestra, op. 2 n. 1

I. Allegro
II. Largo
III. Rondeau

Franz Joseph Haydn, Sinfonia n. 103 in Mi bemolle maggiore, “Rullo di timpani”, Hob:I:103

I. Adagio – Allegro con spirito
II. Andant epiù tosto allegretto
III. Minuetto – Trio
IV. Allegro con spirito

Ottavio Dantone direttore, Roberto Ranfaldi, pianoforte

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 23 marzo 2023

Lo spirito di Mozart

Sì, il sedicesimo concerto della stagione della Orchestra Sinfonica Nazionale RAI è dominato, per lo meno nella prima parte, dallo spirito di Mozart con tre autori che in maniera diversa rimandano al compositore salisburghese.

Joseph Martin Kraus è coetaneo di Mozart, nasce infatti nello stesso anno 1756 e muore esattamente un anno dopo, anche lui a dicembre. Da Magonza prosegue la sua carriera di compositore in Svezia alla corte di Gustavo III (quello de Il ballo in maschera), un grande amante del teatro per cui scrive vari drammi per musica, tra cui le musiche di scena per la tragedia Olympie di Johann Henrik Kellgren, il suo librettista di fiducia, tratta dalla omonima pièce di Voltaire. Nella breve composizione è evidente lo spirito Sturm und Drang tradotto in uno stile che deve molto a Gluck, il compositore che incarnava per lui l’ideale del dramma musicale, e che Kraus aveva conosciuto anziano a Vienna durante uno dei suoi viaggi sponsorizzati dal monarca svedese. La pagina costituisce una efficace introduzione al fosco dramma che si prepara dietro il sipario.

Andrea Luchesi (o Lucchesi, Treviso 1741 – Bonn 1801) è balzato agli onori della cronaca degli ultimi anni per una coppia di studiosi che in un libro autopubblicato hanno avanzato la tesi secondo la quale Luchesi è il vero autore di alcune delle opere di Mozart, il quale avrebbe copiato e fatto passare per sue le partiture del trevisano. Che la tesi sia stata smontata dai musicologi più affermati non ha fermato però i due autori che continuano nella loro miserevole opera di distruzione del mito di Mozart. Che il compositore italiano abbia avuto a che fare col salisburghese è fuor di dubbio: i due si erano conosciuti a Venezia nel marzo 1771 durante il primo dei viaggi dei Mozart in Italia, ma più interessanti sono i rapporti di Luchesi con i Beethoven: prima il nonno Ludwig, di cui prenderà il posto di Kapellmeister a Colonia; poi con il giovane nipote che fu a suo servizio a Bonn come organista e violista. La sinfonia che viene qui presentata risale al periodo veneziano e rivela uno stile un po’ superato per l’epoca, con  una scrittura piuttosto semplificata e un utilizzo di certi strumenti a mero rafforzamento armonico. Si tratta in conclusione di una pagina piacevole, ma niente più, che Ottavio Dantone, alla testa di un’orchestra ridotta – due dozzine di archi e cinque strumenti a fiato – riesce a rendere nel suo aspetto migliore nonostante una compagine non molto avvezza a questo repertorio: passare da un programma centrato al 90% su Brahms, Mahler e Šostakovič alle semplici architetture del Luchesi è un bel salto!

Lo stesso problema si pone per il terzo titolo in programma: il Concerto  di Joseph Boulogne Chevalier de St.Georges (1739 o 1745 – 1799) figlio di un francese proprietario di piantagioni nelle Antille e di una schiava di colore, e per questo definito il “Mozart nero”, è del 1773, precede quindi quelli di Mozart. Scritti in un piacevole stile galante, i suoi due concerti per violino e orchestra non hanno una forma particolarmente complessa e in questo in Sol maggiore la semplice struttura tende a lasciare spazio al virtuosismo dello strumento solista, qui affidato a Roberto Ranfaldi, primo violino di spalla dell’orchestra, che esegue con tecnica ineccepibile le agilità richieste, ma sembra cauto nell’affrontare un lavoro che non è evidentemente nelle sue corde e la sua performance difetta di brio e di colori emergendo soprattutto nel movimento centrale, un largo malinconico ed espressivo.

Dopo l’intervallo l’orchestra riacquista il suo organico abituale nella grande sinfonia n. 103 con cui Haydn dà prova di grande teatralità – quasi maggiore che nei suoi effettivi lavori teatrali… – non solo nell’inedito rullo di timpani che richiama bruscamente l’attenzione degli ascoltatori, ma anche nella scrittura “operistica” degli strumenti in fitto dialogo. Qui nel secondo movimento ha il suo momento di gloria solistica l’altro primo violino di spalla, Alessandro Milani, con l’ineffabile tema dell'”Andante più tosto [sic] allegretto”.

Dantone ritornerà anche la settimana prossima con Mozart, quello vero, e di nuovo Haydn, ma sarà presente anche domenica 26 marzo nei Concerti del Quirinale con l’ensemble barocco dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai “La Mole Armonica” in musiche di Bach e Geminiani.

Catone in Utica

Antonio Vivaldi, Catone in Utica

Ferrara, Teatro Comunale, 17 marzo 2023

★★★☆☆

(diretta streaming)

Finalmente a Ferrara il Catone di Vivaldi, ma solo dal secondo atto

Allo stato attuale degli studi vivaldiani sono 49 i titoli operistici del prete rosso: di ventidue abbiamo le partiture autografe, ma solo sedici sono integre, le altre sei sono frammentate o incomplete, come è il caso del Catone in Utica di cui conosciamo solo i due ultimi atti, ossia gli estesi recitativi e le sette arie del secondo atto e le tre arie, il recitativo accompagnato, il duetto e il coro finale del terzo, mentre il libretto al primo atto prevede sette arie, di cui però non abbiamo la musica. (1)

Una delle tante intonazioni del testo metastasiano – da Leonardo Leo (1727) a Giovanni Paisiello (1789) ce ne sono circa due dozzine compresa quella di Leonardo Vinci – quella di Vivaldi fu presentata la prima volta al Filarmonico di Verona il 26 marzo 1737 con grande successo dopo che la prevista presentazione a Ferrara non fu possibile. Il compositore modificò radicalmente il libretto cambiando quasi tutte le arie e il finale con l’eliminazione dello storico suicidio di Catone.

Atto primo. La città nordafricana di Utica è minacciata dalle truppe di Giulio Cesare che, dopo la vittoria su Pompeo, sta per trasformare la Repubblica romana in una dittatura. Solo il senatore romano Catone, che ha stretto un’alleanza con il principe numida Arbace, lo ostacola. Arbace ama la figlia di Catone, Marzia, e vuole sposarla. Anche Catone approva questa unione. Marzia, però, ha una relazione segreta con il suo avversario Cesare. La donna ostacola Arbace e lo convince a rimandare il matrimonio. Quando Cesare arriva in città per le trattative di pace, la vedova di Pompeo, Emilia, gli manifesta il suo odio. L’inviato romano Fulvio, confidente di Cesare, si innamora di lei e cerca di convincerlo ad assassinare Cesare. Fulvio, però, antepone l’onore all’amore e rivela tutto a Cesare. Marzia vuole separarsi da lui a causa delle macchinazioni politiche di Cesare, ma cede quando lui le rivela il suo desiderio di pace.
Atto secondo. Fulvio dice a Catone che Cesare vuole negoziare la pace. Gli consegna anche una lettera del Senato che chiede la riconciliazione. Catone inizialmente rifiuta, ma poi accetta di ricevere l’avversario. Mentre Marzia ne è felice, Emilia continua a desiderare la vendetta, per la quale vuole ancora arruolare Fulvio. Catone è irremovibile nelle trattative. Chiede che Cesare abbandoni le sue ambizioni e si rivolga al popolo. Rifiuta categoricamente l’offerta di Cesare di assicurarsi la pace sposando Marzia. Nonostante le suppliche di Marzia, la guerra non può più essere evitata. Catone esorta lei ed Emilia a recarsi alle navi per sicurezza. La donna deve utilizzare un sentiero nascosto vicino alla fonte di Iside. Marzia rifiuta il rinnovato desiderio di Arbace di sposarsi e rivela a tutti la sua relazione con Cesare. Il padre la ripudia indignato.
Atto terzo. Per compiere la sua vendetta, Emilia prepara una trappola per Cesare alla Fonte Iside. Marzia la prega di risparmiare il padre in caso di vittoria. Mentre Fulvio assalta le mura della città, Cesare si reca alla fonte e viene attaccato dagli uomini di Emilia. Catone interrompe il combattimento, ritenendo esecrabile un simile agguato. Ora sfida Cesare stesso. Emilia riferisce che le truppe di Fulvio stanno entrando in città. Catone e Cesare si precipitano a raggiungere i loro uomini. Dopo la vittoria di Cesare, Catone vuole suicidarsi per la disperazione della libertà perduta da Roma. Marzia e Arbace riescono a impedirlo, ma Catone non è ancora disposto a perdonare la figlia. Cesare esorta i suoi a trattare con clemenza gli sconfitti. Vuole l’amicizia di Catone ed è disposto a cedere la sua corona d’alloro in cambio. Tutti, tranne la vendicativa Emilia, festeggiano la nuova pace.

Nel 2001 per la ripresa in tempi moderni dell’opera, Jean-Claude Malgoire aveva adattato alle arie mancanti pezzi musicali presi da altri lavori vivaldiani, una sorta di auto-imprestito esterno. Sappiamo quanto Federico Maria Sardelli sia contrario a qualunque operazione non filologica e nella produzione ora al Teatro Comunale di Ferrara il direttore-musicologo utilizza solo quello che è rigorosamente autografo e dopo la sinfonia tripartita, anch’essa mancante ma rimpiazzata da Sardelli con altra di Vivaldi con numero di catalogo RV 131 – la sinfonia sì, ma le arie no? mah… – l’opera inizia col secondo atto. Si comincia dunque con l’azione che entra subito nel vivo della vicenda, ossia il contraddittorio tra Catone e Cesare, che si svolge su un terreno di gioco lontano dalle battaglie sanguinose di Farsalo e Tapso, in cui emerge invece sempre più la vita privata e la debolezza di un uomo, l’Uticense, che non riesce a gestire il proprio declino.

I lunghissimi recitativi avrebbero bisogno di interpreti anche buoni attori, cosa che qui manca, e sono accompagnati da una gesticolazione di maniera. Al di fuori del tenore, le voci sono tutte femminili e il timbro omogeneo caratterizza a fatica i personaggi e porta a un senso di noia. Cesare, che in origine fu il castrato Lorenzo Girardi, qui è affidato ad Arianna Vendittelli, soprano di sicura tecnica e buone doti vocali dispiegate nelle tre arie rimaste. Per Marzia, scritta per la protetta Anna Girò, le due arie presenti più che sfoggio di difficoltà tecniche danno la possibilità di far risuonare le corde della sensibilità bene espressa dal mezzosoprano Valeria Girardello. Un altro castrato, Giacomo Zaghini, aveva creato la parte di Arbace qui affidata a Valeria La Grotta, soprano dal timbro poco piacevole ma stile appropriato. Emilia è il personaggio vendicativo della vicenda, quella che rimane esclusa dal lieto fine imposto dal compositore. In origine Giovanna Gasparini, qui è il mezzosoprano Miriam Albano che dipana un po’ meccanicamente le agilità della sua aria «Come invano il mare irato» con cui si conclude il secondo atto. Come a Verona nel 1737, anche Fulvio, a cui rimane una sola aria in questa versione, è un contralto en travesti: là fu Elisabetta Moro, qui è una efficace Chiara Brunello. E poi c’è il personaggio eponimo, qui l’unico maschio del cast a cui dà voce il tenore Valentino Buzza che, a parte l’affettato modo di porgere i recitativi, dà il meglio di sé nell’unico numero solistico rimastogli, l’aria di furore «Dovea svenarti allora» rivolta alla figlia che ha confessato di amare il nemico Cesare, eseguita con temperamento.

Alla guida dell’Orchestra Barocca Accademia dello Spirito Santo, dall’intonazione impeccabile anche nei fiati che sono in genere il punto debole delle esecuzioni storicamente informate, Federico Maria Sardelli imprime slancio ritmico e varietà di colori a questa partitura monca con accompagnamenti dei recitativi particolarmente curati, ma sempre con un approccio molto misurato, com’è il suo solito.

Nell’allestimento del regista Marco Bellussi il freddo ambiente tutto bianco inscatolato disegnato da Matteo Paoletti Franzato suggerisce una stanza in stile romano con coppe, busti, statue, un tavolo, un triclinio, dei sedili, il tutto lumeggiato da tocchi d’oro e senza particolari cure filologiche, con anacronistici bicchieri di cristallo molato, fogli di carta e abiti (di Elisa Cobello) che sembrano disegnati per un elegante ballo in costume o un film peplum. Al proscenio delle rocce grigie suggeriscono l’esterno in cui si ambienta il terzo atto. La recitazione, come già detto, rimanda un po’ a quella di un film muto, anche per la mancanza di profondità della scenografia che ricrea l’immagine bidimensionale di uno schermo cinematografico, e non costituisce certo l’elemento più interessante di questo mutilata riproposta della terz’ultima opera del compositore veneziano. 

(1) Ecco la struttura dell’opera:
Ouverture. Atto I. Scena 1. Recitativo – Perché sì mesto, Aria – Con sì bel nome in fronte (Catone). Scena 2. Recitativo – Poveri affetti miei, Aria – È follia se nascondete (Marzia). Scena 3. Recitativo – Dunque Cesare venga. Scena 4. Recitativo – Che veggio. Scena 5. Recitativo – Tu taci, Emilia, Aria – Vaga sei ne’ sdegni tuoi (Cesare). Scena 6. Recitativo – Quanto da te diverso, Aria – L’ira mia, bella sdegnata (Fulvio). Scena 7. Recitativo – Se gli altrui folli amori, Aria – O nel sen di qualche stella (Emilia). Scena 8. Recitativo – Giunse dunque a tentarti. Scena 9. Recitativo – Pur ti riveggo, Aria – Apri le luci e mira (Cesare). Scena 10. Recitativo – Mie perdute speranze. Scena 11. Recitativo – Deh t’arresta signor. Scena 12. Recitativo – Che giurai, che promisi, Aria – Che legge spietata (Arbace)
Atto II. Scena 1. Recitativo – Marzia t’accheta. Scena 2. Recitativo – A tanto eccesso arriva, Aria – S’andrà senza pastore (Arbace). Scena 3. Recitativo – Che gran sorte è la mia. Scena 4. Aria – Se mai senti spirarti sul volto (Cesare). Scene 5, 6 e 7. Recitativo – Lode agli dèi, Aria – Degl’Elisi dal soggiorno (Fulvio). Introduzione di timpani. Scena 8. Recitativo – Si vuole ad onta mia. Scena 9. Recitativo – Cesare e dove, Aria – Se in campo armato (Cesare). Scena 10. Recitativo – Ah Signor, che facesti. Scena 11. Aria – Dovea svenarti allora (Catone). Scena 12. Recitativo – Sarete paghi alfin, Aria – Il povero mio core (Marzia). Scena 13. Recitativo – Udisti, Arbace. Scena 14. Aria – Come invano il mare irato (Emilia)
Atto III. Sinfonia – Andante. Scene 1 e 2. Recitativo – Tutto, amico, ho tentato, Aria – Se parto, se resto (Marzia). Scena 3. Recitativo – Me infelice, Aria – Sarebbe un bel diletto (Cesare). Scene 4/8. Recitativo – È questo amici il luogo. Scena 9. Aria – Nella foresta (Emilia). Scena 10. Recitativo – Vinceste, inique stelle. Scena 11. Duetto – Fuggi dal guardo mio (Catone, Marzia). Scena 12. Recitativo – Il vincer, o compagni. Scena ultima. Coro – D’amor la face (tutti).

Le nozze di Figaro

Wolfgang Amadeus Mozart, Le nozze di Figaro

Vienna, Staatsoper, 17 marzo 2023

★★★★☆

(diretta streaming)

La folle journée di Barrie Kosky

Dopo il suo poco convincente Don Giovanni, Barrie Kosky ritorna al secondo capitolo della trilogia dapontiana alla Staatsoper viennese e il risultato è decisamente migliore: il carattere di situation comedy della pièce di Beaumarchais è più nelle corde del regista australiano del sulfureo «dramma giocoso» e qui infatti va esattamente a segno.

Questo è il terzo allestimento de Le nozze di Figaro da parte del regista e anche questa volta il titolo si conferma come  una perfetta opera buffa, una commedia umana di sublime fattura. Nella sua lettura non racconta un conflitto pre-rivoluzionario, la politica lascia il posto all’analisi di una rete di relazioni in cui è piuttosto il potere dell’erotismo a sconvolgere le gerarchie: la violenza domestica, le costrizioni e l’oppressione, la solitudine e l’abbandono, non sono estranei ai personaggi della casa del conte Almaviva. In abiti moderni (i favolosi anni ’70 ridisegnati da Victoria Behr), Kosky capisce che però il Settecento non può mancare: con i suoi boudoir, le alcove, i gabinetti, le stanze delle cameriere, i seggioloni, le tables habillées, le finestre che danno sul giardino, i padiglioni, la casa del Conte d’Almaviva se non un altro personaggio è comunque una presenza essenziale. La parete in boiserie in cui si inseriscono le porte che separano gli appartamenti dei nobili padroni dalle camere della servitù nel primo atto; la camera da letto della Contessa del secondo, insieme elegante e intima; il salone di ricevimento affrescato del terzo: tutto è impeccabilmente ricostruito dallo scenografo Rufus Didwiszus. Il giardino notturno del quarto atto è risolto invece à la Kosky: un doppio pavimento inclinato in cui si aprono botole da cui escono ed entrano i personaggi nel loro gioco a nascondino. Qui non contano più le differenze sociali: l’ambientazione astratta, con le piante dipinte sulla superficie in pendio, e la sua simbologia – le botole sono le insidie del gioco amoroso? – prende il posto del realismo della dimora rococò.

Il tutto fa da contenitore al mirabile gioco attoriale di interpreti giovani e spigliati. Nell’estetica del regista la presenza scenica è quasi più importante del saper cantare bene, il suo è vero teatro, non un concerto in costume. Fortunatamente qui le doti sceniche si accompagnano a buone doti canore, seppure in alcuni casi non pienamente mature. Il Conte ha un’indole impulsiva con tratti distruttivi e André Schuen dà a questo fratellino di Don Giovanni un carattere minacciosamente virile, un marchio di fuoco cattivo, ma è anche un ammaliatore con corde vocali avvolte in un velluto scuro che nella sua scena del terzo atto con recitativo e aria «Vedrò mentr’io sospiro» strappa gli applausi convinti del pubblico per l’aderenza al personaggio e l’autorità vocale. La Contessa di Hanna-Elisabeth Müller ha toni sontuosi e commoventi nella sua meravigliosa aria «Dove sono i bei momenti». Vivace come ci si aspetta è il Figaro di Peter Kellner e giustamente gender fluid il Cherubino di Patricia Nolz, presenza fisica e voce sexy. Il debutto nella parte di Susanna di Ying Fang è stato sfortunato: per un’infiammazione delle corde vocali ha mimato in scena ed è stata doppiata molto abilmente nell’intricato gioco di intrecci dei suoi interventi da Maria Nazarova nella buca orchestrale. A parte l’efficace Dottor Bartolo di Stefan Cerny e il comico Don Curzio di Andrea Giovannini alle prese con il suo spray per l’asma, il Don Basilio di Josh Lovell è troppo giovane e affetto da una pessima dizione e la Marcellina di Stephanie Houtzeel a tratti afona. Il direttore musicale Philippe Jordan sul podio dei Wiener Philharmoniker accompagna lui stesso i recitativi al fortepiano e modella i cambi di tempo e le dinamiche in modo ideale, dove tutto è trasparente e con i due finali pieni di colore e vivaci interventi strumentali.

I conclusione non si è trattato di una produzione memorabile, ma un esercizio di alto livello da parte di un metteur en scène che ha confermato anch ein questa occasione il suo straordinario senso del teatro.

Riccardo III

foto © Luigi de Palma

Riccardo III, da Shakespeare

regia di Kriszta Székely

Torino, Teatro Carignano, 14 marzo 2023

Il cattivo più cattivo di tutti

La regista ungherese Kriszta Székely ritorna per la seconda volta al Carignano per la Stagione del Teatro Stabile di Torino allestendo un adattamento di The Life and Death of King Richard III, il lavoro con cui Shakespeare concludeva il ciclo Lancaster. Riccardo III viene ucciso dal conte di Richmond e Shakespeare scrivendo per Elisabetta I, discendente di Richmond, per compiacere la sovrana dipinge un quadro totalmente negativo del suo avversario, esagerandone la brama di potere e  costruendo così uno dei personaggi più perfidi del teatro di tutti i tempi, andando anche contro alla verità storica. Ma per noi Riccardo III è questo del Bardo: la mostruosità morale del tiranno al centro del lavoro è tale che l’intento profondamente denigratorio conferisce al personaggio una statura di maestosa tragicità. E sconvolgente attualità.

Ed è su questa attualità che puntano la regista e l’adattatore del testo Ármin Szabó-Székely, i quali cautamente intitolano lo spettacolo “da Shakespeare”, anche se poi il loro adattamento consiste sostanzialmente nel ridurre il numero di personaggi (nell’originale più di  quaranta) e la loro verbosità – assieme a Hamlet questo è il testo più lungo del teatro shakespeariano – oltre ovviamente ad ambientarlo nella  contemporaneità e ad attualizzarne il linguaggio con l’introduzione di termini dei nostri giorni. Ma forse è proprio questo il punto debole dello spettacolo che oscilla tra la contemporaneità e l’adesione al testo originale con momenti poco convincenti, come l’espressione «Un cavallo! Il mio regno per un cavallo», qui del tutto fuori contesto, tanto che l’interprete non può non ammiccare agli spettatori con una battuta però poco felice:  «Devo averla lenta da qualche parte questa frase!».

Quella della Székely è la rappresentazione di una sanguinosa parabola di potere in chiave social: le immagini teletrasmesse, le calunnie, le fake news, la gogna mediatica sono i mezzi abilmente gestiti da Riccardo con i quali riesce a manipolare gli avversari, praticamente tutti gli altri al di fuori di lui, nella sua salita al trono senza scrupoli e per puro piacere del potere, senza uno scopo preciso.

La scenografia è quella di un elegante chalet di montagna che diventa anche sala di riunioni. A destra si apre una porta scorrevole verso un esterno che non vediamo mai, a sinistra si ammucchiano i sacchi di plastica nera con i cadaveri delle vittime del tiranno. Uno schermo televisivo trasmette le immagini che vengono spesso proiettate a misura gigante sul velario che a tratti scende a separare la scena dal pubblico. La regista dimostra si saper fare teatro con efficaci tagli di luci, movimenti precisi degli attori e la scelta di una recitazione molto espressiva, talora forse un po’ troppo gridata. Paolo Pierobon delinea con simpatica ironia il personaggio eponimo sottolineandone il cinismo, il talento seduttivo e la sfrontata volontà di sopraffazione; Elisabetta Mazzullo è Elisabetta, la regina spodestata a cui vengono uccisi marito e figli ma che alla fine ritorna sul trono. Sarà migliore del tiranno caduto? Mah.

Jacopo Venturiero è Buckingham, quello più fedele perché incantato dalle false promesse; Francesco Bolo Rossini punta sui tratti quasi grotteschi dei due ruoli di Edoardo e di Presidente della Corte Suprema; Stefano Guerrieri passa con abilità da Clarence a Vescovo; Lisa Lendaro è la Anna a cui Riccardo ha ucciso figlio e marito ma che casca nella sua rete e lo sposa: nell’originale sparisce dopo le prime scene, qui rimane «per mostrare il destino di una donna costretta a vivere come oggetto di rappresentanza in una dinamica di potere» dice la regista. Matteo Alì (Hastings), Nicola Pannelli (Stanley, quello che capisce tutto ma non si oppone), Manuela Kustermann (Cecilia), Marta Pizzigallo (la furente Margherita, inascoltata Cassandra), Alberto Boubakar Malanchino (nei tre personaggi di Rivers, secondo sicario e Tyrrell) e Nicola Lorusso (Catesby, primo sicario ma anche vedova en travesti per la propaganda televisiva del tiranno) completano un cast calorosamente applaudito dal folto pubblico. Dopo questa prima nazionale, lo spettacolo si trasferisce nei teatri di Bolzano e dell’Emilia Romagna che l’hanno coprodotto.

Powder Her Face

foto © Andrea Macchia

Thomas Adès, Powder Her Face

Torino, Piccolo Regio, 10 marzo 2023

La recensione di Orlando Perera dello spettacolo al Piccolo Regio

La vita è ades

Tutto ruota attorno alla scena quarta, nella quale la focosa Duchessa di Argyll in un grande albergo londinese intrattiene l’elettricista/cameriere nella postura erotica che, per capirci, fece irruzione sulla scena mondiale nel 1998 con il caso Clinton-Lewinski alla Casa Bianca. Il bello è che questa attività oralmente impegnativa deve essere cantata, «Be good, be discret, be brutal», geme la duchessa mentre «goes off into humming» che si può tradurre come “mormorare” o anche “cantare a bocca chiusa”: appunto. Come non ricordare l’epica scena della tabaccaia nel felliniano Amarcord: «Ma cosa fai soffi? Succhia!». Ma tant’è, la fama si costruisce sull’anomalo, se no sai che noia.

Grasse risate hanno accompagnato fin dagli esordi Powder her Face (Incipriale il viso) titolo di scostumato doppio senso (1), la deliziosa operina di Thomas Adès, tecnicamente una conversation piece, che giunge al Piccolo Regio come la luce di una stella morta, nel senso che era presente nel primo cartellone concepito nel 2019 dall’allora sovrintendente del Regio Sebastian Schwarz e annullato poi causa Covid. Ritorna quindi in quest’ultima stagione firmata dallo stesso Schwarz, stavolta come direttore artistico, nel frattempo dimissionato. Insomma il dono di qualcuno che non c’è più, o meglio, che ha solo – grazie al cielo – imboccato altre strade.

Powder Her Face (1995) è la prima opera del londinese Adès, classe 1971, nome di origine siro-ebraica, astro ben vivo nel firmamento dei compositori contemporanei. Nel 2004 è seguita una shakespeariana The Tempest in scena nel novembre scorso alla Scala di Milano con notevole successo. Infine The Exterminating Angel, ovvero L’Angelo Sterminatore dall’omonimo film di Luis Buñuel, opera che ha esordito nel 2016 al Festival di Salisburgo, ma che da noi non si è ancora vista. Affascinante anche la sua produzione strumentale. 

Qui Adès e il librettista Philip Hensher (un capolavoro di humor il suo articolo pubblicato dal Guardian nel 2008, e riportato nel programma di sala, dove spiega perché non abbia mai scritto altri libretti) non hanno scomodato nessun grande autore, solo i titoli di uno scandalo sessuale che alla metà degli anni Cinquanta scosse l’establishment aristocratico della capitale inglese e aumentò a dismisura le tirature dei tabloid. E’ la storia vera di una signora assatanata, Ethel Margaret Whigham, divenuta in secondo matrimonio duchessa d’Argyll perché moglie del nobile scozzese Ian Douglas Campbell, undicesimo duca omonimo. Una delle donne più belle ed eleganti di Londra, si diceva, e altrettanto sessualmente sfrenata, il suo bagno rivestito di specchi era una sorta di set erotico-pornografico. Ma tanto lei era libera e vitale, quanto lui brutto, squattrinato e mascalzone, ancorché charmant. E qui irrompe il tema iniziale della fellatio sotto forma di quattro scatti polaroid (tecnica oggi dimenticata, ma allora d’avanguardia) databili alla metà degli anni ‘50. Vestita con tre giri di perle e nient’altro, la bella signora vi appare inginocchiata ad appagare oralmente un uomo, di cui non si vede il volto. Poi verrà fuori che si trattava probabilmente di Edwin Duncan Sandys, uomo politico, ex-genero di Winston Churchill, nientemeno. Le quattro immagini saranno allegate all’elenco di ottantotto amanti, tra cui due ministri e tre membri della casa reale, tratto dall’agenda della Duchessa, e formeranno la prova regina per la causa di divorzio con addebito, che lo squallido Duca intenta alla ex-moglie per spremerle un bel po’ di soldi. Qualcuno dice che tra i moventi di tanto astio ci fosse anche la gelosia per un amante (Campbell era in odore di gaytudine) che la moglie gli avrebbe soffiato.

L’inevitabile sentenza di condanna porterà Margaret alla rovina economica, ma anche alla gogna sociale. Mai e poi mai la società ipocrita e maschilista del tempo avrebbe permesso a una donna di rivendicare pubblicamente la propria libertà di azione e di pensiero. Le foto oscene e l’elenco di amanti degno del catalogo di Leporello sulle conquiste di Don Giovanni sono la melma in cui gli spietati tabloid inglesi inzupperanno il pane per mesi facendo a pezzi la povera duchessa. Che tuttavia mai rinnegò le proprie scelte, mai cessò di rivendicare il suo stile di vita mondano e gaudente. Finiti i denari, fu cacciata dall’hotel dove viveva, e morì pochi anni dopo in una miserabile casa di cura. Dunque sotto la chiave lieve della farsa e dell’humor, Powder Her Face va letto anche come un atto di accusa contro la cosiddetta alta società inglese. Oggi che tutto sembra lecito pur di apparire, si fa persino fatica a comprendere il senso del moralismo di allora. Non dimentichiamo però che negli stessi anni, l’Inghilterra era scossa dallo scandalo Profumo, il ministro della difesa che frequentava la modella Christine Keeler, già amante di un diplomatico sovietico. Insomma un vero calderone, e infatti la partitura adesiana ribolle di vita, come scrisse il Sunday Times. Del resto quando andò in scena Adès aveva solo 24 anni, il librettista Hensher 30. 

La vicenda si articola in otto scene, cinque nel primo atto, tre nel secondo, ognuna delle quali si svolge in un anno diverso tra il 1934 e il 1990, ma la drammaturgia non osserva l’ordine cronologico, gli eventi si sviluppano per giustapposizione, non in sequenza, e la partitura spazia, anch’essa con morbida disinvoltura, tra i generi e le epoche, dal fox-trot al tango, alla canzone You’re the Top che Cole Porter dedicò alla signora. Evidenti ispiratori del duo Adès/Hensher la viziosa Lulu di Alban Berg e The Rake’s Progress di Igor Stravinskij. Ma le ridotte dimensioni di organico rimandano a tutto un ricco ma poco rappresentato repertorio cameristico dell’opera, dal Giro di Vite di Britten, a Hin Und Zurück di Hindemith, alla stessa Scuola dei Gelosi di Salieri vista al Regio nel maggio 2022. Tutto sprigiona energia, a partire dall’indiavolata ouverture, dove il tempo indicato è un programmatico “Avanti!”. Quindici soli esecutori, ma una strumentazione lussureggiante: un quintetto d’archi, tre clarinetti, che alternano anche i sassofoni, corno, tromba e trombone, modulati da varie sordine, arpa, pianoforte (anche preparato), fisarmonica, e un vasto set di percussioni. Non bastasse, si aggiungono strumenti imprevedibili, come mulinelli da pesca e campanelli elettrici. Alla guida degli strumentisti del Regio in questo percorso impervio l’appena 23enne novarese Riccardo Bisatti, che ne esce benissimo, con un gesto tanto intenso, quanto preciso, e un fine ammiccamento qua e là allo stile del cinema muto, sempre ispirato a una sorvegliata ironia. Grandioso il tango finale alla Piazzolla, in cui la farsa stinge mirabilmente in tragedia senza quasi che ce ne accorgiamo, salvo riconoscere con una vaga inquietudine due fugaci citazioni dal quartetto schubertiano “La Morte e la Fanciulla”, e capire che siamo di fronte alla Nera Signora. Il bello di Bisatti è che non perde mai, in nessun passaggio, un profondo senso del teatro, che ci aspettiamo di apprezzare anche in prossime prove del giovanissimo direttore.

Il cast, sempre all’insegna della massima economia di mezzi, prevede quattro cantanti per diciassette personaggi. Un soprano drammatico (la Duchessa), un soprano leggero con registro molto acuto, quasi di coloratura, che interpreta la cameriera più altri cinque personaggi femminili, un tenore (il fatidico elettricista, più altri quattro), un basso (direttore dell’Hotel più altri quattro). Tutti apprezzabili i cantanti, soprattutto considerando la particolarità dei registri e dei colori richiesti. Il soprano Irina Bogdanova, appena apprezzata come Sacerdotessa nell’Aida, dal bel timbro caldo, conferisce piena dignità, e dunque un’inattesa moralità, al personaggio sfrenato della Duchessa, e per sua fortuna non deve occuparsi di altro. Amélie Hois soprano lirico leggero deve invece affrontare ben sei personaggi, La cameriera, L’amica, La cameriera che prepara il ricevimento, L’amante del Duca, La ficcanaso, La giornalista di cronaca rosa), ma soprattutto un’insidiosa tessitura sovracuta, in cui si disimpegna onorevolmente. Il tenore Thomas Cilluffo (L’elettricista, Il gigolò, Il cameriere, Il ficcanaso, Il fattorino) si destreggia a sua volta fra psicologie molto diverse, anche lui con frequenti escursioni nella voce di testa. Tutti e tre fanno parte degli Artisti del Regio Ensemble. Infine il basso Lorenzo Mazzucchelli (Il direttore dell’hotel, Il Duca, L’addetto alla lavanderia, Un ospite dell’hotel, Il giudice), emerge in particolare, grazie anche a una vigorosa presenza scenica, nel secondo atto, come Giudice che detta alla Duchessa la sentenza di condanna senza appello, e come Direttore dell’Albergo che la sfratta in maniera altrettanto ineluttabile, con un timbro profondo da divinità infernale: «It is time to vacate… Everything is spent, madam… and now you must go» (È tempo di liberare la stanza. Avete speso tutto, signora. Ora dovete andarvene).

All’altezza della complessa macchina narrativa e musicale è la regia di Paolo Vettori, che governa con lucidità i continui slittamenti dei piani narrativi e temporali per ricondurre tutto a una superiore dimensione simbolica e allontanare così ogni sospetto di feuilleton. Molto efficace l’apparizione finale del Direttore in minacciosa silhouette, citando il Commendatore del Don Giovanni. Gli danno una bella mano (ma si vede che hanno lavorato di concerto) le scene di Claudia Boasso, un grande letto matrimoniale luogo di piaceri sfrenati, che si disgrega pian piano e si muta alla fine in banco del tribunale, in desolato sfondo della disperazione. Infine vanno segnalate le pareti grigie che aprendosi svelano immagini di nudi, scatti fotografici di Carlo Mollino, l’Architetto del Teatro Regio cui si rende così omaggio a cinquant’anni dall’inaugurazione del nuovo teatro. 

Uno spettacolo vitalissimo, di impressionante attualità, minuziosamente eseguito e curato, di grande musica.

(1) Sul programma di sala il librettista Philip Hensher, intervistato da Benedetta Saglietti, afferma che l’ispirazione per il titolo era venuta dal quadro di Georges Seurat Jeune femme se poudrant (1890) ora alla Courtauld Gallery di Londra, ma ciò non toglie che il titolo abbia volutamente un doppio (se non triplo) significato nel contesto della vicenda. [N.d.R.]

Guerra e pace

Sergej Prokof’ev, Guerra e pace

Monaco di Baviera, Nationaltheater, 5 marzo 2023

★★★★★

(video streaming)

Due russi e la guerra

Il 5 marzo 1953 morivano nello stesso giorno Sergej Prokof’ev e Josif Stalin. Esattamente 70 anni dopo va in scena a Monaco di Baviera l’ultima sofferta opera di Sergej Prokof’ev, lasciata incompiuta e con almeno quattro diverse versioni con cui avere a che fare. Iniziata nel 1940 al suo ritorno in Russia dagli Stati Uniti, Guerra e pace fu destinata in parte a compiacere il paese che lo riaccoglieva e a esaltarne il patriottismo ispirando i russi a difendere la patria e a farli credere nella forza militare della nazione: soprattutto la seconda parte ai suoi tempi fu un mezzo di efficace propaganda stalinista.

Quella stessa esaltazione patriottica è ora altamente problematica adesso che la Russia da vittima dell’invasione nazista è diventata l’invasore di un altro paese. Molto sofferta è stata quindi la scelta di produrre questo lavoro: il sovrintendente Serge Dorny, il diretto Vladimir Jurovskij e il regista Dmitrij Černjakov hanno dovuto affrontare problemi esterni – gestione di un cast che proviene da tutte le repubbliche ex-sovietiche, Ucraina compresa – e ripensamenti personali, sollevando preoccupazioni riguardo alla presentazione di un’opera che ha al centro il militarismo russo mentre le bombe russe cadono sull’Ucraina. Jurovskij, moscovita ma con nonni ucraini, è arrivato ad affermare che la produzione è una denuncia dell’attuale regime russo e che non lavorerebbe mai con chi sostiene apertamente la guerra, ma che «ci sono molte persone che si trovano in una zona grigia, tra l’opporsi pubblicamente alla guerra e la paura della loro vita, del benessere delle loro famiglie, di perdere il lavoro». Alcuni degli artisti russi temono che la loro carriera possa essere danneggiata all’estero o che esibendosi in una produzione contro la guerra possano avere problemi in patria. Per questo gli artisti hanno rifiutato ogni intervista per non cadere nella trappola tesa dai giornalisti. Meno che mai viene loro richiesto di fare una pubblica denuncia contro la guerra.

In questa produzione il team creativo ha apportato modifiche per attenuare qualsiasi senso di patriottismo russo o di sentimento a favore della guerra, affermando che è importante continuare a mettere in scena opere russe anche quando la guerra continua. Nella seconda parte, la più problematica, sono accorciate le scene più nazionalistiche, eliminato il finale trionfalistico e sostituito con una musica senza parole: una sardonica fanfara di ottoni in scena subito dopo le parole di Kutusov per dare un diverso tono alla conclusione dell’opera. 

L’impianto scenografico di Černjakov è costituito da un elegante salone, un luogo fortemente iconico per la Russia: la “Sala delle colonne” della Casa dell’Unione – sede di cerimonie ufficiali, funerali, balli, processi, concerti, sfilate di moda… Jurovskij racconta di aver ascoltato qui il padre dirigere la Prima Sinfonia di Prokof’ev! È un ambiente chiuso in cui tutti i personaggi sono vittime di una qualche situazione tragica: non si tratta di rifugiati o di sfollati, bensì di un insieme di persone inserite in un esperimento sociale. Vestiti nei modi più vari, dormono accampati su materassi per terra, lettini da campo, sedie pieghevoli. Dall’esterno si sentono scoppi, sparatorie, grida. In alto uno striscione augura “Buon anno nuovo” ma nella seconda parte, quando i grandi lampadari di cristallo sono coperti da un velo nero, questo viene sostituito da un altro sbilenco e con lettere mancanti su cui si riesce a leggere a malapena “Lunga vita al grande invincibile Stalin…” affiancato da un didascalico “La battaglia di Borodino. Gioco di guerra patriottico”. Si tratta infatti di giochi, di finzione: i balli della prima parte hanno come personaggi gli stessi sfollati che si sono costruiti ventagli e tiare con la carta di giornale e giocano a fare gli aristocratici; la battaglia di Borodino è simulata con armi finte e finte esecuzioni. Ma se le vicende sono ricostruite nella finzione, così non è delle emozioni, che qui hanno la stessa intensità e Černjakov riesce come sempre a gestire in maniera esemplare i personaggi con le loro psicologie così come i movimenti delle masse. 

Con oltre 70 personaggi Guerra e pace è una formidabile sfida per chi la mette in scena. Le 9 settimane di prova, in confronto alle usuali sei, lo dimostrano, ma hanno avuto come risultato uno spettacolo di eccezione, dove la direzione di Jurovskij a capo dell’Orchestra di Stato Bavarese ha reso al meglio la musica fascinosa di Prokof’ev, che alterna momenti di intima liricità a scoppi tellurici a languidi e tristi valzerini. Una colonna sonora di grande qualità per un autore di fortunate musiche per il cinema. Assieme al fantastico coro del teatro, praticamente sempre in scena, un cast sterminato di altissima qualità in cui si fa fatica a identificare almeno le eccellenze più evidenti come ad esempio il tenore moldavo Andreij Žilikhovskij, tormentato principe Andreij Bolkonski; il soprano ucraino Olga Kulchynska, sensibile Nataša; l’armeno Arsen Soghomonyan, dal bellissimo timbro tenorile, nella sofferta parte di Besukhov; l’autorevole basso russo Dmitrij Ul’ianov, Kutusov; il Napoleone del basso-baritono islandese Tómas Tómasson; il basso rumeno-ungherese Bálint Szabó nella doppia parte del generale Belliar e del maresciallo Davout; il seducente mezzosoprano russo Viktoria Karkacheva come contessa Elena; il giovane e sfrontato Kuragin del tenore uzbeco Behzod Davronov e poi glorie di ieri quali Violeta Urmana, Marija Dmitrijevna Akhrossimova e Sergej Leiferkus, principe Bolkonskij.

Ora che lo spettacolo è andato in scena i timori sembravano infondati: nella lettura del regista la denuncia della guerra di invasione è chiara oltre ogni dubbio. E il pubblico lo ha capito e salutato lo spettacolo con grandiose meritatissime ovazioni.

 

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2009

2008

Stagione Sinfonica RAI

 

Ludwig van Beethoven, Concerto n° 5 in Mi bemolle maggiore op. 73 “Imperatore”

I. Allegro
II. Adagio, un poco mosso
III. Rondò. Allegro

Minas Borboudakis, “Z” Metamorphosis

Dmitrij Šostakovič, Sinfonia n° 9 in Mi bemolle maggiore op. 70

I. Allegro
II. Moderato
III. Presto
IV. Largo
V. Allegretto

Constantinos Carydis direttore, Francesco Piemontesi pianoforte

Torino, Auditorium RAI Arturo Toscanini, 9 marzo 2023

Un esile filo rosso “militare” lega tre composizioni diversissime 

Nel 1809, epoca della composizione del Concerto in Mi bemolle, l’Austria è in guerra con la Francia napoleonica: a maggio Vienna è sotto i cannoneggiamenti dei francesi e Beethoven per difendere dal frastuono il già compromesso udito si rifugia nella cantina del fratello. Quando un editore penserà di chiamare “Imperatore” il lavoro non si riferirà certo alla figura di Napoleone – i sentimenti antifrancesi di Beethoven avevano raggiunto allora il culmine – bensì alla sontuosità del tema del primo movimento, “imperiale” nella sua imponenza. Il Concerto in Mi bemolle è anche il primo da compositore: non sarà Beethoven a presentarlo come esecutore al pubblico come aveva fatto con i quattro precedenti. A suonarlo per la prima volta nel novembre 1811 sarà Friedrich Schneider a Lipsia, mentre Carl Czerny lo eseguirà a Vienna nel febbraio 1812. Il manoscritto è infatti zeppo di precise indicazioni di fraseggio e di uso dei pedali per la sua esecuzione. Un’altra particolarità di questa pagina è che manca il momento improvvisativo, quello in cui il solista ha lo spazio di libertà: «non si fa una Cadenza, ma s’attacca subito il seguente» prescrive lo spartito per introdurre la coda. Invece, abilmente simulato da cadenza, ma in un punto inconsueto, ossia subito dopo il primo accordo dell’orchestra, sarà l’ingresso in scena del pianoforte con una brillante esibizione di arpeggi e trilli. Il quale pianoforte si mette poi da parte per assistere, assieme a noi, all’esposizione del primo tema e degli altri “personaggi”, temi, motivi, figure di raccordo, che costituiranno lo sviluppo del grandioso primo movimento. Qui è determinante il gioco di equilibrio tra solista e orchestra che nel concerto all’Auditorium RAI non si è realizzato alla perfezione a causa della direzione piuttosto pesante e monocorde del direttore Constantinos Carydis che ha privilegiato sonorità e tempi “militari” in contrasto con il pianista Francesco Piemontesi che ha risposto con un’interpretazione di grande fluidità e leggerezza dipanando con tecnica eccezionale e tocco preciso i suoi interventi. Una cantabilità, la sua, che viene messa ancor più in risalto nell’Adagio un poco mosso. Quasi una romanza mozartiana impregnata di una calma religiosa resa con elegante espressività dal pianista che agli applausi del pubblico ha risposto con un raffinatissimo bis: una pagina di estatica bellezza di Karol Szymanowski.

Chissà che faccia avranno fatto quelli tra il pubblico che la sera del 3 novembre 1945, inaugurazione della stagione della Filarmonica di Leningrado, si accingevano ad ascoltare quella che tutti si aspettavano essere la celebrazione della grande vittoria dell’Armata Rossa nella guerra contro il Nazismo e invece scoprivano una sinfonia che iniziava quasi come un lavoro di Haydn e proseguiva in maniera ironica, scherzosa, quasi parodistica, dove un trombone, anziché intonare una gloriosa fanfara, accennava per ben sei volte le prime due note di una marcia per poi ritrarsi come se avesse sbagliato l’attacco. Il tono circense del primo movimento, quasi di un Nino Rota prima di Fellini, cede il passo al languido valzerino del Moderato, ma il gioco di stili continua nei tre movimenti successivi e qui si è finalmente apprezzato in pieno il contributo del direttore Carydis che ha fornito della pagina una versione totalmente convincente grazie anche alla qualità dell’orchestra.

Il secondo brano della serata faceva conoscere un autore di oggi, Minas Borboudakis, classe 1974. Il compositore greco, presente in sala, ha ricevuto i calorosissimi applausi di un pubblico soggiogato dai suoni di “Z” Metamorphosis, un pezzo per orchestra tratto dalla sua opera Z ispirata al romanzo politico di Vassili Vassilikos divenuto poi il film di Costa-Gavras Z – L’orgia del potere. L’opera di Borboudakis è del 2018, ha avuto la sua prima ad Atene ed è stata poi rappresentata, nella versione tedesca, a Monaco di Baviera  l’anno successivo. L’originale per undici strumenti diventa qui una poderosa orchestra sinfonica impegnata in una pagina di grande intensità sonora e cupezza di colore, ben adatte alla tragica vicenda del deputato Grigoris Lambrakis assassinato a Salonicco nel 1963 da estremisti di destra, vicenda anticipatrice del colpo di stato dei Colonnelli del 1967.